Nuovo
capitolo, nuovo narratore. Quello che penso
vedremo meno di altri, ma serviva ugualmente. Giusto per intrecciare
ancora di
più le cose. Ho finito comunque il disegno del PIF
(Pregiatissimo Impero dei
Fiori) geografico e sto preparando dei bozzetti di tutti i personaggi.
P A R T E P R I M A
L ‘
I N V I O L A B I L E
T I T O L O I
I
G I O C A T O R I
C A P I T O L O I V
N O N A V E V A
M A I A
V V T O P
R O B L E M I A R I
C O N O S C E R E
L A
S V A I
P O C R I S I A
L’aria
era
appestata dall’odore degli aranci, se di norma poteva essere
un odore invitante,
buono e da liquorino, portata a quell’eccesso era un miasma.
Nauseabondo.
Nervia aveva allungato una mano ed aveva staccato un arancio da uno
degli
alberi più bassi della fronda, era una varietà
amara, con la buccia più scura e
con un odore così forte da rimanere assorbito addosso, sui
vestiti, capelli,
vestiti. A Nervia piaceva l’Aranceto, di solito, ma non quel
giorno – per
qualche ragione.
Si era svegliata guasta.
Aveva forzato l’unghia corte contro la buccia, per forzare la
rottura e poter
gustare gli spicchi. L’agrume era amaro, ma le piaceva come
sapore, da bambina
mangiava solo cose dolcissime, nulla che non fosse stato amalgamato nel
miele
riusciva a superare la sua lingua viziata, ma crescendo aveva
sviluppato un
gusto bizzarro. Sua sorella scherzava sempre che Nervia aveva maturato
un gusto
per il cattivo – lei non lo aveva mai negato.
“Shinora ne vuoi uno spicchio?” aveva chiesto con
gentilezza a sua cugina, non
era lontana da lì, seduta sotto l’ombra di uno
spesso albero. Stava leggendo un
vecchio libro di poesie del florido impero. Nervia era sempre stata
piuttosto
incapace nella letteratura antica, per la disperazione del suo
istitutore.
Sua cugina aveva sollevato gli
occhi. Erano due punte
di verde scuro, come la buccia di un’oliva. Non era bella
Shinora, o meglio lo
era, nella forma più tradizionale del termine; aveva capelli
lisci come la seta
e neri come l’inchiostro colato, con ciglia altrettanto scure
e lunghe, su di
un viso magro, di un colore pieno e sano salsola. Se si fosse alzata
dalla sua
posizione cucciata, Nervia avrebbe potuto riconoscere le gambe lunghe
che le
conferiva un’altezza più elevata di quella
abituale di una donna, della sua ad
esempio, in un corpo ben snello, ma ciò che rendeva la sua
bellezza scialba era
la mancanza di una benedizione. Shinora era bella come era concesso
agli uomini
comuni esserlo, d’altronde i suoi nonni e i suoi bisonni
erano anime condivise.
Sua cugina però era rimasta cucciata, tra le
radici di un arancio, con la
stola – necessario ad ogni rispettabile donna
dell’impero – d’oro
opaco, che avvolgeva le spalle e parte
alta delle braccia. Il fazzolo era decorato con fili
d’argento che disegnavano
fiori. Le maniche scure del vestito, strette, tirati sugli avambracci
sottili.
“Puoi venire, dolce cugina?” aveva chiesto, invece,
Shinora, senza darle
risposta.
Nervia l’aveva assecondata, ancora indisposta dalla giornata.
Era leggermente
timorosa che Shinora parlasse dei suoi sogni, era una cosa che aveva
sempre
fatto con estrema passione da che erano poco più che due
bimbette sgambettanti
con le gambe arcuate.
Shinora era la sua unica cugina di sangue, i loro padri – che
i loro fiori
crescessero belli e forti nel Giardino del Signore
– erano stati fratelli e
loro erano cresciute vicine. Shinora aveva dodici sorelle, due cicli e
una
decimana, in meno di lei; erano cugine di sangue ma sorelle di latte,
perché
avevano bevuto avide dallo stesso capezzolo, quello di Zia Maeva.
Aveva
allungato un’arancio verso sua cugina, quando era bambina,
l’Aranceto era la sua
dimora, ed anche se apparteneva a Nerva, in quelle lune,
Shinora continuava
a preferirla al disordine del Giardino. A volte si chiedeva come non
potesse
odiarla per aver ereditato la casa che un tempo era sua.
Shinora aveva sempre preferito vivere una vita quasi monacale, che
partecipare
a tutte quelle sfavillanti cerimonie; anche quando suo padre risiedeva
a Città Zagare,
Shinora preferiva vivere nella dimora campestre.
Anche Nervia aveva cominciato a percepire la stanchezza delle frenesie
di Città
di Zagare, così aveva deciso di ritirarsi in campagna e
quando sua cugina lo
aveva saputo le aveva scritto per poterla raggiungere. Inoltre sua
cugina
sembrava apprezzare il Podere austero dove erano alloggiate anche
più della
bella tenuta di Palazzo Citro, la dimora campagnola più
ricca dell’Aranceto.
Nervia
avrebbe volentieri evitato tutti i membri della sua famiglia, talvolta
aveva
l’impressione di amarli ed odiarli in egual misura, ma
sicuramente riconosceva
come fossero abituati ad infiltrarsi in ogni intercapedine, ma non
Shinora.
