Alziamo i
calici all'unico capitolo senza una menzione a Moria Ramberra
C A P I T O L O V I
E R A A B I T V A T A A D
E S S E R E
G V A R D A T
A C
O N D E
LV S I O N E
Uno dei
soldati del contingente aveva voluto vederli, si era presentato alla
pieve con
una bandiera senza colore, chiedendo di incontrare chi di loro
comandava e
Adda. Lei aveva sentito il sangue farsi solido quando l’uomo
vestito di ferro
scuro aveva pronunciato il suo nome. Non era stato volgare,
né ineducato, nel
suo tono ferriano e nelle parole tese di chi non destreggiava bene la
lingua,
ma si era rivolto a loro, a tutti, loro come fossero stati due Mani
Morbide.
Quando
Adda lo aveva visto per la prima volta si era aspettata la parlata
grezza degli
adoraoro; d’altronde tutto sembrava dirlo: alto da dare la
vertigine, con
spalle così larghe da poter sorreggere il mondo, ma sotto
l’elmo di ferro-nero,
era apparso il viso piatto di un giovane, rasato – o forse
ancora sbarbato – e
con gli occhi ardenti di preoccupazione. L’aspetto di chi era
cresciuto
improvvisamente e non aveva ancora realizzato la portata del suo
cambiamento e
delle emozioni che questo portava con sé. Con indosso
l’elmo nero era sembrato
un guerriero temibile, un uomo fatto e finito di ferro, con il viso
scoperta
era un ragazzo che si sentiva di troppo nel suo stesso corpo. O almeno
quella
sensazione aveva dato ad Adda.
Era un Bimbo Sbagliato, come lei, era evidente a primo sguardo.
“Io
sono
Berineo Tarandi, cavaliere onorato della Diarchia della Gradiosa
Perlipsia e
sono qui come araldo della monna Teresia Immacolata Arga”
così si era
presentato, senza perdere il suo fervore, aveva parlato in un floriano
rispettoso, sebbene il forte accento ferriano-peripsiano avesse
sporcato il
tono, dando l’idea di una doppiezza di molte lettere.
Quest’ultima cosa e
l’atteggiamento leggermente estraniato del giovane imberbe,
aveva tolto molta
tensione al momento.
“Benvenuto,
cavaliere, qui sei tra gli scivolati, non esistono né Monne,
ne Signori” aveva
chiarito, “Io sono Garlio, non sono chi comanda, ma come te
solo un portavoce”
aveva ammesso senza perdere la sua pratica compostezza, prima di
sfiorare con
una mano la schiena di Adda, spingendola a presentarsi a sua volta.
Berineo, con gli occhi vacui e nocciola, si erano diretti verso di lei,
incuriosito e incerto, forse stupito e confuso della sua presenza.
Adda
era abituata ad essere guardata con delusione.
Il
discorso di Garlio non lo aveva turbato: “La mia monna chiede
con garbo e
rispetto, udienza con voi buoni uomini e liberi pensatori e alla sua
buona
amica monna Adda del Giardino!” aveva decantato con fierezza. Lei aveva aggrottato le
sopracciglia: Amica?
Monna?
Era un’immagine che trovava oltremodo
l’immaginazione umana. Theresia Arga che
la imputava non solo con un titolo nobiliare di troppo, ma anche come
sua pari,
come sua amica.
Certo quando Adda si era presentata da lei la prima volta, lo aveva
fatto
comunque qualcosa di più di una serva, ma ancora
tremendamente lontana
dall’idea di un essere umano ed ancora vicino allo stato di
pecora.
Un’appendice di Saiji e Iren –
un’appendice vestigiale.
Adda si
era voltata vergo Garlio incerta, lui non la stava guardando, i suoi
occhi
bellissimi erano rivolti verso il cavaliere, si era voltato poi verso i
suoi
compagni, tutti pendevano da qualsiasi parola avrebbe pronunciato,
tutti
dipendevano da lui. Garlio avrebbe potuto non definirsi il loro
signore, ma lo
era.
