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Autore: Nao Yoshikawa    22/03/2023    1 recensioni
Sequel di "Everybody wants love".
Sono passati tre anni, i bambini sono cresciuti e gli adulti sono maturati (più o meno). Nuove sfide attendono i personaggi e questa volta sarà tutto più difficile. Dopotutto si sa, la preadolescenza/adolescenza non è un periodo semplice. E non sono facili nemmeno i vecchi ritorni.
Ciò che è passato deve rimanere nel passato.
Non pensarci.
Non pensarci e andrà tutto bene.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo, Nuovo personaggio, Renji Abarai, Urahara Kisuke
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ichigo e Rukia non avevano trovato il modo di parlare quanto successo. Eppure, nonostante ciò, sembravano tornati più innamorati di prima. Questo era evidente dagli sguardi che si lanciavano, dal modo in cui sorridevano che non sfuggiva nemmeno ai loro figli. Kaien, più timido e scorbutico, finiva sempre con l’arrossire e dire loro di non fare certe cose davanti a lui. Masato, più romantico, invece li guardava con gli occhi che brillavano. Non avevano detto ancora a nessuno del modo in cui si erano riappacificati, trovandola una cosa molto intima e da svelare, in caso, con cura. Poi, una sera, si erano ritrovati da soli: con Kaien da Hayato e Masato con Yuchi, Kon addormentato nella sua cesta, si erano ritrovati da soli. Rukia finì di pulire l’ultimo bicchiere e poi sentì un paio d’occhi osservarla. In effetti Ichigo se ne stava lì, a qualche metro da lei, a osservarla come se non lo avesse mai fatto prima di allora. Osservò il suo collo, la curva dei suoi fianchi e si ritrovò ad arrossire. La passione non si era mai spenta, ma adesso era scoppiata come non succedeva da anni. Rukia si voltò e lo guardo, sorridendo.
«Ehi» gli disse.
«Ehi» ripeté lui. Si guardarono per qualche istante in silenzio. E poi Ichigo azzerò le distanze, prendendo il suo viso tra le mani e baciandola. La prese lì, sul tavolo della loro cucina, in un moto di passione che doveva essere consumato a tutti i costi.
Diversi minuti Rukia si trovò ansante sul tavolo, i vestiti malamente sparsi a terra e il viso sudato. Era come se non potessero più fare a meno di stare appiccicati. Ed era piacevolissimo.
«Oh, Ichigo. È stato stupendo, non penso che potrò più farne a meno.»
Ichigo le diede una mano, aiutandola a mettersi seduta.
«Non vedo perché dovremmo. Stare lontano da te è una tortura. Anche se immagino che… dovremmo comunque riparlarne.»
Rukia gli accarezzò il viso, pensierosa.
«Possiamo parlarne adesso.»
«Davvero vuoi parlarne dopo aver fatto l’amore?»
Rukia annuì.
«Non vedo quale momento migliore.»
Gli accarezzò il viso e poi iniziò a pensare. Forse era inutile stare lì a pensare ad un discorso, tanto valeva seguire il cuore.
«Io e Kaien ci siamo conosciuti per un incidente. Beh, un quasi incidente. Lui mi ha quasi messo sotto con l’auto mentre andavo in bici a scuola» raccontò, arrossendo al ricordo. Ricordava di non essere stata molto gentile con lui, lo aveva insultato. Poi però Kaien si era mostrato così gentile e affascinante che non era stata capace di dire altro.
Ichigo annuì, invitandola a proseguire.
«Lui insistette per portarmi al pronto soccorso, malgrado non avessi un graffio. E per la cronaca, è lì che ha conosciuto Byakuya. A mio fratello non piaceva, all’inizio.»
Per Ichigo non fu difficile da credere. Byakuya Kuchiki non prendere in simpatia nessuno, almeno all’inizio.
