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Autore: Sia_    01/04/2023    3 recensioni
| GeorgexLee |
Tre settimane, due giorni e sette ore prima, George e Lee sono sugli spalti del campo di Quidditch con il naso arrossato per il freddo. Uno dice che se ne va, l’altro gli risponde che però se se ne va non è che ci ripensa, uno ride, l’altro ride con lui. E poi scende un silenzio calmo, che ha poco a che vedere con i silenzi che sono sereni o i silenzi che sono tesi. Questo sa di silenzio di cose che si accettano e di silenzi di cose che non sono dette. Il mignolo di George quel giorno si scontra con quello di Lee e non va oltre: non sembra avere abbastanza coraggio per spingersi verso l’alto e un po’ più a destra per intrecciare il resto delle dita.
(Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2024 indetti sul forum Ferisce la penna)
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fred Weasley, George Weasley, Lee Jordan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Broken brick

 

Caro Lee, 

Io e Fred siamo estremamente stanchi. Ho visto il tramonto e poi ho visto salire le stelle e ho sentito la notte tutta intorno. L’appartamento fa schifo, ma è meglio di niente. Fred ti saluta e io ti saluto un po’ più di lui. 

Tuo, 

George

 

C’è qualcosa di diverso nel sorriso di George, rispetto a quello di Fred. Lee cerca di non dare troppo nell’occhio mentre si mette a cercare quella cosa che sembra non quadrare su due volti che dovrebbero essere identici. Sono circa otto mesi che il sorriso di George è diverso da quello di Fred. 

Serra le labbra e scaccia il pensiero nell’esatto momento in cui allontana lo sguardo dai gemelli. Lo fissa sulla parete a destra, sul mattone scheggiato: l’ha rotto lui, andandoci a sbattere dopo essere inciampato in uno scatolone. La luce che entra dalla finestra ne accentua la spaccatura e la polvere danza nell’aria lì davanti; forse è il muro che si sta sgretolando più velocemente o forse quel punto della stanza ha una forza attrattiva più intensa di tutto il resto. 

“A che pensi?” Le parole di George sono un sussurro. Fred si è piegato sulla pergamena, concentrato sul nuovo Tiro Vispo in produzione. Il viso del gemello è appoggiato al palmo della mano sinistra, gli sta sorridendo. È il muro che si sta sgretolando più velocemente, perché il centro è sulle labbra di George. 

Pensa al fatto che il tempo è agli sgoccioli. Lui di solito è bravo a tener d’occhio una clessidra, a fare i conti, a soppesare i momenti: quando è sugli spalti a commentare una partita, vive secondo per secondo. Ma da quando i gemelli gli hanno detto che se ne vanno via, gli sembra che sette anni siano passati in un battito di ciglia. Pensa al fatto che il mattone scheggiato è una delle cose che gli rimarrà, un’impronta delle loro esistenze insieme. Fred gli ha detto che così è più bello: ci ha messo un po’ a realizzare perché lo fosse. In quel mattone che è rimasto su, ci sono Fred, George e Lee. È un vero peccato che si stia sgretolando così velocemente. 

“Niente di particolare.” 

Tre settimane, due giorni e sette ore prima, George e Lee sono sugli spalti del campo di Quidditch con il naso arrossato per il freddo. Uno dice che se ne va, l’altro gli risponde che però se se ne va non è che ci ripensa, uno ride, l’altro ride con lui. E poi scende un silenzio calmo, che ha poco a che vedere con i silenzi che sono sereni o i silenzi che sono tesi. Questo sa di silenzio di cose che si accettano e di silenzi di cose che non sono dette. Il mignolo di George quel giorno si scontra con quello di Lee e non va oltre: non sembra avere abbastanza coraggio per spingersi verso l’alto e un po’ più a destra per intrecciare il resto delle dita. 

“Dici sempre così e poi…” George si affloscia sul tavolo di legno. Lee ricorda ancora il giorno in cui Fred l’ha trasfigurato, insieme a tre sedie: la piccola stanza che usano come ripostiglio ha assunto in fretta il sapore di casa. Oggetto dopo oggetto, pergamena dopo pergamena, scatola dopo scatola. 

“E poi?” Lo incalza, alzando l’angolo della bocca verso sinistra. 

