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Autore: time_wings    26/03/2023    1 recensioni
[SakuAtsu]
I motivi del litigio tra i gemelli sono ignoti a tutti, nel giro delle corse di auto clandestine, a metà tra folklore e informazioni provenienti da fonti inaffidabili.
Con le sue modifiche, Atsumu è una leggenda, nel giro. Non c'è gara che lui e il suo gruppo non vincano.
Questo, almeno, finché un meccanico misterioso non inizia a tessere le vittorie del gruppo di Osamu dalla sua officina segreta.
Ad Atsumu non resterà che mettere l'orgoglio da parte (impossibile) e infiltrarsi nel garage del meccanico strano, spacciarsi per un incompetente, lasciarsi insegnare e, una volta conquistata la sua fiducia, scoprire tutti i suoi segreti, per impedire che Osamu lo batta ancora.
C'è solo un problema, però. Anzi due, se si tiene conto del fatto che questo meccanico sia semplicemente insopportabile.
La regola è che nessuno può entrare nell'officina di Sakusa.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Koutaro Bokuto, Osamu Miya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Atto sesto_


“Perché hai ancora i nostri pezzi nel motore con cui corri?”
Atsumu inchiodò, la strada era solo una striscia d’asfalto dritta e inflessibile che si allungava per chilometri in entrambe le direzioni. I lati erano occupati da campi che non avrebbe saputo catalogare con precisione con quel buio. Non c’era il frinire acuto e martellante delle cicale o il gracchiare dei corvi, solo il frusciare del vento nella vegetazione lì vicino.
Sapeva che fare la stessa domanda con cui si era procurato un pugno aveva alte probabilità di portare allo stesso risultato, ma voleva davvero saperlo. E poi, forse, una parte di lui voleva fare a botte. Sarebbe stato meglio, l’avrebbe convinto del fatto che Osamu se n’era andato dal gruppo perché ce l’aveva con lui, perché provava una rabbia sconfinata nei confronti di suo fratello e non aveva resistito un secondo di più. Voleva che fosse questo, il problema. E invece c’era la possibilità che fossero semplicemente cresciuti con tempi diversi, che Osamu avesse trovato una dimensione, qualcosa che voleva tutta per sé e che non contemplava la sua presenza.
Era inaccettabile. Non quando erano stati l’uno l’unica famiglia dell’altro, con solo un motore, un garage e una passione condivisa che ora non condividevano più a tenerli a galla.
Osamu scese dalla moto e Atsumu sentì i suoi occhi su di sé. Si voltò a fronteggiarlo consapevole, a quel punto, che sperava in una rissa.
“Non serve essere sentimentali, adesso che non hai più un pubblico,” ribatté invece lui, le mani nelle tasche, le spalle curve.
“La mia è solo una domanda, ‘Samu, se per te è sentimentale è perché lo è la risposta.”
Suo fratello sbuffò, poi calciò una pietruzza che rovinava la perfezione di quell’asfalto. Non rimbalzò sulla marmitta della moto di Atsumu. “Vuoi sentirti dire che quel motore è importante per me?”
“È la verità?” Atsumu lasciò il manubrio e spostò il peso del corpo all’indietro. 
“Un bugiardo che vuole la verità,” Osamu sbuffò una mezza risata amara. “Che te ne fai della verità, la metti in una macchina?”
Atsumu fece una mossa alla Osamu e non rispose.
Lui lo guardò, il sorriso gli scivolò via dalle labbra, per qualche attimo non successe nulla. Poi Osamu inspirò di scatto e annuì piano, stringendosi nelle spalle. “È iniziato tutto con quel motore,” disse infine, come un dato di fatto, come se semplicemente non ci fosse stata altra scelta. “Voglio vincere con una macchina che porti i chilometri del mio intero percorso, non solo del traguardo.”
