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Autore: Francine    07/04/2023    4 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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6.


Il cielo sopra Parigi si era svegliato di pessimo umore. Col culo scoperto, avrebbe detto Marco. Dalla finestra faceva capolino una spianata di ovatta grigio acciaio, dietro cui il sole si teneva ben nascosto, nemmeno si fosse rintanato con la testa sotto al guanciale e intendesse marcare visita anche lui.

Rodrigo avrebbe voluto imitarlo. Tirare le tende - errore imperdonabile, averle lasciate aperte la sera prima - e cancellare quella giornata nuova di zecca con un bel «chissenefrega», seguito da una generosa dose di punti esclamativi.

Perché no?, si disse.

Avrebbe scritto nella quiete della chambre d’amis

Non c’era un supermercato proprio sotto casa?

Sì, che c’era. E anche ben fornito. Uno di quelli sempre aperti, con le casse automatiche e nessun inserviente con cui dover scambiare quattro parole.

Il piano che si andava delineando dietro al braccio sinistro - pio scudo contro la seccante luce diurna - era buono. Invitante. Allettante.

Colazione chez Isabelle: un sorso di caffè, yogurt e il croissant sbocconcellato strada facendo.

Un salto al supermercato per gli improrogabili generi di prima necessità - acqua, fazzoletti, succo d’arancia, caffè solubile, tramezzini. E poi si sarebbe chiuso a lavorare. 

Solo lui, il portatile e i suoi appunti sul Susumella.

 

Marco si era superato. Non solo aveva riempito la dispensa nemmeno si aspettasse l’Apocalisse nei prossimi cinque minuti, ma aveva preso la comanda personalmente. Senza battere ciglio. Anzi, facendosi trovare pronto con una varietà di ricette rigorosamente vegetariane - vrasciòli alle melanzane, frittelle di asparagi, maccaruni ri Agatina, zuppa di funghi e cipolle, caponatina zucchine e menta, licurdìa, pipi e patate, pitta ‘nchiuta, patate ‘mpacchiuse e un’altra mezza dozzina di pietanze - che avevano imposto: un triplo giro di amari, per digerire il tutto; una passeggiata fino ad un orario indecente, per non morire di cibo; e ultimo, ma non per importanza, una generosa dose di bicarbonato, limone e acqua calda - ricetta di nonna Agatina - per potersi coricare senza rimettere l’anima.

 

Si portò una mano all’altezza del ventre e scoprì una rotondità della grandezza di un melone.

Caro, sono incinto, pensò. E poi: ho messo in valigia i pantaloni della tuta, vero?

Ma poi un pensiero, viscido come il fango, si fece strada nella sua testolina con la stessa grazia e lo stesso passo sicuro del sole che sorge: il WI-FI.

Sì, Isabelle gli aveva messo a disposizione la password, ma il segnale faceva pena, pietà e misericordia. E c’era il serio rischio che si piantasse sul più bello, nel mezzo delle sue ricerche.

«Cristo santo», mugugnò Rodrigo afferrando il cuscino e premendoselo contro il viso.

Niente, toccava uscire. Trovare uno Starbucks, possibilmente non quello di Montmartre, e lavorare da lì.

Questa storia si sta trasformando in un incubo, si disse, scalciando via il lenzuolo e sbattendo il cuscino sul pavimento.

Così, santiando e maledicendosi, un’ora dopo Ruy si ritrovò a varcare la soglia del Verse-Eau in tuta, zaino in spalla, e umore sotto le suole delle scarpe da tennis.

Uno scappato di casa, l’avrebbe definito Yngve, prima di prenderlo per la collottola e trascinarlo di peso ad acquistare qualcosa di decente.

Grazie a Dio, Yngve non è qui, si disse, lasciandosi cadere in una poltrona dallo schienale alto. 

Accese il portatile e gettò uno sguardo distratto oltre la vetrina: dall’altra parte della piazza, dietro il carousel e le fronde degli alberi, il Gökotta e il Susumella lo stavano fissando, ne era certo, in attesa del suo insindacabile giudizio.