Non era
sicura se fosse per il suo carisma o per quel sangue maledetto che lui
rinnegava, o per entrambi. Garlio era un bimbo benedetto che si
dichiarasse
contrario alle benedizioni, questo non sarebbe cambiato.
Nato per essere perfetto, dominatore del mondo e degno della devozione
di una
divinità, ma aveva rifiutato il suo ruolo per essere libero,
per poter
camminare su lidi ignoti e per essere uomo come qualsiasi altro uomo.
Eppure, la sua presenza, la sua voce, irretiva tutti gli uomini
lì.
Garlio poteva abiurare sé stesso, ma sfruttava il fascino
che la sua
benedizione gli offriva.
“Saremmo
felici di incontrare Theresia di Peripsia, qualsiasi amica della nostra
Adda è
nostra amica” aveva stabilito con sicurezza, ignorando di
proposito l’utilizzo
della titolatura.
Questo
aveva irritato Berineo ma non aveva emesso commenti di natura offesa,
“Allora
lei è felice di invitare voi al suo accampamento”
aveva stabilito con voce
incerta.
Adda non era stata certa di quanto quello fosse stata una cosa buona,
ma
Garlio, come tutti gli uomini benedetti che aveva incontrato
– e su questo non
faceva eccezione – non poteva concepire di essere nel torto.
Ma per Adda era
certo che quello fosse l’inizio di qualcosa di pericolo.
Monna
Theresia Arga aveva fatto erigere una città di stoffa in una
zona pianeggiate –
il pregiatissimo impero non ne mancava – non lontana
dall’ansa sinistra del
Varpoe, uno dei diffluenti del Serpente.
Adda lo aveva visto da dietro la spalla di Garlio, quando erano giunti
a
cavallo.
Il baraccamento era composta da una diversità di tende che
si estendevano per
un campo intero. Stoffe di diversi colori e materiali, dalle stoffe
più grezze
per le piccole coperture a padiglioni di velluto. Il centro della
città di
stoffa, visibile, solo dopo una lunga traversata labirintica
nell’accampamento,
era di forma esagonale, immensa abbastanza per contenete solo lei una
cinquantina di persone – Nerf aveva contato bene, cinquanta
erano i soldati con
Beronio, ma almeno in doppio dovevano essere stanziati lì
nel campo, se non di
più, Adda non era brava a contare con gli occhi –
da lei si estendevano come
raggi del sole le altre dente, in una disparità di forme e
dimensioni.
C’era una gran vita, di uomini – ed anche donne
– che correvano a destra
e manca; alcuni uomini indossavano
l’armatura, altri parzialmente, anche qualche donna era
bardata; c’erano anche
persone spoglie del ferro, alcuni dovevano sembrare servitori dai
modesti
vestiti, ma altri guerrieri con le braccia nude.
Beronio
non aveva dovuto dire loro dove era alloggiata la loro Monna, almeno
non Adda.
Ricordava bene Theresia ed i suoi modi di agire. “Stiamo
andando nella
direzione sbagliata” aveva sussurrato all’orecchio
di Garlio.
Lui aveva voltato la testa per quanto fosse possibile, e
l’aveva guardata con
l’angolo dell’occhio.
“Theresia Arga potrà amare il lusso, la seta e le
comodità, ma non alloggerebbe
mai in campo aperto nella tenda più maestosa”
aveva stabilito sicura Adda,
“Sarebbe come disegnarsi un bersaglio lungo la
chiesa” aveva considerato
Garlio, dandole ragione.
“Non pensare a lei come una Manimorbide, o meglio, una
semplice manimorbide”
aveva sussurrato, “Lei è una donna di ferro. Il
primo insegnamento che le danno
è come essere discreta” aveva considerato Adda.
Ricordava la prima volta che l’aveva veduta, dietro una
parete traforata della
Chiesa di Peripsia, nel matroneo.
