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Autore: Francine    07/03/2023    4 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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4.


 

Il santoku scintillava sinistro nella penombra della cucina. La lama di ceramica – tanto bianca quanto affilatissima – batteva sul tagliere di legno d’olivo con ritmo costante, tranciando cipolle, sedani, carote, porri debitamente pelati e sciacquati, che sopportavano stoicamente la loro fine. Nulla di personale, si leggeva in quel movimento elegante ed efficiente, faccio solo il mio lavoro. E, osservandolo quasi rapito, Rodrigo si chiedeva se – quando – sarebbe stato il turno del suo collo di posarsi sul tagliere e attendere la versione della ghigliottina svedese. Perché, anche ammettendo che Yngve gli avrebbe permesso di uscire dal Gökotta sulle proprie gambe – Marco gli avrebbe evitato di passare i prossimi vent’anni nelle prigioni francesi per omicidio; non per empatia nei suoi confronti, ma per non perdersi gli anni migliori di Yngve –, metaforicamente Yngve lo stava affettando e decapitando per interposta persona. O interposta verdura.

Perché darsi pena di nasconderlo?
«Ma si fa così? Passi in città e non vieni a salutarci?!» Uno sbuffo a spostare una ciocca dispettosa da davanti agli occhi, e Yngve riprese la sua giaculatoria. «Avrei capito se l’avesse fatto lui», sibilò, indicando con un cenno del mento Marco,seduto su uno sgabello e intento a leggere la Gazzetta felice e contento, come se quella sfuriata non lo riguardasse. 

«Anzi, ti dirò. Da uno come lui me lo sarei anche aspettato», continuò, riprendendo a sfogarsi su una povera carota. «Sarebbe stato strano il contrario! Ma da uno come te...»

«Eddai, te l’ho detto...»

«E io ti ho detto che non ci credo!» Yngve posò il coltello sul piano di lavoro in marmo e lo fissò dritto nelle palle degli occhi. «Lo abbiamo detto a tutti. Tutti. Persino a Mu.»

«E Mu non mi ha detto niente», sbottò Rodrigo. «Leggi il labiale. Ni. En. Te.»

 

Era una mezza bugia, ché, per parte sua, Rodrigo non rammentava alcun accenno, da parte di Mu, all’apertura dei due locali; ma non si sarebbe arrischiato a metterci la mano sul fuoco. Quando voleva, sapeva immergersi così a fondo nel proprio dolore, da chiudere il mondo fuori. A tripla mandata. Come se non esistesse più nulla e nessuno.

Yngve non avrebbe osato chiamare Mu per avere la sua versione, perché Yngve, che era forse l’ultimo uomo di mondo a piede libero per la Terra, sapeva destreggiarsi benissimo nella difficile arte del savoir faire et savoir vivre. Non si sarebbe abbassato a tanto. Una bugia presuppone sempre una motivazione alle spalle. Quale che sia. Dunque, il suo cervellino si sarebbe speso per capire quale fosse, questa benedetta motivazione, e non avrebbe trovato pace fino a quando non fosse venuto a capo della faccenda. Uno squalo travestito da pesce rosso, ecco cos’era Yngve. E guai all'incauto che fosse finito tra le sue fauci a verdetto emesso.

 

«Sarà», disse – concesse – Yngve, riprendendo a massacrare la povera carota. «Però avresti anche potuto farti vivo. Dirci che stavi bene.»

Un colpo di tosse, il frusciare delle pagine della Gazzetta, e la pietra focaia dell’accendino che scattava nel silenzio.

Può bastare, stava dicendo Marco, con il suo modo pacato ma fermo di riprendere il compagno: erano piccoli gesti e attenzioni e sguardi che ad un estraneo non sarebbero sembrati che questo – piccoli gesti e attenzioni e sguardi, appunto – ma che racchiudevano al loro interno un mondo intero. Anche lui e Aiolia avevano il loro modo di comunicare. Un cenno particolare. Uno sguardo. Un’alzata di spalle. Era stato lui a proporglielo. E forse, adesso, usava quegli stessi gesti con Quella Là.

