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Autore: Eris_artem    23/03/2023    1 recensioni
John Watson è un veterano di guerra, ferito, depresso e squattrinato. L'ultima persona che vorrebbe incontrare è un alpha belloccio ma arrogante, eccentrico e vanitoso come Sherlock Holmes. Peccato che rischi di diventare il suo coinquilino... ma non è ancora detta l'ultima parola!
*ATTENZIONE: questa storia è un'omega!verse. alpha!Sherlock, omega!John*
Genere: Avventura, Noir, Omegaverse | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Terzo

 

Alpha idioti ovunque

 

 

 

«Sono qui per la mia stampella!» 

John si rese conto di averlo urlato. Non si sentì in colpa: erano passati venti minuti da quando la signora Hudson gli aveva aperto la porta e aveva iniziato a ciarlare.

«Io speravo fosse venuto per rimanere! E invece non ha neanche portato le sue cose… Mi dia retta, giovanotto, non va bene affatto: non deve dargli troppa corda, non lo lasci così libero. Quelli come lui hanno l’abitudine di scapparsene sempre chissà dove… ne so qualcosa, io! Il mio defunto marito… ma non parliamo di questo. Il caro Sherlock ha sempre avuto il guinzaglio lungo, finora. Anche troppo! Quell’abitudine così irrispettosa di andarsene da un momento all’altro, mentre la gente gli parla! Se ne va a zonzo per Londra come un randagio, salta da un taxi all’altro e a volte sparisce per giorni interi. Oh, spero proprio che lei non abbia intenzione di lasciarglielo fare… Lei dovrà farsi rispettare, caro. Dia retta a me, non ai figli dei fiori… tutte quelle chiacchiere sulla libertà. Libertà, libertà… Da libero a libertino il passo è breve!»

John tirò un lungo sospiro. Avrebbe tanto voluto avere la capacità di fuga di Sherlock Holmes. Invece era uno zoppo, prigioniero di una vecchia signora troppo affettuosa per potersene liberare.

La verità era che la signora Hudson gli piaceva. Avrebbe potuto tollerare di averla come governante. Rientrare a casa la sera, passare a provarle la pressione e fare due chiacchiere con lei… Doveva solo riuscire a farle entrare in testa che lui e il suo coinquilino non stavano per sposarsi.

«Naturalmente non voglio immischiarmi nelle vostre questioni, caro. Non sono una di quelle vecchie impiccione, sa? Oh no, non c’è in tutto il quartiere una sola donna meno pettegola di me. Di certo non la signora Spencer, che la settimana scorsa…»

John sintonizzò il cervello su un’altra stazione, mentre la seguiva su per le scale.

L’appartamento era esattamente nelle condizioni del giorno precedente: lo stesso disordine, e polvere accumulata in gran quantità sul pavimento e su tutte le superfici piane. 

L’incuria però era probabilmente la cosa meno strana. Ovunque c’erano oggetti incongrui. Una maschera tribale appesa al muro e una pila di fascicoli traballante sul tavolino erano gli unici elementi lontanamente ordinari nella stanza. Sulla mensola del caminetto, a fare gli onori di casa, c’era un teschio umano. Accanto al teschio, il coltello col manico d’osso con cui gli aveva visto infilzare la posta il giorno prima. Sopra la scrivania, John sorprese riviste accademiche e giornali di gossip in atteggiamenti promiscui; sotto la scrivania invece erano incastrati una valigetta rosa, un cartello stradale e una cuccia per cani piena di libri. La libreria, in compenso, era vuota per metà. La sua enciclopedia medica ci sarebbe stata perfettamente. 

«Si sieda, le preparo qualcosa da mangiare. Scommetto che non ha fatto colazione… siete tutti uguali voi scapoli!» berciò la signora Hudson. «Ma badi, è solo per questa volta. Non sono la vostra governante.»

«Certo», rispose John, soffocando una risatina. «Il signor Holmes…?»

«Oh, arriverà», rispose la signora Hudson, per riprendere quasi subito i pettegolezzi da dove li aveva lasciati.

Probabilmente non è rientrato stanotte, pensò John. Ma perché ci stava pensando? Non gli interessavano le abitudini di Sherlock Holmes. Anzi, doveva sperare che si sarebbero visti e frequentati il meno possibile. Ed era probabile che andasse proprio così: in fin dei conti, nessuno dei due sembrava il tipo di uomo che passa molto tempo in casa.