Un groppo di rabbia risalì la gola di Atsumu. Osamu aveva scelto un’altra strada, un altro gruppo, un’altra vita e adesso gli propinava la versione meccanica ma non meno sentimentale delle radici. Non c’erano radici senza lealtà. Scosse la testa. “Questo è il tuo omaggio? Due pezzi modificati male e qualche promessa? Andiamo…”
“Che avrei dovuto fare?”
Atsumu smontò dalla moto, con uno scatto fu davanti a suo fratello. Lui non mosse un muscolo. “Restare nel gruppo, ‘Samu, è decisamente più utile che metterti a posto la coscienza con un motore mediocre.”
“Non ho nessuna coscienza da mettere a posto.” Osamu alzò lo sguardo nel suo, la fronte aggrottata. “Io voglio fare il pilota, è sempre stato solo questo il punto, tu l’hai presa sul personale.”
“Non me ne frega nulla che vuoi fare il pilota, sono un tuner migliore di te!” Atsumu lo spinse indietro, prendendolo per la spalla, i piedi di Osamu superarono la linea di mezzeria. “Tu non hai neanche provato a cercare un compromesso, te ne sei andato senza dire nulla, hai messo su un intero altro gruppo in segreto. Sei scappato! Tu volevi andartene. ”
“Sì, volevo!” Osamu allargò le braccia. “Non capisco cosa ci sia di male in questo. Quel gruppo era il tuo sogno, la tua dimensione. Io volevo correre, ‘Tsumu, ho sempre voluto correre. Il tuning per me era un mezzo per correre più veloce, per te era lì la corsa.”
“Potevi…”
“Dirtelo? Fai sul serio?” Osamu voltò la testa di lato e rise, come a ingraziarsi un pubblico che non c’era, come a ingraziarsi la linea bianca che correva sull’asfalto e il loro confine. “Te l’ho detto e guarda cosa hai fatto. È un litigio che non ha senso, va avanti solo perché hai paura di guardarti allo specchio e scoprirti solo.”
La rabbia che aveva spinto Atsumu giù dalla moto evaporò in un’onda di confusione. “Eh?”
Osamu superò la linea e gli si mise davanti, gli occhi nei suoi, alla stessa altezza, qualche gradazione più scura, un taglio delle sopracciglia più netto, qualcosa che passava da familiare a estraneo a ogni battito di ciglia. “Che cosa avresti fatto se te l’avessi detto prima? Avremmo creato un nuovo gruppo, solo noi due? Il pilota e il tuner più forti, gli imbattibili del sottosuolo?” fece schioccare la lingua e scosse la testa. “Litighiamo perché hai paura che se smettiamo non ci legherà più nulla, perché hai bisogno che io confermi il tuo valore ogni volta che mi batti. A me non serve questa maledizione, è ingiusta, non posso farmi carico della tua insicurezza.”
Atsumu aggrottò la fronte. “Io non sono insicuro. Sono il tuner miglio…”
“Sei tu che sei ossessionato dai primati, a Kiyoomi Sakusa non servono, fa solo il suo lavoro. Ti piace davvero o ti piace batterlo? Io penso che ti rassicuri, fermarti prima che le cose si facciano serie, ti lascia credere che ci sia sempre del potenziale inespresso in te, che avresti potuto fare di meglio, perché non ti piace scontrarti col rischio che tu possa raggiungere un limite, un massimo che potrebbe essere insoddisfacente.”
Il vento trattenne il fiato. La sensazione che certi segreti fossero nascosti nelle sue auto più che nei suoi gesti gli fece pensare a Sakusa e a tutto quello che aveva letto mentre Atsumu non indossava neanche una mascherina.
“Sei tu che hai paura di essere mediocre.”
Il vento espirò, la luce dei fari della moto mai parcheggiata alle sue spalle tremolò. Atsumu inspirò, attento a non fare troppo rumore. Non gli tremò il respiro, perché con queste cose era meglio non rischiare: ci sono interi segreti svelati in ritmi di questo tipo. “Non si litiga da soli, ‘Samu. Se è colpa mia perché ce l’hai con me?”