“Sei nel lato sbagliato” l’aveva
richiamata, solamente, con le dita intrecciate
tra gli intrecci viminei di marmo dipinto e gli occhi appena visibili
dietro un
velo.
Così Adda aveva cercato tra le tende quella che poteva
essere quella di Theresia,
ma tra tutte quelle case approssimate, spariva ogni
possibilità – forse quello
era lo scopo.
“Ricordami come la hai conosciuta?” aveva detto
Garlio, tornando a guardare
davanti a se orgoglioso, sulla sella del suo cremello pallido.
“Ho lavorato per lei” aveva ammesso Adda,
“Suo fratello Emisio aveva perso al
gioco un gioiello che serviva per la dote di sua sorella e lei aveva
necessità
che venisse recuperata senza troppo clamore” aveva raccontato.
Era una versione piuttosto semplificata degli eventi, ma era comunque
corretta.
Alla fine,
erano stati comunque condotti nella tenda principale, quella esagonale.
Dopo aver legato il cavallo cremello di Garlio – il ragazzo
aveva dato una
carezza gentile sul muso bianchissimo del cavallo, e il vecchio arione
con cui
Nerf e Delisio li avevano seguiti. Gli Svincolati non avevano molti
cavalli,
più muli – erano creature più
diligenti, più resistenti e più mansueti, qualche
pecora, due mucche buone da latte, che portavano nel loro ramingare; ma
sarebbe
stato quanto meno mortificante presentarsi davanti ad una ricca monna a
cavallo
di un’asina.
O meglio a parere di Delisio, ad Adda non sarebbe importato, di
presentarsi a
cavallo di un mulo quanto di un drago o con le sue nude gambe.
Garlio non aveva emesso giudizio, le sue labbra si erano fatte strette
e
infastidite, come se l’idea di doversi abbellire per una
manimorbide lo avesse
messo sui tizzoni ardenti e allo stesso tempo era tormentato negli
occhi
all’idea di apparire di meno.
Eretico. Liberista. Volontista.
Eppure: ancora legato a quei ruoli.
Adda gli aveva preso la mano e gli aveva dato coraggio, ‘Va
bene se per questa
volta, sembrerà che segui il buon sentiero’ anche
se non era vero.
“Che lusso! L’ultima volta che ho vissuto sotto una
tenda del genere …” aveva
cominciato a dire Delisio, ma era stato interrotto da uno sguardo
piccato che
si era dipinto sul viso di Garlio, sagittando maledizioni verso di lui.
Adda
aveva sorriso verso di lui, schioccando le labbra,
“L’oscuro passato di Garlio
e Deilisio” aveva scherzato forzatamente, sollevando i palmi.
Lui aveva sbuffato, “Non c’è niente di
misterioso. Solo molto triste e cupo,
Adda” le aveva detto, facendo roteare il pollice sulla nocca
dell’indice destro
di Adda, “Inoltre, noterei che anche tu non sei molto
chiacchierona” aveva
valutato lui.
Lei si era goduta lo sfregamento del pollice sulla sua nocca, sulla sua
pelle,
cosa che le dava sicurezza; con la mano libera, Adda aveva accarezzato
la
mascella del cavallo cremello, l’animale non aveva ancora
un nome, non
lo avrebbe avuto presto. Garlio non voleva nominare
l’animale, lo trovava una
cosa superflua, gli animali non avevano bisogno di nomi, erano ben
consapevoli
di chi fossero. “Strano, mi hanno sempre detto avessi una
boccaccia così larga
che era un mistero come facessi a bere l’acqua senza che
questa sbrodolasse”
aveva risposto Adda, con un sorriso mesto.
E per la sua linguaccia si era presa qualche scudisciata di troppo.
“Allora, srotola la lingua e scopri cosa vuole questa
adoraoro. Io neanche
parlo il ferriano” aveva sussurrato lui.
