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Autore: RLandH    12/04/2023    0 recensioni
Quando il Dio-Di-Ogni-Cosa-Buona creò gli uomini non li fece tutti uguali, al contrario: si impegnò perché fossero più diversi, variopinti e colorati possibili, come fiori.
Si adoperò perché i suoi uomini fossero come i fiori del suo giardino, virtuosi, bellissimi, colorati ma differenti.
Unici.
Eccezionali.
Ogni fiore era unico, non solo da una specie all’altra ma da un individuo all’altro.
Così, erano e dovevano essere gli uomini.
Bellissimi.
Furono gli uomini, in maniera del tutto arbitraria, a decidere che quella diversità andasse classificata, andasse ordinata, secondo il loro iniquo giudizio.
Che il dono di Dio dovesse essere – non un regalo ma – un assetto.
E, che gli uomini professino quel che vogliono, tale iattanza fu Il Principio.

C'è un cavaliere, senza ne arte ne parte, che cerca uno scopo ed un mondo che non ha riguardi verso di lui o altre anime sfortunate. Circa.
Cosa può, d'altronde, un uomo contro Re, Signori e Principesse? Cosa può un uomo contro il Destino stesso?
Genere: Angst, Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Alziamo i calici all'unico capitolo senza una menzione a Moria Ramberra

 

C A P I T O L O    V I

E R A   A B I T V A T A    A D    E S S E R E    G V A R D A T A    C O N   D E LV S I O N E

 

Uno dei soldati del contingente aveva voluto vederli, si era presentato alla pieve con una bandiera senza colore, chiedendo di incontrare chi di loro comandava e Adda. Lei aveva sentito il sangue farsi solido quando l’uomo vestito di ferro scuro aveva pronunciato il suo nome. Non era stato volgare, né ineducato, nel suo tono ferriano e nelle parole tese di chi non destreggiava bene la lingua, ma si era rivolto a loro, a tutti, loro come fossero stati due Mani Morbide.

Quando Adda lo aveva visto per la prima volta si era aspettata la parlata grezza degli adoraoro; d’altronde tutto sembrava dirlo: alto da dare la vertigine, con spalle così larghe da poter sorreggere il mondo, ma sotto l’elmo di ferro-nero, era apparso il viso piatto di un giovane, rasato – o forse ancora sbarbato – e con gli occhi ardenti di preoccupazione. L’aspetto di chi era cresciuto improvvisamente e non aveva ancora realizzato la portata del suo cambiamento e delle emozioni che questo portava con sé. Con indosso l’elmo nero era sembrato un guerriero temibile, un uomo fatto e finito di ferro, con il viso scoperta era un ragazzo che si sentiva di troppo nel suo stesso corpo. O almeno quella sensazione aveva dato ad Adda.
Era un Bimbo Sbagliato, come lei, era evidente a primo sguardo.

“Io sono Berineo Tarandi, cavaliere onorato della Diarchia della Gradiosa Perlipsia e sono qui come araldo della monna Teresia Immacolata Arga” così si era presentato, senza perdere il suo fervore, aveva parlato in un floriano rispettoso, sebbene il forte accento ferriano-peripsiano avesse sporcato il tono, dando l’idea di una doppiezza di molte lettere. Quest’ultima cosa e l’atteggiamento leggermente estraniato del giovane imberbe, aveva tolto molta tensione al momento.

“Benvenuto, cavaliere, qui sei tra gli scivolati, non esistono né Monne, ne Signori” aveva chiarito, “Io sono Garlio, non sono chi comanda, ma come te solo un portavoce” aveva ammesso senza perdere la sua pratica compostezza, prima di sfiorare con una mano la schiena di Adda, spingendola a presentarsi a sua volta.
Berineo, con gli occhi vacui e nocciola, si erano diretti verso di lei, incuriosito e incerto, forse stupito e confuso della sua presenza.

Adda era abituata ad essere guardata con delusione.

Il discorso di Garlio non lo aveva turbato: “La mia monna chiede con garbo e rispetto, udienza con voi buoni uomini e liberi pensatori e alla sua buona amica monna Adda del Giardino!” aveva decantato con fierezza.  Lei aveva aggrottato le sopracciglia: Amica? Monna?
Era un’immagine che trovava oltremodo l’immaginazione umana. Theresia Arga che la imputava non solo con un titolo nobiliare di troppo, ma anche come sua pari, come sua amica.
Certo quando Adda si era presentata da lei la prima volta, lo aveva fatto comunque qualcosa di più di una serva, ma ancora tremendamente lontana dall’idea di un essere umano ed ancora vicino allo stato di pecora. Un’appendice di Saiji e Iren – un’appendice vestigiale.

Adda si era voltata vergo Garlio incerta, lui non la stava guardando, i suoi occhi bellissimi erano rivolti verso il cavaliere, si era voltato poi verso i suoi compagni, tutti pendevano da qualsiasi parola avrebbe pronunciato, tutti dipendevano da lui. Garlio avrebbe potuto non definirsi il loro signore, ma lo era.

Non era sicura se fosse per il suo carisma o per quel sangue maledetto che lui rinnegava, o per entrambi. Garlio era un bimbo benedetto che si dichiarasse contrario alle benedizioni, questo non sarebbe cambiato.
Nato per essere perfetto, dominatore del mondo e degno della devozione di una divinità, ma aveva rifiutato il suo ruolo per essere libero, per poter camminare su lidi ignoti e per essere uomo come qualsiasi altro uomo.
Eppure, la sua presenza, la sua voce, irretiva tutti gli uomini lì.
Garlio poteva abiurare sé stesso, ma sfruttava il fascino che la sua benedizione gli offriva.

“Saremmo felici di incontrare Theresia di Peripsia, qualsiasi amica della nostra Adda è nostra amica” aveva stabilito con sicurezza, ignorando di proposito l’utilizzo della titolatura.

Questo aveva irritato Berineo ma non aveva emesso commenti di natura offesa, “Allora lei è felice di invitare voi al suo accampamento” aveva stabilito con voce incerta.
Adda non era stata certa di quanto quello fosse stata una cosa buona, ma Garlio, come tutti gli uomini benedetti che aveva incontrato – e su questo non faceva eccezione – non poteva concepire di essere nel torto. Ma per Adda era certo che quello fosse l’inizio di qualcosa di pericolo.

 

 

Monna Theresia Arga aveva fatto erigere una città di stoffa in una zona pianeggiate – il pregiatissimo impero non ne mancava – non lontana dall’ansa sinistra del Varpoe, uno dei diffluenti del Serpente.
Adda lo aveva visto da dietro la spalla di Garlio, quando erano giunti a cavallo.
Il baraccamento era composta da una diversità di tende che si estendevano per un campo intero. Stoffe di diversi colori e materiali, dalle stoffe più grezze per le piccole coperture a padiglioni di velluto. Il centro della città di stoffa, visibile, solo dopo una lunga traversata labirintica nell’accampamento, era di forma esagonale, immensa abbastanza per contenete solo lei una cinquantina di persone – Nerf aveva contato bene, cinquanta erano i soldati con Beronio, ma almeno in doppio dovevano essere stanziati lì nel campo, se non di più, Adda non era brava a contare con gli occhi – da lei si estendevano come raggi del sole le altre dente, in una disparità di forme e dimensioni.
C’era una gran vita, di uomini – ed anche donne – che correvano a  destra e manca; alcuni uomini indossavano l’armatura, altri parzialmente, anche qualche donna era bardata; c’erano anche persone spoglie del ferro, alcuni dovevano sembrare servitori dai modesti vestiti, ma altri guerrieri con le braccia nude.

