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Autore: Eris_artem    02/03/2023    2 recensioni
John Watson è un veterano di guerra, ferito, depresso e squattrinato. L'ultima persona che vorrebbe incontrare è un alpha belloccio ma arrogante, eccentrico e vanitoso come Sherlock Holmes. Peccato che rischi di diventare il suo coinquilino... ma non è ancora detta l'ultima parola!
*ATTENZIONE: questa storia è un'omega!verse. alpha!Sherlock, omega!John*
Genere: Avventura, Noir, Omegaverse | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Primo

Un caso atteso

 

 

 

Un paio d’ore dopo l’incontro fortuito con Stamford, il dottor Watson si trovava − affamato e quantomai perplesso − nel disimpegno di un grazioso vecchio appartamento. 

La mano sinistra reggeva la stampella, la destra un ombrello bagnato. Non sapeva dove appoggiare il cappotto. La signora Qualcosa, la padrona di casa, non se ne curava, impegnata com’era ad intrattenerlo con chiacchiere che lui faticava a seguire:

«Vedrà, non tarderà. Non che sia sempre puntuale… Santo cielo, sapesse quanto ho dovuto aspettarlo quella volta a Orlando! Più di sette ore bloccata in quel tribunale americano, una vera indecenza. Deve credermi, caro dottore, quando le dico che non c’è da fidarsi degli americani. Quando penso ai tormenti che ho patito a causa della loro burocrazia! E dire che si trattava di una questione tanto semplice. Ora non vorrei annoiarla, caro, ma deve sapere che la loro idea di giustizia è così primitiva. Naturalmente, questo a volte è molto utile… oh! Credo che il caro Sherlock abbia finito! Avevo immaginato che quella povera signorina l’avrebbe annoiato in fretta. Sia così cortese da aspettarmi qui, dottore»

La vecchia chiacchierona si allontanò su per le scale, lasciando il dottor Watson nell’anticamera.

Egli non ebbe, comunque, troppo tempo per godersi solitudine e silenzio. Meno di un minuto dopo, infatti, ecco che la signora trottava giù dalle scale emettendo gridolini di protesta: «Buon Dio, mio caro! Le sembra questo il modo?»

Watson aprì la bocca per chiederle il motivo di tanta agitazione, ma lei lo precedette: «Non deve temere, dottore. Non fa proprio sempre così». 

Attese di essere arrivata all’ultimo gradino per accasciarsi lungo il muro. Aveva il respiro affannato e teneva una mano stretta al cuore.

L’istinto professionale di Watson, mai del tutto sopito, si risvegliò senza esitazioni. In un balzo, il dottore fu vicino alla vecchia donna.

«Signora… Signora» provò a chiamarla, mentre con la mano destra le sentiva il polso.

La fronte era velata di sudore ma la frequenza cardiaca era solo lievemente accelerata, cosa che tranquillizzò Watson.

«Sto bene, sto bene! Ho solo il cuore vecchio. Lei è tanto caro» sospirò la donna. «Ed è proprio un bel dottorino. Ah, se solo… sarebbe una fortuna per quel bisbetico…»

Lasciò cadere la frase. Altri passi affrettati attirarono l’attenzione di Watson, che si voltò verso la scala. Vide comparire prima un paio di scarpette da tennis femminili, poi due gambe snelle e ben tornite, e infine il busto di una ragazza. 

La signorina − un’alpha davvero graziosa − si affrettò verso la porta senza salutare nessuno. Sembrava avesse una gran fretta di levarsi di torno.

A metà del corridoio inciampò in un oggetto che giaceva lì abbandonato.

«La mia stampella» esclamò Watson. Doveva averla lasciata cadere senza farci caso, pochi minuti prima. Si precipitò a raccoglierla. «Mi scusi…»

La ragazza era già uscita. Come evaporata, dopo avergli rivolto mezzo sorriso. Un sorriso sghembo. Un bel sorriso…

Il dottore rimase un attimo imbambolato a fissare la porta. Fu riscosso dalla voce della padrona di casa:

«Su, venga caro» tubò, mentre spariva su per le scale per la seconda volta. «È meglio non farlo aspettare!»

 

 

L’appartamento si trovava al primo piano. La padrona di casa bussò e si fece da parte quasi subito.

Appena varcata la soglia, Watson comprese perché il suo aspirante coinquilino vivesse da solo. Il soggiorno era spazioso, c’erano una grossa finestra luminosa e un bel caminetto e, fatta eccezione per la carta da parati un po’ eccentrica, lo si sarebbe potuto definire delizioso. Tuttavia, vi regnavano un disordine così assoluto, un caos così esagerato che la stanza, da ampia che era, risultava claustrofobica.