Chi dei due è il migliore?, sembravano chiedergli - nella sua testa - le insegne, le vetrate, i lampadari, le tovaglie, le posate e persino i pavimenti, come se la rivalità dei rispettivi proprietari avesse intaccato ogni atomo dei ristoranti.

Forse una gita al più vicino manicomio non è una così cattiva idea, pensò, prima di ammettere con se stesso che l’unico verdetto possibile ed onesto era uno e uno solo: parità.

Totale. Perfetta. Assoluta.

 

Oh, sì. Era la dura e crudele verità, ché dove Yngve eccelleva, Marco segnava punti e si difendeva benissimo. E, al contrario, i cavalli di battaglia di Marco - di Nonna Agata, semmai -  sapevano tenere testa alla geniale inventiva di Yngve.

Sono cazzi tuoi, Milo mio caro, si disse, mentre il suo sorriso si andava allargando in un ghigno malevolo. Perché Ruy, no, non credeva possibile che il Verse-Eau avrebbe mai e poi mai saputo tenere testa alla carta dei dolci di Yngve e di Marco. Neppure nei sogni più sfrenati del suo proprietario. Che cosa avrebbe mai potuto opporre alle Nepitelle di Marco o alle Kladdkaka di Yngve?

Un croissant alla Nutella?

 

«Va bene. E poi? Prendi un caffè, un cappuccino, una spremuta d’arancia?»

 

Si voltò, con la stessa scioltezza di un pupazzo a molla. Accanto a lui, vassoio sottobraccio - nemmeno fossero i testi del liceo - e sguardo verde bosco, la cameriera dell’altro giorno gli stava sorridendo. Come si sorride ai pazzi furiosi, pensò lui. E poi: Che cosa ho chiesto, esattamente?

Lei lo guardò, in attesa, paziente, che il suo cervello iniziasse a macinare per il verso giusto.

«Un caffè», rispose, con la stessa intonazione di un concorrente di un quiz a premi.

«Benissimo», rispose lei, sollevata. «Arrivano subito.»

Arrivano, cosa?

Lo lasciò da solo a solo con il proprio portatile - spento - e la vetrina panoramica sulla piazza. E fu in quel momento che Ruy si accorse di una cosa: oltre a lui, l’unico cliente del locale era un donnone seduto al bancone, con una borsa tanto enorme quanto sformata, e un pittoresco turbante rosso pompeiano.

Tirò fuori il taccuino dallo zaino e osservò meglio il locale. Stampe alle pareti. Luci soffuse. Un tappeto musicale al pianoforte. Sedie e tavoli spaiati. Pareti verde acqua e pavimento di linoleum blu mare.

«Un’isola anni ‘90», commentò, accendendo il portatile e attaccando l’alimentatore alla presa.  Era una buona descrizione. Poteva funzionare, come battuta d’inizio. Un buon gancio che catturasse l’attenzione del lettore e…

 

«Prego?»

La cameriera si era materializzata accanto a lui, la tazza di caffè fumante sul vassoio, ma stavolta il suo sguardo verde scuro non era esattamente amichevole.

«Non ti piace il locale?»

Domanda retorica, ovvio.

Nessuno avrebbe risposto di sì - di no, si corresse - se non avesse avuto l’intenzione di scatenare una rissa con tutti i crismi. E Rodrigo seppe, con certezza assoluta, che lei gli avrebbe sbattuto il vassoio sulle corna senza troppe cerimonie.

Inventati. Subito. Qualcosa.

Così le sorrise - con il sorriso che, secondo Aiolia, faceva sciogliere le ragazze - e si affrettò a dirle: «No, no. Anzi.». O è sì?? 

Sembrava comunque punta sul vivo. 

«Mi piace. Mi piace, eccome», la rassicurò lui. O almeno ci provò. «Ha carattere. Stavo cercando di riassumerlo in una frase.»

Pausa.