Theresia parlava la lingua dei fioriani, come tutte le manimorbide
aveva
ricevuto un’istruzione vera e completa, anche nella terra
dove alle donne
veniva insegnata la mansuetudine e la trasparenza. “Sappiamo
bene che tra e me
è te, l’uomo capace di incantare i serpenti sei
tu” aveva risposto pratica
Adda, allontanando la mano dal muso bianco della bestia.
Un’espressione di
dolore si era dipinta sul viso di Garlio, profondamente in conflitto
con il suo
sangue che tanto odiava.
“Se avete finito di guardarvi languidi, credo che una
deliziosa signora di
ferro ci attenda” li aveva richiamati Delisio, sfacciato,
allungando le braccia
attorno alle loro spalle e dopo averli avvolti aveva lasciato il suo
peso
crollare verso il terreno e se non era caduto giù anche lui
come un frutto
dall’albero era stato solo perché loro lo aveva
sostenuto.
Beronio si era fatto paonazzo in viso per l’aggettivo che era
stato utilizzato
per descrivere la sua signora.
“Prego da questa parte” aveva attirato
l’attenzione un giovane uomo,
affiancandosi a loro giovane cavaliere guida, con un tono tremendamente
sgradevole per essere fioriano. Era uno paggio, vestito di blu notte,
stretti
sulla vita e con la camisa lunga fino ai fianchi,
con le maniche a
fisarmonica dalla spalla al gomito, come richiedeva l’usanza
ferriana.
Aveva un viso magro ed insolitamente pallido.
Adda aveva impiegato un momento di troppo per guardarlo e forse i suoi
occhi
indagatori avevano reso il ragazzo nervoso, perché si era
morso prontamente il
labbro pieno.
Aveva osservato come sulla camisa blu notte, fosse
cucito un ocelot
rampante ma diffamato, in campo azzurro. Una
famiglia peripsiana sì! Non
membro della Diarchia ma comunque di sangue ricca.
“Don Teddesio Lamorgilla!” lo aveva riconosciuto
Adda, alla fine. Era il
ragazzino sempre nervoso che serviva il vino nella ricca dimora degli
Arga!
“Ehm …Siete …fiorito
molto in queste sorelle” aveva ammesso lei,
trovando il ferriano difficile da pronunciare sulle labbra. Era passato
tantissimo tempo da quando lo aveva parlato con frequenza, lo stesso
tempo che
era passato da quando aveva visto per ultimo Don Teddesio Lamorgilla,
che nelle
sorelle trascorse era passato da bimbino e giovane uomo.
“Credo che la parola da te cercata mia monna fosse cresciuto,
perché
decisamente lei è fiorita”
aveva considerato il giovanotto, con le
guance arrossate. Anche Adda era diventata rossa in viso, sia per il
complimento – così spontaneo – sia per
il modo grossolano a cui si era rivolta
al Don.
Ricordava Teddesio come un ragazzino che serviva il vino, erroneamente
la prima
volta lo aveva scambiato per un servitore, prima di essere illuminata
sulla sua
condizione di nobile-in-prestito.
Aveva sentito lo sguardo di Garlio addosso.
“Ho
portato i nostri ospiti” aveva detto
il cavaliere Beronio, rivolgendosi al paggio al paggetto uno sguardo
piuttosto
perentorio. Erano ambe due giovani, ma il cavaliere era più
vecchio.
Il suo cognome non aveva fatto suonar alcun campanello nelle mente di
Adda, il
che voleva dire il giusto, aveva passato troppo poco tempo a Perispia
per
conoscere i nomi di tutta la casta nobiliare – principalmente
perché nella
città di ferro nessuno lo era davvero – ma aveva
l’impressione ci fosse
acredine tra Beronio e Teddesio. “La Monna ha richiesto di
condurli dentro la
tenda principale” aveva risposto Teddesio.
“I Don qui potrebbero farci la cortesia di parlare in una
lingua a noi nota?
Non tutti hanno potuto studiare” aveva detto Delisio,
cogliendoli di sorpresa.