Inoltre, ed era forse il dettaglio più sgradevole, tutto l’ambiente era impregnato da un forte odore. Un odore umano. Così intenso che Watson ne fu quasi disgustato.

«Chiedo scusa» esordì una voce profonda che proveniva dalla cucina. Watson si voltò nella sua direzione. Doveva trattarsi del signor Holmes, il potenziale coinquilino. Il quale sbucò fuori un istante più tardi, e si diresse subito verso la finestra del soggiorno. «Avrei dovuto arieggiare la stanza. Ecco,» proseguì, dopo aver spalancato la finestra, «così va meglio. Dottor Watson»

Il dottor Watson levò gli occhi sull’uomo che aveva di fronte. Un uomo alto, un po’ pallido, smilzo ma stranamente imponente. Un uomo decisamente alpha.

John Watson inspirò a pieni polmoni una ventata d’aria fresca. Buon Dio! Cosa diavolo c’era di sbagliato nel cervello di Mike Stamford?

Lo sconosciuto gli si rivolse con fare sbrigativo:

«La signora Hudson le avrà di certo accennato che il mio lavoro si svolge in questa casa. Data la natura estremamente riservata delle mie mansioni, e per rispetto dei miei clienti, sono costretto a tenere chiuse porte e finestre finché mi trattengo con loro. Perciò l’aria è sempre così densa di ferormoni» spiegò, parlando molto velocemente.

Watson si strinse istintivamente nelle spalle.

«Le dico tutto questo perché ritengo che due potenziali coinquilini debbano conoscere i difetti l’uno dell’altro. È d’accordo?»

«Cos… Cosa? Io−»

«Lei è stato mandato qui dal dottor Stamford, non è così? Non è il dottor John Watson, il suo compagno di studi?»

«Cos… Sì. Sì, sono io. Mike ha… le ha detto che eravamo all’università insieme? Voglio dire» tossicchiò John, lievemente spaesato «non le ha detto altro?»

Il signor Holmes lo guardò con perplessità. «Cos’altro avrebbe dovuto dirmi?»

«Oh. Non…» Watson tossicchiò di nuovo, molto imbarazzato. Poi, con tono più fermo, aggiunse: «A me non ne aveva parlato, ma pensavo che almeno a lei…».

Il signor Holmes non sembrava capire del tutto. «C’è qualcosa che il dottor Stamford avrebbe dovuto dirle? Oh, ma certo! È così ovvio!» esclamò d’un tratto.

«Beh, sì» ammise Watson, un po’ sollevato. Gli era sembrato strano che l’altro non affrontasse l’argomento.

«Certo, che stupido. Non deve preoccuparsi per l’affitto, dottor Watson. La signora Hudson mi fa un prezzo di favore. In effetti, mi deve un favore−»

«Io non parlavo dell’affitto», lo interruppe Watson. «Io mi riferivo al suo status». Attese invano che l’altro dicesse qualcosa. «Immagino si sia accorto che ha di fronte un omega, signor Holmes», aggiunse, piuttosto costernato.

«Mi sfugge la rilevanza di tale informazione».

Watson inspirò profondamente, grato che la finestra fosse aperta. «Le sfugge?»

«Sì» tagliò corto Holmes. Si era avvicinato alla finestra per chiuderla, ma si fermò, come se qualcosa gli avesse fatto cambiare idea. Cambiò direzione e raggiunse il caminetto. Sulla mensola − Watson lo notò solo in quel momento − era conficcato un coltello. Holmes lo estrasse dal legno e afferrò la busta che era stata fissata alla mensola in modo così poco ortodosso. La aprì e si mise a sfogliarne il contenuto, apparentemente dimentico del suo interlocutore.

Essere ignorato così platealmente era più di quanto il dottor Watson avesse voglia di tollerare.

Era ora di pranzo, voleva solo trovare un ristorante e ragionare sulle sue sventure davanti a un piatto caldo e a un bicchiere di vino che non poteva permettersi… invece di starsene in piedi come un imbecille nell’antro di quell’alpha scontroso, anzi, probabilmente affetto da un disturbo dell’umore.

«Signor Holmes», esordì, rigido «è stato un piacere. Mi rincresce che entrambi abbiamo perso tempo, è evidente che non ci sono i presupposti… Buona giornata.»

«Lei è un idiota.»

John Watson si bloccò a quattro passi dalla porta. «Come dice?», chiese, dopo aver inspirato profondamente. 

