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Autore: RLandH    01/03/2023    0 recensioni
Quando il Dio-Di-Ogni-Cosa-Buona creò gli uomini non li fece tutti uguali, al contrario: si impegnò perché fossero più diversi, variopinti e colorati possibili, come fiori.
Si adoperò perché i suoi uomini fossero come i fiori del suo giardino, virtuosi, bellissimi, colorati ma differenti.
Unici.
Eccezionali.
Ogni fiore era unico, non solo da una specie all’altra ma da un individuo all’altro.
Così, erano e dovevano essere gli uomini.
Bellissimi.
Furono gli uomini, in maniera del tutto arbitraria, a decidere che quella diversità andasse classificata, andasse ordinata, secondo il loro iniquo giudizio.
Che il dono di Dio dovesse essere – non un regalo ma – un assetto.
E, che gli uomini professino quel che vogliono, tale iattanza fu Il Principio.

C'è un cavaliere, senza ne arte ne parte, che cerca uno scopo ed un mondo che non ha riguardi verso di lui o altre anime sfortunate. Circa.
Cosa può, d'altronde, un uomo contro Re, Signori e Principesse? Cosa può un uomo contro il Destino stesso?
Genere: Angst, Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Nuovo capitolo, nuovo narratore. Quello che penso vedremo meno di altri, ma serviva ugualmente. Giusto per intrecciare ancora di più le cose. Ho finito comunque il disegno del PIF (Pregiatissimo Impero dei Fiori) geografico e sto preparando dei bozzetti di tutti i personaggi.

 

 

P A R T E   P R I M A

L ‘ I N V I O L A B I L E

T I T O L O  I

I  G I O C A T O R I

C A P I T O L O   I V

N O N  A V E V A  M A I   A V V T O   P R O B L E M I   A  R I C O N O S C E R E 
 L A   S V A   I P O C R I S I A

 

 

 

L’aria era appestata dall’odore degli aranci, se di norma poteva essere un odore invitante, buono e da liquorino, portata a quell’eccesso era un miasma. Nauseabondo.
Nervia aveva allungato una mano ed aveva staccato un arancio da uno degli alberi più bassi della fronda, era una varietà amara, con la buccia più scura e con un odore così forte da rimanere assorbito addosso, sui vestiti, capelli, vestiti. A Nervia piaceva l’Aranceto, di solito, ma non quel giorno – per qualche ragione.
Si era svegliata guasta.
Aveva forzato l’unghia corte contro la buccia, per forzare la rottura e poter gustare gli spicchi. L’agrume era amaro, ma le piaceva come sapore, da bambina mangiava solo cose dolcissime, nulla che non fosse stato amalgamato nel miele riusciva a superare la sua lingua viziata, ma crescendo aveva sviluppato un gusto bizzarro. Sua sorella scherzava sempre che Nervia aveva maturato un gusto per il cattivo – lei non lo aveva mai negato.
“Shinora ne vuoi uno spicchio?” aveva chiesto con gentilezza a sua cugina, non era lontana da lì, seduta sotto l’ombra di uno spesso albero. Stava leggendo un vecchio libro di poesie del florido impero. Nervia era sempre stata piuttosto incapace nella letteratura antica, per la disperazione del suo istitutore.
Sua cugina aveva sollevato gli occhi. Erano due punte di verde scuro, come la buccia di un’oliva. Non era bella Shinora, o meglio lo era, nella forma più tradizionale del termine; aveva capelli lisci come la seta e neri come l’inchiostro colato, con ciglia altrettanto scure e lunghe, su di un viso magro, di un colore pieno e sano salsola. Se si fosse alzata dalla sua posizione cucciata, Nervia avrebbe potuto riconoscere le gambe lunghe che le conferiva un’altezza più elevata di quella abituale di una donna, della sua ad esempio, in un corpo ben snello, ma ciò che rendeva la sua bellezza scialba era la mancanza di una benedizione. Shinora era bella come era concesso agli uomini comuni esserlo, d’altronde i suoi nonni e i suoi bisonni erano anime condivise.
Sua cugina però era rimasta cucciata, tra le radici di un arancio, con la stola – necessario ad ogni rispettabile donna dell’impero –  d’oro opaco, che avvolgeva le spalle e parte alta delle braccia. Il fazzolo era decorato con fili d’argento che disegnavano fiori. Le maniche scure del vestito, strette, tirati sugli avambracci sottili. “Puoi venire, dolce cugina?” aveva chiesto, invece, Shinora, senza darle risposta.
Nervia l’aveva assecondata, ancora indisposta dalla giornata. Era leggermente timorosa che Shinora parlasse dei suoi sogni, era una cosa che aveva sempre fatto con estrema passione da che erano poco più che due bimbette sgambettanti con le gambe arcuate.
Shinora era la sua unica cugina di sangue, i loro padri – che i loro fiori crescessero belli e forti nel Giardino del Signore – erano stati fratelli e loro erano cresciute vicine. Shinora aveva dodici sorelle, due cicli e una decimana, in meno di lei; erano cugine di sangue ma sorelle di latte, perché avevano bevuto avide dallo stesso capezzolo, quello di Zia Maeva.