«Sono uno scrittore», aggiunse, indicando il portatile e pentendosene subito dopo. 

«Ah, sì», domandò lei, scettica. «E che cosa scrivi?»

Menti. Menti spudoratamente. Dille che sei un giallista. Che stai scrivendo un romanzo d’amore. O di fantascienza. Uno storico. Qualunque cosa, ma non dirle che stai scrivendo… «Una guida turistica», si sentì rispondere. E, da qualche parte, sentì il suo buonsenso prendersi a ceffoni e gettare la spugna.

«Davvero?»

Il suo volto si illuminò. Sembrava più giovane, adesso. Più fresca. Una bambina in un negozio di caramelle, pensò lui. 

«Parola di boyscout», le disse, mostrandole indice, medio e anulare della mano destra ben distesi contro il cuore. «Sto giusto scrivendo una guida per innamorati.»

Non era proprio una bugia, no?

«Che bello!», e il sorriso di lei, se possibile, si allargò ancora di più. «Parigi è la più romantica delle città», sentenziò.

Lo dici a me?, pensò Rodrigo, mentre lei gli posava il caffè di fronte.

«E il Verse-Eau è il locale più romantico di tutta Parigi», aggiunse lei, con la stessa solennità di qualcuno che snocciola saggezza ad un tanto al chilo. Poi gli si avvicinò e gli piazzò lo sguardo dritto nelle palle degli occhi. «Mi aspetto una buona recensione, sappilo!»

«Affare fatto», ribatté. «E visto che ci siamo, qual è il vostro cavallo di battaglia?»

Lei lo fissò come se gli fosse spuntata una seconda testa. Poi un lampo le attraversò lo sguardo e si sedette di fronte a lui.

«Una cosa ci sarebbe», disse - sussurrò - guardandosi attorno, nemmeno il diavolo in persona potesse sbucare da qualche parte per prenderla per un orecchio e portarsela via, tra gemiti e stridor di denti e sferragliare di catene. «Abbiamo il dolce più buono di tutta Parigi. È spa-zi-a-le. Ma mio fratello ancora non si è deciso a metterlo in produzione.»

Lei sospirò. «Perché mio fratello è tanto bravo quanto cocciuto. E siccome è un dolce che nostro padre preparava a ridosso di S. Valentino, Tiennot pretende di prepararlo per una settimana. Non prima.»

«Ha una sua logica», rispose Rodrigo.

«Sì. Se sei un mulo cocciuto», ribatté lei. «La gente si ama tutto l’anno, da Gennaio a Dicembre e via di nuovo, non un solo giorno all’anno.»

«E come si chiama, questo dolce?»

«Plaisir d’Amour», rispose lei. «Come la canzone.»

Ha ancora più senso, pensò lui. E gliel’avrebbe spiegato, con calma e pazienza, se qualcuno non l’avesse richiamata alla cassa.

«Coco!»

Lei si sporse e lui si voltò. Il donnone con il turbante li stava fissando, un sorriso rosso melagrana sulle labbra piene.

«Arrivo», disse lei - Coco, registrò Rodrigo -, prima di sibilare un «Torno subito», alzarsi e raggiungere il donnone.

 

Rodrigo sorseggiò il suo caffè pensando e macinando le informazioni ricevute.

Sì, avrebbe potuto inserire tutto questo nell’articolo. E nella sua guida. Cambiando la catena della frase, ovvio. Ma bisognava che assaggiasse questo benedetto dolce, anche solo per indovinare gli ingredienti. Adriano aveva bisogno di qualcosa di concreto. E se il fratello di Coco - Tiennot? - non l’avrebbe messo in produzione se non dopo la Candelora, Rodrigo doveva rivedere la sua strategia, decisa mentre risaliva la Butte a passo di carica, nemmeno volesse raderla al suolo: scrivere tutti e tre gli articoli e spedirli a Milo - ad Adriano - all’ultimo momento.