Osamu si strinse nelle spalle, poi parlò attraverso un sospiro: “perchè mi fai così incazzare...”
Atsumu scoppiò a ridere. Non mancava ancora di affilatezza, ma lo prometteva.
Suo fratello non rise a sua volta. Gli poggiò una mano su una spalla e lo scosse. Atsumu si sciolse abbastanza perché il colpo lo facesse ondeggiare e non indietreggiare.
“Andiamo.”
Salirono di nuovo sulla moto, la strada riprese a respirare, la linea di mezzeria tornò a correre alla loro sinistra mentre sfrecciavano nella notte.
Il garage del gruppo di Osamu era buio, le luci dei negozi spente. Solo qualche finestra colorata di giallo distoglieva il quartiere dal blu notte da cui sembrava attratto.
“Trova pace, ‘Tsumu,” gli disse suo fratello, prima di fondersi nell’oscurità.
Atsumu sospirò, poi ripartì.
 
ᆞᆞᆞ
 
L’uomo baffuto stava martellando qualcosa che Atsumu non riusciva a vedere. Metallo contro metallo, a ogni battito dava via a un concerto di suoni riflessi. La porta dell’officina era quasi spalancata, il sole del pomeriggio entrava con angoli affilati e prepotenti, imponendo l’inizio di una primavera scalza che lui non aveva notato farsi largo nelle ore che rubava ogni giorno più insolente. Atsumu sporcò quel raggio con la sua ombra.
Il meccanico alzò la testa e si portò una mano agli occhi per schermare la luce. “Oh, chi non muore si rivede!” disse, schiudendo le labbra in un sorriso.
Erano passate due settimane dall’ultima volta, anche le stagioni se lo ricordavano. “Le ho portato dell’anpan,” annunciò Atsumu, sollevando la bustina che reggeva in una mano.
L’uomo abbassò la mano e si alzò con un sospiro. Lasciò il martello sul piano da lavoro e lo raggiunse per ricevere il regalo. “Mia figlia comunque non te la faccio conoscere,” disse diffidente, accettando il suo anpan.
“E io che credevo di avercela quasi fatta,” ridacchiò Atsumu. Poi si fece serio, indicò l’armadio in fondo all’officina, abbandonato contro la parete in più che rompeva la geometria rettangolare della stanza.
Lui colse la domanda muta e annuì. Atsumu si inchinò brevemente, il movimento quasi ironico, anche se uno guardandolo non avrebbe saputo dire cosa lo tradisse.
 

“Ho sentito che non si può entrare nell’officina nell’armadio,” esordì Atsumu, facendosi largo nella stanza e sfiorando con un dito ogni oggetto che si trovava per le mani.
“Non toccare.”
Atsumu lo ignorò, continuando il suo slalom tra pezzi incompleti e parabrezza laccati che avrebbe toccato. Quando gli fu davanti, solo il tavolo da lavoro di Sakusa a separarli, spazzò via con un braccio gli aggeggi sparpagliati sul ripiano e appoggiò un pacchetto di mochi assortiti proprio al centro di quella zona forzatamente vuota. Lo guardò come se fosse stato un trofeo. Sakusa, invece, lo guardò come se fosse stato solo inappropriato, una bambola di pezza al compleanno del capo.
Poi, però, si abbassò la mascherina e Atsumu prese un respiro nuovo perché per un attimo aveva temuto di aver fatto male i suoi calcoli (e anche perché prima o poi avrebbe comunque dovuto respirare, eh). Con Sakusa era complicato parlare di calcoli, era più una partita a scacchi: una mossa giusta e non una partita terminata. Cercò il suo sguardo e per un po’ non disse nulla. Una bolla in una fiala di inchiostro, una decolorazione del mondo per nulla deludente. Anzi, gli parve che ci fosse qualcosa di molto semplice, in quel trionfo di contrasti che erano il viso di Omi, qualcosa che avrebbe potuto capire anche lui, che non s’intendeva di bellezza se questa non si poggiava su quattro ruote. “Atsumu Miya,” disse alla fine in un sussurro, abbassò gli occhi sulle sue labbra per un solo secondo, l’unico colore per chilometri. Si chiese se mordendole fossero destinate ad arrossarsi anche di più. “Mi chiamo Atsumu Miya.”
