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Autore: Nao Yoshikawa    23/03/2023    1 recensioni
Sequel di "Everybody wants love".
Sono passati tre anni, i bambini sono cresciuti e gli adulti sono maturati (più o meno). Nuove sfide attendono i personaggi e questa volta sarà tutto più difficile. Dopotutto si sa, la preadolescenza/adolescenza non è un periodo semplice. E non sono facili nemmeno i vecchi ritorni.
Ciò che è passato deve rimanere nel passato.
Non pensarci.
Non pensarci e andrà tutto bene.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo, Nuovo personaggio, Renji Abarai, Urahara Kisuke
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo ventotto
 
Soi Fon era piacevolmente colpita da come Yami si fosse aperta: aveva iniziato a parlare a ruota libera di tutto: della sofferenza che aveva patito, di essersi pentita di essersi fatta così male, del suo desiderio di spaccare la faccia a Ren, alla sua ex e a tutti i coloro che l’avevano etichettata come poco di buono. Yami parlava piangendo, aveva il bisogno spasmodico di buttare fuori tutto il dolore che aveva tenuto dentro.
«Spesso non riesco a esprimere ciò che mi fa male. Se lo facessi, starei sempre in lacrime e io odio i piagnistei. Ma ora non posso farne a meno. Forse io a mia madre non piaccio.»
Nonostante le lacrime, Yami manteneva una certa dignità, se ne stava seduta dritta, i polsi coperti. Le sarebbe rimasta una cicatrice, ma per il resto stava bene.
«Non è affatto vero che a tua madre non piaci. È molto pentita delle cose orribili che ha detto.»
«Ma allora perché le ha dette?» domandò giustamente Yami. Soi Fon fece spallucce.
«Non ho una risposta a questo. Immagino che sia perché, per quanto possiamo impegnarci, a volte finiamo per ferire chi amiamo. Tua madre non è una donna dal carattere facile. Per certi versi, nemmeno tuo padre. Ma loro a me piacciono» ammise, non senza arrossire. Tra alti e bassi, loro erano ancora lì. E Soi Fon non poteva più immaginare una vita senza di loro. Yami la osservò. Lei, come Hikaru, aveva ben capito cosa legava i suoi genitori a quella ragazza.
«Lo sai? Ho capito bene che tu e i miei genitori avete un rapporto particolare. Di certo non siete amici, anzi. Sono sicura che vi amiate. Non avevo mai visto una relazione a tre.»
«A-ah, sì?» balbettò Soi Fon, timida di fronte all’idea di essere stata colta in fragrante.
«E già. Però va bene, si tratta di quello strano in senso positivo. Tu mi piaci, quindi mi farebbe piacere se facessi parte della nostra famiglia.»
Yami aveva trovato in Soi Fon una figura simile ad una sorella maggiore. Una confidente di cui non voleva fare a meno. Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime di commozione.
«Farebbe piacere anche a me»
Finalmente Kisuke e Yoruchi entrarono. Kisuke, sempre molto affettuoso e fisico, andò ad abbracciare la figlia. Scappare non era stato certo onorevole da parte sua, ma adesso non sarebbe andato da nessuna parte.
«Piccola mia. Ti voglio bene» le sussurrò.
«Anche io, papà» singhiozzò Yami. Yoruichi li guardò, Hikaru l’aveva raggiunta e le aveva dato un colpetto sul braccio. Yoruichi si schiarì la voce.
«Y-Yami, c’è una cosa che voglio dirti.»
Kisuke allora si staccò dall’abbraccio e Yami guardò la madre con aria interrogativa. Cosa le avrebbe detto? L’avrebbe rimproverata, affermando che il suo gesto fosse stato stupido e immaturo? L’avrebbe guardata con disprezzo. Yoruichi però non fece niente di tutto ciò. Si avvicinò alla figlia, prendendo le sue mani e quasi inginocchiandosi.