«Qualcosa in lui mi catturò. Non so, forse era il suo modo di fare, il fatto che si rivolgesse a me come se fossi una sua pari, nonostante i dieci anni di differenza. Iniziammo a sentirci, ogni tanto. Ci sentivamo spesso, ma eravamo entrambi molto distaccati, forse per evitare di incappare in situazioni strane. Un giorno lo rincontrai e casualmente c’era anche Kukaku, che era di poco più grande di me. Facemmo amicizia e mi invitò nella loro casa. E prima che me ne accorgessi, diventai una presenza costante. Io e Kaien ci innamorammo in maniera discreta. Io ero innamorata come tutte le quindicenni: sognavo in grande. Sognavo che un giorno mi avrebbe sposato, sognavo di condividere tutto con lui. Kaien sognava lo stesso, ma era più accorto. Non mi ha mai sfiorato, solo baci. Credo che volesse ma si sentisse frenato per via dell’età. Ero pur sempre una minorenne. Ma mi dicevo che l’avrei aspettato. Intanto continuavamo a vederci di nascosto, ad amarci a nostro modo. E poi, sai com’è andata.»
Rukia riprese fiato, quasi avesse corso. Era stata una fatica raccontare tutto, ma era anche stato liberatorio. Sperò di non aver detto niente che potesse infastidire Ichigo.
«E poi sono arrivato io» continuò lui. Rukia sorrise.
«E poi sei arrivato tu. Certo, fisicamente somigliavi e somigli a lui, questo mi aveva spinto ad avvicinarmi a te. Ma non è durata molto, perché man mano che ti conoscevo, mi rendevo conto di quanto fossi diverso da Kaien. E mi piacevi. Sei stato il primo e unico uomo a cui io mi sia mai donata del tutto e sono felice che sia andata così. Kaien…» si portò una mano sul cuore. «Di certo sarà sempre nel mio cuore. Ho voluto chiamare nostro figlio come lui per onorarlo. Ma immagino che sarebbe meglio se lui, almeno, sapesse.»
Era intimo quel suo modo di parlargli così, ancora col corpo appiccicato al suo. Ichigo chiuse gli occhi e si accorse che non faceva male come aveva pensato.
«Dovremmo raccontarglielo, un giorno. Tutto questo… ti è costato tanto, dirmelo?»
«Solo un po’ di sforzo. Perdonami se ci ho messo tanto, Ichigo.»
Strinse forte le sue spalle come a non volerlo più fare allontanare. Ma Ichigo non aveva intenzione di andare da nessuna parte.
«Ha fatto male, ma ora basta. Ho sempre odiato litigare con te. Lo so che non sono un tipo propriamente romantico, ma sappi che ti amo. È sempre stato così e sarà così fino alla fine dei miei giorni.»
Rukia tirò su col naso e, commossa, poggiò il viso sul suo petto.
«Ehi, dai. Non puoi piangere per una volta che dico qualcosa di romantico!»
«Sono solo commossa, sciocco!» borbottò lei.
La bella e calda atmosfera venne interrotta dal vibrare del cellulare di Ichigo.
Lo cercò e notò con sorpresa che si trattava di Ishida.
«Ehi, tutto a posto?»
«Non c’è bisogno di avere quel tono preoccupato, Kurosaki. È per Urahara. Hai saputo cos’è successo a Yami?»
Ichigo sgranò gli occhi. Per ogni buona notizia, chissà perché, ce n’era sempre una cattiva.
 
Adesso Hikaru comprendeva come dovesse essersi sentita Yami quella volta in cui aveva avuto un forte attacco d’asma. Il legame tra gemelli poteva essere molto forte, quai viscerale. Lui aveva sentito le ansie e le angosce di sua sorella crescere giorno dopo giorno, aveva sofferto con lei e aveva sofferto nel sentirsi così impotente. Ai era accanto a lui, Ai c’era sempre. Stringeva la sua mano, rassicurandolo.
«Non ti preoccupare, Hikaru. Mio papà ha detto che Yami sta bene, non è in pericolo di vita.»