Beronio non aveva dovuto dire loro dove era alloggiata la loro Monna, almeno non Adda. Ricordava bene Theresia ed i suoi modi di agire. “Stiamo andando nella direzione sbagliata” aveva sussurrato all’orecchio di Garlio.
Lui aveva voltato la testa per quanto fosse possibile, e l’aveva guardata con l’angolo dell’occhio.
“Theresia Arga potrà amare il lusso, la seta e le comodità, ma non alloggerebbe mai in campo aperto nella tenda più maestosa” aveva stabilito sicura Adda, “Sarebbe come disegnarsi un bersaglio lungo la chiesa” aveva considerato Garlio, dandole ragione.
“Non pensare a lei come una Manimorbide, o meglio, una semplice manimorbide” aveva sussurrato, “Lei è una donna di ferro. Il primo insegnamento che le danno è come essere discreta” aveva considerato Adda.
Ricordava la prima volta che l’aveva veduta, dietro una parete traforata della Chiesa di Peripsia, nel matroneo.
“Sei nel lato sbagliato” l’aveva richiamata, solamente, con le dita intrecciate tra gli intrecci viminei di marmo dipinto e gli occhi appena visibili dietro un velo.
Così Adda aveva cercato tra le tende quella che poteva essere quella di Theresia, ma tra tutte quelle case approssimate, spariva ogni possibilità – forse quello era lo scopo.
“Ricordami come la hai conosciuta?” aveva detto Garlio, tornando a guardare davanti a se orgoglioso, sulla sella del suo cremello pallido.
“Ho lavorato per lei” aveva ammesso Adda, “Suo fratello Emisio aveva perso al gioco un gioiello che serviva per la dote di sua sorella e lei aveva necessità che venisse recuperata senza troppo clamore” aveva raccontato.
Era una versione piuttosto semplificata degli eventi, ma era comunque corretta.

Alla fine, erano stati comunque condotti nella tenda principale, quella esagonale.
Dopo aver legato il cavallo cremello di Garlio – il ragazzo aveva dato una carezza gentile sul muso bianchissimo del cavallo, e il vecchio arione con cui Nerf e Delisio li avevano seguiti. Gli Svincolati non avevano molti cavalli, più muli – erano creature più diligenti, più resistenti e più mansueti, qualche pecora, due mucche buone da latte, che portavano nel loro ramingare; ma sarebbe stato quanto meno mortificante presentarsi davanti ad una ricca monna a cavallo di un’asina.
O meglio a parere di Delisio, ad Adda non sarebbe importato, di presentarsi a cavallo di un mulo quanto di un drago o con le sue nude gambe.
Garlio non aveva emesso giudizio, le sue labbra si erano fatte strette e infastidite, come se l’idea di doversi abbellire per una manimorbide lo avesse messo sui tizzoni ardenti e allo stesso tempo era tormentato negli occhi all’idea di apparire di meno.
Eretico. Liberista. Volontista.
Eppure: ancora legato a quei ruoli.
Adda gli aveva preso la mano e gli aveva dato coraggio, ‘Va bene se per questa volta, sembrerà che segui il buon sentiero’ anche se non era vero.
“Che lusso! L’ultima volta che ho vissuto sotto una tenda del genere …” aveva cominciato a dire Delisio, ma era stato interrotto da uno sguardo piccato che si era dipinto sul viso di Garlio, sagittando maledizioni verso di lui. Adda aveva sorriso verso di lui, schioccando le labbra, “L’oscuro passato di Garlio e Deilisio” aveva scherzato forzatamente, sollevando i palmi.
Lui aveva sbuffato, “Non c’è niente di misterioso. Solo molto triste e cupo, Adda” le aveva detto, facendo roteare il pollice sulla nocca dell’indice destro di Adda, “Inoltre, noterei che anche tu non sei molto chiacchierona” aveva valutato lui.
Lei si era goduta lo sfregamento del pollice sulla sua nocca, sulla sua pelle, cosa che le dava sicurezza; con la mano libera, Adda aveva accarezzato la mascella del cavallo cremello, l’animale non aveva ancora un nome, non lo avrebbe avuto presto. Garlio non voleva nominare l’animale, lo trovava una cosa superflua, gli animali non avevano bisogno di nomi, erano ben consapevoli di chi fossero. “Strano, mi hanno sempre detto avessi una boccaccia così larga che era un mistero come facessi a bere l’acqua senza che questa sbrodolasse” aveva risposto Adda, con un sorriso mesto.
E per la sua linguaccia si era presa qualche scudisciata di troppo.
“Allora, srotola la lingua e scopri cosa vuole questa adoraoro. Io neanche parlo il ferriano” aveva sussurrato lui.
Theresia parlava la lingua dei fioriani, come tutte le manimorbide aveva ricevuto un’istruzione vera e completa, anche nella terra dove alle donne veniva insegnata la mansuetudine e la trasparenza. “Sappiamo bene che tra e me è te, l’uomo capace di incantare i serpenti sei tu” aveva risposto pratica Adda, allontanando la mano dal muso bianco della bestia. Un’espressione di dolore si era dipinta sul viso di Garlio, profondamente in conflitto con il suo sangue che tanto odiava.
“Se avete finito di guardarvi languidi, credo che una deliziosa signora di ferro ci attenda” li aveva richiamati Delisio, sfacciato, allungando le braccia attorno alle loro spalle e dopo averli avvolti aveva lasciato il suo peso crollare verso il terreno e se non era caduto giù anche lui come un frutto dall’albero era stato solo perché loro lo aveva sostenuto.
Beronio si era fatto paonazzo in viso per l’aggettivo che era stato utilizzato per descrivere la sua signora.
“Prego da questa parte” aveva attirato l’attenzione un giovane uomo, affiancandosi a loro giovane cavaliere guida, con un tono tremendamente sgradevole per essere fioriano. Era uno paggio, vestito di blu notte, stretti sulla vita e con la camisa lunga fino ai fianchi, con le maniche a fisarmonica dalla spalla al gomito, come richiedeva l’usanza ferriana.
Aveva un viso magro ed insolitamente pallido.
Adda aveva impiegato un momento di troppo per guardarlo e forse i suoi occhi indagatori avevano reso il ragazzo nervoso, perché si era morso prontamente il labbro pieno.
Aveva osservato come sulla camisa blu notte, fosse cucito un ocelot rampante ma diffamato, in campo azzurro. Una famiglia peripsiana sì! Non membro della Diarchia ma comunque di sangue ricca.
“Don Teddesio Lamorgilla!” lo aveva riconosciuto Adda, alla fine. Era il ragazzino sempre nervoso che serviva il vino nella ricca dimora degli Arga! “Ehm …Siete …fiorito molto in queste sorelle” aveva ammesso lei, trovando il ferriano difficile da pronunciare sulle labbra. Era passato tantissimo tempo da quando lo aveva parlato con frequenza, lo stesso tempo che era passato da quando aveva visto per ultimo Don Teddesio Lamorgilla, che nelle sorelle trascorse era passato da bimbino e giovane uomo.
“Credo che la parola da te cercata mia monna fosse cresciuto, perché decisamente lei è fiorita” aveva considerato il giovanotto, con le guance arrossate. Anche Adda era diventata rossa in viso, sia per il complimento – così spontaneo – sia per il modo grossolano a cui si era rivolta al Don.
Ricordava Teddesio come un ragazzino che serviva il vino, erroneamente la prima volta lo aveva scambiato per un servitore, prima di essere illuminata sulla sua condizione di nobile-in-prestito.
Aveva sentito lo sguardo di Garlio addosso.
 “Ho portato i nostri ospiti” aveva detto il cavaliere Beronio, rivolgendosi al paggio al paggetto uno sguardo piuttosto perentorio. Erano ambe due giovani, ma il cavaliere era più vecchio.
Il suo cognome non aveva fatto suonar alcun campanello nelle mente di Adda, il che voleva dire il giusto, aveva passato troppo poco tempo a Perispia per conoscere i nomi di tutta la casta nobiliare – principalmente perché nella città di ferro nessuno lo era davvero – ma aveva l’impressione ci fosse acredine tra Beronio e Teddesio. “La Monna ha richiesto di condurli dentro la tenda principale” aveva risposto Teddesio.
“I Don qui potrebbero farci la cortesia di parlare in una lingua a noi nota? Non tutti hanno potuto studiare” aveva detto Delisio, cogliendoli di sorpresa.
Entrambi i due si erano fatti rigidi come spade, “Così sia” aveva detto Beronio con più temperanza e li aveva condotti da Theresia, non prima di fargli spogliare di tutte le loro armi. Solo ad Adda era stata data l’opportunità di tenere il suo coltello, legato alla coscia sinistra.