Sua cugina aveva raccolto gli spicchi dell’arancio,
“Una bella poesia?” aveva
inquisito Nervia.
“Era di Mellineaco di Grinea, oggi è una
città ghaadiana, Moppea? Molpea?”
aveva spiegato tranquilla Shinora, “Era un poeta alla corte
dell’Imperatore
Tioreh Dhoerti” aveva considerato Nervia, rispolverando i
lunghi soliloqui dei
suoi istitutori quando si erano dedicanti con virulenta afflizione
nell’insegnarle la storia, la letteratura e la poesia. Nervia
era stata una
ragazza curiosa, anche affamata, ma non era mai stata una brava
discola. “Sì,
sia alla corte di Tioreh che di sua figlia Tersilia, l’unica
donna ad essere
stata Imperatore” aveva cantato Shinora
piena di vivacità a quella
nozione.
Il loro mondo poteva contare il trascorre del tempo con lune e sorelle,
ma
restava un mondo di uomini, “Come la nostra” aveva
risposto pigra.
Shinora aveva annuito, “Mellineaco era innamorato della
Despote Tersilia e la
ha nominata ispirazione di ogni suo poema d’amore, questo,
questo mi stringe
sempre il cuore” aveva raccontato, con gli occhi verdi,
offuscate da lacrime.
Shinora aveva una
capacità di amore che superava l’immaginazione
di Nervia, qualcosa che in parte le invidiava ed in parte la spingeva a
guardarla con quella punta di distacco e melanconia, che le faceva
gridare
nella mente ‘Così fragile, la sua
cuginetta!’ e si sentiva un mostro per quello.
“Enneo me la ha recitata la prima volta, quando eravamo
bambini. La prima volta
io avevo cinquantadue sorelle e lui giusto dieci in
più” aveva ricordato con
melanconia.
Aveva mostrato il libro, aperto, una grafia eleganti di un qualche
monaco,
dominava una pagina giallo ocra, accompagnata da immagini di fiori.
“Traduco molto male la lingua istiana”
aveva ammesso, anche se la lingua
del Florido Impero non era che la nonna della sua
lingua.
Shinora aveva annuito, recuperando il libro per poterlo leggere in
fioriano per
lei.
Per
lui, non esiste che lei. Lei che è il sole, la luna e le
altre stelle.
Se ride, se canta, se parla e di e per lei;
lei che ha la pelle del miele e gli occhi splendenti;
Se piange, se si rabbuia e se tace non è che per lei.
Per la risata che musica il silenzio e riscalda il suo cuore.
Ogni momento, ogni luna, ogni istante
esiste perché esiste lei.
Se chiede, se rifiuta, se prega non è che a lei.
Con lei, per lei e a lei.
E se vive un giorno in più …
e solo perché vuol essere certo che anche lei viva un giorno
in più.
Perché non può sopportare che lei che era il sole
la luna e le altre stelle
sprofondi nell’oblio[1].
La voce di
sua cugina era una cantilena, quando aveva terminato la poesia.
Conosceva la
poesia, non perché fosse la più famosa di
Mellineaco, non perché fosse la più
malinconica, o perché avesse Nervia vasta conoscenza dei
poemi, ma perché
l’aveva già udita al Bocciolo.
Nella Grande Basilica, alla luce della luna, filtrata nella vetrata, e
illuminata da mille candele; ricordava una voce di donna impastata
ripeterla.
“Nulla è più tragico di un fiore
strappato troppo presto” aveva considerato
Nervia incerta, che non aveva mai provato quel dolore, ne aveva sua
cugina
d’altronde.
“Tua sorella lo ha letto al funerale di suo marito.
L’avevo dimenticata ma, poi
la ho ricordata” aveva raccontato sua cugina con calma, un
po’ melanconica. Gli
occhi erano gonfi di lacrime, ma aveva tenuto i rivoli lontani dalle
guance. “Ho
pianto tutta la funzione” aveva confessato Shinora.
Anche Nervia lo aveva fatto, sebbene non avesse saputo spiegarsi
perché.
“Enneo ha sempre raggirato alle parole Cortesi”
aveva ricordato Nervia, come
tutti i rampanti cavalieri anche Enneo aveva dovuto giocare a quella
ilare
tradizione, ma invece di darsi a orride creazioni, aveva sempre rubato
le
parole dei poeti veri, modificandole dove occorreva. Shinora che era
sempre
stata la destinataria dei suoi versi, non ne era mai stata turbata.
Sua cugina
aveva sorriso, con le labbra sottili ed i denti dritti e perlacei in
evidenza,
“Oh, Nervia, Enneo ha
sempre detto che non vedeva il
senso di mettersi in ridicolo quando uomini più in gamba di
lui avevano già
dato nome alle sue emozioni” le aveva detto.
“Sicuramente so che non mi hai chiamato qui per leggere
poesie tristi!” aveva
replicato subito Nervia, inghiottendo il disagio che le si era pesato
sul petto,
pensando a quei discorsi, quei sentimenti.