Hikaru però si fece rigido. Perché si era dovuti arrivare a tanto? Perché sua sorella aveva dovuto soffrire così tanto? Avrebbe voluto spaccare il mondo, ma era solo un bambino dopotutto.
«Non me ne importa, sono arrabbiato. Non meritava questo. Perché la gente deve essere così crudele?»
Ai fece spallucce. Di solito aveva le risposte a tutto, ma non a questo.
«Non lo so. Yami è la mia migliore amica. Sapevo che nelle sue risposte sgradevoli in realtà c’era tanta rabbia. Ma non pensavo arrivasse a tanto.»
Ai singhiozzò: aveva un animo sensibile e Hikaru era come lei. Le circondò le spalle con un braccio.
«Per favore, non piangere» la supplicò, non voleva vederla così atterrita, era già tutto terribile. Yami di fatto stava bene, i suoi tagli non erano troppo profondi e adesso stava dormendo. Yoruichi, malgrado la carnagione scura, risultava pallida. Accanto a lei c’erano Soi Fon e Nemu, la quale cercava di rassicurarla sia in veste di infermiera che in veste di amica.  Anche Ichigo e Rukia avevano raggiunto Yoruichi per un sostegno morale e stessa cosa aveva fatto Uryu. Hanataro se ne stava lì intorno con aria spaurita e preoccupata, non sapendo cosa dire per migliorare la situazione.
«Mio Dio, mi ucciderei. Mia figlia ha… ha tentato il suicidio» gemette Yoruichi, gli occhi lucidi per il pianto. Si sentiva una madre orribile, era stata una madre orribile a non capire la sofferenza di sua figlia e ad andarle contro.
«Piano, Yoruichi. Non saltare a conclusioni affrettate. Quando Yami si sarà ripresa, ti consiglio di parlare con lei a cuore aperto» le consigliò Nemu. «Ha bisogno di aiuto.»
Yoruichi si sedette, la testa le doleva. Era tutto assurdo, non avrebbe mai dimenticato Yami con i polsi bagnati di sangue. Se solo ci pensava le veniva la nausea.
Mayuri si unì presto al numeroso gruppo, anche se le sue attenzioni erano su l’unica persona che non c’era e che avrebbe dovuto esserci.
«Si può sapere dov’è Urahara in un momento come questo?» domandò.
«Kisuke è già stato qui» spiegò Soi Fon. «Dopo essersi assicurato che Yami stesse bene, se n’è andato.»
«È crollato» sussurrò Yoruichi. «Non l’ha detto a parole, ma lo conosco bene e so cosa sta pensando: di non essere degno come padre, marito e uomo, che dovrebbe mollare ogni cosa, ogni progetto. Perché se non è riuscito a proteggere Yami, allora non può essere capace di fare altro. Ho paura che gli venga qualche idea folle come lasciare il suo posto da primario.»
Mayuri si irrigidì. Ah, questo era tutto da vedere. Non sapeva nemmeno perché gli bruciasse così tanto, ma non se ne sarebbe stato lì con le mani in mano.
«Torno subito, vado da lui.»
«Ma Mayuri, che vuoi fare?» domandò Nemu sorpresa.
«Tramortirlo e portarlo qui con la forza se serve. Torno subito» ripeté. Non vedeva e sentiva altro, oramai aveva solo una missione.
 
Kisuke si era in effetti chiuso a casa sua e in effetti aveva avuto il suo crollo. Yami aveva rischiato di morire dissanguata e lui non aveva potuto evitarlo. Era abituato alla gente che contava su di lui a lavoro, era abituato a esserci. Eppure con Yami era stato un incapace. In quei momenti, mentre se ne stava accasciato contro la porta di casa, si mortificava dicendosi quanto fosse inutile e, alla fin fine, incapace. O indegno di fare chissà che. Alla fine era solo un uomo che fingeva di essere forte, ma che quando crollava era capace di rialzarsi. Anche ora, piuttosto che stare in ospedale vicino alla sua famiglia, era lì ad autocommiserarsi.