Sakusa sollevò un sopracciglio. “Ci hai messo un po’.”
“Che posso dire,” Atsumu si strinse nelle spalle, “i migliori arrivano sempre in ritardo.”
“Sì,” Omi cominciò a riprendere possesso di tutti gli aggeggi che la mano di Atsumu aveva spazzato via. “Questo lo dice…”
“I fatti,” ribatté Atsumu, poi gli spostò nuovamente il lavoro, si sporse e lo baciò.
Se fosse stato in uno di quei musical americani, di sottofondo sarebbe partito un duetto che avevano cantato insieme in qualche scena precedente. La telecamera avrebbe preso a ruotare attorno a loro mentre il mondo si restringeva al punto di contatto delle loro labbra.
Ma non erano in un musical americano, erano nell’autofficina off-limits di Kiyoomi Sakusa, dove ogni oggetto era sacro e pulito perché secondo il loro proprietario il grasso non era sporcizia. Avevano un tavolo da lavoro tra i piedi e la mano destra di Atsumu aveva schiacciato i mochi. Presto gli sarebbe sicuro anche venuto un crampo.
La verità sulla faccenda è che Atsumu non sapeva se fosse conveniente baciarlo o se fosse anche solo consentito. E questo perché la parte più affascinante di Sakusa, secondo lui, era che manteneva sempre un angolo segreto anche nel più prevedibile dei suoi gesti e questo significava che anche se lo capiva a volte non lo comprendeva, a volte era completamente fuori di testa. Però l’aveva baciato lo stesso perché in quelle settimane si era ricordato che c’era qualcosa di allettante nei rischi, qualcosa per cui valesse la pena sporgersi.
“Dovresti comunque uscire. Nessuno entra nella mia officina,” disse Sakusa, in un soffio sulle labbra di Atsumu e una mano indecisa sul suo petto.
Atsumu sorrise, quella cosa storta e derisoria che faceva venire voglia alla gente di tirargli un pugno. “Certo, Omi.”
“Dopo quella scenata tra te e Osamu non si parla d’altro.”
Si allontanò con un sospiro e circumnavigò il tavolo da lavoro. Sakusa lo osservò lungo tutto il tragitto come a prendergli le misure per la bara. Atsumu lo ignorò. “Mi sorprende che tu sappia di cosa si parla al di fuori di questa officina.”
Omi si strinse nelle spalle. “Mi sono informato.”
“Certo.”
Si guardarono. Per qualche attimo, non successe nulla, poi Sakusa si portò un dito al naso, sembrava quasi che volesse tirarsi su una mascherina che non c’era. Distolse lo sguardo. “Se la macchina riflette il suo pilota, e questa conserva pezzi vecchi nel suo motore, forse, sai…”
Atsumu sollevò lo sguardo su di lui. “Non mi importa niente di Osamu.” Mentiva. Era evidente. Così evidente che se ne accorse anche uno come Omi, infatti lo guardò e inarcò un sopracciglio.
“Certo.”
Sospirando, Atsumu interruppe quella tensione che assumeva troppo i contorni di un’intimità a cui forse non era ancora pronto. Andava bene così, avrebbe imparato. “Quindi adesso che si fa?”
Sakusa recuperò per la terza volta i componenti che Atsumu gli aveva sottratto. Questa volta non venne disturbato. “In che senso?”
“Lavoriamo insieme?”
“Perché dovremmo? Credo ancora che tuo fratello sia il pilota migliore nel giro. E poi non pensi che la vostra vittoria, all’ultima gara, fosse ai limiti dello scorretto?”