Holmes levò gli occhi dalle carte. «Intende rinunciare all’appartamento solo perché sono un alpha?» domandò. Non c’era traccia di delusione nella sua voce, solo un lieve scherno.

Watson si strinse nelle spalle.

«Può restare, se le piace Bach» disse Holmes. Stavolta Watson dovette assumere un’aria molto interrogativa perché quello si degnasse di spiegare: «È mia abitudine suonare il violino quando penso, e a volte non parlo per giorni. Questi mi sembrano difetti più rilevanti»

«Ma non sono difetti pericolosi» osservò Watson.

«Nemmeno il resto lo è», replicò Holmes serio. «Mi considero superiore a queste sciocchezze.»

«Gli ormoni per lei sono sciocchezze?»

«Gli ormoni possono essere tenuti a bada. Siamo entrambi uomini di scienza, mi risulta»

Watson fece un profondo sospiro. L’espressione compunta di quell’uomo gli faceva venire voglia di urlare. «Continuo a pensare che sia più complicato di quanto lei…»

«Al contrario, dottor Watson: la chimica è molto semplice. E non dipende dalle opinioni sue o di chiunque altro», tagliò corto Holmes. Poi la sua espressione si distese. «Quando ho letto il messaggio di Stamford col suo nome e l’ora proposta per il nostro appuntamento ho capito subito che lei non poteva essere un alpha. È un compagno di studi di Mike, quindi va per i trentacinque. Pochi alpha della sua età cercherebbero casa con qualcun altro per dividere le spese: statisticamente hanno un impiego ben retribuito, sono bancari o avvocati, i più avventurosi scelgono di fare i poliziotti, ma comunque vada di rado raggiungono e superano i trenta senza essersi trovati un compagno. Era quindi ovvio che lei fosse un beta o un omega. Il suo odore ha chiarito che è un omega non appena è entrato in questa stanza. Fin qui sarebbe stato semplice per chiunque» sciorinò Holmes tutto d’un fiato. Uno dei caratteri secondari degli alpha erano i polmoni capienti, a quanto pareva. Interessante.

«Il resto è quasi altrettanto ovvio. Lei è un medico, è evidente che sia appena tornato da una missione all’estero, la sua gamba mi dice che è stato ferito o che così ritiene, e la sua mano sinistra mi ha rivelato che ha un carattere orgoglioso».

Watson deglutì. «Orgoglioso».

«Sì. È evidente anche dalla postura. È ordinato e austero, un vero soldato. Ma è soprattutto orgoglioso. Ha faticato ad ammettere che il suo status è un problema−»

«Il mio status?» lo interruppe Watson. Ora era decisamente orgoglioso.

«Il mio, se preferisce. Ogni sua parola dimostra che ho ragione: è un uomo fiero. Se questo non bastasse, c’è il suo bastone».

«Il mio…?» 

«La sua stampella, sì, il suo bastone. Lo tiene con la mano sinistra, stretta come una morsa. Non lo usa per appoggiarsi, lei lo impugna. Eppure, non ha un temperamento aggressivo. Questo conferma il mio quadro: è un omega solo, reduce da un’esperienza traumatica, abituato all’azione, e decisamente orgoglioso.»

«E lei è capace di dedurre tutto questo da una stampella», ringhiò Watson. Si dispiacque lievemente del suo tono aggressivo, ma Holmes non parve notarlo.

«Probabilmente la sua esperienza nell’esercito l’ha resa sospettoso nei confronti degli alpha. Ne ha avuto abbastanza di prendere ordini da loro, dico bene? Perciò Stamford non le ha detto niente. Perché pensava che non si sarebbe mai presentato qui se l’avesse saputo»

Watson era senza parole. Una grossa fetta del suo cervello stava ancora cercando di mettere in ordine le idee, perché seguire il corso impetuoso dei ragionamenti di quell’uomo lo aveva prostrato.

«Non non niente in contrario a vivere con un omega orgoglioso», disse Holmes a bassa voce. Alzò gli occhi su di lui. Erano di un azzurro chiarissimo.

«No?», domandò Watson schiarendosi la gola.

Sherlock Holmes alzò le spalle. Richiuse la busta, che era ancora tra le sue mani, e la infilzò con noncuranza col coltello, inchiodandola di nuovo alla mensola da cui l’aveva presa.

«Come le ho già detto, non do molta importanza a queste cose. Non è il mio campo». Si lasciò cadere su un brutto divano che c’era sulla parete di fronte al camino.

Il dottor Watson aveva una terribile voglia di chiedergli quale fosse allora il suo campo, ma scacciò l’idea come si scaccia una mosca fastidiosa.