«Se continui così, lo farai scappare a gambe levate», disse, aprendo la porta che dava sul cortile interno e posizionando lo sgabello sulla soglia. «Adesso è qui, no?»

«Sì, ma...»

«Sì, ma, sì ma...» Prima boccata. «Che grandissima camurria

«Camurria un corno!»

Marco indicò il compagno con un gesto netto, la cenere rossa rivolta al viso da bambola di Yngve.

«Se vuoi che scappi a gambe levate, sei sulla strada giusta», e Marco prese una seconda boccata. Grazie, fu il pensiero che Rodrigo gli rivolse in cuor suo. «Ma adesso, cocco, prendi uno sgabello, ti siedi qui, accanto a zio, e ci racconti cosa hai fatto in tutto questo tempo...»

 

Eccola, la trappola. Impiattata con grazia e condita da un sorriso come una tagliola – una tagliola che si chiude sulla caviglia della povera vittima senza troppi riguardi. Niente di personale, amico… –, come da copione. Yngve è il poliziotto buono, ricordi?, gli suggerì, troppo tardi, la sua coscienza. Sì, Yngve era quello che pestava i piedi e pretendeva soddisfazione, e la pretendeva subito, ma Marco, no; Marco era il ragno che aspetta, paziente, che l’incauta farfalla cada nella sua tela d’argento. Perché affannarsi, quando la preda può fare tutto da sé?

Grazie un cazzo, pensò Rodrigo, osservando Marco aspettare che lui si degnasse di fare quanto richiestogli. 

Possiamo stare qui fino alla fine del mondo, diceva la postura di Marco, e probabilmente si era procurato le sigarette necessarie e sufficienti allo scopo. Così Rodrigo capitolò. Raccattò uno sgabello, lo aprì e vi si lasciò cadere accanto a lui in quello scorcio di luce pomeridiana.

 

«Vi siete sistemati bene», disse Rodrigo, prendendola alla lontana.

Marco nicchiò. «Sì, non ci possiamo lamentare», concesse, scrollando la cenere all’esterno, ed ignorando le occhiate assassine di Yngve. 

«Se passa...»

«Non passa nessuno», replicò Marco. «Sono all’aperto, in zona fumatori.»

«Se quella puzza entra qua dentro...»

«Non ci entra, non ci entra...», lo rabbonì Marco, spostando la sigaretta a distanza di sicurezza. «Lo conosci, no? Quando si ficca in testa una cosa...»

«Guarda che sono qui.»

«Davvero? Non l’avevo notato!»

E Rodrigo si ritrovò a sorridere. Una curva appena accennata delle labbra, ma sufficiente a distendergli l’anima. Tutto come ai vecchi tempi, pensò.

«Stavi dicendo?»

E anche Marco non era cambiato. Il suo viso atarassico diceva una cosa sola: vuota il sacco, e la facciamo finita qui.

Così Rodrigo capitolò.

«Dammene una», chiese allungando la mano verso Marco. Il quale fu lesto a fornirgli sigaretta e accendino. «Tranquillo», disse a Yngve. 

«Tranquillo ha fatto una brutta fine...», commentò, riprendendo a calare il santoku sul tagliere. E forse per la serenità del momento, forse perché le sigarette avevano sempre avuto un effetto rilassante su di lui, Rodrigo raccontò tutto. L’intera storia. Daccapo. Come se fosse successo il giorno prima e loro la ascoltassero per la prima volta. E, in effetti, era così. Erano stati informati da qualcun altro. Non da lui. E c’è una bella differenza tra l’apprendere le cose per vie traverse e il sentire tutta la storia per bocca del diretto interessato.


Così Rodrigo parlò, raccontò, si sfogò.

Disse cose su Aiolia che non avrebbe ammesso con nessun altro. Non si accorse che Marco non si era acceso una seconda sigaretta, né che Yngve aveva abbandonato coltello e tagliere e si era avvicinato a loro, uno strofinaccio tra le mani.

«Mi sono leccato le ferite», ammise, con una sincerità che stupì lui per primo. «Mi sono buttato anima e corpo nel lavoro.»