Tre settimane, due giorni e sette ore prima, George e Lee sono sugli spalti del campo di Quidditch con il naso arrossato per il freddo. Uno dice che se ne va, l’altro gli risponde che però se se ne va non è che ci ripensa, uno ride, l’altro ride con lui. George vorrebbe rompere in pezzi il silenzio che cala subito dopo: ci sono un mucchio di cose che vuole dirgli. Vorrebbe girarsi meglio, appoggiare la suola delle scarpe sulla panca per guardarlo in volto e raccontargli di come sarà andare via, di come sarà mettere piede nel proprio negozio. Raccontargli di come si immagina il colore del cielo. Raccontargli di quello che potrebbe farlo ridere. Raccontargli che, beh, senza di lui attorno non sarà lo stesso. Non lo fa perché sa che poi Lee chiederebbe perché: vuole sempre un motivo, una ragione. Non potrebbe semplicemente accettare che alcune cose sono e basta? 

“E poi ti arrovelli, a pensar troppo.” 

La McGranitt direbbe l’esatto opposto: non è che poi lui pensi poi tanto. Lee Jordan non rimugina sulle cose. Avrebbe dovuto capirlo un po’ prima che se George gli dà da pensare allora c’è qualcosa che non va e non necessariamente in peggio. George Weasley, ventisei lenticchie sulle guance, occhi marroni sporcati d’ambra. “A me pare che l’unico che si sta arrovellando a pensar troppo qui sia Fred.” 

L’altro riemerge dalla pergamena. Per almeno un minuto e venti secondi in quella stanza hanno vissuto in due dimensioni differenti: da una parte Lee e George, dall’altra Fred. “Cosa?” Capiterà ancora e sarà per più di un minuto e venti secondi.

George ride, si tira su e con il palmo della mano picchietta sulla spalla del gemello. “Che hai scritto? Ci siamo distratti un secondo.” 

 

“Non mi scandalizzo mica.” 

George storce il naso. “Ma non è quello.” 

“Non me la prendo se mi fate fare il terzo incomodo per tutto il resto della vita.” 

“Però, Fred…”

“George, sul serio, sono felice per voi.” 

 

Le labbra di Lee sono calde e umide, apre la bocca e lascia che la lingua di Jordan si faccia strada per incontrare la sua. George ansima, stringe la presa sul fianco del ragazzo e gli sgualcisce il maglione grigiastro. Le mani di Lee gli abbracciano il viso, finché una non sale tra le ciocche di capelli rossastri e una scende verso l’incavo del collo. È bello, pensa George. Abbandona il maglione e trova l’angolo della camicia che è scappata dai pantaloni a causa del frastuono. Il tempo di un sospiro, affannato e mischiato al sospiro di Jordan, e gli sta sfiorando la pelle con le dita. 

La nicchia del terzo corridoio del quinto piano adesso sa solo di loro. Sussurra di un amore che era destinato a scoppiare prima di una separazione netta. Lee sorride sulle labbra di George e si adagia meglio al muro alle sue spalle. “Mi piaci.” La nicchia del terzo corridoio del quinto piano è una confessione al buio. 

“Anche tu.” 

Fred deve aver sentito che quella notte era speciale. Così ha preso le sue cose – una mantella, la bacchetta e la cravatta allentata e poi abbandonata su una scatola – ed è tornato prima in Sala Comune. George e Lee sono rimasti nel magazzino ancora una ventina di minuti a non fare niente. Poi uno ha preso l’iniziativa di incamminarsi verso la porta e spegnere le luci con un incantesimo. A metà strada è stato George a non vederci più, gli ha stretto l’avambraccio costringendolo a fermarsi. Tre attimi dopo, si stavano baciando nella nicchia sotto la finestra. 

A Lee, George piace per un mucchio di cose. Gli piace perché è estroverso, perché è deciso, perché lo fa ridere, perché lo tiene sui carboni ardenti, perché è coraggioso, perché la divisa da battitore gli sta bene, perché, anche se è in mezzo a una partita, si gira lo stesso per fargli cenno che la freddura contro i Serpeverde era azzeccata. Gli piace perché ha ventisei lenticchie sulle guance e un bel sorriso, perché profuma di buono, perché il suono della sua risata gli smuove qualcosa nel petto come quando da bambino suo papà accendeva la radio e lui capiva per la prima volta cosa fosse la radio. 