«Il punto è…» cominciò a dire. «Il punto… Se anche avesse ragione lei… beh, immagino che dovremo discutere altri dettagli», tagliò corto. «Al momento sono disoccupato».

Holmes aveva di nuovo smesso di ascoltarlo. Ora era sdraiato, a occhi chiusi, sul divano. Sembrava molto concentrato.

Watson era colpito dal cambiamento repentino avvenuto nel suo interlocutore. L’uomo energico e teatrale che l’aveva tenuto col fiato sospeso col suo monologo aveva lasciato il posto ad un corpo molle, apparentemente assorto. 

«SIGNORA HUDSON!» urlò Holmes senza preavviso, dopo qualche minuto. «SIGNORA HUDSON VENGA SUBITO!»

La vecchia padrona di casa si precipitò nella stanza. Il dottor Watson notò che ansimava leggermente a causa della corsa su per le scale, e che teneva una mano sull’anca destra.

«Cielo, che succede?»

«Sarebbe così gentile da portare del tè? C’è dell’acqua già calda in cucina» le chiese Holmes. Non si era mosso di un millimetro. «Se il dottor Watson è d’accordo, può portare anche le scartoffie».

Le mascelle di Watson si contrassero. Quell’uomo era un arrogante, supponente, insopportabile…

«Oh! Caro! Cari!» La signora Hudson proruppe in un sospiro di sollievo così enfatico che il dottor Watson non riuscì a continuare l’elenco di insulti che aveva in mente. «Sono così felice per lei, Sherlock! Anche per lei, beninteso. Anche se forse per lei sarà più difficile, caro» aggiunse, rivolta a Watson.

«Difficile cosa?» protestò lui.

Ma la signora Hudson era già corsa in cucina. «Il contratto lo ha lei in camera sua, sciocchino» disse al signor Holmes. 

L’idea che qualcuno potesse chiamare il signor Holmes ‘sciocchino’ avrebbe divertito molto Watson, se non fosse stato così frastornato.

«Non mi lascia mai toccare le sue cose. È così geloso… Lei è un uomo fortunato, dottore!» continuò la signora Hudson. 

Watson si voltò verso il suo nuovo coinquilino per protestare, ma quello era già sparito su per le scale a cercare il contratto.

«Noi non siamo quel genere di coinquilini», scandì Watson.

«Oh, ma certo! Non è il caso di affrettarsi, dico bene? Da una donna della mia età ci si aspetterebbe una maggiore rigidità, suppongo… ma io sono molto aperta» continuò la signora Hudson. Non c’era modo di fermarla. «Penso che sia meglio conoscersi un po’ prima di legarsi. Anche se devo confessarle che proprio non capisco questa mania moderna di rimandare, rimandare, rimandare! Si rischia di non averne più voglia, dopo. Lei non crede?»

No, non credo fu la risposta che affiorò alle labbra di Watson, il quale però non riuscì a fare altro che fissarla basito e ripetere: «Non conviviamo in quel senso, signora…»

«Oh. Beh, c’è un’altra camera da letto al piano di sopra, se ve ne occorrono due»

«Certo che ne occorrono due!» esclamò Watson, paonazzo.

 

Di lì a poco fu servito il tè. Il signor Holmes li aveva raggiunti con il plico di fogli del contratto e con la chiave della camera destinata al dottor Watson. La padrona di casa non lesinò gli sguardi ironici, ma Holmes sembrava refrattario a quel genere di provocazione. O forse, pensò Watson con un pizzico di irritazione, non si accorgeva nemmeno delle provocazioni.

Gli ultimi dettagli furono discussi in meno di mezz’ora, compresa una clausola che prevedeva che uno dei coinquilini, a turno, abbandonasse l’appartamento per qualche giorno in caso di necessità − e qui Watson, nonostante una parte di lui ridesse di cuore per l’eufemismo, non poté fare a meno di ammirare la lungimiranza (e in fondo anche la delicatezza) del suo nuovo coinquilino. 

Prima che la firma di entrambi fosse posta in calce al documento, il dottore iniziò ad avvertire i morsi della fame.

Suonò il campanello.

«Avete sentito?» balzò su Holmes. «Pressione decisa. Durata: meno di un secondo. Un cliente!»

Con un balzo fu alla porta, e un attimo dopo il rumore dei suoi passi segnalò che era in fondo alle scale.

«Quel giovanotto è sempre così agitato», sospirò la signora Hudson, prima di lanciare a Watson un’occhiata che gli fece andare di traverso il tè. Tossicchiò e si accorse, con fastidio, di essere arrossito.

«Credo che andrò a riempire lo stomaco», disse a mo’ di congedo. «Il signor Holmes non avrà nulla in contrario a concludere il nostro accordo dopo pranzo».