«Yami, io… oh. Io devo chiederti scusa. Sono stata orribile e ingiustificabile. Ti ho detto delle cose… tremendi, e invece che starti accanto, ti ho remato contro, non pensando al dolore che stavi passando. Mi sono sempre lamentata del fatto che tu non fossi una ragazzina facile. Beh, io non sono una donna facile. Ci dicono che ci somigliamo, e forse è vero. Ma nonostante ciò, non sono in grado di capirti.»
Yami la fissava con le lacrime sulle guance.
«A me sarebbe bastato che mi abbracciassi» confessò. Ed era vero. Spesso desiderava un abbraccio senza riuscire a chiederlo. Quasi fosse un gesto di debolezza. Ma csa le importava oramai? Yoruichi singhiozzò e la strinse a sé. Niente di più semplice – e al contempo così efficace – come un abbraccio. Yami era ferita, di sicuro le ci sarebbe voluto del tempo per guarire. Ma Yoruichi aveva fiducia nella forza di sua figlia e questo gliel’avrebbe ripetuto ogni giorno. Kisuke li guardò, tutto fiero, stringendo una spalla di Soi Fon. Hikaru scrollò le spalle, sollevato. Dopodiché uscì e vide Ai che se ne stava poggiata al muro, guardandosi le scarpe.
«Ehi! Tutto bene?» gli domandò.
«Adesso che mia madre e mia sorella hanno fatto pace, direi di sì. Tu non sei arrabbiata con Yami per come ti ha trattata?»
«Un pochino. Ma la mia preoccupazione è più grande della rabbia nei suoi confronti.»
Ai arrossì. Avrebbe voluto chiedergli e tu invece non sei arrabbiato con me per come ti ha trattato? Sapere di avere un rivale in amore non doveva essere piacevole, a lei almeno avrebbe dato tanto fastidio. Ma non ce ne fu bisogno, dopotutto Hikaru era nella tala del nemico. Akon Higarashi aveva fatto un cenno ad Ai, come ad accertarsi che fosse tutto a posto. Hikaru allora si avvicinò a lui, prendendo in mano tutto il suo coraggio.
«Così tu sei Akon, vero?»
Il giovane chirurgo lo guardò stupito.
«Sì, e tu devi essere Hikaru. Ai mi ha molto parlato di te.»
Hikaru arrossì, non si aspettava una risposta del genere.
«A-Ah sì? Beh, sappi che io sono innamorato di Ai da molto tempo. E siccome c’ero prima io, di certo non intendo certo lasciarla a te!»
Si sentì un imbecille totale. Ma al diavolo, quella era la verità. Ai si portò entrambe le mani davanti al viso, era arrossita per l’imbarazzo. Hikaru l’amava davvero. E dopotutto lo amava anche lei.
«Come ho detto ad Ai, sono troppo vecchio per lei. Ci vuole qualcuno della sua età, per cui… mi fa molto piacere sapere che avrai cura di lei» disse Akon, molto diplomatico. Hikaru arrossì, ma se ne rimase dritto e fiero.
«Lo farò sicuramente!»
Alla fine quel tipo non era poi così male. Akon fece un cenno ad entrambi e poi se ne andò. Hikaru non ebbe nemmeno il tempo di riprendere fiato, che ecco Ai afferrarlo per un braccio.
«Questa è la cosa più romantica che qualcuno abbia mai fatto per me.»
«Tu dici? Io ho solo detto la verità e-»
«Oh, sta zitto Hikaru» ridendo Ai si avvicinò e lo baciò sulle labbra.
 
Natsumi si lasciò andare ad un sospiro. Dopo essersi ripresa dal suo attacco di panico, aveva raggiunto il suo ragazzo. E ora guardava sognante quei due piccoli innamorati mentre teneva mano nella mano il suo ragazzo.
«Come sono teneri. Un triangolo incredibile che alla fine si è risolto. E a proposito di questioni da risolvere…» disse dandogli una gomitata. «Kurotsuchi sta per tornarsene a casa, va a parlare con lui.»