«… e naturalmente l’estate scorsa non è affatto andata nel Kent, come potrà ben immaginare. Ma scommetto che non indovina dove l’hanno sorpresa, e con chi…» 

 

 

Nel pomeriggio, John decise di fare felice la signora Hudson e cominciò a trasferire le sue cose. Di Sherlock Holmes non si era ancora vista vista l’ombra, a Baker Street.

Probabilmente era andato a interrogare la moglie della seconda vittima, Lord Mulray. Comunque, John era felice che non ci fosse, perché ciò gli dava l’occasione per sistemare un po’ la casa.

Decise di iniziare dalla libreria. Spostò i pochi libri di Holmes a sinistra, e sulla propria metà impilò ordinatamente i numerosi (e pesanti) volumi dell’Enciclopedia medica, i manuali su cui aveva studiato all’Università e che aveva deciso di tenere – su tutti troneggiavano il Gray e l’Harrison – e una serie di cartelline grigie in cui aveva raccolto articoli scientifici debitamente divisi per argomento e per data.

Passò quindi ad occuparsi della sua camera da letto, ma quella richiese ancora meno sforzi. Aveva una sola valigia per i vestiti: pigiama, tre paia di jeans e pochi maglioni in più, spazzolino, shampoo e bagnoschiuma. Un paio di pantofole che si infilò direttamente ai piedi. Nel complesso, un quadro abbastanza deprimente.

Scese al piano di sotto.

In cucina, tra i piatti incrostati (alcuni ancora pieni di cibo) dimenticati un po’ ovunque, John fu sorpreso di trovare un piccolo laboratorio di chimica. Piccolo, sì, ma ben fornito. Sopra il microonde c’era una centrifuga, usata per chissà quale scopo – probabilmente non per preparare la spremuta per il brunch domenicale. Abbandonati lì vicino c’erano anche un imbuto separatore, numerose cannule e qualche becher, e un agitatore magnetico; il fiore all’occhiello, comunque, era un contenitore pieno dei resti, secchi, di una sostanza non identificabile: ovviamente era senza coperchio, e pericolosamente vicino alla zuccheriera.

Che c’entrasse o no col lavoro di Holmes, gliel’avrebbe fatto sgomberare. Non ci teneva a condire l’insalata con l’arsenico. Anche se era un alpha, Holmes avrebbe imparato a rispettare le proprietà comuni.

Era intento a questo genere di riflessioni, quando il suo coinquilino sbucò dalla porta che dava sul corridoio e sulla tromba delle scale.

«John», lo salutò frettolosamente, «si sbrighi, non abbiamo tempo».

«Non abbiamo tempo?», lo rimbeccò John.

Ignorando del tutto il suo sarcasmo – sempre che fosse in grado di riconoscerlo – Holmes aggiunse, a mo’ di spiegazione:

«Dobbiamo andare in obitorio.»

Rimpiangendo amaramente il momento in cui aveva deciso di concedersi l’uso delle pantofole, John risalì al piano di sopra per rimettere le scarpe, scese claudicando fino all’ingresso, chiuse la porta e salì sul taxi in cui Holmes lo aspettava.

Solo a quel punto si rese conto che non era formalmente costretto a fare tutto quel che diceva Sherlock Holmes.

 

 

«Ci sono alcune cose che non mi sono chiare», esordì Watson. «Ieri ha detto di aver scoperto il secondo omicidio prima della polizia, ma…»

«Non ora, dottore», lo zittì l’altro, senza staccare gli occhi dal telefono. John tuttavia notò un sorrisetto storto, lieve, che gli increspava le labbra appena. 

Holmes continuò a digitare freneticamente sullo smartphone per cinque minuti buoni. La sua concentrazione era assoluta. Anche se lo conosceva solamente da un giorno e mezzo, John aveva già avuto modo di notare che quando era in quello stato non era possibile comunicare con lui, distrarlo o ottenere alcuna reazione. Si chiese pigramente se unendo tutti i tratti autistici di quell’uomo sarebbe venuto fuori il disegno di un unicorno petulante, o di un consulente investigativo, come si faceva chiamare…

«Ora può iniziare con le domande», disse Sherlock Holmes all’improvviso.

John sbuffò. Unicorno petulante, decisamente.

«D’accordo. Come ha fatto a scoprire il secondo omicidio prima della polizia?», chiese.

«Noioso. Può fare di meglio», rispose Holmes con un ghigno, riponendo il telefono in una delle ampie tasche del suo cappotto.

«Perché ha chiesto a Lord Frenkel che reazione avesse avuto la moglie quando hanno ricevuto quel messaggio in codice? E come faceva lui a sapere che si tratta di minacce di morte?» sputò fuori John.