«Urahara! Maledetto bastardo, so che sei lì. Apri la porta!»
Mayuri aveva preso a battere contro quest’ultima. Kisuke sospirò.
«Non mi aspettavo che venissi addirittura fino a qui.»
«E io non mi aspettavo che tu fossi così codardo. Esci o devo sfondarla? Guarda che non sto scherzando. La tua famiglia ha bisogno di te, e tu te ne stai lì a deprimerti? Mi fai venire la nausea!»
Kisuke sorrise.
«Non c’è niente che io possa fare. Ho fallito.»
Mayuri alzò gli occhi al cielo. Perché doveva costringerlo a dire certe cose, ad essere sentimentale?
«Hai fallito? Sì, lo hai fatto. Sei umano anche tu, come me e tutti. Ma tua figlia sta bene, non pensi sia questo l’importante? Yoruichi me l’ha detto quello che passa per quella tua testa bacata. E non pensarci nemmeno, chiaro? Tu il tuo posto da primario non lo molli, e non pensare di mollare il nostro progetto. Che, ti ricordo, è stata una tua idea.»
«Affiderai comunque tutto a te, sarebbe in buone mani» disse stancamente.
Sì, doveva proprio costringerlo a dire certe cose.
«Io non voglio farlo da solo, voglio farlo con te perché… perché tu, Kisuke, sei il medico migliore che conosco. Sei… geniale, abile e intelligente. Oltre che creativo. Hai detto che sono il tuo migliore amico, non fai altro che dirlo a tutti. Bene, allora mi avvalgo di questo ruolo per trascinarti via da qui!»
Mayuri era arrossito. Quale umiliazione per lui dover dire certe cose a Urahara. Anzi, a Kisuke. Pensava davvero ogni singola parola, ma dirlo era un’altra faccenda. Passò qualche istante in silenzio. Poi la porta si aprì e uno stravolto Kisuke fece capolino.
«Davvero pensi che io sia geniale, intelligente e creativo?»
Ovvio, quei complimenti non gli erano sfuggiti. Gliel’avrebbe pagata per averlo fatto umiliare in questo modo.
«Sì, lo penso. Quindi non comportarti da idiota proprio adesso e vieni con me. E non dire a nessuno di questa mia scenata. Oppure giuro che ti uccido!» sibilò minaccioso, anche se non molto credibile. In fin dei conti, dopo tutti quegli anni, Mayuri Kurotsuchi doveva farsene una ragione: Kisuke Urahara era davvero un amico per lui, se non il migliore.
 
 
Se Kohei non riusciva a concentrarsi nemmeno sui suoi amati libri riguardanti aquile e pennuti, la situazione era davvero grave. E ingestibile. Voleva togliersi quel peso di dosso, ma spesso non sapeva come dire le cose nel modo giusto. Avrebbe voluto dire a sua madre che gli dispiaceva per averla spintonata, che ci era rimasto malissimo quando aveva visto la confusione e la delusione nei suoi occhi. Avrebbe voluto dire a suo padre che lo ammirava e che sarebbe voluto diventare come lui, un giorno: tranquillo, pacato e buono, nonostante la stazza che in un primo momento poteva suggerire tutt’altro. Aveva sempre pensato certe cose, alcune sin da bambino.
Richiuse il libro e diede una carezza alla testolina del suo pappagallo. Iniziò a strofinare i palmi delle mani uno contro l’altra e a dondolarsi avanti e indietro, cosa che tendeva a fare spesso, quando si concentrava per compiere una grande impresa. Si alzò. Sua madre non c’era, doveva essere ad uno dei tanti allenamenti della sua squadra. Ma Chad era invece presente, stava cucinando qualcosa. Sbirciando, Kohei si rese conto che non erano presenti cibi con colori che sgradiva, tipo il verde scuro e il giallo accesso. Chad non si era accorto di lui e Kohei lo fissava con i pugni chiusi. Sospirò profondamente.