«Uffa, e va bene!» Hanataro era in realtà grato che ci fosse Natsumi a dargli uno scossone quando serviva. Si massaggiò un braccio e osservò Kurotsuchi che
 usciva dal suo studio. Che si fermava a guardare Hanataro in un modo che quasi lo terrorizzò. E sentì Natsumi che si allontanava con una banalissima scusa.
«Ah, sei qui Yamada. Aspetta, sbaglio o quella è mia figlia che sta baciando il figlio di Urahara?» domandò. Sembrava ad un passo dall’uccidere qualcuno, non proprio un bel momento per una chiacchierata, ma oramai Hanataro c’era dentro.
«Ecco, io… voleva parlarmi?» domandò, cercando di riportare l’attenzione su di sé. Cosa che funzionò. Mayuri infatti si ricompose un attimo.
«Ah, sì. Senti, io non sono certo conosciuto per i miei modi teneri e affabili, questo oramai lo sai. Ma se sono sempre stato severo con te, o con Ishida o con Kurosaki, è perché… vedo in voi del potenziale. Non c’è proprio bisogno di essere gelosi.»
«I-io non sono geloso! Cioè… un pochino» si ritrovò ad ammettere. Mayuri sospirò, stanco. Era come avere a che fare con un altro figlio.
«Se proprio ci tieni a saperlo, Yamada, nella nostra equipe sei quello più preciso, oltre che quello più veloce. Perché credi che abbia affidato a te Higarashi? E poi pensavo che un approccio meno severo con i nuovi arrivati sarebbe stato più producente. Anche se non mi dispiacerebbe tornare ai vecchi metodi.»
Hanataro sgranò gli occhi. Per carità! Era stato anche lui un tirocinante, sapeva cosa voleva dire. E poi si sentì davvero felice di aver ricevuto quei complimenti. Per lui contavano tantissimo.
«Oh, non è necessario! Io… ecco… non pensavo di essere così bravo, ecco»
«Ma lo sei, pensi che altrimenti avrei perso il mio tempo con te? Ora scusami, Yamada. Vado a strappare Ai dalle grinfie di quel ragazzino, così poi me ne torno a casa.»
Hanataro annuì, facendolo passare. Mayuri Kurtsuchi aveva fiducia in lui. Adesso lo vedeva, adesso lo sapeva! Sospirò, rilassato. Forse i suoi giorni da insicuro erano davvero finiti.
 
Era anche a causa della gravidanza se Momo era diventata così emotiva. Se ci si mettevano anche i problemi con suo figlio, la cosa diventava ingestibile. Toshiro stava cercando di consolarla come meglio poteva.
«Hayato mi fa sentire una madre terribile. Lo sono davvero?» singhiozzò, stretta tra le sue braccia.
«Ma no che non lo sei! Tu fai del tuo meglio, ma non può dipendere tutto e solo da te. O da noi» sospirò, baciandole la fronte. La cosa stava diventando ingestibile. A quel punto chi poteva essere in grado di risolvere la situazione?
Shinji non si sentiva certo un eroe, sebbene l’immaginarsi come tale lo faceva sentire orgoglioso. Per Momo però rappresentò proprio questo, quando gli riportò Hayato a casa. Hayato che aveva gli occhi lucidi dal pianto e che non aveva protestato quando Momo lo aveva abbracciato.
«Hayato, tesoro… ma perché te ne sei andato?» domandò.
Già, Hayato non voleva più essere codardo e scappare. Voleva imparare a comportarsi almeno un pochino come un adulto.
«Non vi preoccupate, è solo un po’ bagnato di pioggia» li rassicurò Shinji, che teneva salda una mano sulla sua spalla. «Dopo una chiacchierata, si è sentito pronto a parlare. E a parlare anche con voi.»
Toshiro, che se n’era rimasto in disparte, rimase sorpreso. Shinji era riuscito ad aprire il cuore di Hayato. Quest’ultimo era in evidente disagio, ma voleva comunque essere coraggioso.