 
La Tenda Principale era di un vivace color pervinca, su cui svettavano bande viola, con imposte dei tendaggi sollevati appena, per permettere alla chiara luce del giorno di filtrare all’interno e poter illuminare l’ambiente. Attraversate l’imposte di tessuto, il colore che dominava era un viola di una tonalità molto più scura, anche con le luci tenere del sole ancora alto, l’ambiente sembrava molto più lugubre.
Il padiglione, degno dei tendoni nobiliari durante i tornei più ricchi, era diviso al suo interno per creare diversi ambienti fittizi, alcuni erano suddivisi tramite drappi decorati, mentre alti con pannelli di legno con pitture colorate. Ciò che strappava dall’immaginazione di essere nelle stanze di un palazzo, era la morbidezza delle pareti di velluto, l’odore di erba fresca che appestava l’aria e la morbidezza di un terreno naturale sotto i piedi.

Una mezza luna di sedie crurali di legno era pronta ad accoglierli, l’unica che faceva eccezione era quella centrale, che dominava la scena, che aveva uno schienale alto ed i braccioli per potersi sedere più comodamente, ma era anche l’unica vuota. Per il resto una corte di quattro donne li aveva accolti immediatamente al loro ingresso.
Non erano le uniche presenti, c’erano anche degli uomini, con indosso parti d’armature e spade lunghe ferriane appese al fianco.
C’erano anche degli inservienti in bluse bianche, pantaloni blu e stracci legate all’avambraccio, ma questi ultimi non si erano curati di loro per nulla.
“Quale è?” aveva chiesto Delisio, prima ancora di Garlio.
Adda non era riuscita a rispondere, perché una delle dame si era subito tirata su da una sedia crurale quando l’aveva veduta e l’aveva abbracciata con la stessa confidenza di un’amica intima.
“Deria” aveva sussurrato Adda, riconoscendo l’odore di lavanda e pulito, prima ancora del viso noci di galla, dalla forma tonda ed occhi liquidi e grandi. “Adda, quale gioia rivederti sana e salva!” aveva detto la donna staccandosi da lei e prendendo le mani a coppa sulle guance di Adda e dandole due baci sulle gote.
Le Sorelle non erano state gentili con Deria, sotto i suoi occhi violacee chiazze dell’insonnia erano incise pesanti, gli occhi parevano più infossati e la pelle era arrossata sulle guance come la buccia di un’arancia. Anche i lisci capelli scuri sembravano più gonfi e crespi, la crocchia sempre ordinata, lasciava sfuggire ciuffi persistenti.
“Immagino nessuna di loro” aveva detto Garlio, in fioriano osservando, come le quattro sedie a mezza luna fossero occupate da donne.
Deria aveva guardato i suoi accompagnatori e le gote erano diventate rosse, mentre gli occhi scuri si spalancavano affascinati.
“Garlio, Delisio … questa donna è Deria Arci” aveva detto calma, “Cameriera personale di Monna Arga e … mia amica” Adda lo aveva spiegato in fioriano, la sua lingua; Deria non la comprendeva, ma evidentemente le parole non dovevano esserle nuove perché aveva fatto una riverenza con un sorriso gentile ed un po’ imbarazzato.
Quel sentimento di impaccio doveva essere motivato dall’aspetto incantevole di Garlio, prima di presentare i suoi tre compagni alla ragazza.
“Mie signore!” aveva sussurrato Delisio sciogliendo dalla presa di Garlio, per attirare l’attenzione delle altre donne, con un inchino gentile, davanti le altre donne.
“SI è appena inchinato!” aveva esclamato indignato Nerf, Adda aveva osservato l’espressione circospetta sul viso di Berineo e Don Taddesio. Adda aveva preso svelta la mano di Garlio, serrandola su quella di lui.
Le tre donne avevano osservato la scena con interesse, la più bruttina di loro aveva ridacchiato, ma gli occhi erano scintillanti con una certa leziosità. Di rimando le altre due erano rimasto immobile.
Una era une bellezza ferriana, con l’incarnato d’ambra, un viso pulito, assolutamente perfetto, con capelli d’oro scuro, un naso dritto e stretto ed occhi di un castano dolcissimo; con machine a fisarmonica, spalle a sbuffo, che usava un ventaglio per nascondere la sua bellezza quasi benedetta.

“Sono incantato da tanta bellezza” aveva continuato a parlare Delisio e nel farlo aveva puntato lo sguardo sulla donna più brutta.
Non spiccava semplicemente per la bruttezza, ma per tutto il resto, era colorata come la personificazione della Vivace, dagli occhi grigi, in contrasto con la pelle coronza; vestiva con un corpetto di velluto aranciato, su cui erano state cucite delle perle bianche assolutamente tonde, così come le maniche a fisarmoniche scure, con decorazioni opache d’oro prodotte dal telaio-a-tiro. Indossava sulla pelle oliva gemme luccicanti, la più evidente era un pesante monile sul collo di giraffa.
Era la più ricca della stanza.
Se Adda non avesse conosciuto Theresia Arga avrebbe immaginato dovesse essere La Volpe di Perlipsia. “Che fortuna che io parli la tua lingua!” aveva chiosato la donna Vivace con una risata fresca.

“Ed un miracolo che tu stia notando vagamente lui quando c’è l’altro!” aveva cantato una voce alle loro spalle, aveva parlato in un ferriena alto, per quanto difficilmente la lingua della lega suonasse gradevole. Ricordava la prima volta che aveva pagato la dogana di Peripsia aveva sentito quelle parole orribili, come il clangore delle lame, aveva pensato che lì il ferro dovesse essere.
La Monna di Peripsia aveva fatto il suo incontro. Theresia non era sistemata nella grazia e nella beltà che Adda si era aspettava, indossava un camiciotto, verde pistacchio, con clavi argento, le maniche una tonalita più scure, con le spalle a sbuffo e la stoffa a fisarmonica, fino al gomito. La blusa era legata alla vita con una cintura di cuoio, che scivolava fino a sopra le ginocchia, sopra un paio di pantacalze e stivali imbottiti. Non esibiva monili, né altre preziosità nei capelli, ne decori sul viso, esibito nella maniera più maturale possibile.
L’unica cosa che non sembrava essere cambiata in quelle Sorelle erano i lunghi capelli castano chiaro, ancora gonfi e pensati, stretti in due severe trecce che scavalcavano il seno florido e scendevano fino a metà della vita, terminanti in due spessi pennelli.
“Oh, Adda, amica mia, che joia per me visionarti …ancora” le aveva detto Theresia, in un fioriano non esattamente lucido, prendendole le mani con gentilezza. La pelle di Adda era dura, screziata e rovinata dalla fatica, le mani di Theresia nonostante tutto erano ancora morbide e rosa.
Adda si era sentita leggermente a disagio davanti quella collezione, la donna non era stata sua amica, non le era neanche stata vicina, “Un piacere anche per me” aveva detto, imponendosi di non cedere a quel primordiale insegnamento che sua sorella e sua madre le avevano impartito da che era una mocciosa: abbassa lo sguardo, piega le ginocchia, china la schiena; differentemente da Deria che si era chinata in una perfetta riverenza quando la sua signora si era aperta davanti a lei.
 Theresia non era venuta da sola nella tende, ma era in compagnia di un paio di alcune guardie ben bardate, tranne uno, che uno incredibilmente alto che indossava semplicemente un farsetto ed una spada lunga legata alla schiena.
“Provo joia anche nel vedere i tuoi compagni” aveva detto scandagliando bene la presenza dei tre che erano con lei, con attenzione, senza far trasparire alcun sentimento.
“Avete già avanzato con le presentazioni? Fantastico che Berineo ed il buon Taddasio si fossero già presentati” aveva commentato la donna, ammiccando poi al resto della stanza.