A George, Lee piace per un sacco di cose. Perché è intelligente, perché ride alle sue battute, perché gli risponde, perché gli fa saltare i nervi, perché è sempre in ritardo, perché quando ride illumina una stanza, perché a volte allarga le braccia e gli dice dai, su, vieni qui che ti stringo forte. Chi direbbe una cosa del genere? Forse Molly, forse Charlie. Eppure se glielo dice Lee, George sente tutta una cosa nel petto nuova e allora si fa stringere. 

George lo appoggia al muro, lo bacia una prima volta, una seconda, lascia che le loro lingue si trovino, mentre la mano si sposta sulla schiena e si meraviglia del corpo umano. Studia la linea della colonna vertebrale, la forma dei fianchi morbidi e il primo accenno di scapole. La pelle di Jordan è calda e liscia. Chissà come si muovono i suoi muscoli, mentre lo stringe. 

 

Caro Lee, 

sto diventando noioso con le introduzioni. Ho perso la mia vena creativa, spero che gli affari non ne risentano. Forse è perché la mia musa ispiratrice mi è profondamente lontana. Sto parlando di te, l’avevi capito? Mi piacerebbe sapere se sei arrossito o se stai sorridendo come un ebete. 

Visto che sono tanto ripetitivo all’inizio, provo qualcosa di diverso in chiusura. Mi manchi tanto – l’originalità la lascio nella quantità di questo sentimento. 

G

 

Il buco che si sente nel petto quando vede Fred prendere il volo e andare via è profondo. Quello che lascia George è un baratro. I letti in dormitorio rimangono sfatti per un po’, poi come per magia un giorno li trova composti. Ci sono volte in cui apre la porta del magazzino e rimane sulla soglia. Lo sguardo gli cade su un tavolo e tre sedie, non ci sono più scatole. Resta il mattone spezzato, sembra più consumato di quanto fosse il mese precedente. 

Hogwarts non è deserta, è solo più sola. Lee è circondato da un sacco di persone: c’è sempre qualcuno disposto a sedersi con lui a lezione, sempre qualcuno con cui passare la serata in Sala Comune o con cui sedersi a cenare. Però non è lo stesso. 

George deve saperlo o deve averlo intuito perché gli scrive con fantasiosa regolarità: chissà come gli viene di prendere una piuma e mettergli giù due righe, impegnato com’è tra un cliente e l’altro. Gli dice che lo pensa e gli chiede se anche lui è mai nella sua testa. Sempre, vorrebbe rispondergli, ma mantiene ancora un certo onore. Eppure la sera lo sguardo si sposta su un letto vuoto e cerca disperatamente di ricordarsi l’odore dello shampoo di George, il sapore della sua pelle. La risata non ha modo di dimenticarla. 

 

Caro Lee, 

Ho contato che sono passati circa tre mesi dall’ultima volta che ci siamo visti. Sono l’unico che ha fatto questo calcolo o sono solo un cretino? 

Buoni esami, 

G

 

Le labbra di George non smettono di essere calde. Lee è stato dai suoi due settimane, prima di cedere a fare l’abusivo nell’appartamento dei gemelli per qualche tempo. George gli regala due cassetti e la parte sinistra del suo letto; gli piacerebbe fargli notare che ha poco senso dividersi le parti, se la mattina se lo ritrova addosso con la guancia appoggiata al petto. Non gli dice niente solo perché quando lo sorprende così sente che il cuore è contento. 

George lo accoglie sulla porta, dopo aver costretto Fred a lavorare da solo il pomeriggio – non c’è voluto tanto, Fred si è limitato a scrollare le spalle e a pretendere una cena tutti e tre insieme. Allarga le braccia e sembra proprio che gli dica dai, su, vieni qui e fatti stringere forte che sono passati più di tre mesi e non ce la faccio più. Lee fa due passi, le dita si perdono tra i suoi capelli rossastri. “Ciao.” 

“Ciao.” 

Lo bacia con una certa impazienza: George sa di polvere da sparo, anche se giurerà di essersi fatto una doccia, e di menta piperita. “Ti interessa un tour della casa?” Il gemello non lo lascia andare, ma si allontana di un paio di centimetri per vederlo meglio in volto. 

Sarebbe scortese dire di no, “Tra poco” dice quindi, nascondendosi nell’incavo del collo di George. Tutta la casa di cui ha bisogno è nelle sue mani. 

 

Caro Lee, 

Considerazioni serali delle tre di notte: il mio letto è estremamente scomodo. 