Entrambi i due si erano fatti rigidi come spade,
“Così sia” aveva detto Beronio
con più temperanza e li aveva condotti da Theresia, non
prima di fargli
spogliare di tutte le loro armi. Solo ad Adda era stata data
l’opportunità di
tenere il suo coltello, legato alla coscia sinistra.
La Tenda Principale era di un vivace color pervinca, su cui svettavano
bande
viola, con imposte dei tendaggi sollevati appena, per permettere alla
chiara
luce del giorno di filtrare all’interno e poter illuminare
l’ambiente.
Attraversate l’imposte di tessuto, il colore che dominava era
un viola di una
tonalità molto più scura, anche con le luci
tenere del sole ancora alto,
l’ambiente sembrava molto più lugubre.
Il padiglione, degno dei tendoni nobiliari durante i tornei
più ricchi, era
diviso al suo interno per creare diversi ambienti fittizi, alcuni erano
suddivisi tramite drappi decorati, mentre alti con pannelli di legno
con
pitture colorate. Ciò che strappava
dall’immaginazione di essere nelle stanze
di un palazzo, era la morbidezza delle pareti di velluto,
l’odore di erba
fresca che appestava l’aria e la morbidezza di un terreno
naturale sotto i
piedi.
Una mezza
luna di sedie crurali di legno era pronta ad accoglierli,
l’unica che faceva
eccezione era quella centrale, che dominava la scena, che aveva uno
schienale
alto ed i braccioli per potersi sedere più comodamente, ma
era anche l’unica
vuota. Per il resto una corte di quattro donne li aveva accolti
immediatamente
al loro ingresso.
Non erano le uniche presenti, c’erano anche degli uomini, con
indosso parti
d’armature e spade lunghe ferriane appese al fianco.
C’erano anche degli inservienti in bluse bianche, pantaloni
blu e stracci
legate all’avambraccio, ma questi ultimi non si erano curati
di loro per nulla.
“Quale è?” aveva chiesto Delisio, prima
ancora di Garlio.
Adda non era riuscita a rispondere, perché una delle dame si
era subito tirata
su da una sedia crurale quando l’aveva veduta e
l’aveva abbracciata con la
stessa confidenza di un’amica intima.
“Deria” aveva sussurrato Adda, riconoscendo
l’odore di lavanda e pulito, prima
ancora del viso noci di galla, dalla forma tonda
ed occhi liquidi e grandi.
“Adda, quale gioia rivederti sana e salva!” aveva
detto la donna staccandosi da
lei e prendendo le mani a coppa sulle guance di Adda e dandole due baci
sulle
gote.
Le Sorelle non erano state gentili con Deria, sotto i suoi occhi
violacee
chiazze dell’insonnia erano incise pesanti, gli occhi
parevano più infossati e
la pelle era arrossata sulle guance come la buccia di
un’arancia. Anche i lisci
capelli scuri sembravano più gonfi e crespi, la crocchia
sempre ordinata,
lasciava sfuggire ciuffi persistenti.
“Immagino nessuna di loro” aveva detto Garlio, in
fioriano osservando, come le
quattro sedie a mezza luna fossero occupate da donne.
Deria aveva guardato i suoi accompagnatori e le gote erano diventate
rosse,
mentre gli occhi scuri si spalancavano affascinati.
“Garlio, Delisio … questa donna
è Deria Arci” aveva detto calma,
“Cameriera
personale di Monna Arga e … mia amica” Adda lo
aveva spiegato in fioriano, la
sua lingua; Deria non la comprendeva, ma evidentemente le parole non
dovevano
esserle nuove perché aveva fatto una riverenza con un
sorriso gentile ed un po’
imbarazzato.
Quel sentimento di impaccio doveva essere motivato
dall’aspetto incantevole di
Garlio, prima di presentare i suoi tre compagni alla ragazza.
“Mie signore!” aveva sussurrato Delisio sciogliendo
dalla presa di Garlio, per
attirare l’attenzione delle altre donne, con un inchino
gentile, davanti le
altre donne.