«Come vuole, caro. Proprio tale e quale mio marito, oh, farà una brutta fine quel giovanotto!»

Il dottor Watson capì che non stava più parlando con lui.

 

 

 

John Watson si era appena seduto al tavolino di un café davanti a una patata ripiena bella fumante, quando il suo cellulare vibrò.

 

Venga subito a Baker Street. Deve aiutarmi.

SH

 

Buon Dio. Si erano salutati da meno di un’ora e quello strano alpha allampanato lo stava già assillando? Non era di buon auspicio.

E se fosse un’emergenza?, chiese una vocina che abitava da qualche parte, nella sua coscienza.

Watson tentò di ignorarla, maledicendo il lobo del suo cervello preposto alle cure parentali. Lui non era una maledetta balia, e in ogni caso quell’uomo era un adulto. Poteva cavarsela da solo.

 

Ho bisogno di lei ORA.

SH

 

Lasciare dieci sterline sotto il piatto e lanciarsi alla ricerca di un taxi furono tutt’uno. Sherlock Holmes non gli aveva spiegato di che diavolo si occupasse nella vita − e lui non era certo capace di dedurlo dalla forma delle sue unghie − ma una cosa l’aveva detta: aveva clienti esigenti che gli sottoponevano questioni delicate. Quindi un lavoro pericoloso. Ti-pi-co.

In taxi digitò freneticamente un paio di messaggi (‘Non si preoccupi, sto arrivando’ e ‘C’è traffico, MA STO ARRIVANDO’) e quando finalmente la macchina si fermò davanti al numero 221b di Baker Street lui saltò giù e si precipitò dritto in casa.

Arrivò in cima alla rampa di scale senza neanche aver preso fiato e irruppe nell’appartamento.

La scena che gli si presentò davanti lo lasciò di sasso.

Sherlock Holmes era seduto comodamente in poltrona. Di fronte a lui, rigido sul divano, c’era un uomo di circa sessant’anni. Il suo abbigliamento elegante e la sua aria distinta contrastavano in modo quasi comico con l’ambiente.

Lo sconosciuto si alzò prontamente appena vide il dottor Watson entrare, e si fece avanti per stringergli la mano.

«Il mio nome è George Frenkel, signor…?»

Alpha.

«John Watson» mormorò Watson. Il suo sguardo si spostò automaticamente su Holmes, che lo osservava tranquillo dalla sua postazione. 

«Io sono… arrivato il prima possibile» disse, guardandolo dritto in faccia.

«Ci ha messo un po’» lo rimbeccò Holmes.

«Stavo pranzando»

«Interessante», disse Holmes roteando gli occhi. Occhi che tornarono subito sul cliente. «Vuole essere così cortese da riprendere da dove siamo stati interrotti?»

Okay, decise Watson, questo era troppo. 

«Posso sapere perché sono qui?» domandò. Sperava che il suo tono di voce suonasse abbastanza secco.

Non ricevette risposta da Holmes. Uno sguardo incerto gli fu rivolto invece dal cliente di Holmes, che sembrava estremamente nervoso.

John si schiarì la gola, di nuovo. A questo punto, Holmes si girò verso di lui e lo guardò come se avesse già dimenticato che si trovava lì.

«Non si preoccupi», disse, soave. «Mi serviva per confermare una teoria, ma temo che sia tardi. Non era niente di fondamentale, comunque. Visto che è qui, però, potrebbe essere così gentile da offrire un caffè al nostro cliente?»

John spalancò la bocca. Era completamente pazzo? O lo stava prendendo in giro? Un momento. Lo stava per caso trattando da omega?

Registrò l’informazione senza particolari emozioni. In occasioni come quella capitava spesso che la rabbia impiegasse un paio di secondi prima di esplodere nel suo cervello.

L’esplosione che avvenne esattamente due secondi dopo fu di un altro tipo, però. Più precisamente fu un clacson, piuttosto inferocito, proprio sotto la finestra dell’appartamento.

I tre uomini si voltarono tutti, ma fu Watson a esclamare: «Merda! Il taxi!»

«Ci penso io. Lei stia qui», ordinò Holmes, e scomparve giù per le scale.

Quando fu lontano − e il suo odore con lui −, John si sorprese a tirare il fiato. 

Il suo sguardo si incrociò con quello del cliente di Holmes, che sorrise con un certo imbarazzo. Ora che aveva l’occasione di osservarlo meglio, notò che aveva un aspetto estremamente curato: barba appena fatta, un completo da almeno milleduecento sterline e un anello d’oro al dito. Sposato. Peccato.