Theresia era voltato verso le sue amiche e con confidenza, nonostante la sua pronuncia piuttosto buffa e l’abitudine di inciampare nelle parole: “Loro sono le mie compagne: lo luminosità con il ventaglio è mia sorella-in-nozze Nassiana, la bellezza vivace è Monna Siveria la mia cara amica e la vostra … conterranea è Monna Saerra di Castel Serpillo” aveva spiegato subito Monna presentando le tre donne.
Siveria, la brutta donna dai capelli rossi come il fuoco, aveva sollevato una  mano e aveva mosso tre dita, Nassiana aveva nascosto il viso dietro al ventaglio, mentre l’espressione dura come la pietra di Saerra si era fatta ancora più rigida.
Ad una seconda occhiata, Adda, riconosceva il castigato bustino stretto fioriano, con la gonna ampia con la doppia banda fiorita, così come il fazzolo giallo che copriva le spalle, fermato al petto da una spilla floreale e l’odio nel suo sguardo aveva senso.
Una virtuosissima signora dell’Impero.
Castel Serpillo Serpillio apparteneva alla famiglia Pagaesse, una delle famiglie vassalla minore della regione dove erano e loro erano gli eretici.

“L’uomo così sopraelevato da perdere gli occhi è Myrcele, un buon amico di mio cugino Tarsio, qui per assicurarmi che io viva” aveva spiegato pratica la Theresia, ammiccando all’uomo.
Adda aveva presentato velocemente i tre: Garlio, il loro capo – lo aveva detto in ferriano, sperando lo stesso non distinguesse la parola – Delisio e Nerf, la vedetta. Un ragazzo dal viso butterato ed il cipiglio del principio in persona, “Loro sono i Liberi Pensatori, gli Svincolati” aveva terminato.

Theresia aveva sorriso davanti le presentazioni. Delisio, con il suo sorriso troppo sornione, aveva guadagnato una smorfia mal celata, l’espressione acre di Nerf era, stranamente piaciuta di più, o forse era stato merito degli occhi verde-ceruleo, di un sangue settentrionale; Adda non ne aveva idea.
La bellezza statuaria, senza imperfezione, da benedetto di Garlio aveva guadagnato uno sguardo distante, forse faceva fatica Monna Therersia a comprendere un eretico, principista che condivideva l’aspetto dei figli del destino. Dopo un momento troppo lungo, Therersia si era concessa un sorriso un po’ troppo soddisfatto e non abbastanza sincera, “Non sono sorpresa, mio Don Altissimo, mi han sempre detto che il Principio è Tentatore” aveva stabilito in un ferriano spiccissimo.
Deria era avvampata come una mela matura, Nassena aveva squittito come un topolino, Saerra aveva stresso la bocca ed aggrottato le sopracciglia, ma la reazione più spontanea era stata di Siveria, “Oh! Ricordami perché non ci siamo dall’eresie?” aveva chiesto audace, con un sorriso storto ma luminoso ad adornale il viso.
Garlio guardava Adda aspettandosi una traduzione, ma lei non aveva la minima idea di come spiegare al suo compagno che stavano chiocciando sul suo aspetto.
“Non vi permetto di fare le cinciallegre su queste immonde creature” aveva detto severa Saerra alzandosi in piedi, una macchia di nero scurissimo, l’unica luce era data dallo scialle ocra, “I principisti sono il male del nostro tempo, sono le locuste dei nostri campi” aveva professato, la prima frase l’aveva detto in un ferriano perfetto, come mai Adda avrebbe potuto sognare di parlarlo, ma il resto era in un fioriano. La dolce lingua dell’impero sembrava essere acida sulle sue labbra, “Questi mostri hanno strappato al nostro impero il suo legittimo sovrano!” aveva accusato indignata.
Tutti la guardavano.
“Avevo sentito che il vecchio Imperatore se lo è portato via un piatto di funghi un po’ troppo selvatici” aveva risposto Delisio, con quella sua lingua di veleno acuta.
Adda aveva sentito lontane, ma comunque presentiti, il frastuono delle campane dalla torre del Palazzo Camma – “È morto l’Imperatore, cresca rigoglioso il suo fiore, lunga vita all’imperatrice, affondino nella terra le sue radici” – ed aveva taciuto, soffocando quel rumore.
“Oh vile bestia scopa principio!” lo aveva aggredito Saerra, “Tu sai di cosa parlo! Del vero signore scelto dal Dio-di-Ogni-Cosa-buona!” aveva gridato, “Voi mostri senza-dio avete linciato il nostro Dolce Imperatore!”
Gli impropri di Saerra avevano risvegliato un modo bruciate nel petto di Adda, perché quella ricca manimorbide non aveva idea di ciò che stava dicendo, ciò di cui stava parlando, differentemente da Adda!
“Tu!” l’aveva appellata lei stessa facendo un passo in avanti, un tempo sarebbe rimasta immobile, con lo sguardo basso e l’espressione carica di vergogna, ma all’ora era una pecora, cosa che era cambiata. Era umana e camminava nel sentiero dell’ignoto.
Garlio l’aveva afferrata per un braccio, forse con troppa forza, e l’aveva attirata a se, spalmandola contro il suo ampio petto, “No” le aveva sussurrato.
Non ora, aveva sentito lei.


Theresia, fredda come l’acqua del primo mattino, aveva parlato: “Berunio, mio buon cavaliere, dovresti scortare Monna Saerra a prendere una boccata d’aria; l’etere della tenda è viziato, la deve aver stancata” aveva sancito lapidaria. Ammiccando al suo cavaliere e guardando la dama, gli occhi della monna di Perlipsia erano spire di fuoco.
Saerra era arrossita dalla frustrazione, “Non fidarti di questi spergiuri, non hanno dignità né fede” aveva avvertito Theresia prima di farsi scortare fuori, con gentilezza dal cavaliere. Nelle parole di Saerra c’era stata una certa disperazione.
Adda sapeva cosa fosse: la cecità dei fioriani.
“Perdonate i comportamenti della mia amica; ha fuoco nelle vene. Quando saremo a Peripsia, dovrà cambiare” aveva considerato Thereresia, prendendo posto sulla sedia con le braccia, “Nessuna donna ferriana non può parlare così” aveva aggiunto cupa.
“Ma lei è del Pregiatissimo Impero” aveva considerato Garlio, la prima cosa che aveva detto fino a quel momento. Alle manimorbide fioriane erano concesse molte più parole di quanto fossero concessi agli uomini come Garlio stesso. “Entro un paio di cicli non più, sarà la Monna di Perlipsia assieme al mio adorato cugino” aveva risposto pratica Theresia.
“Taddesio portaci del vino; sorella controlla che la nostra gentile cugina sia sana e salva” aveva ordinato Theresia, mentre Adda osservava Deria e Segeste affiancarsi a lei.
Tre sedie erano rimaste vuote e loro erano quattro, “Deria, cara, puoi recuperare una sedia cortesemente, da mettere proprio di fronte a me?” aveva chiesto con gentilezza moderata ed accavallando le gambe.

 

Adda si era seduta alla sinistra di Siveria, Nerf e Delisio le erano speculari, mentre la sedia al centro del semicerchio, orientata verso Theresia Arga era occupata da Garlio.
L’uomo non sembrava nervoso, mascherava la sua incertezza dietro l’assoluta calma e la scioltezza, di rimando la monna ferriana sembrava ancora più tranquilla, con le dita intrecciate nel grembo ed una gamba a penzoli.
“Se son tutti così gli eretici, abiuro Dio oggi stesso” aveva sussurrato Siveria all’orecchio di Adda come se fosse una sua vecchia amica, quella  era rimasta rigida come una stecca e si era lasciata sfuggire una risatina infantile, prima di ricomporsi dopo un’occhiataccia da Delisio dall’altro lato della tenda.