«Mi dispiace di essermene andato. Ma detesto piangere davanti a tutti. Mamma» disse poi guardando Momo. «Lo so che sono troppo grande per queste cose, ma sono geloso. Tu avrai un altro bambino. Lui l’hai voluto davvero, perché voi due vi amate. E io invece… no» ammise, non troppo convinto in realtà. Momo lo ascoltò, stupendosi ancora una volta di quanta sensibilità Hayato avesse. Forse in questo aveva preso da lei.
«Piccolo» disse posandogli le mani sulle guance. «Tu sei mio figlio. Ti ho voluto dal primo istante. Lo so che il rapporto tra me e tuo padre non è mai stato facile è che la cosa ti ha fatto soffrire. Ma questo non cambia l’amore che noi proviamo nei tuoi confronti. Lo so che avrò un altro figlio, e lo amerò come amo te. Quando ho saputo di essere rimasta incinta ero felice perché sapevo che questo bambino avrebbe avuto il migliore fratello maggiore su cui contare. Perché io ho fiducia in te.»
Hayato sentì gli occhi pizzicare, ma stavolta erano lacrime di commozione e non di dolore. Toshiro si avvicinò.
«Lo stesso vale per me. Non importa se non sei biologicamente mio figlio, ti voglio bene lo stesso» sussurrò, un po’ rosso in viso. Era la prima volta che gli dichiarava così apertamente il suo affetto. Ma di Hayato questo non aveva mai dubitato.
«Ti voglio bene anche io…» sussurrò, senza guardarlo negli occhi. Allora Toshiro, in quel momento, prese il coraggio per fare ciò che in quegli anni non aveva mai fatto: lo abbracciò, certo che non lo avrebbe rifiutato. E infatti non avvenne. Momo guardò Shinji, commossa.
«Ti ringrazio.»
«Ma va, di che? Tu hai aiutato mia figlia durante una crisi. E poi anche io sono il padre di Hayato, no? Il più figo, aggiungerei» disse, sinceramente felice. Adesso voleva tornare a casa, strizzare un po’ per Miyo e abbracciare Sosuke.
 
Satoshi Schiffer. Ufficialmente quello era il suo nome. Ufficialmente, era il figlio di Ulquiorra e Orihime e il fratello di Kiyoko. Solo da un punto di vista legale, perché per loro lo era stato sin dall’istante in cui si erano conosciuti. Kiyoko stava strizzando un po’ suo fratello, entusiasta per l’ufficializzazione avvenuta.
«Evviva, è proprio un bel giorno. Dobbiamo festeggiare in qualche modo, facciamo qualcosa. Andiamo al luna park, o al mare. O magari ad una mostra d’arte?»
Ulquiorra sospirò, allentandosi la cravatta che sentiva un po’ stretta e guardando poi Orihime. Era stata una giornata di tensione, sebbene l’adozione fosse oramai certa avevano comunque avuto paura che qualcosa potesse andare male. Ma non era così e Satoshi era loro, non sarebbe stato più costretto a passare da una famiglia all’altra, da una casa all’altra. Orihime e Ulquiorra si tennero per mano, sorridendosi Amavano i loro figli tantissimo.
«Magari possiamo fare un giro, ma lo sapete che vostro zio Sora stasera viene a trovarci.»
A Satoshi brillarono gli occhi. Gli piaceva suo zio Sora, somigliava molto ad Orihime.
«Mi piace questa cosa. Prima però c’è una cosa che vorrei dire» disse, sentendo improvvisamente il colletto divenire stretto. Timido per com’era non amava parlare in pubblico, nemmeno se si trattava della sua famiglia, ma ci teneva comunque a dire qualcosa.
«Amh… questi ultimi anni per me sono stati i più belli di tutta la mia vita. Non avevo mai incontrato nessuno che mi volesse bene da subito… e che mi facesse sentire subito a casa. Ho imparato solo da poco cosa vuol dire sentirsi davvero voluti e ho scoperto che mi piace. Ci ho guadagnato una sorella che è una migliore amica, una madre che è una pasticcera incredibile e un padre che è un artista.»
Kiyoko si indispettì.