Aveva allungato un’arancio verso sua cugina, quando era bambina, l’Aranceto era la sua dimora, ed anche se apparteneva a Nerva, in quelle lune, Shinora continuava a preferirla al disordine del Giardino. A volte si chiedeva come non potesse odiarla per aver ereditato la casa che un tempo era sua.
Shinora aveva sempre preferito vivere una vita quasi monacale, che partecipare a tutte quelle sfavillanti cerimonie; anche quando suo padre risiedeva a Città Zagare, Shinora preferiva vivere nella dimora campestre.
Anche Nervia aveva cominciato a percepire la stanchezza delle frenesie di Città di Zagare, così aveva deciso di ritirarsi in campagna e quando sua cugina lo aveva saputo le aveva scritto per poterla raggiungere. Inoltre sua cugina sembrava apprezzare il Podere austero dove erano alloggiate anche più della bella tenuta di Palazzo Citro, la dimora campagnola più ricca dell’Aranceto.  

Nervia avrebbe volentieri evitato tutti i membri della sua famiglia, talvolta aveva l’impressione di amarli ed odiarli in egual misura, ma sicuramente riconosceva come fossero abituati ad infiltrarsi in ogni intercapedine, ma non Shinora.
Sua cugina aveva raccolto gli spicchi dell’arancio, “Una bella poesia?” aveva inquisito Nervia.
“Era di Mellineaco di Grinea, oggi è una città ghaadiana, Moppea? Molpea?” aveva spiegato tranquilla Shinora, “Era un poeta alla corte dell’Imperatore Tioreh Dhoerti” aveva considerato Nervia, rispolverando i lunghi soliloqui dei suoi istitutori quando si erano dedicanti con virulenta afflizione nell’insegnarle la storia, la letteratura e la poesia. Nervia era stata una ragazza curiosa, anche affamata, ma non era mai stata una brava discola. “Sì, sia alla corte di Tioreh che di sua figlia Tersilia, l’unica donna ad essere stata Imperatore” aveva cantato Shinora piena di vivacità a quella nozione.
Il loro mondo poteva contare il trascorre del tempo con lune e sorelle, ma restava un mondo di uomini, “Come la nostra” aveva risposto pigra.
Shinora aveva annuito, “Mellineaco era innamorato della Despote Tersilia e la ha nominata ispirazione di ogni suo poema d’amore, questo, questo mi stringe sempre il cuore” aveva raccontato, con gli occhi verdi, offuscate da lacrime.
Shinora aveva una capacità di amore che superava l’immaginazione di Nervia, qualcosa che in parte le invidiava ed in parte la spingeva a guardarla con quella punta di distacco e melanconia, che le faceva gridare nella mente ‘Così fragile, la sua cuginetta!’ e si sentiva un mostro per quello.
“Enneo me la ha recitata la prima volta, quando eravamo bambini. La prima volta io avevo cinquantadue sorelle e lui giusto dieci in più” aveva ricordato con melanconia.
Aveva mostrato il libro, aperto, una grafia eleganti di un qualche monaco, dominava una pagina giallo ocra, accompagnata da immagini di fiori.
“Traduco molto male la lingua istiana” aveva ammesso, anche se la lingua del Florido Impero non era che la nonna della sua lingua.
Shinora aveva annuito, recuperando il libro per poterlo leggere in fioriano per lei.

Per lui, non esiste che lei. Lei che è il sole, la luna e le altre stelle.
Se ride, se canta, se parla e di e per lei;
lei che ha la pelle del miele e gli occhi splendenti;
Se piange, se si rabbuia e se tace non è che per lei.
Per la risata che musica il silenzio e riscalda il suo cuore.
Ogni momento, ogni luna, ogni istante
esiste perché esiste lei.
Se chiede, se rifiuta, se prega non è che a lei.
Con lei, per lei e a lei.
E se vive un giorno in più …
e solo perché vuol essere certo che anche lei viva un giorno in più.
Perché non può sopportare che lei che era il sole la luna e le altre stelle
sprofondi nell’oblio
[1].

 

La voce di sua cugina era una cantilena, quando aveva terminato la poesia. Conosceva la poesia, non perché fosse la più famosa di Mellineaco, non perché fosse la più malinconica, o perché avesse Nervia vasta conoscenza dei poemi, ma perché l’aveva già udita al Bocciolo.
Nella Grande Basilica, alla luce della luna, filtrata nella vetrata, e illuminata da mille candele; ricordava una voce di donna impastata ripeterla.
“Nulla è più tragico di un fiore strappato troppo presto” aveva considerato Nervia incerta, che non aveva mai provato quel dolore, ne aveva sua cugina d’altronde.
“Tua sorella lo ha letto al funerale di suo marito. L’avevo dimenticata ma, poi la ho ricordata” aveva raccontato sua cugina con calma, un po’ melanconica. Gli occhi erano gonfi di lacrime, ma aveva tenuto i rivoli lontani dalle guance. “Ho pianto tutta la funzione” aveva confessato Shinora.
Anche Nervia lo aveva fatto, sebbene non avesse saputo spiegarsi perché.
“Enneo ha sempre raggirato alle parole Cortesi” aveva ricordato Nervia, come tutti i rampanti cavalieri anche Enneo aveva dovuto giocare a quella ilare tradizione, ma invece di darsi a orride creazioni, aveva sempre rubato le parole dei poeti veri, modificandole dove occorreva. Shinora che era sempre stata la destinataria dei suoi versi, non ne era mai stata turbata.