“Volete che faccia portare il cibo qui dentro o vorrete mangiare fuori, con il resto degli uomini? Segeste ed altri hanno preso un cervo, maschio, ieri ed io ho comprato dei capponi” aveva rotto il silenzio Therersia, rivolgendo gli occhi castani, quasi gialli, a Garlio; “Il vino arriverà con Taddesio” aveva detto poco prima che il giovane paggio comparisse con una caraffa di vino ed un vassoio pieno di bicchieri in legno lucido e laccato.
Garlio non si era lasciato distrarre. “Non spezzerò il digiuno con te, ne berrò il tuo vino finchè non sapremo perché hai mandato un ruspante cavaliere a chiamarci” aveva sentenziato poi. O spiegare perché dei ferriani gironzolavano per le terre dell’impero in città di velluto come Cavalcatori Erranti.
“I galli sono ruspanti, Theresia. Vuol dire genuino, ma anche un po’ grezzo. Adatto al buon Beronio!” si era intromessa veloce Siveria, nella conversazione, leggendo qualcosa nell’espressione della sua amica. “Grazie” aveva risposto la monna, prima di rivolgersi alla platea, “Scusatemi. Il mio fioriano, come si dice? Sì, è rugginoso” aveva spiegato.
“Nessun’asperità, mia monna” aveva risposto Garlio, che non aveva mai appellato nessuno con titoli onorifici da che Adda lo aveva incontrato né fatto sfoggio di parole ridondanti, spesso neanche azzeccate al cento per cento. Se la parola aveva messo in difficoltà Theresia, lei non l’aveva affatto dato a vedere, rimanendo stoica, “Mio buon Libero Pensatore; sei esattamente come ti ho sognato, meno bello – forse” aveva risposto Theresia con tranquillità.
Un sorriso senza controllo era sorto sul viso di Garlio, “Vorrei dire che ti ho sognato anche io, mia monna, ma non sapevo della tua esistenza fino ad oggi” aveva ammesso senza vergogna.
Adda aveva scosso il capo, non poteva aspettarsi di meglio da Garlio, era un nemico giurato dei manimorbidi, anche coloro che non avevano le radici sparse nell’Impero. Lei riconosceva una diversità, la nobiltà fioriana era convinta di avere quel sangue, quel ruolo, per divinità investitura, di rimando, mentre i manimorbidi ferriani non confidavano affatto nel sangue, ma nella ricchezza e nel potere. Nessuna divina investitura, solo antenati svegli e con possibilità.
Poi si era sentita stupida, per quei pensieri. Adda aveva visto Theresia senza gli indumenti da uomo, ma sistemata come una buona dama, con le maniche a fisarmonica e le decorazioni da telaio-a-tiro con motivi animali, volpi. Ingioiellata, truccata con la biacca sulle guance e le labbra rosse come cigliegie, splendida, bellissima e non dissimile dalla sua signora Canadea.
Poteva non avere il sangue di una nobile, ma ne aveva la ricchezza.
Theresia, Canadea, Saerra e tutte le altre manimorbide erano la stessa pasta.
“Bevi con me, mio libero pensatore” aveva detto Theresia poi, “E io soddisferò tutte le tue richieste” aveva commentato.
Adda l’aveva guardata incerta, un rivolo di imbarazzo era cosparso sul viso di Garlio, presto soffocato. Aveva osservato Nerf divenire rigidissimo sulla sedia di fronte a lei, mentre Delisio aveva dovuto nascondere la bocca con le labbra per nascondere lo sghignazzare che era sorto sul suo volto. “Dovrei dirle che si è espressa molto male?” aveva chiesto con eloquenza Sivaria.
E io risponderò a tutte le tue domande’ intendeva, o almeno avrebbe dovuto, anche se Adda aveva un terribile sospetto che in alcun modo Theresia avesse sbagliato.
Garlio si era voltato verso di lei. Adda aveva tirato su la schiena, drizzandola immediatamente, incerta su cosa avesse dovuto interpretare in quella ricerca: il suo permesso? Il suo consiglio?
Adda aveva annuito, dando il suo assenso.
Don Teddesio Lamorgilla aveva portato dei bicchieri a tutti; Adda aveva potuto osservare come la reazione di Nerf fosse di pura gioia mentre osservava un manimorbide servirgli vino bianco in una coppa in un bicchiere nobiliare.
Delisio aveva ripagato quel sorriso fin troppo appagato con un buffetto sulla nuca.

Teddesio le aveva allungato una coppa di vino e lo aveva riempito, era stato generoso, e le aveva sorriso con un sorriso gentile, “Grazie” le aveva detto lei, con calma.
“Sempre un pasticcino, grazie Teddi! Sarà drammatico quando diventerai lo scudiere di Tarsio e dovremmo rinunciare a te” aveva ammesso Siveria nostalgica. Il ragazzino aveva stretto le labbra, arricciandole in una smorfia, “La possibilità mi devasta” aveva vagliato senza gentilezza, “Piccola merdina!” aveva ridacchiato Siveria, “Giuro sul Don-del-cielo adoro quel marmocchio!”
Theresia si era sollevato in piedi, con la coppa sollevata, “Voglio fare un brindisi al nostri cortesi ospiti. Non viene spesso di avere eretici alla propria tavola, non che mi importi di queste corbellerie: io sono un adoraoro!” aveva detto.
“A Garlio di Rocca Vrisea, un uomo del peccato; il Principio-in-terra” aveva sogghignato Theresia tirando su il calice, “O l’aculeo nella fica dell’Imperatrice. Sicuramente il mio nomignolo preferito.”
Garlio aveva sospirato, alzando anche lui il calice, “Alla Monna di Perlipsia; Adda mi ha detto che vi chiamano La Volpe di Perlipsia” aveva detto vago.
Theresia aveva riso, “Sì è un soprannome che mi ha dato mio cugino Darion quando avevo … uhm … trenta sorelle o giù di lì?” aveva scherzato, “Ma è una storia uggiosa. Non ho decisamente la tua fama: bruci villaggi, appendi preti, ovunque giungi raccogli proseliti. Sei l’erbaccia che infesta il Gardino dell’Imperatrice” aveva aggiunto, senza perdere smalto, “A detta della mia futura sorella-acquisita, uccidi anche imperatori.”
Adda aveva sentito lo stesso gelo che si percepiva nelle notti della Sorella Fredda, quando il cielo piangeva neve.
“Non nego le mie colpe: ho commesso crimini di ogni genere e di alcuni me ne pento, di altri molto meno, ma non ho linciato io il dolce imperatore – se fossi stato io, avrei lasciato il suo cadavere alle gente perché vedesse che anche un dio può morire. L’Impero è pieno di Liberi Pensatori” aveva ammesso cupo Garlio, con gli occhi neri luccicanti. Theresia aveva sorriso, con un’espressione quasi cattiva, “Lo so, lo so. Tu e i tuoi svincolati non avete difetto, almeno non di questo” aveva considerato Theresia ed Adda aveva avuto l’orribile sensazione che sapesse.
Che Theresia sapesse esattamente che ne era stato del Dolce Imperatore. “L’Imperatrice ha fatto ballare la danza degli strozzati a ben dodici uomini che come te, Garlio di Rocca Vrisea si consideravano Liberi e sverg …e condannato uno all’essicazione per la colpa di aver ucciso il suo dolce marito” aveva raccontato. Adda aveva provato un brivido al ricordo dell’esecuzione per essicazione, aveva sentito un dolore forte al petto.
Tredici uomini, “Arlo Ceidri di Città Rosa” aveva ricordato Garlio, con disgusto sul suo viso, l’espressione di Theresia era rimasta in tralice. “Lo conoscevi?” aveva chiesto lei, poi.
Adda non ricordava se Garlio ne avesse mai parlato, era già morto l’uomo ed i suoi compagni, da molte lune, quando lei aveva abbandonato il giusto sentiero per camminare nelle vie ignote. “No, non lo conoscevo, ma ogni uomo libero è mio fratello” aveva ammesso candido Garlio, Nerf e Delisio non si erano nascosti un boato condiviso, “Che la sua anima sia consegnata all’eterno!” aveva dichiarato con orgoglio il miglior amico di Garlio.
“Che modo pittoresco, noi diciamo: che di te non sia dimenticato neanche un dente. In Ferriano ha un sono più bello, ovviamente” aveva commentato Siveria, con voce bassa e leggermente divertita, Adda era abbastanza confusa dall’ilarità con cui la monna ferriana stava misurando quella situazione.