Scommesse serali delle tre di notte: con te sarebbe molto più comodo. 

G

 

“Perché la radio?” 

Lee è a casa dei gemelli da una settimana. Quando non è nascosto sotto il lenzuolo leggero del letto di George o non se ne sta in cucina a preparare da mangiare con Fred o non esce a fare due passi o non fa un mucchio di altre cose, si dedica alla radio. 

Fred bagna le labbra con un sorso di birra e si lascia scappare un verso d’assenso. “Volevo chiedertelo anche io, non ce l’hai mai davvero spiegato.” 

Jordan sorride – è un sorriso imbarazzato. “È solo che odio l’idea di trovarmi un lavoro vero.” 

George scrolla il capo e Fred lo segue. “Sei un cretino.” 

“Da che pulpito viene la predica.” 

 

“Come?”

“Ho detto che amo tuo fratello.” 

“Di fratelli ne ho tanti.”

Lee alza gli occhi al cielo. “Volevo solo che lo sapessi.”

Fred inizia a scrivere il listino dei prezzi. Sta sorridendo.

 

George non si aspetta di sentirsi dire ti amo mentre è accucciato a sistemare i prodotti nello scaffale più in basso. I Tiri Vispi Weasley hanno appena chiuso, dieci minuti prima hanno sentito l’ultimo tintinnio della porta e poi più nulla. Entra solo la luce calda del tramonto. Jordan è seduto sullo sgabello dietro di lui, si è intestardito che lo vuole aspettare per salire insieme. 

Il gemello l’ha lasciato fare, si è reso presto conto dello sguardo dell’altro sulla sua schiena. Lee gli studia la linea del collo, ricorda come è morbido sotto il tocco delle sue dita. Si sofferma sullo zigomo: gli piace baciarlo lì e sentire un brivido che scende lungo la schiena di George, mentre un sospiro scappa via dalle labbra. 

Tamburella con le dita sulla seduta dello sgabello e respira. “G” lo chiama. 

“Mh?” Se George nota che c’è qualcosa di diverso – l’ha chiamato G poche volte –  non lo dà a vedere, ma ci deve mettere un secondo in più per capire se il pacchetto di Merendine Marinare che ha in mano è dritto o al rovescio. 

“Ti amo.” Che importanza ha? Se metti in una stanza un tizio a testa in giù e uno dritto, l’effetto è che il pacchetto non sarà mai uguale per entrambi. 

Sorride, un attimo prima di tornare a lavorare si gira a guardare Lee. “Ti amo anche io.”

 

Caro Lee, 

Bill mi ha detto che posso portare qualcuno con me al matrimonio. Se te lo stai chiedendo intende qualcuno con cui: 

a) lamentarsi del vestito stretto 

b) ballare

c) possibilmente scappare in un angolo a baciarsi 

d) fare due chiacchiere sincere

e) fare bella figura

Ti va di accompagnarmi? Non posso assicurarti che con me farai una bella figura. Te l’ha già detto qualcuno che ho perso un orecchio? 

G

 

Lee ama George anche se ha un solo orecchio. Lo ama, prima di tutto, perché è vivo. Lo ama perché la prima cosa che viene a sapere da Fred è che dopo l’incidente ha fatto una battuta. Sangue e risate. Quando lo vede, pensa che adesso il suo ragazzo assomiglia al mattone scheggiato. 

Gli fa tenerezza, ma tra qualche mese si renderà conto che è solo l’inizio della trasformazione e che, granello per granello, diventerà spezzato a metà. La guerra per ora è un orecchio perso e un negozio chiuso in fretta e furia. L’ultimo ricordo felice che hanno, prima di cambiare nome e tenersi stretti per mano per non perdersi (dall’altro capo c’è anche Fred), sono le labbra di George su quelle di Lee in mezzo alla pista da ballo e il fischio di Fred che li raggiunge da una sedia poco lontana.

Diventa tutto concitato, non solo lì alla Tana: il giorno successivo e quello dopo ancora e ancora e ancora fino a quando ci si stanca di segnarli, corre troppo veloce. In mezzo a quelle ore che Lee non riesce ad afferrare, Fred gli suggerisce di aprire una radio per tenere insieme chi resiste. “Una radio, te, me, George, Lupin, Kingsley, chi vuoi. Non è il tuo sogno?” Potrebbe averne riso all’inizio, poi nel giro di qualche giorno Radio Potter andava in onda per la prima volta. 