Sua cugina aveva sorriso, con le labbra sottili ed i denti dritti e perlacei in evidenza, “Oh, Nervia, Enneo ha sempre detto che non vedeva il senso di mettersi in ridicolo quando uomini più in gamba di lui avevano già dato nome alle sue emozioni” le aveva detto.
“Sicuramente so che non mi hai chiamato qui per leggere poesie tristi!” aveva replicato subito Nervia, inghiottendo il disagio che le si era pesato sul petto, pensando a quei discorsi, quei sentimenti.
Non conosceva davvero moltissime cose, pensava ad Enneo, con la sua armatura ammaccata ed il cavallo ammantato con i fiori di Arancio – i fiori che spettavano a Nervia – e non riusciva ad immaginarlo recitare poesie languide neanche a Shinora. Lo aveva visto ai tornei, lo aveva sentito, ma non riusciva a pitturarsi. Non riusciva a vedere Enneo così preso.
Ricordava che tante sorelle prima, quando Shinora ed Enneo erano ancora imberbi, si erano amati; ma Nervia ricordava fossero stati bambini e non dava mai così importanza ai sentimenti dei bambini, vivevano tutto con vigore e allo stesso tempo tutto con futilità.

Shinora aveva messo da parte il libro per mangiare lo spicchio d’arancia che Nervia le aveva portato, gustandoselo, come lei, Shinora tollerava bene quel sapore acre, forse era nel sangue.
“Sì ti ho chiamato per raccontarti il sogno che ho fatto ‘sta notte. Era uno miei” aveva confessato sua cugina.
Le spalle di Nervia si erano fatte dritta e tese, come se fili invisibili le tirassero la carne, “Davvero?” aveva chiesto fingendosi disinteressata.
Molta gente additava Shinora come una Vistalunga, ma Nervia aveva difficoltà a credere che esistessero gente creata dal Buon-Signore con quella dote, non veramente. Trovava più facile riporre la sua speranza in santi uomini e donne piissime, che persone con il dono di spiare il giusto-sentiero.
“Sì, volevo parlarti di questo” aveva detto chiara Shinora, sollevandosi con uno scatto di gambe e posando i palmi sul tronco per sorreggersi.
Era più alta di Nervia, di metà di una testa. “Ho sognato il Palazzo del Bocciolo, splendido e d’oro come mai è stato. E lì dalle sue fondamenta, piccola, nasceva una pianta d’edera, era minuscola, una radicetta appena, ma poi cresceva e cresceva, salendo per le mura, lungo ogni mattone, lungo ogni parete. Si infilava in ogni spacco, fenditura e crepa. Il Palazzo era vecchio, stregato e decadente, con una rete di edera che lo decorava e poi, quando sembrava che fosse destinato ad appassire nel silenzio, l’edera come un cappio si stringeva. Ma non era più di sottili steli, ma erano larghi tronchi, resistenti come il ferro, pesanti e forti e lo distruggeva. Spaccando ogni mattone, ogni pietra, ogni cosa, fino a rendere quello che era il più maestoso dei palazzi null’altra cosa se non polvere” sua cugina aveva fatto una pausa, “E polvere di gesso, come neve cadeva su ogni fiore, nessuno era rimasto in piedi, erano tutti spezzati e senza petali, ogni pianta era morta … anche l’edera stessa” c’era qualcosa di sacro nel modo in cui Shinora aveva pronunciato quelle parole.
Nervia aveva allungato una mano prendendo quelle di sua cugina in un gesto di affetto e conforto, “Non era un sogno da Vistalunga, mia adorata cugina, era una suggestione o una realtà che mai avverrà” aveva stabilito, rincuorata in parte, ma piena di tristezza.
“L’edera ha già provato ad arrampicarsi sulle mura della nostra sacra istituzione” aveva ricordato con voce spenta, pensando al dolore ed il sangue che era stato versato.
“Non tutta l’Edera è morta cugina” aveva ricordato Shinora.
“Ma solo spettri abitano ora il loro palazzo ed un tristo signore. Il che è una tragedia, ma ben peggiore poteva essere” l’aveva rincuorata.

Le loro chiacchiere erano state interrotte.