«Sta migliorando… continui.»

Che faccia da schiaffi.

«Che cosa siamo andati a fare ieri a Scotland Yard, se non vuole dire alla polizia di Lord Frenkel? E perché quell’uva dovrebbe essere una minaccia di morte… non sarebbe stato più chiaro un biglietto?», continuò John. «Se io ricevessi un chicco d’uva per posta, penserei a uno scherzo. Una lettera sarebbe stata più minacciosa».

«Questo ci dice qualcosa di lei, dottore», gli rispose Holmes, bonario. «Che è una persona pratica, ad esempio. Che non ha nemici noti. E che non ha mai avuto contatti con società segrete o associazioni criminali».

John lo fissò, aspettando che proseguisse.

«Prima non era fuori strada, quando ha chiesto come facesse Lord Frenkel a sapere che quel messaggio era una minaccia ben precisa. Il mio sospetto è che non lo sapesse, almeno non con certezza. Ma il fatto che si sia rivolto a me, invece di pensare ad uno scherzo, mi fa pensare che abbia un’idea di chi potrebbe esserci dietro», concluse.

«E perché non glielo ha chiesto?»

«Sarebbe stato inutile. Se la mia ipotesi è esatta, Lord Frenkel teme per l’incolumità di uno dei suoi cari, oppure teme che sia coinvolto in qualcosa di poco onorevole. Capisce bene che non mi avrebbe detto nulla che potesse comprometterli», spiegò Holmes. «Infatti è venuto da me per accertarsi dei suoi sospetti riguardo il messaggio in codice, ma non ha contattato la polizia».

«Forse si è spaventato quando ha saputo di quei due omicidi», disse John.

«È probabile», rispose Holmes. «I notiziari nazionali non ne hanno parlato, su richiesta della polizia, ma la notizia a Londra è sulla bocca di tutti.»

Detto questo, Holmes tornò a fissare il vuoto davanti a sé, come se la conversazione fosse finita.

Il taxi procedeva a rilento nel traffico londinese; Watson contava distrattamente le goccioline di pioggia che correvano lungo il finestrino, ragionando tra sé sul caso. Non era sicuro di riuscire a seguire alla perfezione l’intreccio di dettagli che Holmes gli aveva snocciolato. Non si considerava certo un uomo ottuso, ma doveva riconoscere che il suo strano aspirante coinquilino aveva una mente eccezionale. Probabilmente Holmes era davvero in grado di sciogliere la matassa aggrovigliata di quella macabra storia. Forse era l’unico uomo in tutta Londra in grado di farlo. John non capiva, però, perché fosse così ostinato nel tenere la polizia all’oscuro di tutto. Stronzate da alpha, probabilmente. Orgoglio, o esibizionismo, o chissà cos’altro.

Arrivarono al Bart’s dopo quasi quaranta minuti. Sherlock Holmes pagò il tassista senza battere ciglio e poi si diresse a passo spedito verso il padiglione D, quello in cui si trovava l’obitorio.

Watson se lo ricordava bene, dai tempi dell’Università. Lì aveva assistito alla sua prima autopsia, il terzo anno di medicina. A ripensarci, sembra fosse passata più di una vita intera da allora. Nessuno avrebbe riconosciuto in lui il ragazzo magro e biondo che seguiva le lezioni con Mike Stamford e sognava di specializzarsi in Chirurgia Generale – branca insolita per un omega, come ci tenevano a ricordargli spesso…

«Di qua!»

La voce di Holmes lo scosse dalle sue malinconiche rimembranze. Come il giorno prima a Scotland Yard, John faticava a stare al passo, con la stampella e la gamba che si ritrovava. Zoppicava visibilmente e senza grazia per i corridoi bianchi e azzurri del padiglione, e riuscì per un soffio a infilarsi nell’ascensore che si chiudeva alle spalle di Holmes.

«Dovrebbe rallentare!», ringhiò.

«Dovrebbe liberarsi di quella stampella», ribatté Holmes, senza battere ciglio, mentre premeva il lungo dito diafano sul -2.

Watson la strinse ancora più forte, stizzito.

«Dove stiamo andando?»

«Dottoressa Hooper» rispose Holmes, cupo. «Pessima come medico legale, ma è l’unica che può aiutarci.»

«E perché?» chiese John, perplesso.

La risposta non tardò ad arrivare. La incontrarono davanti alle macchinette dell’area caffè, a pochi passi dall’ingresso dell’obitorio: era bassa, era carina, era omega. Quando vide Sherlock Holmes, si rovesciò il cappuccino addosso.