Theresia aveva bevuto un po’ del suo vino, “Ora, se devo essere completamente incorrotta – non so nulla di Arlo Ceidri, ma avevo studiato tanto te. Il figlio di un attendente nato consacrato, che ha rinnegato il suo fiore, il suo destino, che per il suo credo accentando di viver braccato come una bestia, ma che ora si insinua e si espande nel bel giardino dell’Impero divorando tutto. Al punto che la stessa Signora dei Fiori sa della tua esistenza” aveva raccontato Theresia.
Una vertigine aveva colpito Adda, come un pugno sullo sterno, da averle succhiato via il fiato dal petto, aveva stretto i palmi fino a sentire le unghie contro la carne dei suoi palmi. “Sono davvero lusingato nel sapere che una rispettabile Monna Ferriana abbia speso così il suo tempo, nello studiarmi” aveva considerato Garlio rigido.
La donna non aveva perso il suo sorriso, “Dovresti, non è una cosa che faccio per tutti” aveva considerato lei, scavalcando le gambe ed accavallandole di nuovo, portando a penzoloni l’altra gamba, “Anche se, be, l’imperatrice ha messo molto impegno nel definirti un eretichino senza impegno” aveva raccontato.
“Non avete appena detto che l’Imperatrice sa di lui?” aveva chiesto Delisio senza vergogna – lui e la sua bocca ben velenosa.
Theresia aveva riso con divertimento, ma era stata Siveria a rispondere: “Ovviamente, la terribile Signora dei Fiori sa di tu, tutto l’Impero sa di tu, anche nella Lega si parla di tu! Ma l’Imperatrice non può permettersi due sezioni … ehm … sedizioni” aveva considerato con una punta di divertimento ben evidente.

Garlio si era lasciato sfuggire un sorriso, piuttosto divertito, mentre a Adda aveva sentito la bile salire lungo il suo esofago, le era tornata voglia di vomitare il poco che aveva mangiato la sera prima ed il sapore del vino nel suo palato si era guastato, sapeva di uova e di marcio. “Parli del Margravio Traditore e della sua piccola rivolta che ha concimato i campi” aveva vagliato Garlio, revocando quella storia.
Adda aveva serrato le palpebre, impegnandosi per cacciare via quel gusto disgustoso dalla sua lingua e quel pensiero ancora più orribile dalla sua mente.
Theresia aveva annuito, prima che le trecce biondo-castano si piegassero insieme alla sua testa, la monna aveva deviato lo sguardo, non aveva più gli occhi su Garlio ma guardava nella direzione di Adda e Siveria.
Lei non era stata certa di chi cercasse lo sguardo tra lei e la sua amica, fino a che non aveva parlato: “Mi pare di ricordare, correggi se sbaglio, che tu, Adda, conoscessi il margravio … Non ricordo il suo nome, finiva per Ren, si?” le aveva chiesto con una punta di divertimento, che smascherava il suo tono finto di ignoranza.
“Quasi tutti nomi irtosi finisco per Ren o Ran” aveva farfugliato Delisio, ma il suo commento era caduto nel vuoto. Adda aveva annuito, “Il signore Gathren Rastia di Irti Pini e no” aveva dichiarato Adda e non era una menzogna.
Tutti la guardavano. “Non lo conoscevo. Lo ho veduto sì, quando lavoravo al Bocciolo, lo ho servito come mi era richiesto e gli ho anche lavato le mutande questo sì. Ma no, non lo conoscevo. L’unica cosa che ci siam scambiati è stato: Fai questo e quest’altro e Sì, mio signore” aveva spiegato seccata Adda, ricordando quel periodo con dolore, rabbia e risentimento.
“Quindi?” si era inserito Nerf, intrecciando le dita sul ventre ed osservando tutti con un interesse nervoso, era una delle prime cose che la vedette aveva detto da quando erano entrate nella casa di stoffe.
Siveria le aveva sorriso, scoprendo i denti da cavalla, “Sì, tutto questo preambolo era per dire che abbiamo conosciuto di voi da una vecchia conoscenza” aveva canticchiato, giocando con le dita dritte giocherellando con il bel brillocco che indossava al collo.
Adda aveva drizzato le spalle, ogni sensazione di disgusto e voglia di espletare che aveva sentito si era asciugata immediatamente, perché un’idea precisa – e rincuorante come poche – era balenata di prepotenza nella sua testa.
“Saiji!” lo aveva detto di getto, senza riflettere. Sentiva la speranza sbocciare nel suo petto come il fiore che si era strappato. Solo dopo aver parlato si era resa conto di averlo fatto e vergognosa aveva cercato lo sguardo di Garlio. Lui la stava già guardando, gli occhi neri duri, si erano fissati per un secondo, prima che lui tornasse a guardare Theresia. Adda si era ritrovata perduta ed incerta di quello scambio.

La Volpe di Peripsia aveva annuito, “Sì. Sir Alderichi mi ha raccontato della vostra impresa sui pendii della Vosterna, a Forte Agave in Spessi Abeti” aveva considerato lei, “L’ultima cosa che mi aspettavo di sentire di era un gruppo di eretici che aiutava un cavaliere cordato a liberare un forte fioriano, conquistato da briganti sussurranti” aveva raccontato Theresia, meravigliata.
Garlio le aveva sorriso in una maniera sinistra, ma che lo rendeva irresistibile, “Se fossi un uomo di fede di direi che è la volontà del nostro tiranno, ma non lo sono: la bellezza dell’Ignoto è che le sue vie sono inimmaginabili. Nessuna misteriosa mano a guidare il caso, ma libero arbitrio o, forse, servo arbitrio – non sono mai stato un buon filosofo” aveva cominciato a spiegare.
La sua parlata si era fatta lenta come la melassa, dolce come il miele più puro, Adda si accorta che ogni persona in quella tenda, dal guerriero enorme all’ultimo cavaliere entrato dall’uscio era completamente rapito da lui.
Adda non sapeva se fosse per il suo sangue benedetto o per la sua dialettica, anche Theresia sembrava rapita, “Ogni scelta da me compiuta, ogni scelta da Sir Saiji Alderichi da lui compiuta, corda e non corda, ci hanno guidato lì. E le nostre scelte ci hanno unito. Posso essere un senza-dio per essere gentile, un principista o liberista o come vogliano chiamarmi, ma sono anche un fioriano che ha sempre avuto a cuore il suo popolo” aveva raccontato, “E Sir Alderichi può aver indossato le spine dell’Impero, ma è sempre stato un cavaliere al servizio del suo regno. Potrei essere l’aculeo della fica dell’Imperatrice, ma sono un uomo che ama la sua terra” aveva detto, senza neanche una menzogna – “E se mi chiamano nemico è solo perché non comprendono quanto io voglia di più per la mia casa” aveva detto.
Gli occhi scuri di Theresia erano sembrati rapiti come quella di un’innamorata, “Questo è un sentimento che io abbraccio meglio di tante altre mio libero pensatore, Peripsia è il mio cuore” aveva detto gentile, alzandosi dalla sedia, con il bicchiere di legno ormai quasi vuoto.
“Riguardo alle vie ignote. Io concordo, non su tutto ma quasi; Non so se esiste un Dio, se davvero la sua mano è così decisiva o se i nostri fiori siano solo un’erbaccia spontanea. Però in qualcosa credo: in situazioni più grandi degli uomini, come terremoti, inondazioni, ma anche un Signore che decide di guidare un esercito contro un altro, trascinando gente di ogni tipo nei loro schemi” aveva fatto una pausa, “Questo sì, questo esiste, ma ritengo che la grandezza di un uomo sia da attribuire alle scelte che compie in conseguenza, forse a dirittura in previsione, a queste circostanze” aveva considerato. Aveva usato tutte le parole giuste.
“Interessante” aveva considerato Garlio ed Adda era dannatamente sicura che fosse interessato, lui che sempre aveva pronunciato parole indicibili contro i manimorbide.
Theresia si era avvicinata, la sua camminata era marziale, dura, come quella di una cavalla, “Oggi sono qui, davanti a voi, tutti vuoi, per condizioni più grandi e una storia tragicamente lunga. Mentre nella mia casa a Perlipsia si consumavano piccoli intrighi di ogni genere, chi sposa chi, chi tradisce chi, chi spia chi, cose divertenti, carine, intriganti” aveva fatto una pausa, “Mentre succede questo negli alti palazzi, fuori le mura, tra i contadini che coltivano le terre: un bambino, orfano di padre, con fratelli troppo impegnanti a lui ed una madre … diciamo non sana, un bambino senza ambizioni per il futuro, che prova, a modo suo a fare la sua parte: aiuta nei campi, nel mercato, ma che ha un talento o una passione, non so, sa andare per boschi a raccogliere funghi” aveva fatto una pausa, “So che per voi fioriani i funghi sono sempre augurio di sventura, ma dalle mie parti abbiamo un gusto differente” aveva spiegato Theresia, strappando una risata sommessa alla sala.
“Quindi, abbiamo un ragazzino che va in cerca di funghi nel Bosco di Ferro, non dovrebbe, perchè non è un posto tranquillo quel luogo, animato da fiere. Ma si sa, no, come sono i bambini: convinti della loro immortalità, a quaranta sorelle io camminavo sui cornicioni del mio palazzo, perché credevo di non poter cadere, così è il bambino: innocente, per coscienza, del pericolo che corre tra bestie e uomini. Ma non è la sua prima avventura e la necessità e la fame sono più pressanti del buon senso, ma il nostro modo, però, non è un mondo gentile” aveva respirato “Il bambino incontra un cinghiale ed allora il buon senso ed il terrore tornano, si danno la mano e lo aiutano a fuggire, così veloce da tagliare l’aria, tra urla e dolore.
Ha gambe piccole e magre, ma non si perché, perché la paura può renderci state di sale ma a volte ci nutre e ingrossa la nostra volontà. Così lui corre, corre, come un frenetico e urla, per il bosco, certo di morire. Ma non lo fa, scopre che nel bosco non è solo. Un manipolo di uomini, tra cavalieri, nobili, scudieri e quant’altro è lì, il Bosco di Ferro non manca di fiere e premi per i ricchi annoiate di Peripsia. E perché non proprio quel cinghiale lì?
Il bambino trova i cavalieri, fine della storia, lieto fine. No! Le urla del ragazzo infastidiscono i cavalli, uno di questi si imbizzarrisce, il suo cavaliere forse non ben agganciato, forse incapace, forse distratto, non importa, perde l’equilibrio e cade giù da cavallo, poteva non essere nulla ma la testa del cavaliere incontra un sasso. Tredici lune dopo il bambino è ancora vivo, sta bene, ma il cavaliere è morto e con questa piccolezza: tutto il mio mondo si è ribaltato. Nessun complotto, nessun colpo, nessun cataclisma, solo un bambino in cerca di funghi” aveva terminato.