When in Rome, do as Romans do, diceva il proverbio. E siccome si era cacciato in quel delirio agendo come avrebbe fatto Aiolia, ne sarebbe uscito allo stesso, identico modo.

Au bout de souffle.

 

Ma adesso che la rabbia e la frustrazione stavano evaporando, Ruy doveva ammettere con se stesso che quella strategia non avrebbe mai e poi mai funzionato. Lui non era Aiolia. E per quanto potesse provarci, non era tagliato per vivere procrastinando ogni cosa all’ultimo secondo possibile. Era come pretendere che un pesce rosso iniziasse a pattinare sul ghiaccio.

E poi Adriano ci sarebbe andato di mezzo. Senza considerare che le cose lasciate in sospeso hanno la sgradevole tendenza ad assomigliare a spade di Damocle, aggiornate e rivedute e corrette per i tempi moderni.

E poi, le cose fatte all’ultimo secondo hanno il brutto vizio di essere incomplete. E di generare, dunque, altro lavoro, perché mancherà sempre e comunque qualcosa: una virgola, un riferimento, una revisione decente. Il che presuppone il doverci rimettere mano ancora e ancora e ancora.

No, non era quella la vendetta che avrebbe servito a Milo, bensì qualcosa di più raffinato. E doloroso.

 

Bevve il caffè, aprì un file nuovo ed iniziò a digitare qualche appunto.

E l’aroma che gli accarezzò le narici - l’inconfondibile profumo di cannella e burro caramellato -, stava preannunciando l’arrivo del croissant alla Nutella. Gli si aprì una voragine nello stomaco. Un vero e proprio buco nero. E scoprì ad avere fame, nonostante avesse già fatto colazione da Isabelle e avesse deciso di tenersi leggero, quel giorno, magari saltando il pranzo.

Parigi è una città pericolosa, pensò. Troppo cibo buono tutto insieme, aggiunse tra sé e sé. 

Si chiese se non fosse il caso di inserire questa avvertenza da qualche parte, magari come incipit della sezione dedicata a ristoranti, brasserie e bistrot. Un motto di spirito, per non prendersi troppo sul serio.

Ma poi una mano entrò nel suo campo visivo, spazzando via ogni pensiero coerente.

Non era la mano delicata, dallo smalto rosa corallo, di Coco. Nossignore. Era una mano magra, forte, dalle dita lunghe e le unghie tagliate corte. La mano di un uomo.

 

«Il suo croissant alla Nutella, signore. Bon appétit.»

 

Rodrigo alzò lo sguardo, lentamente, percorrendo le dita affusolate, il polso forte, l’avambraccio magro ma dai muscoli delineati che sbucava dalle maniche arrotolate, le spalle dentro la divisa immacolata, il collo forte, la mascella sfuggente, i capelli legati in una coda distratta all’altezza della nuca e gli occhi di un blu impossibile.

Era il ragazzo dell’altro giorno.

Quello che aveva conosciuto alla toilette - no, così no! Sembra una cosa equivoca!!! - e che era uscito sistemandosi una bandana sui capelli.

Non azzardarti a chiedergli se ha risolto i problemi con lo scarico, gli sibilò la propria coscienza, il tono affilato di un rasoio. Non. Farlo.

Quel tizio lo stava fissando. Come se potesse incenerirlo da un momento all’altro. O peggio. Rinchiuderlo in una cella frigorifera - in un abbattitore - e tanti saluti.

 

«Grazie», esitò. Doveva pur dire qualcosa, giusto?

«Nessun problema», replicò l’altro. «L’ho farcito personalmente. Io adoro la Nutella. Spero di non aver esagerato», e Rodrigo ebbe la sgradevole sensazione - quasi una certezza - che l’altro avesse aggiunto un suo personalissimo rinforzo al ripieno. Venticinque, trenta gocce di Guttalax, ad esempio.

«Ah. Grazie.»

«Coralie è una ragazzina», disse lui.

«Ah. Okay.»

«Coralie è mia sorella.»