«E?»

«E basta.»

«Ha funzionato?», chiese Yngve, scrutandolo da sotto le ciglia scure, come se lui fosse un bislacco esperimento al microscopio di uno scienziato pazzo.

«Sta funzionando», ammise Rodrigo. «Almeno per il momento.»

«Va bene», disse Yngve. Più a se stesso. Non si lanciò in minacce e insulti all’indirizzo di Aiolia – come Rodrigo aveva temuto avrebbe fatto –, e, di questo, gliene fu grato. Si limitò a quella battuta, come a volergli dire che andava tutto bene. E che presto sarebbe andata ancora meglio. «Ma se ti azzardi a sparire un’altra volta...»

«Oggesù», sbuffò Marco. 

«Sì, sì. Dice dice, e sbuffa e rotea gli occhi al cielo, ma questo buzzurro era preoccupato quanto me. Se non di più.»

Il buzzurro – in completo Dolce e Gabbana blu notte e mocassini Ferragamo – si ricordò delle sigarette e ne estrasse una dal pacchetto. «Parla per te», disse, facendo scattare la rotellina dell’accendino. «Io so rispettare i silenzi altrui.»

«Già...»

«Come vi vanno le cose?», domandò Rodrigo per cambiare argomento e sviare il discorso da sé.

Per tutta risposta, Yngve allargò le braccia a comprendere tutta la cucina – immacolatissima – e il locale. «Vanno», disse, con un’alzata di spalle. «Non avresti bisogno di chiedere, se ti fossi fatto vivo...»

Altra stoccata. Stacce, gli disse lo sguardo di Marco.

«Ti abbiamo invitato. Ad entrambe le inaugurazioni.»

«Te l’ho appena detto. Stavo rimettendo insieme i cocci!»

«E quale occasione migliore di un paio di fine settimana a Parigi? Due amici inaugurano i loro locali, per cui hanno sparso lacrime di sangue...»

«Yngve...»

«Due fine settimana lontano da Londra. Due. Alloggio e vitto compresi. E tu ci dai buca!»

«Non me la perdonerai mai, vero?»

Silenzio.

«Imbecille. Se non ti avessi perdonato, adesso non te ne staresti col culo sul mio sgabello, nella mia cucina.» E scivolò via, in sala, lasciandoli da soli. Grande amante delle uscite ad effetto, Yngve.

«Deve sempre avere l’ultima parola, vero?»

«Oh, sì», rispose Marco, spegnendo il mozzicone sotto la suola delle scarpe. «E il bello è che se la prende. Ogni. Santa. Volta.»

Marco lo fissò, come se volesse dirgli qualcosa, qualcosa di importante. Ma poi l’attimo passò – o forse questo qualcosa non era poi così importante –, e Rodrigo non lo colse. Forse, pensò, la ramanzina di Yngve era stata più che sufficiente. Marco era stato sempre uno che non amava sprecare il fiato. Sono salvo, si disse, mentre l’altro infilava nella tasca della giacca il pacchetto di sigarette e cambiava argomento. 

«Stasera sei suo ospite. Ma domani tocca a me. Intesi?» 

Non era una domanda. E Rodrigo lo sapeva, così come sapeva in che modo sarebbe finita la serata, una volta chiusa la porta di entrambi i ristoranti. E se Yngve avesse rimandato la bevuta consolatoria ad un momento più opportuno – ché il lavoro viene prima di tutto –, Marco non sarebbe stato altrettanto assennato. O caritatevole. E lui non poteva, davvero non poteva, spendere una notte intera a dar fondo alla cantina di Marco – cantina prestigiosa e ricchissima di selezionato bibendum –, perché Yngve avrebbe rilanciato senza decenza, domenica sera, dopo la chiusura del suo, di ristorante. E a quel punto avrebbe potuto dire addio al proprio fegato e al proprio lavoro. Lavoro per il quale era già in arretrato. 