«… Ah, ovviamente non mi dimentico del tuo talento nella fotografia» aggiunse Satoshi. «Quello che voglio dire è che mi spiace ci siano stati momenti difficili. Immagino succeda nelle famiglie, no? Inoltre io mi chiedevo se… insomma…» e dicendo ciò si fece ad un tratto più intimo. «I figli di solito non chiamano i genitori per nome, no?»
Orihime non gli diede il  tempo di aggiungere altro: lo abbracciò, soffocandolo quasi sul suo seno.
«Oh, Satoshi, bambino mio! Se volessi chiamarmi mamma, ne sarei felicissima!»
Ulquiorra le posò una mano su una spalla.
«Così lo soffochi, tesoro.»
Anche se in realtà Satoshi stava benissimo, ed era anche felice. Oramai si fidava del tutto di loro. Ed era questo il presupposto per essere una famiglia.
«D’accordo» Orihime si asciugò una lacrima. «Adesso porterò i miei tre bambini a prendere un gelato.»
Ulquiorra si indicò, chiaramente il terzo bambino era lui. Mentre scendevano una lunga scalinata, Kiyoko vide che più l’aspettava una persona: il suo Kaien che se ne stava lì imbronciato.
«Ehi, ciao» esclamò, saltando l’ultimo gradino e facendo svolazzare il vestito verde come i suoi occhi. «Come sapevi che ero qui?»
«Non lo sapevo, me l’ha detto Naoko. Congratulazioni… per l’adozione? Si dice così in questi casi?»
Kiyoko si mise a ridere. Aveva l’impressione che fossero cambiati. Kaien era un po’ più alto, sempre imbronciato ma con lo sguardo più felice. Lei invece si sentiva bene in quel vestito, con i capelli più lunghi e il mascara alle ciglia. Erano un po’ meno bambini e un po’ più due adulti.
«Immagino di sì. Ma sei venuto qui appositamente per me?»
«Umh. No… cioè, sì… Cioè… una via di mezzo. Mi mancavi, però volevo andare anche da quel cretino di Hayato, ultimamente mi ha un po’ messo in disparte.»
Kiyoko sgranò gli occhi e poi si voltò a guardare sua madre. Oh, che situazione imbarazzante. Orihime si mise a ridere.
«Non preoccuparti tesoro, va pure.»
«Sì, va pure» disse Satoshi, al quale non dispiaceva l’idea di passare un po’ di tempo solo loro tre. Ulquioora sospirò lentamente.
«Riportamela a casa non troppo tardi» disse minaccioso.
«Riportarla a casa? Ma io non guido la macch-»
«Va bene, dai Kaien. Possiamo andare no?» Kiyoko lo prese per mano, era meglio allontanarsi prima che ai suoi genitori venisse in mente qualcosa di imbarazzante.
 
 
Quella giornata era sembrata infinita a Mayuri, non era mai stato così felice di essere a casa. Sua figlia se n’era andata in camera sua con gli occhi sognanti, felice e contenta. L’amore sapeva essere tremendo, anche (e soprattutto) per le menti geniali e razionali.
«Ai con Hikaru» sospirò, sedendosi. «Era destino, ovviamente. Ma ti avverto, non voglio sentir parlare di matrimonio minimo per altri dieci anni.» Nemu si mise a ridere, suo marito sembrava essersi dimenticato che la loro Ai aveva solo dodici anni. Gli si sedette accanto e portò una mano sul suo petto.
«Sei stato magnifico, oggi. Con Urahara, intendo. Hai fatto quello che un vero amico avrebbe fatto.»
Mayuri fece una smorfia.
«È proprio necessario dirlo?»
«Sì. Perché, anche se non vuoi che si sappia troppo in giro, hai un cuore tenero. Non con tutti, certo. Ma quando ti decidi ad aprirti con qualcuno, lo fai completamente. E io mi sento molto fortunata ad averti, per questo.»
Si sentiva fiera e orgogliosa, non c’era più spazio per gli attacchi di gelosia. E poi si era presa una bella soddisfazione affrontando Senjumaru.
«Sono io ad essere fortunato. E poi non tuti sarebbero stati altrettanto coraggiosi da affrontare Senjumaru in quel modo. Hai protetto tu me. E… grazie.»