«Dottor Watson», disse Holmes, «la Dottoressa Hooper».

John le porse la mano, gentilmente. La Dottoressa Hooper la strinse, lasciandogliela appiccicosa. Borbottò un: «…Molly» e concluse la propria presentazione con un sorriso imbarazzato.

Si diressero tutti e tre in obitorio, e, mentre Holmes bisbigliava qualcosa con tono concitato all’orecchio della dottoressa, John la osservò con un misto di curiosità e apprensione. Il suo visetto dolce gliel’aveva resa istintivamente simpatica, senza contare che era una collega di professione e di status. Proprio quest’ultimo dettaglio, però, fece ruggire qualcosa che viveva nascosto in fondo al suo stomaco. Non gli piaceva affatto il modo in cui guardava Holmes… come un cerbiatto che non desideri altro che essere sbranato.

«… dovresti mostrare il corpo al Dottor Watson, Molly. Lasciargli dare un’occhiata»

«Sherlock, lo sai che non posso», rispose lei, quasi balbettando.

«Solo per questa volta», sussurrò Holmes, suadente. «È venuto apposta per vederlo. Mi serve il suo parere professionale».

«Noi… noi abbiamo già fatto l’autopsia», provò a protestare la Dottoressa Hooper. «Non posso proprio, Sherlock…»

«Lascia solo che dia un’occhiata, d’accordo?», tagliò corto Holmes.

La dottoressa Hooper, probabilmente ubriaca della sua scia, si lasciò condurre nella camera mortuaria. Aprì con un gesto automatico la cella frigorifera, che ospitava due salme avvolte in una sacca in plastica, ne scoprì una davanti a loro e si fece da parte.

«Allora? John?»

Watson fece un respiro profondo, cercando di ignorare tanto il tono insistente di Holmes quanto la cascata di ferormoni che aveva riversato nella stanza. Non poteva biasimare la povera dottoressa Hooper. Essere omega era un inferno.

«Non sono un medico legale» cominciò, scontroso. «Potrei dirle che quest’uomo sulla destra è morto da almeno quarantotto ore, ma non le direi niente di nuovo».

Era strano vedere un alpha conciato così. Non solo perché era poco frequente. Eppure, non era solo questo a turbarlo. Era la sua tendenza istintiva, insopprimibile, in qualche modo connessa all’essere omega, a vedere gli alpha come individui quasi invulnerabili. John si sarebbe tagliato una mano piuttosto che ammetterlo, ma non riusciva a non pensare a quanto doveva essere stato diverso quell’uomo, quand’era in vita. Imponente, protettivo. La sua stazza lo induceva a immaginarlo così. Eppure, il corpo che aveva davanti era inerme nella morte.

Il cuore di John si gonfiò di una tristezza particolare, opprimente.

«John?»

La voce di Sherlock Holmes lo scosse. 

Deglutì, e cercò di concentrarsi per tirare fuori qualche informazione in più.

«Le mutilazioni sono effettivamente post mortem», disse. «Causate da un oggetto appuntito, lungo tra i venti e i venticinque centimetri.»

«Era davvero un coltello da cucina?», chiese Holmes.

John si costrinse a guardare più attentamente la zona pelvica del cadavere.

«Sì, è possibile. La lunghezza e la profondità dei tagli sono compatibili».

All’uomo erano stati asportati pene e testicoli. Chiunque fosse l’assassino, non aveva fatto un buon lavoro: una parte dello scroto, a sinistra, era ancora attaccata al corpo, pendula e bluastra. Il taglio non si presentava netto, ma frastagliato, scomposto in sezioni di diversa lunghezza e direzione. La pelle livida testimoniava che l’asportazione era stata effettuata da qualcuno che voleva segare via i genitali, senza particolari scrupoli di precisione, e probabilmente con una lama poco affilata.

«Penso che l’abbia fatto in fretta», mormorò John. «Un macellaio».

Deglutì di nuovo, due volte. Aveva la gola secca.

«I macellai sarebbero molto offesi dal paragone», commentò Holmes, leggero. «Loro sanno come tagliare la carne».

«Non dovrebbe».

«Non dovrei cosa?»

«Fare dell’ironia su un cadavere. Questo cadavere», precisò John. 

«Mi ricorda la signora Hudson», commentò Holmes, alzando gli occhi al cielo. Era chiaro che non era per nulla turbato dal rimproverò.

John ringhiò sommessamente.

«Un uomo è morto», gli ricordò.