Aveva speso il giorno precedente e la mattina nella pia ricerca di Milo. Il quale, come da copione, si era fatto negare in ogni modo possibile e immaginabile, riparandosi dietro lo scudo più inespugnabile dell’universo: Shaina.

La quale, con una solerzia ammirevole, aveva preso le sue chiamate – via via sempre più nervose e perentorie – con stoica rassegnazione, assicurandogli che avrebbe passato i suoi messaggi al diretto interessato. Ed entrambi sapevano come sarebbe finita la faccenda: il diretto interessato avrebbe rimandato quel confronto sino all’ultimo istante possibile. E oltre.

L’unica soluzione era di comunicargli – per interposta persona – che abbandonava il lavoro e rassegnava le dimissioni. Cose che era più che intenzionato a fare non appena avesse salutato Marco e Yngve, fosse tornato a Pigalle, avesse preso il cellulare e parlato con Shaina.

Così Rodrigo provò a smarcarsi con un timido «No, non posso, stasera devo lavorare…», ma quella frase gli restò congelata in fondo alla gola. Lo sguardo di Marco era, se possibile, più terrificante del battere e levare del santoku sul tagliere di legno d’ulivo, perché quest’ultimo era un suono velato da una latente minaccia che tutti e tre sapevano non si sarebbe mai verificata: era uno dei tanti modi di Yngve per attirare l’attenzione su di sé.

Lo sguardo blu scuro di Marco, profondo come le acque dello Jonio e altrettanto pericoloso, recava una promessa. E Marco era sempre stato un tipo che manteneva la parola data. Con gli interessi.

«Così prendiamo due piccioni con una fava», aggiunse, come continuando un discorso nella propria testa. «Stai con gli amici, ti comporti in maniera civile e prendi appunti per il tuo lavoro…»

Rodrigo sbiancò. Una brutta sensazione – come qualcosa di viscido e freddo che scivola sulla schiena – gli arpionò lo stomaco. Non gli diede peso. Era solo stanco. Sì, ecco cos’era. Stanco. Si era preparato psicologicamente all’incontro a Teano, e questo aveva prosciugato i suoi nervi esausti.

«Il mio… lavoro?», chiese.

«Si capisce.» Marco lo fissò come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Non ti sei imminchionito a scrivere una guida su Parigi?»

«Sì, ma è una guida per coppie innamorate», provò a protestare Rodrigo.

«E quindi? Gli innamorati non mangiano?», ribatté Marco. «O ti occupi di recensire solo alberghi a ore?»

«Prego?»

«Non ti scaldare, non ti scaldare», disse, con aria serafica. «E comunque, non ci sarebbe niente di male, no?»

«No», concesse Rodrigo. «Ma non è il genere di pubblico a cui» …abbiamo pensato. Ma il plurale restò lì, a penzolare in punta di lingua. «…a cui ho pensato», si corresse. «Voglio scrivere una guida che parli agli innamorati. Con luoghi, curiosità, musei e compagnia cantante.»

«Per l’appunto.» Allungando le gambe al sole del primo pomeriggio e stiracchiandosi i muscoli delle braccia e della schiena, Marco pontificò: «Questa città è bella, ma è anche stancante. E la gente ha il vizio di mangiare, figlio mio. Tre volte al giorno. E se a colazione risolvono all’albergo, e a pranzo con un panino, a sera avranno una fame da lupi. E come risolveranno, secondo te? Te lo dice zio. Andando a cena, in un buon ristorante. E tu hai sottomano due indirizzi due, in uno dei quartieri più pittoreschi di tutta Parigi.»

«Non è corretto», ribatté Rodrigo, il quale non amava scroccare pasti gratis, ché un pasto gratis presuppone sempre e comunque una contropartita.

«Perché?», gli domandò Marco, fissandolo come se avesse iniziato a parlare in aramaico.

«Perché siete miei amici. E…»

«Ah, no. Frena, frena.» Marco si raddrizzò sullo sgabello e si sporse in avanti. «Noi non abbiamo bisogno di comprare pareri positivi. Noi siamo il meglio sulla piazza. Su questa, almeno.»