“SI è appena inchinato!” aveva esclamato
indignato Nerf, Adda aveva osservato
l’espressione circospetta sul viso di Berineo e Don Taddesio.
Adda aveva preso
svelta la mano di Garlio, serrandola su quella di lui.
Le tre donne avevano osservato la scena con interesse, la
più bruttina di loro
aveva ridacchiato, ma gli occhi erano scintillanti con una certa
leziosità. Di
rimando le altre due erano rimasto immobile.
Una era une bellezza ferriana, con l’incarnato
d’ambra, un viso pulito,
assolutamente perfetto, con capelli d’oro scuro, un naso
dritto e stretto ed
occhi di un castano dolcissimo; con machine a fisarmonica, spalle a
sbuffo, che
usava un ventaglio per nascondere la sua bellezza quasi benedetta.
“Sono
incantato
da tanta bellezza” aveva continuato a parlare Delisio e nel
farlo aveva puntato
lo sguardo sulla donna più brutta.
Non spiccava semplicemente per la bruttezza, ma per tutto il resto, era
colorata come la personificazione della Vivace,
dagli occhi grigi, in
contrasto con la pelle coronza; vestiva con un
corpetto di velluto aranciato,
su cui erano state cucite delle perle bianche assolutamente tonde,
così come le
maniche a fisarmoniche scure, con decorazioni opache d’oro
prodotte dal
telaio-a-tiro. Indossava sulla pelle oliva gemme luccicanti, la
più evidente
era un pesante monile sul collo di giraffa.
Era la più ricca della stanza.
Se Adda non avesse conosciuto Theresia Arga avrebbe immaginato dovesse
essere
La Volpe di Perlipsia. “Che fortuna che io parli la tua
lingua!” aveva chiosato
la donna Vivace con una risata fresca.
“Ed
un
miracolo che tu stia notando vagamente lui quando
c’è l’altro!” aveva cantato
una voce alle loro spalle, aveva parlato in un ferriena alto, per
quanto
difficilmente la lingua della lega suonasse gradevole. Ricordava la
prima volta
che aveva pagato la dogana di Peripsia aveva sentito quelle parole
orribili,
come il clangore delle lame, aveva pensato che lì il ferro
dovesse essere.
La Monna di Peripsia aveva fatto il suo incontro. Theresia non era
sistemata
nella grazia e nella beltà che Adda si era aspettava,
indossava un camiciotto,
verde pistacchio, con clavi argento, le maniche una tonalita
più scure, con le
spalle a sbuffo e la stoffa a fisarmonica, fino al gomito. La blusa era
legata
alla vita con una cintura di cuoio, che scivolava fino a sopra le
ginocchia,
sopra un paio di pantacalze e stivali imbottiti. Non esibiva monili,
né altre
preziosità nei capelli, ne decori sul viso, esibito nella
maniera più maturale
possibile.
L’unica cosa che non sembrava essere cambiata in quelle
Sorelle erano i lunghi
capelli castano chiaro, ancora gonfi e pensati, stretti in due severe
trecce
che scavalcavano il seno florido e scendevano fino a metà
della vita, terminanti
in due spessi pennelli.
“Oh, Adda, amica mia, che joia per me visionarti
…ancora” le
aveva detto Theresia, in un fioriano non esattamente lucido,
prendendole le
mani con gentilezza. La pelle di Adda era dura, screziata e rovinata
dalla
fatica, le mani di Theresia nonostante tutto erano ancora morbide e
rosa.
Adda si era sentita leggermente a disagio davanti quella collezione, la
donna
non era stata sua amica, non le era neanche stata vicina, “Un
piacere anche per
me” aveva detto, imponendosi di non cedere a quel primordiale
insegnamento che
sua sorella e sua madre le avevano impartito da che era una mocciosa:
abbassa
lo sguardo, piega le ginocchia, china la schiena; differentemente da
Deria che
si era chinata in una perfetta riverenza quando la sua signora si era
aperta
davanti a lei.