«E io troverò il suo assassino», rispose Holmes, senza battere ciglio. «Mi sembra l’unico elemento rilevante».

«Forse qualcos’altro che conta c’è.»

John era urtato. Urtato dall’insensibilità di Holmes. Urtato dalla dottoressa Hooper, che camminava su e giù, nervosamente, davanti alla porta dell’obitorio, divorata dal timore che qualcuno li scoprisse. Ebbe di nuovo un moto di pietà e fastidio, guardandola.

«Non dovremmo nemmeno essere qui», disse.

«È libero di andarsene», rispose Holmes, freddo. 

Stava ancora esaminando il corpo, chino su di esso, vicinissimo alla pelle livida e al nauseante fetore che emanava, nonostante il freddo della cella di conservazione.

John inspirò, gonfiando i polmoni fino al limite della loro estensione. Trattenne il fiato per qualche secondo. L’impulso prevalente era quello di prendere Holmes a testate. Forse piantarlo in asso era davvero la cosa migliore che potesse fare: se non altro gli avrebbe insegnato il valore del tatto. Se c’era una cosa che John non sopportava, negli alpha, era proprio la presunzione di poter fare e dire quello che volevano, senza curarsi dei sentimenti degli altri – una presunzione che Sherlock Holmes aveva già dimostrato di possedere in abbondanza.

«Oppure», continuò Holmes, mentre afferrava la mano sinistra del cadavere, «può smettere di concentrarsi su ciò che è irrilevante e concludere l’esame autoptico. Magari mi dirà finalmente qualcosa di interessante».

Fu un moto d’orgoglio, non altro, a impedire a John di mandarlo istantaneamente dove meritava di essere mandato. Avrebbe dimostrato a quel bellimbusto che sapeva fare il suo mestiere.

«Gli esami tossicologici?»

«Tutti negativi», rispose in automatico la dottoressa Hooper. Dava loro le spalle e continuava a controllare l’ingresso. «Sherlock, il turno di Dave inizia tra dieci minuti…»

«Per allora avremo finito» rispose Holmes.

«Non…»

«Dammi solo qualche altro minuto, Molly» disse Holmes. Stavolta non c’erano tracce carezzevoli nel suo tono. Se possibile, questo irritò John ancora di più.

«È morto per asfissia.»

Holmes si voltò verso John.

«Come dice?» 

«La ferita al collo», spiegò John, «non è quella la causa della morte. Hanno cercato di sgozzarlo, ma lui ha lottato. La ferita è superficiale, vede?». Indicò i lembi bluastri della pelle del collo, che si aprivano di pochi millimetri verso l’esterno. 

«Quindi è riuscito a bloccare la mano del suo assassino», sussurrò Holmes. «Era un uomo dai riflessi pronti. È stato un attacco a sorpresa, ma lui è riuscito a reagire».

Era la prima volta che nella voce dell’alpha si sentiva una sfumatura di rispetto.

«Questi segni», continuò John, indicando gli ematomi che deturpavano il collo largo del cadavere, «indicano lo strangolamento».

«L’assassino non ha perso tempo. Era pronto a colpire una seconda volta. Quale assassino ha un piano di riserva? Chi non si fida del proprio coltello?» 

John alzò le spalle. Quelle non erano domande a cui potesse rispondere un medico. E comunque Holmes sembrava rivolgersi più che altro a sé stesso. Quando fu chiaro che il detective non avrebbe aggiunto altro, John continuò:

«È stato ucciso con una corda, o un nastro, sottile ma resistente. Le ferite al ventre sono state inferte con furia, questione di pochi attimi. Secondo me…» 

«… l’assassino aveva poco tempo», concluse Holmes per lui. «Forse aveva paura di essere scoperto. Ha cercato di colpirlo alla gola. Lo aveva di fronte – altrimenti Lord Mulray non avrebbe avuto la possibilità di accorgersene e di provare a difendersi. Ha lasciato cadere il coltello e ha scelto di usare la corda. Più difficile, ma stavolta ha funzionato. Quando era certo che la vittima fosse morta, ha raccolto il coltello e ha completato la sua opera». 

Mentre descriveva la dinamica presunta dell’omicidio, Holmes – con gli occhi socchiusi e le labbra ridotte a una fessura – mimava i gesti dell’assassino, prima stringendo una corda immaginaria intorno a un immaginario collo, e poi chinandosi per raccogliere il coltello, concludendo la propria interpretazione con uno svolazzo del lungo cappotto blu.

«È proprio sicuro che sia morto asfissiato?», domandò, teatrale, a Watson.