«MI DISPIACE!» gridò. Chad sussultò e troppo sale cadde nel suo condimento.
«Eh? Kohei…? Ma di cosa?» domandò, lanciando un’occhiata al suo capolavoro culinario oramai sprecato. Suo figlio aveva strizzato gli occhi.
«Non volevo spingere la mamma e non volevo farle male. E non voglio fare male nemmeno a te. Io lo so di essere impossibile, certe volte non mi sopporto nemmeno io. Certe volte mi chiedo cosa si provi ad essere normale!»
Kohei stava continuando a tenere gli occhi chiusi e parlava ad alta voce, quasi urlando. Così era più facile. Chad si avvicinò, poggiandogli le mani sulle spalle.
«Ehi, va tutto bene. Riprendi pure a respirare. Non so cosa tu intenda per normale, ma posso assicurarti che  non sei più impossibile di altri adolescenti.»
Kohei finalmente aprì gli occhi.
«Ma voi siete sempre tristi per colpa mia.»
Chad sospirò e gli scompigliò i capelli.
«A volte capita anche a noi di essere tristi, ma non è certo colpa tua. Tu sei un animo buono e sensibile Kohei, sei simile a me. E tua madre… e anche io, lo ammetto, ancora fatichiamo a renderci conto che stai crescendo e che dovrai affrontare tante sfide, come tutti.»
Kohei annuì con energia.
«Non volevo picchiare Satoshi, lui è mio amico. Però non piaccio a Naoko. Ma perché non possiamo piacere alla gente che ci piace?»
Una domanda spontanea e da cui trarre molti spunti di riflessione, come la maggior parte delle domande poste da Kohei.
«Non è così che funziona. So che probabilmente quello che ti sto per dire non ti piacerà, ma nel corso della nostra vita ci capita spesso di innamorarci e di non essere ricambiati. Ma un giorno anche tu troverai la tua persona, di questo ne sono sicuro.»
Kohei si strofinò un occhio. Malgrado tutto, capiva che forse non era ancora pronto a tutte quelle cose che riguardavano l’amore, compresi i baci e gli abbracci, anche se un giorno avrebbe voluto provare di sicuro.
«Sì, io capisco. A me piacerebbe avere qualcuno che abbia un po’ il carattere della mamma. Lei a me piace perché è piccola ma forte.»
Chad si ritrovò a pensare che suo figlio avesse proprio ragione. Lo spinse a sé con delicatezza e lo abbracciò. In un primo mento Kohei rimase rigido, ma poi si lasciò andare. Gli abbracci, se dati dalle persone giuste, potevano risultare molto piacevoli. E per Chad era una gioia poter dimostrare un po’ d’affetto fisico a suo figlio.
«La cena è andata?» domandò ad un tratto Kohei.
«Temo proprio di sì. Allora ordiniamo qualcosa e facciamo una sorpresa alla mamma.»
Kohei sollevò un dito.
«Io vorrei una pizza. Lì non ci sono né il verde scuro né il giallo.»
E Chad acconsentì volentieri.
 
 
«Masato, sono felice che tu passi spesso il tuo tempo con me, ma sei certo che non sia un disturbo?»
Masato era l’ombra di Yuichi, nonché il suo sostengo numero uno. Se ne stavano distesi sul suo letto, a parlare. Masato sapeva che Yuichi aveva bisogno di conversare tanto. Lui, almeno, al suo posto avrebbe desiderato questo, ed essendo sensibili allo stesso modo, poteva supporre che fossero uguali, in questo.
«Certo che no! A me piace tanto parlare con te. Prima o poi le cose si aggiusteranno, io ne sono sicuro.»