 

Sua … Mia signora” l’aveva chiamata una voce maschile, lei si era voltata riconoscendo La Coccatrice correre verso di lei, con l’espressione contrita sul viso giovanissimo, settanta sorelle a malapena, con un viso fresco, senza neanche un accenno di barba. Alto per la sua età, con l’incarnato bianco dei mezzi ghaadiani, i capelli castano-dorato e gli occhi furbi. Indossava degli abiti da contadino, una blusa larga di un grigio tortora, sopra delle pantacalze scure, infilate negli stivali di cuoio foderati di pelle di cervo, troppo caldi per il clima de L’Aranceto. Le sembrava sempre strano vedere La Coccatrice non indossare armamenti da battaglia, l’armatura pregna ormai di ammaccature da battaglia e consumata in ogni modo, sena neanche la cotta di ferro che indossava anche quando girava tra i civili. L’unica arma che indossava era un pugnale, legato ad un cinturone di pelle avvolto alla vita.
Non era venuto da solo, al suo fianco, de La Coccatrice, c’era Bieve la sua cameriera domestica, anche lei non era vestita come d’uopo, ma sembrava una contadinotta, con un abito marrone del colore del fango, dalle maniche strette fino ai gomiti, con indosso uno scamiciato grigio. “Mia signora” aveva ripetuto La Coccatrice, come se quell’appellativo gli bruciasse sulle labbra, chinando il capo, anche la schiena e se non era caduto su un ginocchio, era stato solo perché Nervia lo aveva interrotto prima.
“Non è necessario, mio cavaliere” aveva affermato Nervia nervosa, posando le mani sulle spalle ampie del giovane cavaliere.
Quello era arrossito di imbarazzo, sentendo le mani sulle spalle. Nervia aveva lasciato La Coccatrice, per rivolgere la sua attenzione all’altra donna lì presente. Bieve come tutte le donne sposate del Pregiatissimo Impero aveva raccolto i capelli scuri, anche se in una treccia disordinata, che perdeva riccioli da ogni scaglia. “Sono qui, i suoi ospiti, mia signora” aveva comunicato Bieve, che non si era concessa neanche una riverenza, ormai tanto abituata a lei. “Sono qui” aveva ripetuto Nervia, quasi tra sé-e-se, strappando un altro spicco di arancia che aveva inghiottito prontamente, prima di proseguire la strada inversa, che quella mattina l’aveva guidata lungo la passeggiata tra gli alberi.
“Mio cavaliere, non perdere la tua diligenza” aveva detto a La Coccatrice con calma, prima di voltarsi verso Bieve, “Di al tuo caro Addam di preparare quelle pernici che il nostro buon cavaliere ha preso per noi” aveva ordinato, ammiccando al marito di Bieve.
Si era voltata verso Shinora, “Ho ospiti che mi attendono, se tu desideri scortarmi cara cugina” aveva proposto, quella aveva scosso il capo, facendo oscillare i lunghi capelli sciolti da vergine, “No, mia cara Nervia, resterò qui a leggere un altro po’ di poesie

 

Il podere dove alloggiavano era in pietra di calce, mischiata a frammenti di ceramica, in principio era stato qualcosa del florido impero, un vecchio retaggio di un mondo dimenticato, forse i resti di un castro dell’esercito. Dove sorgeva l’Aranceto, in principio, vi era la Boghia, una terra composta da clan guerrieri, uguali per religione, aspetto e lingua, ma divisi per idee, per famiglie, per piccolezze. Erano stati avversari ostici per l’Impero, non il Pregiatissimo, ma il Florido, ma erano stati mangiati dal tempo e della polvere, perché non erano riusciti a superare le loro inimicizie e il Florido Impero gli aveva divorati.
Nell’Aranceto dei popoli Boghiani non era rimasto nulla, qualche occhio di un verde più intenso, qualche ciuffo di capelli più riccioluto, ma nulla neanche vecchi ruderi.
Tutte le vestige di un passato glorioso di quella regione, apparteneva all’avido e glorioso Florido Impero. La sua struttura però non conservava molto dei tempi leggendari, era stata fagocitata dai rinnovi, i restauri, le demolizioni, gli ampliamenti e quant’altro del Pregiatissimo Impero dei Fiori, l’unico degno erede del Florido.
E del castro florido, era rimasto nulla più che un podere, palazzo Salvia, per le gite fuori porta per lei e la sua famiglia, per allontanarsi dalla violenza caotica della città.

Non era un luogo adatto ad una signora della nobiltà, ma era un luogo carino ed ameno. Sua zia portava lei e sua sorella lì, assieme al figlioletto, e li lasciava correre felici da bambini, poi era diventato suo.
“Bella la passeggiata tra i boschi?” le era stato inquisito immediatamente da una voce.
Una giovane donna la guardava con un pungente cipiglio sul viso, “Adoro le arance di questo posto, Imeria cara” aveva risposto Nervia, “Mezza per te, ecco” le aveva detto, allungando metà degli spicchi che erano rimasti. Imeria era la sua dama di compagnia, da quando avevano venticinque sorelle l’una, era la figlia di un signore minore della Marca di Spessi Abeti. Il suo vecchio l’aveva spendita da Nervia per essere sua amica e compagna, perché frequentasse i suoi ambienti e trovasse un buon marito, cosa che Imeria si era sempre dichiarata lontana.
Il che divertiva molto Nervia, lo stesso margravio di Spessi Abeti se avesse potuto avrebbe sposato Imeria seduta istante.