«Sì», confermò John. «Le escoriazioni sul collo e le petecchie nell’area orbitale non lasciano dubbi.»

«Oh, Molly!», esclamò Holmes. «Non è meraviglioso?»

La dottoressa Hooper rivolse loro uno sguardo preoccupato. Aggrottò le sopracciglia e guardò nervosamente la porta, prima di ripetere un’altra volta:

«Dovete andarvene.»

 

 

«Questo avresti dovuto mostrarmelo subito» disse Holmes circa venti minuti dopo, rivolto alla dottoressa Cooper.

Erano sgattaiolati fuori dall’obitorio insieme a lei, che li aveva quasi trascinati di peso prima il suo collega iniziasse il turno e li trovasse con le mani nel sacco – letteralmente.

La dottoressa alzò le spalle.

«Non… pensavo che… l’abbiamo trovato tra i suoi effetti personali», balbettò.

Tra le mani di Sherlock c’era un acino d’uva, scurissimo, identico a quello che John aveva visto il giorno prima a Baker Street.

«E dov’era?»

«Ce l’aveva in tasca. Nella tasca destra nel soprabito…», rispose lei. 

Sul volto di Holmes si dipinse un’aria raggiante.

La dottoressa Hooper lo fissò con un’espressione di pura perplessità negli occhi. Era chiaro che, per lei, tutta l’attenzione dedicata a quel dettaglio non aveva senso.

John, invece, capì che quello era un indizio fondamentale perché collegava in maniera inequivocabile il secondo omicidio al caso di Lord Frenkel. Un lungo brivido gli corse lungo la schiena. Per un attimo, aveva immaginato che ci fosse proprio Lord Frenkel, l’uomo distinto e affascinante che aveva conosciuto, sul tavolo dell’obitorio, nudo e mutilato.

Holmes propose di proseguire la conversazione davanti a un caffè, al bar dell’ospedale. Aveva ancora delle domande da rivolgere alla dottoressa Hooper, con cui parlò fitto fitto per tutta la durata del tragitto. Senza camice e coi capelli sciolti la dottoressa era molto carina – John lo notò con un pizzico di dispetto. Si protendeva involontariamente verso il signor Holmes, mentre lui le parlava, come aveva fatto per tutto il pomeriggio; dal suo collo e dalle ghiandole retro-auricolari emanava un afrore intenso, dolciastro.

La sua scia non mentiva. Quella donna era interessata a Holmes, o meglio, era completamente incantata da lui.

«Avrei potuto chiederti il referto dell’autopsia, ma non sarebbe stato altrettanto divertente», stava berciando Holmes, decisamente di buon umore. «Senza contare la quantità di dettagli fondamentali che sfugge ai medici legali e alla polizia… per esempio, scommetto che quando avete refertato i suoi effetti personali non avete prestato attenzione alla fede».

Dopo essersi fatto cacciare dall’obitorio, Holmes era riuscito a mettere le mani sui vestiti e i gioielli del defunto, e li aveva analizzati scrupolosamente.

«La sua fede?», chiese la dottoressa Hooper, ipnotizzata.

«Sì. Era d’oro bianco. Tra i membri dell’alta società inglese, l’oro bianco si sceglie per celebrare un Legame tra alpha e omega.»

Alla parola Legame, la dottoressa deglutì rumorosamente.

«E quindi?», chiese John.

Holmes gli rivolse un sorriso condiscendente.

«E quindi, dottore, all’interno della fede erano incise quattro leggere: A. M. S. M. Si deduce facilmente che le prime due sono le iniziali di Lord Alistair Mulray, le altre devono appartenere alla sua dolce metà. C’era anche una data, e valeva la pena di notarla» spiegò Holmes, con sussiego. «12/23/1978».

«12/23…»

«Esatto.» 

«Americani?» chiese John.

«Lord Mulray è inglese, come i suoi avi. Dai tempi di Enrico IV, a occhio e croce», rispose Holmes. 

«La sua compagna, o il suo compagno, allora…»

«Compagna. Inglese anche lei.» 

«Può trattarsi di un errore? O di… di una coincidenza», intervenne la dottoressa Hooper.

Holmes le rivolse uno sguardo di benevola sopportazione, che fece alzare gli occhi al cielo a John.

«Lui è come Dio, non crede nelle coincidenze», commentò. 

Anche quella volta, il suo sarcasmo andò sprecato. La dottoressa Hooper sgranò gli occhi, Holmes invece sorrise compiaciuto.