«Non…»

«… è questo il punto. Lo so. Ma lasciami mettere le cose in chiaro. Noi siamo già sulla Lonely Planet. Sulla guida del Touring Club. Rough Guides. National Geographic…»

«Ho capito», tagliò corto Rodrigo. «Ho capito.»

«E allora, avrai anche capito che sembrerebbe strano che tu non citassi né il Gökotta, né il Susumella. Giusto?»

E se non lo facessi, ti toglieremmo il saluto a vita. Questo dicevano la postura, il timbro di voce e lo sguardo di Marco. E Rodrigo sapeva che quello sarebbe stato lo sgarbo definitivo.

«Giusto», concesse. A mezza bocca. Ma a Marco bastò.

«Perfetto», disse, e poco ci mancò che iniziasse a fregarsi le mani dalla contentezza. 

«Ma sappi che ordinerò fuori menù.»

Un sorriso – un lampo di un bianco accecante – brillò sul volto abbronzato di Marco. Un sorriso come una tagliola. «Non chiedo di meglio.»

«Fai del tuo peggio, allora.»

«In che senso?»

Leggero come una farfalla, Yngve era rientrato in cucina e si stava avvicinando con l’incedere cadenzato di un felino in caccia. 

«Di cosa state parlando, voi due?»

«Macho man qui ci ha lanciato una sfida», ridacchiò Marco. Ignorò a bella posta i «No, non è vero, aspetta, io» di protesta che Rodrigo pronunciò a propria difesa, e aggiunse, alzando la voce: «Dice che non siamo capaci di fare niente fuori menù.».

Lo sguardo da pescecane di Yngve si piazzò su Rodrigo. «Sul serio?»

«No. Non ho mai detto questo», puntualizzò Rodrigo. «Ho solo detto che vorrei mangiare qualcosa fuori menù, per proporlo nella guida che sto scrivendo…»

Yngve tacque e lo fissò. Poi, con fare quasi annoiato, chiese: «E questa me la chiami sfida?».

E in che altro modo dovrei chiamarla?, pensò Rodrigo. «Io ho fatto una richiesta», puntualizzò. «È lui», proseguì, indicando Marco, «che l’ha resa una sfida.».

Yngve lanciò un’occhiata a Marco, come per prendergli le misure per la bara, e sbuffò.«D’accordo, d’accordo», tagliò corto. «Però dopodomani tu andrai al Le Pantruche e farai la stessa cosa. Intesi?»

Neppure quella era una domanda. Era più un ordine. E dall’occhiata adamantina che gli rivolse Yngve, Rodrigo seppe che non avrebbe potuto svicolare in alcuna maniera. Ché sì, Yngve  era forse l’ultimo uomo di mondo a piede libero per la Terra, e sapeva destreggiarsi benissimo nella difficile arte del savoir faire et savoir vivre; ma, quando si trattava di scomettere, Yngve non guardava in faccia niente e nessuno. E chiedere di mangiare qualcosa fuori menu al Le Pantruche era fantascienza. Di quella dura e pura che avrebbe fatto sembrare gente del calibro di Asimov dei fricchettoni persi dietro ad elfi snob, fate dalle ali sbrilluccicanti e draghi affetti da cleptofobia – comprensibile, quando si hanno ammassate nella propria tana ricchezze inimmaginabili, diceva Aiolia.

«Ci proverò», rispose Rodrigo, ignorando l’ennesima fitta al cuore.

«No, provare no. Fare. O non fare. Non c’è provare», e quando Yngve citava Yoda, non c’era alcuna possibilità di salvezza.

«Ma tu non eri un seguace dell’Impero?», gli domandò, sinceramente perplesso.

Yngve si strinse nelle spalle. «Che c’entra?», ribatté. «Quando qualcuno dice qualcosa di sensato, è giusto e consigliato starlo a sentire.»

«Sacrosanta verità», s’intromise Marco, che si era goduto la scena con un sorriso da faina. «E se accetti un consiglio, assapora i migliori ristoranti della città, dalle bettole a quelli a tre stelle. L’amore non riempie la pancia. Il buon cibo, sì.»

 

   
 
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