Adda si era sentita profondamente smarrita da parte di quell’infinito discorso, con quella incredibile e lunga perifrasi, ma non era stupida non particolarmente. “Chi è morto?” aveva chiesto, perché doveva essere qualcuno di importante. Non era rimasta informata di tutte le vicende politiche e sociali della lega, riusciva a malapena a tenere a mente le famiglie fioriane, trentuno grandi famiglie, per trentadue territori ed erano solo le maggiori. Ogni porzione del Pregiatissimo impero aveva il suo sottobosco.
E la Rivolta fallita del Margravio Traditore aveva soffocato ogni altra notizia. Adda aveva sentito che i campi vicino a Malvasia si erano tinti di rosso e che lo Scintillante Generale avesse completamente spezzato il fratello minore di Gatrhen.
Theresia l’aveva guardata: “Don Lorezin Persepoli” le aveva risposto, “Lo ricordi?” aveva inquisito poi. Adda si era dovuta prendere un momento per frugare nella sua memoria, isolare le lune che aveva speso alla Bestia Bicefala.
Ricordava la vistosa famiglia di Theresia, in particolare i due cugini del ramo principale, gli eredi, l’uomo torvo e quello dal sorriso gioviale e gli occhi brillanti. Ricordava, Adda, che c’era stata una festa, l’ottolune della terza decimana del secondo ciclo per celebrare la festa delle Dieci Candele – non riusciva a ricordare la storia di quella ricorrenza, ma ricordava bene la festa.
E ricordava che Theresia bella come la Rigogliosa, vestita di seta finissima, perle ed oro bianco aveva ballato con un ragazzo piacente. La pelle d’ambra, il naso aquilino e capelli biondo polentina, con un sorriso tutto miele e le fossette, che era sembrato capace di condurre Theresia senza urtarla.
Adda aveva pensato sarebbero stati una coppia buon assortita.
A lei quella sera le sarebbe piaciuto di gran lunga avere un vassoio o un otre e dover correre a destra e manca per riempire calici o pance vuote, che restare lì, nascosta quanto più possibile nell’ombra, schiacciata contro un muro, con le mani molli e da invitata.
Anche vestita con il pizzo di bisso e di ciniglia, Adda non era una manimorbide e mai sarebbe potuto esserlo, non nell’Impero e non a Peripsia dove il valore di uomo valeva dalla sua borsa.
E ricordava Saiji con lo stesso disagio affianco a lei, abbigliato come il più pulito dei nobili, con la blusa azzurra, che spiccava sulla pelle zucchero cotto. “Quello è Don Lorenzin Persepoli. L’altra testa della Bestia” le aveva spiegato il suo amico, seguendo il suo sguardo, dove sui pavimenti di marmi colorati al ritmo di una musica intrigante, dominavano la scena.
“Il lupo” aveva detto Adda, pensando a quella notte caotica, alle luci soffuse delle candele – dieci, solo dieci – e il quasi buio che regnava nella sala da ballo degli Arga; ‘Chiedimi di ballare, chiedimi di ballare’.

Theresia aveva mosso la testa con un gesto d’assenso, “Sì, il povero, povero, Lorenzin. Intelligente, brillante e morto dannatamente prima del tempo” aveva considerato rancorosa. Adda non ricordava di aver sentito la Monna di aver parlato con particolare affetto dei loro nemici-alleati giurati, ricordava di averla vista chiacchierare di sottecchi, al matroneo, con una donna di quella famiglia, ma mai parole troppo ovvie e pubbliche.
“Ed indovino, a lei, monna, fa gola il ruolo che aveva questo lupo morto” aveva considerato Delisio, con un certo interesse, inclinando la schiena per mettersi ancora di più pronto all’ascolto; Nerf al suo fianco aveva le labbra serrate, l’espressione rigida di chi non stava gradendo una sola parola.
Theresia aveva distolto lo sguardo da Adda per rivolgerlo al giovane uomo imperfetto, “Si potrebbe dire così. Una donna ferriana può poco, anche una Arga. Si mi piacerebbe occupare il ruolo che era del mio buon Lorenzin, ma mi accontenterei che quel ruolo tornasse in vita, che l’equilibrio sia ripristinato o almeno che l’uomo che ora governa, da solo, su una diarchia fosse diversa” aveva spiegato senza peli sulla lingua, “So di poter apparire sciocca, immatura, anche egoista per qualcuno e senza alcun dubbio ingenua, ma come diceva il buon Libero Pensatore Garlio: il mio cuore è per la mia terra. Perlipsia è il mio cuore” aveva spiegato con un melodramma quasi credibile.

Adda si era dovuta mettere una mano sul viso, per evitare che una risata cattiva emergesse, che era andata ben oltre il suo controllo. Il discorso melodrammatico di Theresia che aveva imbevuto i suoi tre compagni a lei aveva ricordato quelli di Canadea la sua signora, quella che per sorelle lunghissime aveva servito. Aveva rammentato la giovane, da che era poco più di una ragazzina, che sedeva davanti ad uno specchio per ripetere discorsi perfettamente studiati, mentre Adda le pettinava i capelli perché fossero lisci e morbidi come la seta. ‘Voglio essere così naturale che nessuno, che chiunque pensi che ogni mia parola sia sbocciata dall’ardore del momento’ le aveva confidato.
Una naturalezza ben studiata.
Theresia era uguale; la sua emotività era così artefatta che se Adda non avesse vissuto una vita intera in un maniero a servire una vera signora, le avrebbe creduto. Forse Peripsia era il suo cuore, ma come tutte le creature di quella risma, quello che Theresia voleva era il potere.
Inoltre non aver usato alcun termine errato, rendeva stranamente il suo discorso molto meno genuino.