Nemu si avvicinò e lo baciò. Se c’erani alcuni casi in cui l’amore andava diminuendo negli anni, non era certo il loro, di caso.
«Anche il chirurgo più bravo ha bisogno di protezione, ogni tanto?»
«Ripetimi ancora che sono il più bravo» le disse e poi la baciò a sua volta.
 
 
Miyo stava tenendo compagnia a Rin, la quale non aveva voglia di rimanere da sola mentre i suoi genitori affrontavano ben altra questione.
«Certo che sembra di stare all’interno di un film o di un libro» rifletté Miyo ad alta voce. «Mi chiedo perché le persone arrivino a fare certe cose. Un po’ come quello che è successo a Yami.»
Rin beveva lentamente un succo di frutta. Stava cercando di mangiare poco ma spesso, in questo modo manteneva vivo anche il suo appetito, che si stava finalmente normalizzando.
«Non lo so. Non si pensa mai abbastanza a quello che si dice. Non finché qualcuno non si fa male.»
A lei era bastata una semplice frase detta con malignità e superficialità per gettarla nel baratro. Non pensava potesse essere così sensibile, in parte era una cosa che non sopportava. Miyo l’abbracciò.
«Sono perfettamente d’accordo con te. Sappi che ti voglio bene. E anche Hayato e tutti i nostri amici. E sei bellissima, io ho sempre mirato ad essere come te.»
Rin la guardò, sorpresa.
«Ma tu sei bella» disse, ed era sincera. Le piacevano i suoi capelli biondi, gli occhi espressivi, il fatto che fosse piccola e leggera.
«Anche tu. Sarebbe bello potessi vederti come ti vedo io. E non solo io.»
Rin arrossì e si imbronciò. Sua madre una volta le aveva detto che spesso a quell’età ci si sentiva brutte e orribili e che spesso questa sensazione non andava via neanche crescendo. Però, lei e Miyo erano ancora i boccioli delle donne che un giorno sarebbero diventate.
 
Mentre Miyo e Rin si facevano compagnia, Rangiku camminava nervosa. Detestava le centrali di polizia, le mettevano ansia. Più che preoccupata, si sentiva nervosa. Avrebbe davvero voluto cantargliene quattro a quella ragazzina. No, non voleva essere superiore o passarci sopra, non se la persona che amava veniva messa in mezzo. Gin la raggiunse poco, insieme ad Aizen. I due parlavano tranquilli e Rangiku andò loro incontro.
«Beh? Com’è andata? L’avere arrestata?»
Sosuke sorrise.
«Tema che la galera non sia prevista per questo tipo di reati, ma quella ragazza sarà comunque costretta a pagare delle multe molto salate. Credo che dovrò dire addio al suo bell’appartamento in centro. Sono riuscito ad eliminare tutte quelle dicerie online su Gin, comunque, e questo è l’importante.»
Rangiku sospirò. Si sentiva molto più tranquilla, tuttavia non del tutto a posto con sé stessa. Guardò suo marito.
«Vorrei parlare con lei.»
Gin fece una smorfia, tuttavia capiva il desiderio di sua moglie, era lo stesso che aveva anche lui.
«Io vengo con te. Ho qualcosa da dirle.»
«Beh, allora io vi lascio» disse Aizen. «Torno a casa.»
Gin accarezzò la mano di sua moglie e strinse le dita alle sue. Loly aspettava di essere scortata a casa da un agente, aveva il viso rosso di vergogna e rabbia. Quando vide i due coniugi venirle incontro, ebbe il desiderio di scappare, tuttavia non c’era alcun posto dove potessero andare.
Rangiku la fissò. Quella ragazza era giovanissima, avrebbe quasi potuto essere sua figlia, con qualche anno in meno. E aveva fatto un’idiozia, rovinandosi e quasi rovinando la sua famiglia, solo per dei capricci.