Non conosceva davvero moltissime
cose, pensava ad
Enneo, con la sua armatura ammaccata ed il cavallo ammantato con i
fiori di
Arancio – i fiori che spettavano a Nervia – e non
riusciva ad immaginarlo
recitare poesie languide neanche a Shinora. Lo aveva visto ai tornei, lo
aveva sentito, ma non riusciva a pitturarsi. Non riusciva a
vedere Enneo
così preso.
Ricordava che tante sorelle prima, quando Shinora ed Enneo erano ancora
imberbi,
si erano amati; ma Nervia ricordava fossero stati bambini e non dava
mai così
importanza ai sentimenti dei bambini, vivevano tutto con vigore e allo
stesso
tempo tutto con futilità.
Shinora
aveva messo da parte il libro per mangiare lo spicchio
d’arancia che Nervia le
aveva portato, gustandoselo, come lei, Shinora tollerava bene quel
sapore acre,
forse era nel sangue.
“Sì ti ho chiamato per raccontarti il sogno che ho
fatto ‘sta notte. Era uno miei”
aveva confessato sua cugina.
Le spalle di Nervia si erano fatte dritta e tese, come se fili
invisibili le
tirassero la carne, “Davvero?” aveva chiesto
fingendosi disinteressata.
Molta gente additava Shinora come una Vistalunga, ma Nervia aveva
difficoltà a
credere che esistessero gente creata dal Buon-Signore con quella dote,
non
veramente. Trovava più facile riporre la sua speranza in
santi uomini e donne
piissime, che persone con il dono di spiare il giusto-sentiero.
“Sì, volevo parlarti di questo” aveva
detto chiara Shinora, sollevandosi con
uno scatto di gambe e posando i palmi sul tronco per sorreggersi.
Era più alta di Nervia, di metà di una testa.
“Ho sognato il Palazzo del
Bocciolo, splendido e d’oro come mai è stato. E
lì dalle sue fondamenta,
piccola, nasceva una pianta d’edera, era minuscola, una
radicetta appena, ma
poi cresceva e cresceva, salendo per le mura, lungo ogni mattone, lungo
ogni
parete. Si infilava in ogni spacco, fenditura e crepa. Il Palazzo era
vecchio,
stregato e decadente, con una rete di edera che lo decorava e poi,
quando
sembrava che fosse destinato ad appassire nel silenzio,
l’edera come un cappio
si stringeva. Ma non era più di sottili steli, ma erano
larghi tronchi,
resistenti come il ferro, pesanti e forti e lo distruggeva. Spaccando
ogni
mattone, ogni pietra, ogni cosa, fino a rendere quello che era il
più maestoso
dei palazzi null’altra cosa se non polvere” sua
cugina aveva fatto una pausa,
“E polvere di gesso, come neve cadeva su ogni fiore, nessuno
era rimasto in
piedi, erano tutti spezzati e senza petali, ogni pianta era morta
… anche
l’edera stessa” c’era qualcosa di sacro
nel modo in cui Shinora aveva
pronunciato quelle parole.
Nervia aveva allungato una mano prendendo quelle di sua cugina in un
gesto di
affetto e conforto, “Non era un sogno da Vistalunga, mia
adorata cugina, era
una suggestione o una realtà che mai
avverrà” aveva stabilito, rincuorata in
parte, ma piena di tristezza.
“L’edera ha già provato ad arrampicarsi
sulle mura della nostra sacra
istituzione” aveva ricordato con voce spenta, pensando al
dolore ed il sangue
che era stato versato.
“Non tutta l’Edera è morta
cugina” aveva ricordato Shinora.
“Ma solo spettri abitano ora il loro palazzo ed un tristo
signore. Il che è una
tragedia, ma ben peggiore poteva essere” l’aveva
rincuorata.
Le loro
chiacchiere erano state interrotte.
“Sua
…
Mia signora” l’aveva chiamata una voce maschile,
lei si era voltata
riconoscendo La Coccatrice correre verso di lei, con
l’espressione contrita sul
viso giovanissimo, settanta sorelle a malapena, con un viso
fresco, senza neanche un accenno di barba. Alto per la sua
età, con l’incarnato
bianco dei mezzi ghaadiani, i capelli castano-dorato e gli occhi furbi.
Indossava degli abiti da contadino, una blusa larga di un grigio
tortora, sopra
delle pantacalze scure, infilate negli stivali di cuoio foderati di
pelle di
cervo, troppo caldi per il clima de L’Aranceto. Le
sembrava sempre strano vedere La Coccatrice non indossare armamenti da
battaglia, l’armatura pregna ormai di ammaccature da
battaglia e consumata in
ogni modo, sena neanche la cotta di ferro che indossava anche quando
girava tra
i civili. L’unica arma che indossava era un pugnale, legato
ad un cinturone di
pelle avvolto alla vita.
Non era venuto da solo, al suo fianco, de La Coccatrice,
c’era Bieve la sua
cameriera domestica, anche lei non era vestita come d’uopo,
ma sembrava una
contadinotta, con un abito marrone del colore del fango, dalle maniche
strette
fino ai gomiti, con indosso uno scamiciato grigio. “Mia
signora” aveva ripetuto
La Coccatrice, come se quell’appellativo gli bruciasse sulle
labbra, chinando
il capo, anche la schiena e se non era caduto su un ginocchio, era
stato solo
perché Nervia lo aveva interrotto prima.