“Cosa vuoi da noi?” aveva chiesto Adda, conoscendo l’inutilità di continuare a ballare davanti quell’argomento, togliendo la mano dal viso ed inghiottendo la risata isterica con la bile. Monna Theresia poteva essere brava nella danza delle parole, Garlio amava i grandi discorsi ma solo quando lui stesso ne era il centro e non aveva la pazienza, né la voglia, di affascinare una nobile signora, per non parlare di Nerf che era lì rigido come una pietra. Di rimando, Delisio stava godendo il momento migliore del suo tempo, amava e prosperava di quello – Adda lo aveva inteso ormai.
La Volpe aveva girato lo sguardo verso di lei nuovamente, spalancando gli occhi castani, quasi miele, “Oh! Che voce ponderosa e che sfacciataggine! Oh Adda, ne avevo avuto il sospetto da che ti ho veduta che non eri più la sguattera senza bocca che avevo conosciuto” aveva chiosato divertita Theresia. “All’ora ero una pecora, ma, in questa Luna sono una persona” aveva risposto serena Adda. “Felice di questa metamorfosi, io sono ancora un’animale temo” aveva scherzato.
Adda non aveva distolto lo sguardo, così Theresa aveva ripreso a parlare, quando non aveva ricevuto risposta: “In realtà è molto semplice, la risposta: io voglio voi!” aveva ammesso: “Voglio i vostri uomini per combattere! Voglio l’uomo che ha lacerato Forte Agave ai Sussurranti! Ma non ho solo borie, offro anche. Prenderò anche le vostre donne, perché abbiano un tetto e vesti calde, prender i vostri figli perché abbiano pane e latte” aveva fatto una pausa, lunga.
“Peripsia è una terra di veneraoro, per lo più si segue il culto del Descrino Prescritto, ma esiste un tempio per la Dura Madre Terra ed uno per la Signora Umida; è nelle catacombe, qualcuno, celebra le Divinità Calme – lungi da me sapere cosa sono – ed altre divinità che neanche ricordo. Dei Liberisti …” aveva fatto una pausa molto meno enfatica, ma calcando bene quella parola. I liberisti erano la frangia più leggerà tra gli eretici, almeno a detta delle chiacchiere che Adda aveva raccolto negli anni, “… risulterebbero la cosa meno strana nella nostra bella Diarchia. Certo, i cittadini potrebbero non essere esaltati, ma una soluzione è sempre trovabile; liberisti ovviamente, atei, principisti e volontisti potrebbero essere troppo, ma come ho detto: l’unico Dio che i ferriani venerano fedelmente è la pecunia.”
Nerf si era lasciato sfuggire una smorfia.
“Perché?” aveva chiesto invece Garlio, inclinando il capo ed aggrottando le sopracciglia scura, “Perché il Liberismo è … come si dice? Tranquillo. Il Volontarismo è tremendamente aggressivo. So che è punibile di morte nell’Impero, mutabile nella Ghaadiana e condannabile nelle Terre del Sussurro; anche nella Lega non sono illecite. Negare l’esistenza di un dio troppo invadente e l’adorare un male riconoscibile, sembra abbastanza grave. Forse troppo anche per noi venali adoraoro” aveva spiegato didascalica Siveria
“Credo che il mio buon amico si chiedesse: perché noi” si era intromesso Delisio, accompagnato da uno sbuffo di Garlio. Poca pazienza.
“Perché ho bisogno dell’uomo che ha preso Forte Agave e non sono stupida da presentarmi con niente in mano, come ho detto: prenderò anche le vostre donne e i vostri figli, darò a voi tutti: una cosa. Posso mettere sul piatto: oro, argento e damigelle, ma Ser Alderichi mi ha raccontato molto di voi e sarei più stupida di una capra se non avessi ascoltato il mio amico. Come ho detto: su qualcosa, io e te, Garlio Il-Principio-Incarnato siamo uguali come due fiocchi di neve. Amiamo la nostra gente” aveva dichiarato orgogliosa Theresia.
Oro, argento e damigelle potevano comprare molto, ma un luogo da chiamare casa … non per loro, non per l’impero. Ma in terra di ferro?

“Troppo semplice” aveva stabilito Garlio. Adda aveva annuito, a lei era sembrato bellissimo, ma riconosceva che lei era una donna semplice, nonostante tutto ciò che avesse subito.
“Ovviamente” aveva concesso Theresia, senza battere ciglia, “La città va conquistata – o non avrei bisogno dell’uomo che ha preso Agave. Senza la città le mie parole valgono quanto promesse scritte sull’acqua.”
“Vuoi la mia mente per la conquista e i miei uomi per l’azione. Vuoi che moriamo per te” aveva sibillato Garlio, il suo tono era neutro quasi, ma i suoi occhi scuri erano fiammeggianti.
“Per me? Certo, perché io sarò lì, con mio cugino, i miei uomini e chiunque voglia unirsi. E se prenderemo la città, non sarà solo per me, sarà per tutti. Una nuova Città del Peccato, lontano dalle golose mani della Ghaadia  e dal pugno-duro dell’Impero” aveva risposto Theresia, fingendo una calma che non aveva, gli occhi brillanti scintillavano di desiderio, “Una città che vi accoglierebbe, uomini che non dovrebbero vivere accampate in pievi distrutte, con occhi cresciuti sulla nuca, aspettando solo di venire calpestati dai tacchi di sua magnificenza Imperiale.”
Il Libero Pensatore aveva guardato la Monna.
Due mondi opposti a confronto.
Garlio aveva voltato il capo verso Adda, ma lei si era già allontanata, con la mente da quel luogo. Pensava alla Città del Peccato, pensava alla strega gnuda e scinta esposta in piazza e tutti quei bambini presi e rovinati – con gli occhi morti e piangenti.
Ci son volute così tante sorelle perché non avessi incubi la notte su quel giorno e non vomitassi al solo pensiero dell’odore del sangue’ le aveva confidato Saiji una volta.
Il suo ragazzino del Peccato … che aveva dato fiducia a Theresia.
“Non sarebbe un brutto mondo, quello dove avrei un tetto sulla testa, per quanto luna e stelle siano suggestive” aveva rotto il silenzio Delisio, con un sorriso storto.
Adda era lì, che continuava ad essere spaccata in due tra sua sorella che le diceva di guardare la strega e Saiji che le raccontava del sangue offerto ai fiori quel giorno lì.
“Potreste rifletterci meglio, mentre dividiamo il desco. Spero che chiarite le mie ragioni, mio Libero Pensatore voi vogliate spezzare il digiuno con me” aveva dichiarato Theresia con tono di ferro. “Non potrei mai rifiutare una gentile offerta. Paio una bestia, ma uomini buoni mi hanno educato, chiedo solo che il desco venga portato anche ai miei compagni, che si nutrono poco e meritano molto” aveva risposto Garlio, togliendo lo sguardo da lei per rispondere alla Monna, il suo tono era di miele puro.
“Ho ovviamente molte altre domande da porle, mia signora. Su cosa è accaduto precisamente a Peripsia dopo la morte di tale Don Lorenzin, chi governa ora, come è la città. Quante forze siano necessarie” aveva ammesso, “Perché se la mia memoria mi assiste: Perlipsia è nota come La Città Inviolabile.”
“Sfortunatamente non ricordale male a fatto” aveva ammesso Theresia.
“Oh penso di essermi appena innamorata” aveva squittito Siveria in ferriano, con gli occhi cattivi intrecciati a Garlio.


 





L'Incontro tra Adda del Bocciolo e Theresia Arga di Peripsia (non un granchè, ma ...)
   
 
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