“Grazie, Nervia, i tuoi ospiti sono in soggiorno, li ho lasciati nelle sapienti mani di Saranna” aveva spiegato immediatamente Imeria, staccando uno spicchio da succhiare con le labbra, un’espressione aspra le si era dipinta in viso – troppo amaro per il suo palato.
“Poveri i miei ospiti allora” aveva risposto spenta lei, pensando alla sua seconda dama di compagnia e la sua chiacchiera proverbiale, “Colpa tua” l’aveva rimbeccata Imeria, lasciando che una lacrima di succo d’arancio le scivolasse dalle labbra sottili, “Era Aloyssa che si occupava di queste facezie” l’aveva rimproverata.
Nervia aveva sospirato, stanca, “Anche a me manca tanto, Imeria” le aveva detto, “E se avessi potuto l’avrei tenuta con me sempre, ma Aloyssa si è sposata” le aveva ricordato.
Aloyssa era un’altra sua cugina, ma dispetto Shinora era più lontana nel sangue, erano i loro nonni ad aver condiviso lo stesso ventre, rispetto i loro padri.
Se Shinora aveva condiviso con lei la balia ed una culla, Aloyssa aveva diviso il pettine, il letto, le stanze, i vestiti ed anche i pettegolezzi.
Loro due, con Imeria con il suo cipiglio duro come una lastra di ghiaccio e Saranna con la sua voce allegra e tintinnante come una campanella.


Imeria aveva sbuffato, “Ed ora lei ha un piccolo rigettino splendente e gli ospiti devono essere intrattenuti da Saranna e le sue chiacchiere infinite” aveva ribadito la sua dama, “Io insito che il tuo fascino pragmatico potrebbe rivelare infinite soprese” le aveva risposto. Imeria aveva sorriso incerta. “Tua cugina come sta? Ieri notte è rimasta fuori a guardare la luna, lo sai?” aveva chiesto retorica Imeria.
“No, ha dormito, sotto le stelle. La rende felice, è così da quanto era piccolina. Mia sorella diceva che era più matta di un cavallo, ma per me è sempre stata solo stravagante” aveva liquidato la faccenda, decidendo di ignorare i sogni che sua cugina aveva fatto sotto la Luna.
Edera che cresceva fino a soffocare un palazzo intero, doveva solo sperare che fosse la suggestione della tragedia che si era consumata, ad aver guidato i pensieri di sua cugina e non un prossimo futuro.
“La nostra nuova amica, invece?” aveva chiesto Nervia, desiderosa di cambiare argomento. “Continua a stare come stava dopo la Piana di Malvasia. In vero credo stia come sta la Piana ora” aveva risposto Imeria senza nascondere cupezza. Lei aveva sentito il suo cuore sussultare a quel rude paragone.
Dolore e devastazione.
“Forse, dopo questa luce, starà meglio” aveva provato Nervia, incerta della sua stessa idea. Imeria l’aveva guardata insofferente, con gli occhi grigio-neri giudicanti, “Se così fosse e a Il Principio che dovremmo dire grazie” le aveva detto. Non c’era però speranza nel tono secco di Imeria, non credeva che nulla di ciò che sarebbe successo avrebbe cambiato nulla, forse era così. Ma Nervia aveva bisogno di sperare, anche se fosse stato nell’ Il Principio.
Nervia aveva stretto le labbra in una presa serrata, insoddisfatta e consapevole, “Allora così sarà” aveva affermato senza perdere colore e con quell’ultima frase si era congedata; aveva attraversato l’androne fino a passare le porta della stanza di rappresentanza.

Saranna dominava la scena, come non sarebbe stato diverso altrimenti, era una creatura quasi perfetta, alta e flessuosa, con i capelli biondo-argento, del suo sangue dei Sussurranti, oltre le montagne, nel nord più puro. Il viso era olivastro, come una fioriana fatta e finita, con occhi di miele lucidi, intrecciati in ciglia argentee. Quasi perfetta, però, con le orecchie leggermente pronunciate ed un’ossimetria nel viso che creava un segno di straniamento.
I due ospiti erano, però, completamente imbevuti delle parole di Saranna, della storia che stava montando per loro. Nervia si era fermata sullo stipite, con le braccia conserte, appoggiata allo stipite della porta, mentre sentiva la sua dama raccontare ogni sorta di storia.
Il raccontato di Saranna verteva su un certo uomo che giurava di avere un ansino parlante, si era arrestato a metà quando l’aveva scorta.
I due sconosciuti erano rimasti interdetti, particolarmente uno dei due che si era preoccupato, “Signorina?” aveva chiesto perplesso, una voce forte e maschile. Eppure, si erano presto accorti della traiettoria degli occhi di Saranna, “La padrona della tenuta è tornata” aveva comunicato Saranna, introducendola.
I due quando l’avevano vista si era tirati immediatamente su, incerti, guardandola con occhi pieni di indecisione. Probabilmente cercavano di comprendere quale signora della regione degli Aranci Sanguinelli li avesse convocati. Come dovevano comportarsi davanti a lei, che grado di rispetto le dovevano.
Nervia era chiaramente una nobildonna, non aveva la presunzione di poter sembrare una persona comune, anche vestita senza tutti gli orbelli da cortigiana, le stoffe che indossavano era ancora pregiate; inoltre, era una figlia benedetta.