“Non è necessario, mio cavaliere” aveva
affermato Nervia nervosa, posando le
mani sulle spalle ampie del giovane cavaliere.
Quello era arrossito di imbarazzo, sentendo le mani sulle spalle.
Nervia aveva
lasciato La Coccatrice, per rivolgere la sua attenzione
all’altra donna lì
presente. Bieve come tutte le donne sposate del Pregiatissimo Impero
aveva
raccolto i capelli scuri, anche se in una treccia disordinata, che
perdeva
riccioli da ogni scaglia. “Sono qui, i suoi ospiti, mia
signora” aveva comunicato
Bieve, che non si era concessa neanche una riverenza, ormai tanto
abituata a
lei. “Sono qui” aveva ripetuto Nervia, quasi tra
sé-e-se, strappando un altro
spicco di arancia che aveva inghiottito prontamente, prima di
proseguire la
strada inversa, che quella mattina l’aveva guidata lungo la
passeggiata tra gli
alberi.
“Mio cavaliere, non perdere la tua diligenza” aveva
detto a La Coccatrice con
calma, prima di voltarsi verso Bieve, “Di al tuo caro Addam
di preparare quelle
pernici che il nostro buon cavaliere ha preso per noi” aveva
ordinato,
ammiccando al marito di Bieve.
Si era voltata verso Shinora, “Ho ospiti che mi attendono, se
tu desideri
scortarmi cara cugina” aveva proposto, quella aveva scosso il
capo, facendo
oscillare i lunghi capelli sciolti da vergine, “No, mia cara
Nervia, resterò
qui a leggere un altro po’ di poesie
Il podere
dove alloggiavano era in pietra di calce, mischiata a frammenti di
ceramica, in
principio era stato qualcosa del florido impero, un vecchio retaggio di
un
mondo dimenticato, forse i resti di un castro dell’esercito.
Dove sorgeva
l’Aranceto, in principio, vi era la Boghia, una terra
composta da clan
guerrieri, uguali per religione, aspetto e lingua, ma divisi per idee,
per
famiglie, per piccolezze. Erano stati avversari ostici per
l’Impero, non il
Pregiatissimo, ma il Florido, ma erano stati mangiati dal tempo e della
polvere, perché non erano riusciti a superare le loro
inimicizie e il Florido
Impero gli aveva divorati.
Nell’Aranceto dei popoli Boghiani non era rimasto nulla,
qualche occhio di un
verde più intenso, qualche ciuffo di capelli più
riccioluto, ma nulla neanche
vecchi ruderi.
Tutte le vestige di un passato glorioso di quella regione, apparteneva
all’avido e glorioso Florido Impero. La sua struttura
però non conservava molto
dei tempi leggendari, era stata fagocitata dai rinnovi, i restauri, le
demolizioni, gli ampliamenti e quant’altro del Pregiatissimo
Impero dei Fiori,
l’unico degno erede del Florido.
E del castro florido, era rimasto nulla più che un podere,
palazzo Salvia, per
le gite fuori porta per lei e la sua famiglia, per allontanarsi dalla
violenza caotica
della città.
Non era un
luogo adatto ad una signora della nobiltà, ma era un luogo
carino ed ameno. Sua
zia portava lei e sua sorella lì, assieme al figlioletto, e
li lasciava correre
felici da bambini, poi era diventato suo.
“Bella la passeggiata tra i boschi?” le era stato
inquisito immediatamente da
una voce.
Una giovane donna la guardava con un pungente cipiglio sul viso,
“Adoro le
arance di questo posto, Imeria cara” aveva risposto Nervia,
“Mezza per te,
ecco” le aveva detto, allungando metà degli
spicchi che erano rimasti. Imeria
era la sua dama di compagnia, da quando avevano
venticinque sorelle l’una, era la figlia di un signore minore
della Marca di
Spessi Abeti. Il suo vecchio l’aveva spendita da Nervia per
essere sua amica e
compagna, perché frequentasse i suoi ambienti e trovasse un
buon marito, cosa
che Imeria si era sempre dichiarata lontana.
Il che divertiva molto Nervia, lo stesso margravio di Spessi Abeti se
avesse
potuto avrebbe sposato Imeria seduta istante.
“Grazie,
Nervia, i tuoi ospiti sono in soggiorno, li ho lasciati nelle sapienti
mani di
Saranna” aveva spiegato immediatamente Imeria, staccando uno
spicchio da
succhiare con le labbra, un’espressione aspra le si era
dipinta in viso –
troppo amaro per il suo palato.
“Poveri i miei ospiti allora” aveva risposto spenta
lei, pensando alla sua
seconda dama di compagnia e la sua chiacchiera proverbiale,
“Colpa tua” l’aveva
rimbeccata Imeria, lasciando che una lacrima di succo
d’arancio le scivolasse
dalle labbra sottili, “Era Aloyssa che si occupava di queste
facezie” l’aveva
rimproverata.
Nervia aveva sospirato, stanca, “Anche a me manca tanto,
Imeria” le aveva
detto, “E se avessi potuto l’avrei tenuta con me
sempre, ma Aloyssa si è
sposata” le aveva ricordato.