Yuichi guardò i suoi occhi castani. Chissà se era proprio quello l’amore. Di sicuro a dodici anni non si amava come ad otto e trent’anni, ma nel suo immaginario, lui e Masato sarebbero destinati a stare insieme per sempre. Forse era sciocco e infantile da parte sua, ma quello che provava era vero.
«Masato, io ti amo» disse all’improvviso. Per lui l’amore doveva essere quello. E gliel’avrebbe detto, anche se un giorno malauguratamente sarebbero finiti per separarsi (anche se Yuichi era sicuro che non sarebbe accaduto). Masato arrossì. I ti amo non erano, in fondo, solo roba da grandi.
«Anche io, Yuichi!» rispose, agitato. «Ti voglio dare un bacio.»
«Anche io.»
Si avvicinarono e il loro bacio fu un dolce sfiorarsi, che come al solito bastava per divampare il fuoco. Si staccarono e i guardarono negli occhi. La porta era aperta e Uryu li vide. Distolse lo sguardo, poiché gli sembrava di essersi intromesso in un momento fin troppo intimo e privato. Tossii per attirare l’attenzione.
«Masato, tua madre è giù che ti aspetta.»
Masato si alzò, un po’ imbarazzo.
«Va bene, allora vado. Ciao Yuichi, ciao signor Ishida!»
Uryu fece una smorfia e poi, quando se ne fu andato, guardò suo figlio.
«Conosco Masato da quand’è nato, da quando mi chiama così? Mi fa sentire vecchio.»
Yuichi fece spallucce.
«È che lui pensa che ce l’hai con lui, quindi… quindi è così.»
Uryu sospirò. Non poteva dare torto a quel ragazzino, lo aveva guardato con diffidenza e aveva pensato male solo a causa dei suoi traumi. Suo figlio lo guardava con due occhi pieni di interrogativi. Ma lui sarebbe stato capace di rispondere senza crollare?
«Ad ogni modo» disse ad un tratto Yuichi. «Io ho capito quello che è successo. Mamma me lo ha spiegato e… va bene se sei triste. Al posto tuo, penso che mi sarei rinchiuso in casa per non uscire più. Anche davanti a me, non fare finta che vada tutto bene. Lo rende più difficile.»
Tatsuki si fermò sulla porta, con in braccio Yoshiko. Era arrivata proprio nel momento cruciale, ma né suo marito né suo figlio si erano accorti di lei. Uryu si sentì in difficoltà e guardò da un’altra parte.
«Coinvolgere te non sarebbe giusto.»
«Non ho detto che devi coinvolgermi. Però se ti venisse da piangere, puoi farlo. Io se fossi al posto tuo vorrei sentirmi libero di piangere quando ne ho voglia. Penso che se inizia a buttare tutto fuori, con il tempo farà meno male.»
A quel punto Uryu sentì le gambe cedere. Cadde in ginocchio, quasi avesse avuto un crollo. In effetti si era sbagliato alla grande: mai sottovalutare i bambini, specie suo figlio, sensibile e attento. Si portò una mano sul viso e le lacrime gli bagnarono le lenti degli occhiali.
«Grazie, Yuichi.»
A quel punto Tatsuki entrò, con Yoshiko che si sbracciava per scendere. Una volta che ne ebbe la possibilità, si avvicinò al papà per abbracciarlo. Non gli disse non piangere. Non disse proprio nulla. Ben presto Yuichi imitò la sorella e andò ad abbracciarlo. Uryu li strinse a sé. A volte si dimenticava di ciò che lui e Tatsuki erano stati capaci di fare insieme, a quanto i momenti felici e l’amore dei suoi familiari superasse di gran lunga il dolore. Anche Tatsuki si avvicinò e si inginocchiò, baciandogli i capelli.
«Io voglio bene a papà. Tanto così» disse ad un tratto Yoshiko, allargando le braccia.
«Anche io!» disse Yuichi.
«Ehi, io ci sono da più tempo» scherzò Tatsuki. «Vedi, Uryu? Temo che dovrai dividerti in modo equo tra tutti e tre.»