 

 

Fu John a fermare un taxi, una volta usciti dal Bart’s. O per meglio dire, fu John a lanciarsi davanti alla prima vettura che sembrava lontanamente disposta a rallentare, rischiando di finire lungo e disteso, stampella e tutto il resto.

Holmes si limitò ad alzare gli occhi su di lui, senza fare commenti.

Il tragitto verso Baker Street durò molto meno che all’andata, e John ne fu segretamente felice. Tornare all’ospedale universitario gli aveva fatto rivivere certi lontani ricordi, ormai velati di malinconia – e l’incontro con la dottoressa Hooper, per non parlare del contegno di Holmes, non avevano certo favorito il dissiparsi del suo malumore.

Holmes scese per primo dall’auto, lasciando la portiera aperta dietro di sé. 

A John non rimase altro da fare che armeggiare, solo, con la stampella prima e col portafogli poi. Quando porse una banconota da venti sterline all’uomo seduto al posto di guida, si sentì sfiorare la mano, e provò un brivido istintivo.

«Ti ha lasciato qui da solo, eh?», chiese il tassista, con un tono di voce stucchevole.

John ritrasse la mano in fretta.

«Ho capito subito che quello lì non è un vero alpha… una scia come la tua, un bocconcino così gradevole… e non ti ha neanche rivolto la parola…»

John represse a stento un conato di vomito, nonché svariate risposte volgari.

«Non mi sembrano affari suoi», tagliò corto. 

Voleva solo prendere il resto e andarsene in fretta, prima che gli venisse la tentazione di fare a pugni. Quell’uomo però sembrò intenzionato a fraintendere il suo indugio:

«Che c’è? Vuoi farti un altro giretto?» chiese. «Saprei io dove portarti…»

John finalmente saltò giù dal taxi.

«Ladro», ringhiò.

Per tutta risposa, il tassista gli mandò un bacio da dietro il finestrino, e ripartì.

«Fanculo!»

 

John entrò in casa scuro in volto, ancora schifato dal trattamento viscido che aveva appena subito. Non vide Holmes in salotto, e si diresse al piano superiore, zoppicando e sbuffando. 

Quando si trovò sulla porta della sua stanza, la sua scia esprimeva tutta la frustrazione che provava, e non migliorò affatto quando udì una voce beffarda che lo apostrofava così:

«Gliel’ho detto, lei non sa scegliere i tassisti.»

John non rispose nemmeno, entrò in camera sua e sbatté forte la porta.

 

Non scese al piano di sotto fino alle undici di sera. Non aveva cenato, ma non aveva fame.

Se ne andò dritto in cucina, zoppicando solo leggermente, deciso a ignorare la sagoma scura che aveva intravisto sul divano.

L’atmosfera nell’appartamento era stranamente tranquilla. C’era un silenzio piacevole, che sapeva di casa. Dalla finestra giungevano, ovattati, i molteplici rumori della strada, ma sembravano così lontani, e così familiari… 

L’aria era pulita. Il livello di ferormoni era sotto controllo. John riusciva a percepire la scia del suo coinquilino, ma era tenue e non invasiva, ed era certo che anche la sua fosse così. Erano entrambi rilassati. Era strano – perché quella era la prima sera che passavano entrambi a Baker Street – ma era come se si fossero già abituati l’uno all’altro.

Quel pensiero fece provare a John un immediato senso di pace. Non era per niente scontato che accadesse. Forse Mike Stamford non aveva fatto una cazzata, dopo tutto.

John mise il bollitore pieno d’acqua sul fuoco, e andò ad accoccolarsi sulla poltrona che c’era davanti al caminetto.

Non sentiva il bisogno di parlare a Holmes, però non era infastidito dalla sua presenza. Seduto sulla sua poltrona – aveva appena deciso che sarebbe stata proprio la sua –, aspettava che l’acqua fosse pronta per il tè.

Fu Holmes a rompere il silenzio per primo.

«Mi dispiace per quel tassista», disse.

La voce era molto bassa, quasi gli fosse uscita dalla gola suo malgrado.

«Oh, beh», disse John. Non sapeva bene che dire.

«È stato molto sgradevole?»

«No. Sì.» 

«Ha pensato di sparargli, eh?», chiese Holmes, con l’eco di una risata nella voce.

«Solo per un momento», rispose John. Sorrideva anche lui.

«Comunque il suo tè sarà pronto», mormorò Holmes.

John si alzò e andò in cucina. Effettivamente l’acqua era bollente. Scelse una miscela di Keemun, che mise in infusione direttamente nella tazza.