Aloyssa era un’altra sua cugina, ma dispetto Shinora era
più lontana nel
sangue, erano i loro nonni ad aver condiviso lo stesso ventre, rispetto
i loro
padri.
Se Shinora aveva condiviso con lei la balia ed una culla, Aloyssa aveva
diviso
il pettine, il letto, le stanze, i vestiti ed anche i pettegolezzi.
Loro due, con Imeria con il suo cipiglio duro come una lastra di
ghiaccio e
Saranna con la sua voce allegra e
tintinnante come una
campanella.
Imeria aveva sbuffato, “Ed ora lei ha un piccolo rigettino
splendente e
gli ospiti devono essere intrattenuti da Saranna e le sue chiacchiere
infinite”
aveva ribadito la sua dama, “Io insito che il tuo fascino
pragmatico potrebbe
rivelare infinite soprese” le aveva risposto. Imeria aveva
sorriso incerta.
“Tua cugina come sta? Ieri notte è rimasta fuori a
guardare la luna, lo sai?”
aveva chiesto retorica Imeria.
“No, ha dormito, sotto le stelle. La rende felice,
è così da quanto era
piccolina. Mia sorella diceva che era più matta di un
cavallo, ma per me è
sempre stata solo stravagante” aveva liquidato la faccenda,
decidendo di
ignorare i sogni che sua cugina aveva fatto sotto la Luna.
Edera che cresceva fino a soffocare un palazzo intero,
doveva solo
sperare che fosse la suggestione della tragedia che si era consumata,
ad aver
guidato i pensieri di sua cugina e non un prossimo futuro.
“La nostra nuova amica, invece?” aveva chiesto
Nervia, desiderosa di cambiare
argomento. “Continua a stare come stava dopo la Piana
di Malvasia. In
vero credo stia come sta la Piana ora” aveva risposto Imeria
senza nascondere
cupezza. Lei aveva sentito il suo cuore sussultare a quel rude paragone.
Dolore e devastazione.
“Forse, dopo questa luce, starà meglio”
aveva provato Nervia, incerta della sua
stessa idea. Imeria l’aveva guardata insofferente, con gli
occhi grigio-neri
giudicanti, “Se così fosse e a Il Principio che
dovremmo dire grazie” le aveva
detto. Non c’era però speranza nel tono secco di
Imeria, non credeva che nulla
di ciò che sarebbe successo avrebbe cambiato nulla, forse
era così. Ma Nervia
aveva bisogno di sperare, anche se fosse stato nell’ Il
Principio.
Nervia aveva stretto le labbra in una presa serrata, insoddisfatta e
consapevole, “Allora così
sarà” aveva affermato senza perdere colore e con
quell’ultima frase si era congedata; aveva attraversato
l’androne fino a
passare le porta della stanza di rappresentanza.
Saranna
dominava la scena, come non sarebbe stato diverso altrimenti, era una creatura quasi perfetta, alta
e flessuosa, con i
capelli biondo-argento, del suo sangue dei Sussurranti, oltre le
montagne, nel
nord più puro. Il viso era olivastro, come una fioriana
fatta e finita, con
occhi di miele lucidi, intrecciati in ciglia argentee. Quasi perfetta,
però,
con le orecchie leggermente pronunciate ed un’ossimetria nel
viso che creava un
segno di straniamento.
I due ospiti erano, però, completamente imbevuti
delle parole di Saranna,
della storia che stava montando per loro. Nervia si era fermata sullo
stipite,
con le braccia conserte, appoggiata allo stipite della porta, mentre
sentiva la
sua dama raccontare ogni sorta di storia.
Il raccontato di Saranna verteva su un certo uomo che giurava di avere
un
ansino parlante, si era arrestato a metà quando
l’aveva scorta.
I due sconosciuti erano rimasti interdetti, particolarmente uno dei due
che si
era preoccupato, “Signorina?” aveva chiesto
perplesso, una voce forte e
maschile. Eppure, si erano presto accorti della traiettoria degli occhi
di
Saranna, “La padrona della tenuta è
tornata” aveva comunicato Saranna,
introducendola.
I due quando l’avevano vista si era tirati immediatamente su,
incerti,
guardandola con occhi pieni di indecisione. Probabilmente cercavano di
comprendere quale signora della regione degli Aranci Sanguinelli li
avesse
convocati. Come dovevano comportarsi davanti a lei, che grado di
rispetto le
dovevano.
Nervia era chiaramente una nobildonna, non aveva la presunzione di
poter
sembrare una persona comune, anche vestita senza tutti gli orbelli da
cortigiana, le stoffe che indossavano era ancora pregiate; inoltre, era
una
figlia benedetta.
I due
ospiti aveva fatto una riverenza, confusi.
Erano maturi, ben oltre le duecento-sorelle, se non tutti e due, almeno
uno.
Erano un uomo ed una donna, con pelli olivigna, così scura,
da sembrare quasi
rame. Lui era ricurvo, come il cuneo di un ago, con rughe infelici a
segnare la
pelle e capelli grigio nero radi, che portava radi sulla testa, lei era
più
dritta ma non meno stanca e i suoi capelli erano una nuvola di bianca
neve,
stretta in una crocchia ordinata. Non erano vestiti come contadini, ma
come
mercanti, sebbene non avessero gioielli, la stoffa dei loro vestiti
erano di
velluto morbido.