Perché la radio? Gli viene in mente quel pomeriggio, mentre si infila le cuffie e fa una battuta con Fred; non trova risposa. George deve sempre chiedere il perché, non può essere che è una cosa è e basta? 

 

Caro Lee, 

George è sotto la doccia. Gli è cascata una Caccabomba in testa e ha quasi rischiato di morire. Spero che ti faccia piacere sapere che uno dei suoi ultimi pensieri saresti stato tu. 

Ci manchi – George sostiene che è lui ad avere più nostalgia tra i due. Sicuramente è vero, però manchi anche a me. 

Tuo, 

Fred

p.s trattamelo bene, anche se qualche volta non guarda dove mette i piedi e fa precipitare mezzo scaffale. 

 

Nell’appartamento di George, con George infilato sotto la doccia, il silenzio si fa opprimente. Lee rimane a scrutare fuori dalla finestra e l’unica cosa che ha in testa è una domanda: perché Fred doveva morire? 

Certe cose accadono e basta. A Fred è accaduto di: nascere rosso di capelli, avere una copia simile ma non del tutto uguale, crescere mago, essere Grifondoro, amare gli scherzi. A Fred è capitato di incontrare Lee, che non è stato solo il suo migliore amico, ma anche una piccola cosa che rendeva George più felice di quanto non lo fosse già. Quindi a Fred è capitato di essere grato a Lee per tante cose, per essere un buon amico prima di tutte. 

Lee sospira, chiude gli occhi. Torna al due maggio, al corpo del gemello steso a terra e a George che è lì, ma davvero non c’è. Ci mette due minuti Jordan a sovrapporre le immagini, a vedere un mattone scheggiato farsi completamente a metà e a riconoscerlo sul volto del suo ragazzo. Non si dicono niente per cinque ore. Guardano salire l’alba da una scalinata piena di polvere. 

George è appoggiato alla spalla di Lee e Lee è appoggiato al corrimano. “Sono qui” gli dice. Certo è che per essere lì con lui, dovrebbe anche cominciare a pensare al suo di dolore. Forse quel sono qui è anche un modo per dirgli che lo possono vivere insieme; tenere vivo il suo ricordo, fermarlo nel tempo per avere l’impressione di averlo ancora lì con loro. George annuisce e continua il suo mutismo. Gli ci vorrà almeno un giorno per dire qualcosa di sensato. 

 

“Io sono Fred Weasley…”

“e io sono George Weasley!” 

“Tu, invece?” 

 

“A che pensi?” Le parole di George sono un sussurro. Stanno facendo una passeggiata dietro le colline della Tana. È sabato, il gemello ha chiuso il negozio per un giorno e Lee ha già finito il suo turno di lavoro.

“Alla volta che mi hai chiesto perché volessi lavorare in radio.” Lee smette di camminargli a fianco, sta guardando le foglie sugli alberi. 

Fred è stata la seconda persona a chiedergli perché, è strano rendersi conto che non lo saprà mai. Rivive i pomeriggi durante la guerra in cui entrava in sala registrazioni, con la bacchetta nella tasca dei pantaloni e un nome falso tatuato nella mente: ogni giorno Fred era già seduto ad aspettarlo, in anticipo su tutti. È stato il secondo a chiedergli perché, forse il primo a saperlo. Si morde un labbro, serra gli occhi. Un leggero vento gli raffredda il viso e scommette che le guance di George ora sono tutte arrossate.

“Ho sempre pensato che il vero senso delle parole fosse comunicare, ma da quando vi ho conosciuti ho visto che invece servono solo a tenere insieme le cose, le persone.” Lo guarda e sorride. “Amo la radio da quando sono piccolo così, ci ho messo qualche anno a capire che era quello che volevo fare perché prima dovevo capire quanto bello fosse tenere ed essere tenuto insieme.” 

George tiene le mani in tasca e non si muove: il fantasma di Fred sta correndo lì in mezzo, ne può sentire la voce. Non ne hanno mai più parlato. Con la morte di Fred se ne è andato tutto quello che era George con Fred e tutto quello che era George con Fred e Lee. Uno ci mette un po’ a ripartire dopo che ha perso due quarti della propria anima. Sono passati circa tre mesi, sente rischiararsi qualcosa quando Lee apre le braccia e sembra dirgli dai, su, stringimi forte che sono tre mesi che non ci stringiamo forte e non parliamo e non stiamo insieme come sempre. Stringimi forte che è rimasto comunque George ed è rimasto George con Lee.