I due ospiti aveva fatto una riverenza, confusi.
Erano maturi, ben oltre le duecento-sorelle, se non tutti e due, almeno uno. Erano un uomo ed una donna, con pelli olivigna, così scura, da sembrare quasi rame. Lui era ricurvo, come il cuneo di un ago, con rughe infelici a segnare la pelle e capelli grigio nero radi, che portava radi sulla testa, lei era più dritta ma non meno stanca e i suoi capelli erano una nuvola di bianca neve, stretta in una crocchia ordinata. Non erano vestiti come contadini, ma come mercanti, sebbene non avessero gioielli, la stoffa dei loro vestiti erano di velluto morbido.
Lui indossa una lunga toga verderame, che scivolava fino ai piedi, fermata solo poco sopra i fianchi da una cintura, lei era vestita di rosso-vinaccia, con un abito dalla gonna ampia stretto alla vita. Entrambi i vestiti erano decorati da due clavi d’oro che dall’orlo del colletto scendevano fino a quello del fondo. “Mia signora” aveva detto la donna più cortese, chinando il capo e compiendo una riverenza, imitata dall’uomo prontamente, sebbene senza esprimere parole.
“I signori Varghiani, immagino” aveva considerato Nervia, “Ginnea e Martes” aveva vagliato, erano una coppia di fratelli, anche se Nervia non l’avesse saputo, non avrebbe potuto fare altro che dedurlo, dalla stessa forma larga della bocca come quella di una rana e dall’attaccatura del naso stretta come un dito. Anche l’attaccatura dei capelli, leggermente alta, sfoggiando una fronte tonda, era simile.
“Sì, mia signora per servirla” aveva detto Martes con sicurezza.
Nervia aveva sorriso, “Ho necessità che realizziate una delle vostre opere d’arte, per me” aveva ammesso. L’espressione dei due ospiti si erano tinte di confusione, guardandola, ovviamente. Nervia non si faceva illusione, sapeva che aspetto avesse, sapeva che la sua perfezione era irradiata da ogni suo più piccola finezza – e sapeva di non poter apparire come null’altra cosa.
Tranne che per quel piccolo dettaglio, quando sorrideva.
La Bizzaria, come l’avevano sempre chiamata.
“Certo, non è per me, per me il lavoro, miei buoni signori, ma sarà mia premura la commissione” aveva dichiarato con più calma Nervia. “Signora Varghiani, avrei necessità che mi seguisse” aveva comandato poi, autoritaria ma non imperiosa, “Io e mio fratello lavoriamo insieme, mia nobile signora” aveva spiegato pazientemente la donna, toccando con mano la spalla del suo compagno. “Certo, dopo, vorrei però – per intimità – potesse visionare solo lei” aveva spiegato, il suo tono era candido e gentile, ma non c’era alcuna preghiera, ma un ordine. “Saranna può intrattenere suo fratello a dovere, conosce centinaia di storie assolutamente improbabili” aveva considerato, “O la mia cameriera potrà servirvi del sidro frizzante” aveva aggiunto, più accomodante.

Ginnea Varghiani l’aveva seguita lungo le scalinate per il piano superiore, Nervia le aveva offerto un gomito a cui appoggiarsi, ma la donna, aveva preferito di gran lungo il corrimano per tenere l’unica mano libera, mentre con l’altra sorreggeva una scatola di legno a più ripiani, trattandola come la Corona Aspra dell’imperatrice. “Sarebbe stato più favorevole il piano di calpestio, mi rendo conto, ma ho avuto difficoltà con la mia ospite” aveva ammesso calma e piena di vergogna, quando alla seconda rampa di scale, aveva intrapreso la stanza per un corridoio.
Il Palazzo Salvia, era un palazzo solo di nome, non era grande, ne maestoso, non aveva corridoi infiniti di porte e stanze ad oltranza, era piccolo e limitato, tranne le due ripide rampe di scala di pietra. Un tempo era esistita anche una torre quadratica, ma restava di quella struttura solo un’ulteriore rampa di scale vestigiale, che finiva contro un soffitto, con una botola che portava ad una stanza in cui era stato accumulato tutto e di più nel corso delle sorelle.
La porta che cercavano era una delle poche animata con della vita; guardata a vista da un giovane soldato, un uomo dell’ordine della Rosa Nera, non che fosse evidente, aveva tolto i gingilli che ne stabilivano il grado e non indossava l’alta uniforme o l’armatura, sfoggiando, invece, una cotta di maglia, i gambali e le loriche delle braccia ed una mano guantata all’elsa penzolante sul fianco. Nel vederlo così il giovane Raminio non sembrava un cavaliere degli ordini maggiori, sembrava più un Lupo d’Arme, scinto e disinteressato.
La sua famiglia non era stata entusiasta della scelta dei due cavalieri, entrambi giovani, entrambi inserpenti, nessuno di loro aveva servito sotto lo sguardo acuto dello Scintillante Generale.
Nervia gli aveva presi soprattutto per questo, non era stata altrettanto fortunata con gli altri.
“Riposo, buon Raminio” aveva detto pratica Nervia, mentre l’uomo si faceva da parte, permettendo alle due donne di aprire la porta ed entrare.
“Sono intrigata e confusa, mia signora” aveva considerato Ginnea, guardando la stanza con interesse.
Era piccola, forse un po’ fredda. La luce nella stanza era quasi del tutto assente, la finestra aveva gli scuri tirati che non permetteva a neanche un raggio di luce di passare e l’unica illuminazione era data dalla luce di una candela di un comò. Un pavimento in marmo lucido, recenti dell’ultimo restauro, coperti parzialmente da un morbido tappetto, che ottundeva il suo del tacchettio sulla pietra. Nella stanza figurava anche un armadio grande, di legno di abete chiaro, dalla doppia anta, accostato ad una parete, così grande da mangiarla tutta. Non lontano spiccava uno specchio di vetro soffiato, leggermente ricurvo e di una tonalità non cristallina, incassato in una forma di piombo lucido modella. Lo specchio era lì, per restituire l’immagine riflessa, ma la superficie era stata coperta da un mantello color crema.
 C’era anche un letto, sistemato sotto gli scuri ed una figura abbozzolata dentro.