«Dimmi una cosa. Ne è valsa la pena?» esordì, sorprendendo sia Loly che Gin. La ragazza sgranò gli occhi. Si sentiva già così umiliata e adesso ci si metteva anche lei con quelle domande. E visto che non rispondeva, Rangiku continuò.
«Quello che hai fatto è una cosa terribile. Accusare qualcuno di averti molestato sessualmente… è una cosa grave. Rovinare la vita a qualcuno solo per un proprio capriccio è egoistico e cattivo. Ti auguro di non essere mai violentata o molestata, perché succede a tante persone e non è un dolore da cui si guarisce.»
Rangiku non aveva mai subito una vera violenza fisica, ma le molestie, quelle c’erano state spesso. Come se il fatto di essere una bella donna con un bel corpo autorizzasse chiunque a trattarla come un oggetto. Ecco perché la cosa le stava così a cuore. Non voleva fare la morale a nessuno, ma sperava di portare Loly a riflettere.
Poi fu Gin a parlare, in un tono stranamente più conciliante, nonostante fosse lui la vera vittima.
«Sei giovane, rovinarsi e rovinare delle vite non ne vale la pena. Studia, lavora, innamorati, divertiti. Sono queste le cose che una persona, specie alla tua età, dovrebbe fare.»
Il fatto che Gin le stesse sorridendo senza alcun rancore era ciò che fece più male a Loly, ciò che la fece vergognare completamente di ciò che aveva fatto. Rangiku lo capì e per questo non infierì. Strinse la mano di suo marito e poi lo guardò. Voleva tornare a casa loro, dalla loro Rin e dedicarsi completamente a lei, ora che quella brutta faccenda era conclusa. Loly li osservò allontanarsi. Dubitava che li avrebbe rivisti, ma di certo non si sarebbe dimenticata facilmente di quella coppia così unita.
 
 
Aizen se ne tornò a casa soddisfatto. Era sempre bello quando un caso andava a buon fine, specie se c’era un amico in mezzo. In casa sembrava non esserci nessuno. Shini però c’era e gli si avvicinò di soppiatto, facendolo sussultare.
«Shinji, mi hai spaventato. Ma perché è tutto buio?»
«Sono appena rientrato. Hayato è rimasto da Momo. Sai, credo che le cose andranno meglio» gli rispose. La luce della luna illuminava la sua figura e Sosuke si ritrovò attratto.
«Perché dici questo?» domandò avvicinandosi. Shinji sorrise.
«Diciam oche abbiamo avuto una chiacchierata profonda e che adesso Hayato si fida di me.»
Sosuke portò una mano sul suo viso, accarezzandolo.
«Sono molto fiero di te, Shinji.»
Quest’ultimo chiuse gli occhi, per poi riaprirli.
«Devo chiederti scusa. Per tutto questo tempo ho cercato di rendermi utile perché volevo fare bella figura ai tuoi occhi. Beh, non solo per questo, ma all’inizio era perché… credo fossi invidioso di Momo. Lo so che è stupido, ma non sono così sicuro di me come voglio far credere.»
Ah, Shinji. Era sempre il solito. Esagerato, emotivo, melodrammatico. Lo amava da impazzire.  
«Non avresti avuto motivo di voler fare bella figura davanti a me. Tutto quello che fai per me è perfetto. Sei perfetto con me, con Miyo… e ora anche con Hayato.»
«Ah, già. Lui» disse arrossendo. «Amo quel ragazzino insolente, perché è tuo figlio e io amo te. E poi perché è molto più sensibile di quanto voglia far credere.»
«Lo so. I nostri figli sono fortunati ad avere te» sussurrò sulle sue labbra, per poi baciarlo. Era vero, quelli erano proprio i loro figli e quella era la loro famiglia. Shinji lo baciò con passione e poi si staccò all’improvviso.
«Hai risolto la questione di Gin?»
«Ovviamente. Non c’è una sola cosa che io non possa risolvere. Merito un premio, non trovi?»
Shinji si mise a ridere e lo abbracciò. Era felice, perché finalmente sembrava aver raggiunto quell’equilibrio che aveva bramato per tre anni.
   
 
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