Lui indossa una lunga toga verderame, che scivolava fino ai piedi,
fermata solo
poco sopra i fianchi da una cintura, lei era vestita di rosso-vinaccia,
con un
abito dalla gonna ampia stretto alla vita. Entrambi i vestiti erano
decorati da
due clavi d’oro che dall’orlo del colletto
scendevano fino a quello del fondo.
“Mia signora” aveva detto la donna più
cortese, chinando il capo e compiendo
una riverenza, imitata dall’uomo prontamente, sebbene senza
esprimere parole.
“I signori Varghiani, immagino” aveva considerato
Nervia, “Ginnea e Martes”
aveva vagliato, erano una coppia di fratelli, anche se Nervia non
l’avesse
saputo, non avrebbe potuto fare altro che dedurlo, dalla stessa forma
larga
della bocca come quella di una rana e dall’attaccatura del
naso stretta come un
dito. Anche l’attaccatura dei capelli, leggermente alta,
sfoggiando una fronte
tonda, era simile.
“Sì, mia signora per servirla” aveva
detto Martes con sicurezza.
Nervia aveva sorriso, “Ho necessità che
realizziate una delle vostre opere
d’arte, per me” aveva ammesso.
L’espressione dei due ospiti si erano tinte di
confusione, guardandola, ovviamente. Nervia non si faceva illusione,
sapeva che
aspetto avesse, sapeva che la sua perfezione era irradiata da ogni suo
più
piccola finezza – e sapeva di non poter apparire come
null’altra cosa.
Tranne che per quel piccolo dettaglio, quando sorrideva.
La Bizzaria, come l’avevano sempre
chiamata.
“Certo, non è per me, per me il lavoro, miei buoni
signori, ma sarà mia premura
la commissione” aveva dichiarato con più calma
Nervia. “Signora Varghiani,
avrei necessità che mi seguisse” aveva comandato
poi, autoritaria ma non
imperiosa, “Io e mio fratello lavoriamo insieme, mia nobile
signora” aveva
spiegato pazientemente la donna, toccando con mano la spalla del suo
compagno.
“Certo, dopo, vorrei però – per
intimità – potesse visionare solo lei”
aveva
spiegato, il suo tono era candido e gentile, ma non c’era
alcuna preghiera, ma
un ordine. “Saranna può intrattenere suo fratello
a dovere, conosce centinaia
di storie assolutamente improbabili” aveva considerato,
“O la mia cameriera
potrà servirvi del sidro frizzante” aveva
aggiunto, più accomodante.
Ginnea
Varghiani l’aveva seguita lungo le scalinate per il piano
superiore, Nervia le
aveva offerto un gomito a cui appoggiarsi, ma la donna, aveva preferito
di gran
lungo il corrimano per tenere l’unica mano libera, mentre con
l’altra
sorreggeva una scatola di legno a più ripiani, trattandola
come la Corona Aspra
dell’imperatrice. “Sarebbe stato più
favorevole il piano di calpestio, mi rendo
conto, ma ho avuto difficoltà con la mia ospite”
aveva ammesso calma e piena di
vergogna, quando alla seconda rampa di scale, aveva intrapreso la
stanza per un
corridoio.
Il Palazzo Salvia, era un palazzo solo di nome, non
era grande, ne
maestoso, non aveva corridoi infiniti di porte e stanze ad oltranza,
era
piccolo e limitato, tranne le due ripide rampe di scala di pietra. Un
tempo era
esistita anche una torre quadratica, ma restava di quella struttura
solo un’ulteriore
rampa di scale vestigiale, che finiva contro un soffitto, con una
botola che
portava ad una stanza in cui era stato accumulato tutto e di
più nel corso delle
sorelle.
La porta che cercavano era una delle poche animata con della vita;
guardata a
vista da un giovane soldato, un uomo dell’ordine della Rosa
Nera, non che fosse
evidente, aveva tolto i gingilli che ne stabilivano il grado e non
indossava
l’alta uniforme o l’armatura, sfoggiando, invece,
una cotta di maglia, i
gambali e le loriche delle braccia ed una mano guantata
all’elsa penzolante sul
fianco. Nel vederlo così il giovane Raminio non sembrava un
cavaliere degli
ordini maggiori, sembrava più un Lupo d’Arme,
scinto e disinteressato.
La sua famiglia non era stata entusiasta della scelta dei due
cavalieri,
entrambi giovani, entrambi inserpenti, nessuno di loro aveva servito
sotto lo
sguardo acuto dello Scintillante Generale.
Nervia gli aveva presi soprattutto per questo, non era stata
altrettanto
fortunata con gli altri.
“Riposo, buon Raminio” aveva detto pratica Nervia,
mentre l’uomo si faceva da
parte, permettendo alle due donne di aprire la porta ed entrare.
“Sono intrigata e confusa, mia signora” aveva
considerato Ginnea, guardando la
stanza con interesse.