Uryu si tolse gli occhiali e rise, asciugandosi una lacrima.
«Lo farò. Lo farò, statene certi.»
Il dolore era ancora lì. Antico di anni. Ma Yuichi aveva avuto ragione: piangendo e buttandone fuori solo un pezzetto, stava già un po’ meglio.
 
Quel giorno Hayato si trovava a casa di sua madre. Aveva perso la voglia di fare lo scontroso, per la verità non si sentiva arrabbiato. Era solo turbato. Momo era molto presa dall’arrivo del nuovo bambino e lo aveva già detto a tutti, amici e conoscenti. Quando provava a chiedere qualcosa ad Hayato stesso, lui rispondeva in modo vago. Non sapeva cosa pensare. In più, non riusciva nemmeno più a parlare con Toshiro. Non se ne faceva niente di un figliastro dal carattere difficile quando avrebbe avuto un figlio suo e che lo avrebbe amato a prescindere. Lui era già troppo grande. Forse fin troppo per essere geloso, si vergognava da morire ad ammetterlo. Quel pomeriggio, Momo stava parlando al cellulare mentre accarezzava i tasti del pianoforte. Il suo tono era raggiante, sembrava aver ritrovato una nuova felicità e Hayato poteva giurare di non averla mai vista così. Avvertiva un senso di nausea lì, proprio nello stomaco. Avrebbe tanto voluto parlare con Miyo. O con Rin o con Kaien, o con qualsiasi persona. Scosse la testa ed uscì dalla sua stanza. Già una volta aveva avuto la brillante idea di scappare di casa. Adesso non lo avrebbe, avrebbe semplicemente aperto la porta e sarebbe uscito, era abbastanza grande per questo. E così fece e non rispose quando Momo chiese  a gran voce Hayato, ma dove stai andando?
La giornata era stranamente piovosa e Hayato aveva preso a camminare con le mani infilate nelle tasche e il cappuccio tirato sulla testa. Forse in quel momento poteva anche lasciarsi andare alle lacrime, nessuno se ne sarebbe accorto proprio grazie alla pioggia. Gli uscì un singhiozzo. Non era un grande amante delle lacrime, si sentiva sempre troppo esposto e fragile. Fece per attraversare, gli occhi appannati, e il suono di un clacson lo fece sussultare: ci mancava poco che non lo investisse.
«Ehi!» singhiozzò. «Ma vuoi stare attento?!»
Si accorse solo in seguito che quell’auto gli era familiare: Shinji ne uscì, cercando di ripararsi con un braccio.
«Accidenti Hayato, ma che fai fuori con questo tempaccio? E poi, per poco non t’investivo.»
Hayato si morse il labbro.
«Non sapevo cosa fare o con chi parlare.»
Shinji sospirò. Pazienza, oramai la pioggia lo aveva bagnato del tutto.
«Beh, puoi pur sempre parlare con me.»
Quello fu il momento in cui Hayato decise di arrendersi. Perché farsi ancora male? Sfogarsi non poteva essere peggio di così. Si avvicinò a lui e lo abbracciò all’improvviso. Shinji rimase interdetto, era risaputo che Hayato non fosse un tipo molto fisico, ma non ci pensò due volte prima di abbracciarlo. Stringendolo a sé, poteva sentire il suo corpo scosso dai fremiti: Hayato doveva starsi sforzando di piangere silenziosamente.
«Va tutto bene, tutto bene. Ci sono io adesso» gli disse. E poi sorrise. Poteva davvero fare qualcosa per lui, e non solo perché voleva sentirsi utile, ma perché voleva che stesse bene.
Si rimisero in auto e si accostarono una zona tranquilla. Hayato si calmò un po’ prima di prendere a parlare e, una volta che ebbe iniziato, non riuscì più a fermarsi.