«Va tutto bene?» domandò l’uomo con fare gentile, interrompendo le fantasticherie di John.

«Oh, sì. Io stavo solo… beh, guardavo il suo anello»

L’uomo sorrise. «Ventisei anni».

John deglutì un po’ di saliva. Si perse per un attimo ad ammirare lo sguardo trasognato del suo interlocutore. «Non lo rimpiange mai?» gli sfuggì detto, prima che potesse mordersi la lingua.

«Il Legame?» domandò l’altro. «Mai».

«Legame. Un omega, dunque» fece John. «Una donna?»

«Una signora, sì» rispose l’altro. Sorrideva ancora, debolmente. «La più bella che si sia mai vista».

«Figli?» John non sapeva cosa gli prendesse. Non gli interessava davvero la vita di quell’uomo, e non era nemmeno sicuro che fosse gentile mostrarsi tanto insistenti…

«Uno. Un omega anche lui» rispose l’alpha in un soffio. «Non ha preso altro dalla madre, purtroppo», aggiunse. La sua voce si era incrinata, e John ne fu stranamente colpito. Il silenzio che seguì si fece ben presto greve.

«Vita burrascosa?», buttò lì John.

«Per così dire. A volte capita, eh?»

«Già». A volte capitava. Sentiva uno strano impulso di chiedergli di più, ma temeva di offendere quell’uomo gentile. Alla fine glielo chiese comunque.

«E, ehm, che cosa faceva suo figlio?»

«Oh, lui era−»

«Un delinquente!» La voce di Holmes colse Watson e Lord Frenkel di sorpresa. «Quel tassista.  Un vero criminale. Dovrebbe sceglierli con più attenzione, dottore, è sufficiente dare un’occhiata al cruscotto dell’auto: non ha notato che mancava il tariffario? Allora, Lord Frenkel, torniamo a noi. Si starà chiedendo la ragione di questo siparietto.»

«Lord?» non poté fare a meno di domandare Watson.

«Lo si potrebbe dedurre facilmente dal modo in cui tiene gli occhiali sul naso. In questo caso, però, la scienza non c’entra: io leggo i giornali, dottor Watson»

John avrebbe voluto protestare. Anche lui leggeva il Times, quasi tutti i giorni, ma questo non c’entrava niente con…

«L’espressione che il mio futuro coinquilino, il dottor Watson, aveva poco fa, quando sono rientrato dopo avervi lasciati qualche minuto da soli, ha confermato quanto già sospettavo dal momento in cui è entrato nel nostro soggiorno. Lei ha ricevuto minacce di morte»

Watson stavolta era davvero sbalordito. Non aveva mai parlato di minacce, come diavolo…?

«Se lo sta inventando», sbottò.

Holmes lo guardò con gravità. «Niente affatto» rispose, calmo. «Insinuazione offensiva, peraltro».

Il cliente si schiarì la gola. «La prego signor Holmes, come…?»

«Come ho fatto a capirlo?» Holmes concluse la frase per lui. Era una cosa che faceva spesso, notò John. Come se gli altri parlassero troppo lentamente per il ritmo convulso delle sue sinapsi. «Chiunque fosse in possesso dei dati che avevo io a disposizione e non fosse sprovvisto delle basilari nozioni di logica avrebbe potuto farlo. Sfortunatamente, la maggior parte delle persone non ambisce ad essere niente più che un pesce rosso».

Le facce perplesse − e, almeno nel caso di John, offese − dei suoi interlocutori dovettero convincere Holmes a dare spiegazioni più dettagliate.

«Oh, ma è così ovvio. Lord Frenkel, lei è un alpha legato, benestante e beneducato. Di idee politiche liberali e, come ci informa l’espressione del dottor Watson, un progressista»

«Progressista?», chiese John.

«Sì, progressista. L’avevo già intuito, naturalmente, ma la conferma l’ho avuta quando sono rientrato nella stanza… Deve sapere che il mio coinquilino è piuttosto orgoglioso» disse, e rivolse a John uno sguardo complice che gli fece accartocciare le viscere.

«Era ovvio che in mia assenza avreste avuto una breve conversazione, e dall’espressione rilassata del dottor Watson ho potuto dedurre che lei gli ha fatto una buona impressione. Alpha  gentile e progressista» concluse Holmes.

«Quindi non voleva davvero un caffè?» domandò John, molto lentamente.

«Certo che voglio un caffè. Anzi, dovrebbe essere qui a momenti…»

Proprio in quel momento bussarono alla porta. Era un fattorino, probabilmente del café sotto casa, venuto a consegnare due bicchieri di caffè americano e quello che sembrava un panino avvolto in un foglio di alluminio.