Era piccola, forse un po’ fredda. La luce nella stanza era
quasi del tutto
assente, la finestra aveva gli scuri tirati che non permetteva a
neanche un
raggio di luce di passare e l’unica illuminazione era data
dalla luce di una
candela di un comò. Un pavimento in marmo lucido, recenti
dell’ultimo restauro,
coperti parzialmente da un morbido tappetto, che ottundeva il suo del
tacchettio sulla pietra. Nella stanza figurava anche un armadio grande,
di
legno di abete chiaro, dalla doppia anta, accostato ad una parete,
così grande
da mangiarla tutta. Non lontano spiccava uno specchio di vetro
soffiato, leggermente
ricurvo e di una tonalità non cristallina, incassato in una
forma di piombo
lucido modella. Lo specchio era lì, per restituire
l’immagine riflessa, ma la
superficie era stata coperta da un mantello color crema.
C’era
anche un letto, sistemato sotto
gli scuri ed una figura abbozzolata dentro.
Nervia si
era avvinata, non facendo rumore, nonostante indossasse ancora gli
stivali da
esterno, senza preoccuparsi del terriccio che aveva lasciato in giro
per il
podere.
Si era seduta sul bordo del letto e con delicatezza aveva messo le mani
sulla
figura, per scuoterla questo “Fiorellino, ti prego, devi
svegliarti” aveva
sussurrato, ben sapendo di dover parlare con una creatura
già sveglia – per
quanto quella definizione fosse impropria.
La dolcezza del sonno sarebbe stato un piacere assai gradito per la
persona, ma
erano solo lunghe notti silenziose con la mente sfrigolante ed il sonno
ben
lontano.
Nervia aveva accarezzato con delicatezza la guancia della ragazza con
la stessa
dolcezza di una madre, lei che a malapena ricordava il tocco della sua.
Doveva essere stata una donna gentile però, suo padre lo
diceva sempre ed anche
sua sorella – e lei raramente aveva parole piene di miele per
nessuno.
Nervia si era sempre sforzata di essere carina, aveva funzionato, forse
in
parte, sapeva che la gente si rivolgeva a lei come la ‘Buona
Signora Nervia’ ma
lei si sentiva tantissime cose e nessuna di queste prevedeva
l’utilizzo
dell’aggettivo buona.
“Tesoro, puoi svegliarti?” aveva chiesto alla
giovane, cercando di essere meno
delicata.
Le palpebre non avevano tremato, le ciglia si erano schiuse subito,
sclere
bianche, screziate dal pianto e da vene rosse ed iridi aronia
nerissime.
Poi anche il viso aveva ripreso vita.
Il
candore di una pelle bianchissima, accompagnata con capelli biondo
intenso come
la polvere di zafferano, falciati corti fino alle clavicole, come era
usanza di
una vedova – anche se non lo era. La ragazzina era perfetta,
con un naso
leggermente piccolo, delicato e all’insù, con
labbra piene di un naturale rosa
scuro ed un mento appuntito, che coronava un viso a cuore,
assolutamente
perfetto, una bimba del destino, una benedetta, la sua naturale
perfezione era
però rovinata da una cicatrice che le deturpava le labbra,
un taglio dritto
come il primo incerto affondo di un coltello su un tocco di carne, prendeva un
pezzo di pelle sotto
le labbra e poco sopra il mento, entrambe le labbra e saliva fino a
costeggiare
la narice destra, più profondo e più
frastagliato. Una mano umana che intaccava
il dipinto perfetto del Dio-di-Ogni-Cosa-Buona.
Sessanta quattro Sorelle ed occhi neri già morti.
Gli occhi della ragazza, neri come fossi, guardavano Ginnea senza
vederla.
Nervia le aveva presentate, omettendo quanti più dettagli
non necessarie.
“Ginnea è un’artista, lavora sui
segni” avevano spiegato all’ultima delle sue dame
da compagnia, “La ho vista modificare fiori senza essere
seconda a nessuno.
Certe bimbe sbagliate, rese magnifiche, accompagnate da colori
più vividi e
lucenti” aveva detto calma.
“Sono confusa mia signora, questa fanciulla mi sembra
… già perfetta” aveva
considerato Ginnea. Nel farlo si era toccata come un riflesso le
labbra, dove
la ragazza esibiva la mutilazione.
Nervia aveva annuito, “Non sbagli, ma gli uomini hanno
tentato di intercedere
per conto di Dio” aveva dichiarato, alzandosi dal letto e
facendo muovere con
lei la sua dama.
I movimenti della ragazza erano stati duri, poco armonici, come se al
posto
degli arti avesse legni attaccati al corpo, legni rimasti inerti, che
avevano
smesso da un po’ di usare le fluide movenze che un corpo
umano doveva compiere.
“Tesoro” aveva chiesto con gentilezza,
“Puoi … so che è difficile”
aveva
considerato Nervia.
Si era sentita una bestia per quella muta richiesta e pensava con
orrore e
disgusto di se, che altrove, nel vasto impero, qualcuno parlava di lei
chiamandola
con quell’orrido nome: La Buona Signora Nervia.
Gli occhi della ragazzina era
ancora vacui, la sua
espressione non aveva avuto neanche un tentennamento, meno era stato
per la sua
posa.
Si era come incupita su di se e le sue mani, tremolanti, si erano mosse
guidate
da braccia ancora più incerte. Aveva
raggiunto il retro del suo collo, dove l’orlo superiore del
vestito, era
segnato da un bottone, che aveva fatto scivolare fuori
dall’asola.
Nervia l’aveva aiutata a togliere il vestito, ma aveva notato
che le sue di
articolazioni avevano cominciato a vacillare ma non era cambiato nulla.