Atsumu alzò gli occhi al cielo, fece per sfiorare uno dei componenti di Sakusa ma lui gli scostò la mano con la sua prima che potesse riuscirci. “Sono corse clandestine, Omi, non esiste la correttezza.”
“Non è un po’ come ammettere che sono meglio io, però?”
“Che cosa? Guarda che… Non è minim…” Atsumu inciampò sulle sue stesse parole. Era un’onta, uno smacco, una vergogna. “Mi stai sfidando?”
Lui si strinse nelle spalle, le dita che già volavano tra i componenti miracolosi che più tardi, nel garage della sua squadra, Atsumu avrebbe dovuto superare. “Sono corse clandestine, Miya, tutto è una sfida.”
Rise, davvero e senza inganno. Era una cosa semplice di cui si era inavvertitamente privato. Gli cinse i fianchi e appoggiò la testa sulla sua spalla.
“Non mi toccare.”
Lo ignorò, gli occhi che vagavano assenti tra pezzi in cui chiunque altro non avrebbe saputo leggere alcun progetto. “Che succede se Osamu lo scopre?”
“Cosa?”
Atsumu gli baciò il collo, velocissimo. “Questo.”
“E tu stai attento.”
“Uuh, perverso, mi piace.”
“Idiota.” Un altro bacio, più insistente.
Sakusa si voltò a guardarlo, come ad ammonirlo. Ma Atsumu si voltò a guardare il divano e Omi intercettò tutta la catena di pensieri che gli attraversò la testa.
“No.”
Atsumu gli afferrò una mano e prese a camminare al contrario, mentre lo trascinava sul divano. “Vuoi davvero gareggiare contro di me?”
Omi scrollò le spalle, poi spostò lo sguardo sul divano, per assicurarsi che Atsumu non ci andasse a sbattere contro. “Ti ho già battuto due volte e tu mi hai battuto barando.”
“Sta’ a vedere.”
“Per stare a vedere devi andartene dalla mia officina.”
Per tutta risposta, Atsumu si lasciò cadere sul divano, trascinandosi Omi addosso. “Cinque minuti di pausa.”
Lo baciò, piano, finché Sakusa non chiuse gli occhi. Il sospiro che gli strappò lo lasciò come un idiota a chiedersi perché avesse aspettato due settimane per tornare lì. “Guarda che…”
“È la regola dei cinque minuti, Omi.”









 
NotEl: SALVE e grazie per essere arrivati alla fine!
Questa storia è stata una scommessa per tanti motivi: non conoscevo bene la ship, era una AU, era oltre un anno che scrivevo poco e male (sono poco più di 20mila parole ma ci ho messo cinque mesi a scriverle!) e INOLTRE ho pensato di mettermi in difficoltà provando cose nuove. Quindi quando l'ho cominciata ho pensato di mollare un po' la presa sull'aspirazione alla perfezione, ho visto cose per cui avrei passato ore a struggermi e ho pensato "nah, non fa niente" e non so davvero se a questo punto risulti arronzata o rifletta una rilassatezza conquistata.
Mi dispiace se è strana e se non ha il drama che forse tutti si aspettavano o i pochi riferimenti crudi e criminali che poteva promettere con queste premesse (e con quello che scrivo di solito), ma io e quei trope sulle bugie che poi escono fuori e si passano CAPITOLI a farsi perdonare non andiamo d'accordo e il risultato è che il motivo della risoluzione è implicito e questa è un'altra grande scommessa. Spero si riesca a scovare senza troppa difficoltà, spero non richieda di entrarmi in testa (avrei fallito). Ho ammesso subito che questa storia sarebbe stata un esperimento, ma ora che l'esperimento è finito CHE STRIZZAAAAAAA
Finire una storia dopo così tanto tempo e così fuori dalla mia comfort zone è grandioso, quindi grazieeeee per aver seguito quest'avventura <3
Ci si vedeeeeee

El

 
   
 
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