Sembra che il gemello riesca ad ascoltare solo adesso quel sono qui, detto su una scalinata piena di polvere. Le lancette cominciano a ripartire. Sparisce tra le sue braccia, incastra il viso nell’incavo del collo e pensa che casa è bella. “Mi manca” confessa, come se l'altro non l’avesse capito. È importante che l’abbia detto, però: è il primo passo per riprendere a camminare sul serio.  

“Anche a me.” Lee quel giorno profuma di buono: ricorderà la fragranza e quando la sentirà di nuovo, la sera prima di uscire o la mattina prima di andare a lavoro, sentirà il cuore più leggero. Sentirà che lo ama, che lo ringrazia per aver infranto la legge stupida che si è creato intorno. Non parliamo di Fred. Al diavolo non parlare di Fred. Le parole tengono insieme, le parole ricordano. Qualche anno fa, con il naso arrossato sugli spalti del campo di Quidditch, voleva dire così tante tante tante cose, voleva guardare Lee negli occhi e raccontargli come sarebbe stato. Ora deve fare la stessa cosa, imporre al suo discorso un tempo passato e un tempo condizionale. Smetterla di non dire che quello a Fred sarebbe piaciuto. 

“Ti amo” gli dice Jordan, stringendo un goccio di più per sentirselo dentro.  

George si chiede se non stia pensando esattamente alle stesse cose. Sorride, per la prima volta da un po’ è un sorriso che sa di cose belle. Gli lascia un bacio sul collo. “Ti amo.” Una folata di vento gli smuove le ciocche dei capelli sulla fronte. “Grazie per avermi raccontato della radio.”  

 

Fred si è piegato con le mani in tasca e sta controllando l’entità del danno. “L’hai davvero spaccato.” 

Lee si sta massaggiando il palmo della mano, non riesce a smettere di ridere nonostante gli faccia ancora un male cane. George, dopo essersi assicurato che non sia morto nessuno, sta sistemando il contenuto della scatola. 

“È più bello così, non trovi?” gli domanda Fred. Ha cercato di rimanere serio per quarantasette secondi, ma a guardare il volto di Jordan non ce l’ha fa più e scoppia a ridere anche lui. 

 

George gli sta camminando davanti, prova a stare in equilibrio su una grossa pietra grigia. George è come il mattone spezzato: rotto di netto, è andato avanti a sgretolarsi per anni. Il processo deve essersi fermato sia per il mattone vero che per lui, devono entrambi aver trovato una nuova armonia.  

George gli allunga le mani e Lee le prende. Hanno uno scarto di una decina di centimetri e Jordan è costretto a inclinare il collo verso l'alto: ventisei lenticchie e due occhi marroni sporcati d’ambra lo stanno guardando. “Mi prendi se mi lancio?” 

“È una pessima idea.” 

Sul volto di George nasce un ghigno malandrino, poi gli lascia andare le dita. “Lo so.” 

Il corpo del gemello si infrange su quello di Lee con un rumore sordo. Jordan fa qualche passo indietro per rimanere in piedi e lo tiene stretto, prima di posarlo a terra. “È passato più di un anno” sussurra George. Tiene tra il pollice e l’indice il maglione dell’altro. “Ti andrebbe di trasformare la sua stanza in uno studio? Non voglio certo buttare tutto, faccio come mamma che si è tenuta le cose più importanti: tipo, penso che potremmo trasfigurare una scrivania e tenere quella orribile lampada che ha sul comodino e poi…” 

Lee gli sposta i capelli dalla fronte e lo bacia sulla pelle scoperta. “Tutto quello che vuoi, G.” 

“Andiamo a casa?” 

“Andiamo a casa.” 

 



Non so che senso abbia questa storia. Volevo solo che esistesse, volevo solo averla scritta. Vi ringrazio per averla letta, per aver visto con me mattoni spezzati che prima o poi smettono di rompersi. 
Con questo angolo autore continuo a rimarcare che non sono molto brava a parlare, vero? Vi mando un abbraccio: a chi si stente un mattone spezzato come mi sento io, a chi invece ama i mattoni spezzati, a chi lo era e non lo è più.
Sia 

   
 
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