Nervia si era avvinata, non facendo rumore, nonostante indossasse ancora gli stivali da esterno, senza preoccuparsi del terriccio che aveva lasciato in giro per il podere.
Si era seduta sul bordo del letto e con delicatezza aveva messo le mani sulla figura, per scuoterla questo “Fiorellino, ti prego, devi svegliarti” aveva sussurrato, ben sapendo di dover parlare con una creatura già sveglia – per quanto quella definizione fosse impropria.
La dolcezza del sonno sarebbe stato un piacere assai gradito per la persona, ma erano solo lunghe notti silenziose con la mente sfrigolante ed il sonno ben lontano.
Nervia aveva accarezzato con delicatezza la guancia della ragazza con la stessa dolcezza di una madre, lei che a malapena ricordava il tocco della sua.
Doveva essere stata una donna gentile però, suo padre lo diceva sempre ed anche sua sorella – e lei raramente aveva parole piene di miele per nessuno.
Nervia si era sempre sforzata di essere carina, aveva funzionato, forse in parte, sapeva che la gente si rivolgeva a lei come la ‘Buona Signora Nervia’ ma lei si sentiva tantissime cose e nessuna di queste prevedeva l’utilizzo dell’aggettivo buona.
“Tesoro, puoi svegliarti?” aveva chiesto alla giovane, cercando di essere meno delicata.
Le palpebre non avevano tremato, le ciglia si erano schiuse subito, sclere bianche, screziate dal pianto e da vene rosse ed iridi aronia nerissime. Poi anche il viso aveva ripreso vita.

Il candore di una pelle bianchissima, accompagnata con capelli biondo intenso come la polvere di zafferano, falciati corti fino alle clavicole, come era usanza di una vedova – anche se non lo era. La ragazzina era perfetta, con un naso leggermente piccolo, delicato e all’insù, con labbra piene di un naturale rosa scuro ed un mento appuntito, che coronava un viso a cuore, assolutamente perfetto, una bimba del destino, una benedetta, la sua naturale perfezione era però rovinata da una cicatrice che le deturpava le labbra, un taglio dritto come il primo incerto affondo di un coltello su un tocco di carne, prendeva un pezzo di pelle sotto le labbra e poco sopra il mento, entrambe le labbra e saliva fino a costeggiare la narice destra, più profondo e più frastagliato. Una mano umana che intaccava il dipinto perfetto del Dio-di-Ogni-Cosa-Buona.
Sessanta quattro Sorelle ed occhi neri già morti.

Gli occhi della ragazza, neri come fossi, guardavano Ginnea senza vederla.
Nervia le aveva presentate, omettendo quanti più dettagli non necessarie. “Ginnea è un’artista, lavora sui segni” avevano spiegato all’ultima delle sue dame da compagnia, “La ho vista modificare fiori senza essere seconda a nessuno. Certe bimbe sbagliate, rese magnifiche, accompagnate da colori più vividi e lucenti” aveva detto calma.
“Sono confusa mia signora, questa fanciulla mi sembra … già perfetta” aveva considerato Ginnea. Nel farlo si era toccata come un riflesso le labbra, dove la ragazza esibiva la mutilazione.
Nervia aveva annuito, “Non sbagli, ma gli uomini hanno tentato di intercedere per conto di Dio” aveva dichiarato, alzandosi dal letto e facendo muovere con lei la sua dama.
I movimenti della ragazza erano stati duri, poco armonici, come se al posto degli arti avesse legni attaccati al corpo, legni rimasti inerti, che avevano smesso da un po’ di usare le fluide movenze che un corpo umano doveva compiere.
“Tesoro” aveva chiesto con gentilezza, “Puoi … so che è difficile” aveva considerato Nervia.
Si era sentita una bestia per quella muta richiesta e pensava con orrore e disgusto di se, che altrove, nel vasto impero, qualcuno parlava di lei chiamandola con quell’orrido nome: La Buona Signora Nervia.
Gli occhi della ragazzina era ancora vacui, la sua espressione non aveva avuto neanche un tentennamento, meno era stato per la sua posa.
Si era come incupita su di se e le sue mani, tremolanti, si erano mosse guidate da braccia ancora più incerte.  Aveva raggiunto il retro del suo collo, dove l’orlo superiore del vestito, era segnato da un bottone, che aveva fatto scivolare fuori dall’asola.
Nervia l’aveva aiutata a togliere il vestito, ma aveva notato che le sue di articolazioni avevano cominciato a vacillare ma non era cambiato nulla. Nessuna espressione di apprensione e vergogna si era manifestata sul viso della sua dama, solo vuoto.
Sotto il vestito l’altra indossava una sottana lunga fino alle rotule, con spalline sottili come fili di cotone. Nervia aveva titubato, lasciando che fosse lei stessa a nudarsi dell’ultima barriera che aveva. La sua dama aveva per la prima volta dato cenni di vita, il tremolio delle mani si era acquietato e la sua posa si era fermata, come sabbia colpita da un fulmine, ferma in un vetro eterno, un respiro solo, una disperata ricerca di coraggio e poi aveva proceduto, sfilando le spalline sottili e facendo cadere la lunga sottana sul pavimento. Nervia aveva distolto gli occhi, on aveva guardato il corpo, non ne aveva bisogno, ma aveva visto l’espressione di orrore che si era dipinta in un momento sul viso di Ginnea, più di un momento, prima che la disegnatrice recuperasse una calma misurata.
“Capisco” aveva esalato, il suo tono voleva essere professionale e quieto, ma era stato impossibile non leggere la dolenza nella sua voce, la preoccupazione, e perché, no, anche l’orrore. “Il suo fiore è stato rovinato, quindi, sì, so che non può essere riprodotto perfettamente, ma pensavo che la mano che ha dipinto sugli orridi aster di Milaiah di Città Gerbera” aveva detto Nervia, riprendendo la parola, cercando di spezzare l’angustia aria che si era intessuta in quella stanza. Non esistevano termini gentili per descrivere quella situazione, per descrivere ciò che era stato fatto alla sua dama.