E il cervello di Rodrigo risolse l’equazione.

Lui è Tiennot. Tiennot. Quello del Plaisir d’Amour. Non azzardarti a fartelo nemico!, urlò e sbraitò e minacciò il suo buonsenso.

E Rodrigo concordò.

Fossi matto.

«Senti…» c’è un errore. Tua sorella è molto carina, ma non è il mio tipo. Gli avrebbe voluto rispondere una cosa del genere, tanto per mettere in chiaro la questione senza sbilanciarsi troppo. Ma Tiennot non gli concesse quartiere.

«No, senti tu, hombre», gli sibilò, piazzandogli una mano sulla spalla. Un gesto di maschio cameratismo, certo; ma Ruy ebbe l’assoluta certezza che quel tizio era prontissimo a fargli il culo, seduta stante. «Vuoi un caffè? Va bene. Un croissant. Benissimo. Per quel che mi riguarda, puoi svuotarmi il laboratorio e stare qui tutto il santo giorno fintantoché paghi il conto. E lasci una buona mancia. Ma tieni le tue zampe lontane da mia sorella. Intesi?»

«Non è il mio tipo», rispose. Con una sincerità che spiazzò lui per primo. Qualcosa - un lampo di consapevolezza? - attraversò lo sguardo di Tiennot. «Sono qui per scrivere una guida su Parigi. Parola di boyscout.» E ripetè il saluto.

La stretta si allentò. 

«Meglio così.»


Tiennot gli assestò una pacca sulla spalla e se ne tornò nel laboratorio, un mezzo sorriso soddisfatto sul viso.

«Tutto okay?»

Coco aveva la dote di materializzarsi dal nulla accanto alle persone. Si doveva essere infilata nel laboratorio in scia. Nemmeno fosse un gran premio. Fissava ora lui, ora la porta, con aria ansiosa. 

«Che gli hai detto?»

«Niente», mentì Tiennot. «Mi ha fatto i complimenti per il croissant dell’altro giorno e io ho incassato con grazia.»

Non ti credo, diceva la postura di Coco.« Perché gli hai portato tu il croissant?»

«Perché tu te ne stavi a chiacchierare con Maman Louise, invece di lavorare, come al solito», e sparì nell’angolo più recondito del laboratorio, soddisfatto come un gatto che si è appena pappato un grasso passerotto.

Coco rientrò in sala, perplessa.

«Questa storia non mi piace», sentenziò avvicinandosi al bancone e iniziando a caricare la lavastoviglie.

«Tranquilla, Scimmietta», la rassicurò Maman Louise, la tazza tra le mani e lo sguardo sul ragazzo seduto davanti alla vetrina. Un passerotto sperduto, di quelli intirizziti dalla pioggia, questo le pareva quel ragazzo con gli occhiali in punta di naso e l’aria disorientata. «Qualcosa mi dice che il nostro Hemingway dei poveri non andrà proprio da nessuna parte…»

«Lo spero proprio», ribatté Coco. «I clienti fissi fanno comodo, ma non mi alletta l’idea di raschiare i suoi resti mortali dalle pareti.»

«Potresti anche dover raschiare quelli di Tiennot, Scimmietta. Ci hai pensato?»

«Quel giorno nevicherà blu.»

Maman Louise sorrise.

Bevve un altro sorso di caffè e non commentò. Sì, Tiennot era più cocciuto di un mulo, ma il destino ci fa spesso la cortesia di mettere sul nostro cammino qualcuno peggiore di noi. Per testare i nostri limiti. O per farsi una sana risata sulla nostra pelle. La mano destra del donnone scese nella borsa, in un tintinnio argentino di braccialetti, e rovistò all’interno finché non trovò il suo mazzo di Tarocchi. Che, come al solito, era uscito dalla custodia e se ne stava mezzo sparpagliato contro la fodera. 

Pescò una carta.

L’Asso di Spade.

Un nuovo inizio. Maman Louise sogghignò. Si prospettano giornate interessanti…
   
 
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