«Io non voglio essere preso in giro, so che sono troppo grande per queste cose, però… mi fa male l’idea che mia madre abbia un altro figlio. Non posso fare a meno di pensare che ne abbia sentito il bisogno perché io le faccio mancare qualcosa. Non sono molto affettuoso, lo sai. Con nessuno. Vorrei esserlo, ma non ci riesco. Io sono così, ma non vorrei far stare male nessuno.»
Hayato aveva un mondo dentro di sé. Shinji lo ascoltò senza interromperlo.
«Sì, capisco cosa vuoi dire. Ognuno ha il suo carattere, non c’è niente di male ad essere poco inclini alle dimostrazioni d’affetto fisiche. Ci sono altri modi per dimostrare di volere bene a qualcuno. Per quanto riguarda la questione della gelosia… sono figlio unico e ho una sola figlia, quindi non so cosa si prova o come dovrebbe essere gestita la cosa. Ma tua madre ti adora quanto tuo padre, credimi! D’accordo, la loro non è stata una relazione felice, ma perché mai la colpa dovrebbe essere tua? Sei qui, se sei qui evidentemente ti hanno voluto entrambi, il loro matrimonio e divorzio non ha niente a che fare con te. Io penso che rua madre conti su di te. Voglio dire, un neonato è impegnativo, ci sono tante cose da insegnargli. E chi meglio del suo fratello maggiore?»
Shinji non aveva pensato a cosa dire, lo aveva detto e basta. D’istinto. Hayato arrossì.
«Ma io non ho niente da insegnare.»
«Ah, suvvia. Non è affatto vero, certo che hai tante cose da insegnare. A giocare ai videogames, a difendersi dai bulli… insomma, tutte queste cose in cui sei piuttosto bravo. E per quanto riguarda Toshiro, sono sicuro che lui la pensi come me, ovvero che ti considera suo. Tu vuoi bene a Miyo anche se non avete lo stesso sangue, no?»
Hayato annuì. Aveva sempre voluto bene a Miyo a prescindere da tutto.
«Per l’appunto, è la stessa cosa. So che parlare dei propri sentimenti è difficile, non siamo abituati. Ma puoi iniziare adesso e… umh… posso venire con te, se vuoi.»
Hayato si irrigidì, per poi rilassarsi subito dopo. Ora che si era lasciato andare a Shinji, si rendeva conto che non era niente di così tragico e terribile. Fece spallucce, per poi rilassarsi sul cuscino.
«Sì. Vorrei che mi accompagnassi» decise. Shinji ne fu felice. Si sentiva sulla stessa scia d’onda di Hayato.
 
Kisuke e Mayuri tornarono in ospedale. Yoruichi l’aveva atteso in sala d’aspetto, mentre Soi Fon era entrata per vedere come Yami stesse, insieme a Hikaru. Lei non aveva il coraggio di andare da sola e affrontare sua figlia, di chiederle perdono. Aveva bisogno di suo marito accanto.
«Sei tornato» disse alzandosi in piedi. Kisuke chinò il capo.
«Devi perdonarmi, Yoruichi. Ho avuto un momento di crollo, ma qualcuno mi ha aiutato a rinsavire.»
Yoruichi chiuse gli occhi. Era tutta colpa sua, Kisuke e Soi Fon avevano cercato di risolvere la cosa nel modo giusto, ma lei come al solito aveva reagito in modo troppo irruente.
«Non sono arrabbiata con te, ma ho bisogno che tu ora mi stia accanto. Ho paura che Yami mi odi.»
Kisuke le accarezzò una spalla.
«Sono sicuro che non ti odi. Nostra figlia somiglia a te, quindi posso vantare di conoscerla almeno un pochino. In ogni caso, sono con te. E c’è anche Soi Fon. Lei è stata molto più brava di me. Ha sangue freddo, la ragazza.»
«È stata meravigliosa» sussurrò asciugandosi una lacrima. Poi afferrò la mano che suo marito gli aveva dato. Era l’ora di parlare con Yami.
   
 
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