«Mi sono preso la libertà di ordinare un sandwich per lei, dottore.»

Watson si accomodò sulla poltrona che dava le spalle alla cucina e, mentre Holmes e il suo cliente prendevano il caffè, affondò i denti nel panino. Mentre masticava, si ricordò una cosa. Deglutì e chiese a Holmes: «Che mi dice delle minacce? Non abbiamo parlato di minacce.»

Il suo coinquilino gli rivolse un sorrisetto sardonico. «Quale altro motivo potrebbe avere l’uomo che abbiamo descritto per rivolgersi a un consulente investigativo?» domandò, retorico. 

Consulente investigativo, registrò John. Quindi era questo che faceva. Beh, aveva dannatamente senso. Qualunque cosa fosse.

«Deve sapere, Lord Frenkel, che la stavo aspettando. Questo è quel che si dice un caso atteso» continuò Holmes. «Naturalmente non potevo essere sicuro che sarebbe stato proprio lei. Ma speravo che la prossima vittima sarebbe venuta da me, prima che fosse tardi. È stato più saggio degli altri due» 

«Gli altri due?», domandò John, disorientato.

«Due alpha inglesi, appartenenti a famiglie benestanti e probabilmente di idee progressiste, sono stati trovati uccisi e orrendamente mutilati, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Lord Frenkel, lei non ha molto in comune con quei due sventurati signori… ma Dio non crede nelle coincidenze.»

Per tutta risposta, Lord Frenkel estrasse da una tasca della giacca una scatolina nera. Era di legno laccato, e aveva un aspetto costoso e non comune. La passò a Holmes, che la rigirò qualche secondo tra le mani prima di aprirla. Un sorriso gli illuminò la faccia quando vide cosa conteneva. 

La richiuse subito dopo, senza che Watson avesse modo di sbirciare, e la restituì al legittimo proprietario.

«Quando?» domandò.

«Ieri mattina» rispose Lord Frenkel. «È stata recapitata via posta prioritaria alle otto precise, mentre facevamo colazione. Potrà immaginare la perplessità di mia moglie…».

Il sorriso di Holmes non vacillò. «Diciamo che posso. E dica, l’ha aperta davanti alla signora?»

«Naturalmente» rispose il cliente. «Non c’è corrispondenza che io debba tenerle nascosta. Siamo sposati da tanti anni».

«D’accordo, e che reazione ha avuto?»

«Mia moglie?»

«Certo, chi altri?», domandò Holmes, leggermente spazientito.

«Oh. Non saprei, in un primo momento non vi ho badato… Naturalmente, si è spaventata quando ha visto che io mi ero spaventato»

«Naturalmente», ripeté Holmes. «Ma prima

«Non glielo so dire, signor Holmes»

«Questo è un male. Una reazione di autentica sorpresa nella sua signora sarebbe stata illuminante. Ma ci faremo bastare quel che abbiamo» disse. 

Si alzò dal divano e iniziò a passeggiare su e giù per la stanza. Gli occhi di Watson lo seguivano, mentre lui continuava a masticare il suo sandwich. 

«Quello che le è stato recapitato è un acino d’uva estremamente interessante» spiegò Holmes. «Uva Norton. Si coltiva in Nord America, ed è apprezzata dagli estimatori per il suo elevato contenuto di antocianine−»

«Un pigmento naturale», intervenne John, in risposta allo sguardo interrogativo del cliente.

Holmes si voltò verso di lui. La sua occhiata penetrante poteva essere di rimprovero. L’esperienza aveva insegnato a Watson che non era mai una buona idea interrompere un alpha − anche se questo era un alpha decisamente fuori dagli schemi…

«Ottima chiosa, dottore» disse Holmes con un sorrisetto. «Tendo a dimenticare quanto sia vasta l’ignoranza scientifica in questo paese. L’elevato contenuto di pigmenti blu fa si che questa varietà di uva abbia una polpa eccezionalmente scura. Se avesse avuto l’intuizione di mordere quel chicco d’uva, Lord Frenkel, sarebbe rimasto sorpreso nel constatare che l’interno è nero quanto la buccia»

Lord Frenkel si irrigidì. Probabilmente era offeso. «Ho pensato che potesse essere avvelenato.»

«Sciocchezze», lo rimbeccò Holmes. «È solo un ottimo chicco d’uva. Ma sono contento che non si sia mangiato l’indizio»

John represse una risatina.