Tornò in salotto. Holmes era ancora sul divano, fermo nella stessa posizione. Aveva un’aria rilassata, eppure John sospettava che dietro le palpebre socchiuse il suo cervello stesse ancora lavorando al caso.

«Lei mi è stato molto utile, oggi», disse all’improvviso Holmes. «In sua presenza ragiono meglio.»

John non se l’aspettava. «Oh… uhm, davvero?»

«Sì. Ha questa incredibile… dote di ascolto.»  

«Lei dice?», chiese John, tossicchiando.

«Sì. Pensare è la cosa più semplice del mondo, per me, eppure in qualche modo lei incrementa  la mia lucidità.»

John non sapeva proprio cosa rispondere. Si accorse che la tazza di tè gli stava ustionando la destra, e si affrettò a cambiare mano.

Holmes, apparentemente ignaro dell’imbarazzo che aveva causato, riprese a parlare del caso, come se nulla fosse:

«Stamattina mi ha chiesto come facessi a sapere del secondo omicidio prima della polizia. È molto semplice… la compagna del primo alpha ucciso mi aveva contattato attraverso una conoscenza comune, per così dire. Ho avuto la possibilità di esaminare il corpo insieme alla scientifica, e ho dedotto facilmente che si trattava di una sorta di esecuzione. Sospettavo però che il movente non fosse strettamente personale. Anzi, ero certo che fosse legato l’estrazione sociale della vittima. Così, ho detto a Lestrade che mi aspettavo un secondo omicidio. Nel frattempo, ho allertato alcuni dei miei informatori, chiedendo di riferirmi qualunque evento insolito che si fosse verificato tra le fila di alcune famiglie in vista di Londra… sparizioni, avvistamenti sospetti, un viaggio improvviso. Dopo neanche una settimana, uno dei miei informatori mi ha comunicato il nome della seconda vittima. Due ore dopo, mi ha chiamato Lestrade.»

John ascoltava il resoconto con interesse, mentre muoveva le mani lungo la tazza, ancora bollente.

«Così lei ha visto anche il corpo di Sir Lionet», commentò. «Aveva anche lui un acino d’uva addosso?»

«No», rispose Holmes. «Niente uva, da nessuna parte. Ma è stato il primo omicidio… penso che abbia ispirato il secondo. Come se l’assassino, o gli assassini, stessero aggiustando il tiro strada facendo», ragionò.

«Gli assassini?» chiese John.

Holmes non rispose alla domanda, troppo intento a seguire il flusso dei suoi pensieri. «Il modus operandi è cambiato. È chiaro che il nostro Lord Frenkel è la terza vittima designata… però lui è stato minacciato.»

«E Lord Mulray no?»

«No, John. Rifletta. Che cosa farebbe lei, se ricevesse lei una minaccia? Se ne andrebbe in giro portandola in tasca? No, è chiaro che quell’uva è stata messa addosso al cadavere, dal suo assassino». 

John non rispose subito. Rifletteva, sorseggiando il suo tè amaro.

«Ma perché l’assassino ha cambiato modus operandi?» chiese, dopo qualche minuto. «Perché passare alle minacce? Pensa che vogliano spaventare Lord Frenkel?», chiese John.

«Ne sono sicuro.»

«Ma in questo modo lo hanno allertato. Gli hanno dato la possibilità di scappare, no? O di avvertire la polizia».

Holmes sorrise, mentre guardava il soffitto. «Al contrario, John… era un modo per fagli sapere che scappare è inutile. Ovunque vada, loro lo troveranno. Non importa quanto tempo ci vorrà. Secondo l’assassino, Lord Frenkel ha fatto qualcosa di imperdonabile, e deve pagare per questo».

«Ma che cosa può aver fatto?», sbottò John. Non riusciva a immaginare che quell’uomo beneducato e affabile fosse immischiato in qualcosa di losco. 

Holmes alzò le spalle.

«Non lo so, ma lo saprò presto. E allora all’assassino non rimarranno molte carte… il gioco, amico mio, è cominciato.»

 


Nota dell'autrice:
Questo capitolo lo sto pubblicando senza averlo riletto, perché sono in ritardo con gli aggiornamenti. Spero che non ci siano incongruenze/mostruosità varie, nel caso perdonatemi e segnalatemele. Da questo momento in poi gli aggiornamenti saranno più lenti, perché sono in alto mare col lavoro e col prossimo capitolo... non odiatemi! Prometto che la storia avrà un finale. Non mancano molti capitoli, comunque.
Un ringraziamento speciale a chiunque sia arrivato a leggere fino a qui!

   
 
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