Nessuna
espressione di apprensione e vergogna si era manifestata sul viso della
sua
dama, solo vuoto.
Sotto il vestito l’altra indossava una sottana lunga fino
alle rotule, con
spalline sottili come fili di cotone. Nervia aveva titubato, lasciando
che
fosse lei stessa a nudarsi dell’ultima barriera che aveva. La
sua dama aveva
per la prima volta dato cenni di vita, il tremolio delle mani si era
acquietato
e la sua posa si era fermata, come sabbia colpita da un fulmine, ferma
in un
vetro eterno, un respiro solo, una disperata ricerca di coraggio e poi
aveva
proceduto, sfilando le spalline sottili e facendo cadere la lunga
sottana sul
pavimento. Nervia aveva distolto gli occhi, on aveva guardato il corpo,
non ne
aveva bisogno, ma aveva visto l’espressione di orrore che si
era dipinta in un
momento sul viso di Ginnea, più di un momento, prima che la
disegnatrice
recuperasse una calma misurata.
“Capisco” aveva esalato, il suo tono voleva essere
professionale e quieto, ma
era stato impossibile non leggere la dolenza nella sua voce, la
preoccupazione,
e perché, no, anche l’orrore. “Il suo
fiore è stato rovinato, quindi, sì, so
che non può essere riprodotto perfettamente, ma pensavo che
la mano che ha
dipinto sugli orridi aster di Milaiah di Città
Gerbera” aveva detto Nervia,
riprendendo la parola, cercando di spezzare l’angustia aria
che si era
intessuta in quella stanza. Non esistevano termini gentili per
descrivere
quella situazione, per descrivere ciò che era stato fatto
alla sua dama.
Ginnea
aveva fissato gli occhi miele sul seno deturpato della sua dama e poi
sul resto
del suo corpo, con preoccupazione. Era sceso un silenzio spesso e colmo
di
disagio.
Poi Ginnea aveva parlato, “Posso … posso
restaurare il suo fiore, per quanto
una mano umana lo conceda. Quello, mia signora, era un fiore benedetto
–
dipinto direttamente dalla mano-di-Dio” aveva ammesso alla
fine, calma, “Io sono
brava, ma il mio talento rimane umano.”
“Sarà
sufficiente” aveva considerato Nervia, chinandosi per
raccogliere i vestimenti
della sua dama – non era suo dovere farlo, avrebbe dovuto
essere il contrario,
ma come poteva Nervia chiedere a quella fanciulla di svolgere qui
futili doveri
quando era così spezzata. “Per il resto delle
cicatrici, invece?” aveva
domandato Ginnea preoccupata. Nervia aveva sentito il freddo sulle sue
mani,
sulla sua schiena, così come i movimenti per coprirsi della
sua dama avevano
subito una brusca interruzione, uno sfarfallio appena, come il battito
di una
farfalla era passato negli occhi scusi.
“So che alcune persone molto pie manifestano la loro
adorazione riempiendosi di
fiori” aveva considerato la Nervia “Personalmente
trovo questo comportamento superbo”,
con più ferro nella voce di quanto avesse deciso.
“Solo il Dio-di-Ogni-Cosa ha
il permesso di far fiorire corolle” aveva considerato Ginnea,
ma il suo tono
era neutro, probabilmente non concordava con il medesimo pensiero di
Nervia, ma
l’avrebbe assecondata, perché proveniva da
giardini diversi, sarebbe stato
scioccò contrariare una signora e sarebbe stato altrettanto
sciocco per una
signora crederci. Ginnea si guadagnava il pane ingannando
l’operato di Dio. Servi
de Il Principio, tanto quanto liberisti o Volontisti
– però, Nervia, non
aveva mai avuto problemi a riconoscere la sua
ipocrisia.
“Se lei lo desidera, può far nascere
fiori sul suo corpo” aveva mormorato
Nervia, guardando la dama, le aveva fatto indossare nuovamente il suo
abito
domestico.
Non sapeva se doveva aspettarsi una risposta, una vera,
“Vuoi?” aveva chiesto
titubante.
La sua dama l’aveva guardata, poi aveva annuito appena,
muovendo il mento
appuntito; Nervia aveva risposto a quella volontà di vita,
con una carezza sui
capelli, gentile, anche se sapeva che nessuno dei suoi tocchi avrebbe
portato
alcun conforto, “Dopo che il lavoro della signora Varghiani,
avrà conclusione,
torneremo in città, a vestimenti di seta, vini annebbianti e
lussi inauditi”
aveva provato, senza impegno, sicura della vacuità delle sue
parole.
“Perché non scendiamo a mangiare, ora?”
aveva provato a chiedere, prendendo il
gomito della più giovane delle sue dame, “Abbiamo
degli ospiti, arance in
quantità e La Coccatrice ha preso due pernici questa
mattina” aveva aggiunto.
E solo il Dio-delle-cose-buone sapeva quanto l’altra avesse
bisogno di nutrirsi
con qualcosa di diverso di miele e pane bagnato.
La sua dama l’aveva guardata, poi aveva risposto –
gracchiante, come se la sua
gola fosse troppo stretta per la sua voce – atona:
“Certo, sua altezza.”