«Purtroppo il suo caso non ci permette di scherzare, Lord Frenkel. Sarò diretto: lei corre un grave pericolo. Come ha già intuito da sé, quello che le è stato recapitato è un messaggio di morte».  Holmes tornò a sedersi sul divano. Ora aveva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani giunte gli sfioravano il mento. In quella posizione, con gli occhi quasi chiusi, dava l’impressione di essere molto concentrato.

«… Louisiana, è più probabile» mormorò Holmes tra sé e sé.

«Come, prego?»

«Sto pensando», lo zittì Holmes. «… se non dal Maryland, ma sarebbe curioso. Davvero curioso…»

Passarono alcuni minuti senza che aggiungesse altro. John, che aveva finito il suo sandwich, non sapeva bene dove guardare. Anche il cliente era basito. Aveva tutta l’aria di chiedersi se non si fosse rivolto a un pazzo.

Alla fine, Holmes parlò. «Non c’è altro modo. Lord Frenkel. Deve tornare a casa oggi stesso»

«Ma io vivo fuori città» protestò l’uomo, colto alla sprovvista.

«Questo lo sapevo già, ho notato il fango sulle sue scarpe. No, no, non intendevo dire che ha le scarpe sporche. Ci sono delle tracce di argilla sotto la suola, e dal colore ho dedotto che lei vive nel Kent. Maidstone, dico bene?»

Il suo cliente non si disturbò a confermare. Si limitò a rivelare che la sua bocca, quando era  molto aperta, conferiva al volto un’aria ottusa.

«Mi creda, Lord Frenkel, deve tornare oggi stesso. Lasci l’hotel e torni a casa. È possibile che la sua famiglia sia in pericolo», disse Holmes, gravemente.

«In pericolo!» gridò Lord Frenkel. «Ma la scatola è indirizzata a me! C’era il mio nome sul pacco che è stato recapitato!»

«Sì», disse Holmes, «e a proposito, vorrei vedere quel pacco. Ci sono buone possibilità che il timbro postale mi torni utile. Me lo faccia recapitare appena sarà arrivato sano e salvo nel Kent»

«Io non capisco… signor Holmes!» protestò Lord Frenkel. Si era alzato in piedi e si torceva nervosamente le mani. Era chiaro che la prospettiva di mettere in pericolo la moglie lo atterriva, ma l’idea di tornare a casa non aveva alcun senso ai suoi occhi − e nemmeno a quelli di John, a dirla tutta.

«Torni a casa! Se quello che vogliono è colpirla, prenderanno sua moglie», disse Holmes velocemente. Si era alzato anche lui, e si dirigeva verso l’appendiabiti. «Io vedrò di farle avere una scorta. Meglio non contattare la polizia. Certe faccende si risolvono meglio in privato. Arrivederci, Lord Frenkel. Mi aspetto di ricevere sue notizie al più presto». 

Aveva indossato un lungo cappotto scuro, la sciarpa e dei guanti di pelle. Attese che il suo cliente lo precedesse fuori dalla porta dell’appartamento, per poi scomparire dietro di lui chiudendosi la porta alle spalle.

John Watson rimase solo nella stanza.

Gettò un’occhiata al tavolino, su cui si trovava il contratto ancora da firmare. Prese una lunga boccata d’aria ed estrasse la sua vecchia stilografica dal taschino della giacca.

Un attimo prima che firmasse, qualcosa lo bloccò: il rumore della porta che si spalancava.

Era Holmes, e stava sogghignando.

«Che fa, dottore? Non viene?»
 


 

Nota dell'autrice

Capitolo decisamente lungo, vi chiedo di perdonarmi. Giuro che mi impegnerò affinché i prossimi siano più sintetici.
Spero che da questo primo capitolo si capisca che per me il caso è centrale... la trama non sarà un mero riempitivo tra le scene di sesso (che oltretutto saranno poche o inesistenti), ma il vero fulcro dell'azione. Mi rendo conto che questo la rende una omegaverse un po' atipica, ma spero vi piaccia lo stesso.
Aggiungo solo un'ultima cosa: il linguaggio, e in parte anche la trama, sono ispirati ai racconti di Conan Doyle (anche se la storia è una fanfiction di Sherlock della BBC); i personaggi li immagino esattamente come quelli che abbiamo imparato a conoscere e amare nella serie, ma mi sono divertita a scrivere imitando in parte il modo di scrivere del brillante autore dell'opera originale. Spero che il risultato non sia troppo deludente :)
Se vi è piaciuta fin qui spero che continuerete, e dunque non mi resta che augurarvi 
buona lettura!

PS: chi coglie la citazione, neanche troppo nascosta, a un'altra delle mie serie tv preferite?

   
 
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