Ginnea aveva fissato gli occhi miele sul seno deturpato della sua dama e poi sul resto del suo corpo, con preoccupazione. Era sceso un silenzio spesso e colmo di disagio.
Poi Ginnea aveva parlato, “Posso … posso restaurare il suo fiore, per quanto una mano umana lo conceda. Quello, mia signora, era un fiore benedetto – dipinto direttamente dalla mano-di-Dio” aveva ammesso alla fine, calma, “Io sono brava, ma il mio talento rimane umano.”

“Sarà sufficiente” aveva considerato Nervia, chinandosi per raccogliere i vestimenti della sua dama – non era suo dovere farlo, avrebbe dovuto essere il contrario, ma come poteva Nervia chiedere a quella fanciulla di svolgere qui futili doveri quando era così spezzata. “Per il resto delle cicatrici, invece?” aveva domandato Ginnea preoccupata. Nervia aveva sentito il freddo sulle sue mani, sulla sua schiena, così come i movimenti per coprirsi della sua dama avevano subito una brusca interruzione, uno sfarfallio appena, come il battito di una farfalla era passato negli occhi scusi.
“So che alcune persone molto pie manifestano la loro adorazione riempiendosi di fiori” aveva considerato la Nervia “Personalmente trovo questo comportamento superbo”, con più ferro nella voce di quanto avesse deciso. “Solo il Dio-di-Ogni-Cosa ha il permesso di far fiorire corolle” aveva considerato Ginnea, ma il suo tono era neutro, probabilmente non concordava con il medesimo pensiero di Nervia, ma l’avrebbe assecondata, perché proveniva da giardini diversi, sarebbe stato scioccò contrariare una signora e sarebbe stato altrettanto sciocco per una signora crederci. Ginnea si guadagnava il pane ingannando l’operato di Dio. Servi de Il Principio, tanto quanto liberisti o Volontisti – però, Nervia, non aveva mai avuto problemi a riconoscere la sua ipocrisia.
“Se lei lo desidera, può far nascere fiori sul suo corpo” aveva mormorato Nervia, guardando la dama, le aveva fatto indossare nuovamente il suo abito domestico.
Non sapeva se doveva aspettarsi una risposta, una vera, “Vuoi?” aveva chiesto titubante.
La sua dama l’aveva guardata, poi aveva annuito appena, muovendo il mento appuntito; Nervia aveva risposto a quella volontà di vita, con una carezza sui capelli, gentile, anche se sapeva che nessuno dei suoi tocchi avrebbe portato alcun conforto, “Dopo che il lavoro della signora Varghiani, avrà conclusione, torneremo in città, a vestimenti di seta, vini annebbianti e lussi inauditi” aveva provato, senza impegno, sicura della vacuità delle sue parole.
“Perché non scendiamo a mangiare, ora?” aveva provato a chiedere, prendendo il gomito della più giovane delle sue dame, “Abbiamo degli ospiti, arance in quantità e La Coccatrice ha preso due pernici questa mattina” aveva aggiunto.
E solo il Dio-delle-cose-buone sapeva quanto l’altra avesse bisogno di nutrirsi con qualcosa di diverso di miele e pane bagnato.
La sua dama l’aveva guardata, poi aveva risposto – gracchiante, come se la sua gola fosse troppo stretta per la sua voce – atona: “Certo, sua altezza.


 



[1] Mi sono rifatta ad un epigramma di Marziale

   
 
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