Theresia non era
venuta da sola nella
tende, ma era in compagnia di un paio di alcune guardie ben bardate,
tranne
uno, che uno incredibilmente alto che indossava semplicemente un
farsetto ed
una spada lunga legata alla schiena.
“Provo joia anche nel vedere i tuoi
compagni” aveva detto scandagliando
bene la presenza dei tre che erano con lei, con attenzione, senza far
trasparire
alcun sentimento.
“Avete già avanzato con le
presentazioni? Fantastico che Berineo
ed il buon Taddasio si fossero già
presentati” aveva commentato la
donna, ammiccando poi al resto della stanza.
Theresia
era voltato verso le sue amiche e con confidenza, nonostante la sua
pronuncia
piuttosto buffa e l’abitudine di inciampare nelle parole:
“Loro sono le mie
compagne: lo luminosità con il
ventaglio è mia sorella-in-nozze
Nassiana, la bellezza vivace è Monna Siveria la mia cara
amica e la vostra …
conterranea è Monna Saerra di Castel Serpillo”
aveva spiegato subito Monna
presentando le tre donne.
Siveria, la brutta donna dai capelli rossi come il fuoco, aveva
sollevato
una mano e aveva
mosso tre dita,
Nassiana aveva nascosto il viso dietro al ventaglio, mentre
l’espressione dura
come la pietra di Saerra si era fatta ancora più rigida.
Ad una seconda occhiata, Adda,
riconosceva il castigato
bustino stretto fioriano, con la gonna ampia con la doppia banda
fiorita, così
come il fazzolo giallo che copriva le spalle, fermato al petto da una
spilla
floreale e l’odio nel suo sguardo aveva senso.
Una virtuosissima signora dell’Impero.
Castel Serpillo Serpillio apparteneva alla famiglia Pagaesse, una delle
famiglie vassalla minore della regione dove erano e loro erano gli
eretici.
“L’uomo così sopraelevato da perdere gli
occhi è Myrcele, un buon amico di mio
cugino Tarsio, qui per assicurarmi che io viva” aveva
spiegato pratica la
Theresia, ammiccando all’uomo.
Adda aveva presentato velocemente i tre: Garlio, il loro capo
– lo aveva detto
in ferriano, sperando lo stesso non distinguesse la parola –
Delisio e Nerf, la
vedetta. Un ragazzo dal viso butterato ed il cipiglio del principio in
persona,
“Loro sono i Liberi Pensatori, gli Svincolati”
aveva terminato.
Theresia
aveva sorriso davanti le presentazioni. Delisio, con il suo sorriso
troppo
sornione, aveva guadagnato una smorfia mal celata,
l’espressione acre di Nerf
era, stranamente piaciuta di più, o forse era stato merito
degli occhi
verde-ceruleo, di un sangue settentrionale; Adda non ne aveva idea.
La bellezza statuaria, senza imperfezione, da benedetto di Garlio aveva
guadagnato
uno sguardo distante, forse faceva fatica Monna Therersia a comprendere
un
eretico, principista che condivideva l’aspetto dei figli del
destino. Dopo un
momento troppo lungo, Therersia si era concessa un sorriso un
po’ troppo
soddisfatto e non abbastanza sincera, “Non sono sorpresa, mio
Don Altissimo, mi
han sempre detto che il Principio è Tentatore”
aveva stabilito in un ferriano
spiccissimo.
Deria era avvampata come una mela matura, Nassena aveva squittito come
un
topolino, Saerra aveva stresso la bocca ed aggrottato le sopracciglia,
ma la
reazione più spontanea era stata di Siveria, “Oh!
Ricordami perché non ci siamo
dall’eresie?” aveva chiesto audace, con un sorriso
storto ma luminoso ad
adornale il viso.
Garlio guardava Adda aspettandosi una traduzione, ma lei non aveva la
minima
idea di come spiegare al suo compagno che stavano chiocciando sul suo
aspetto.
“Non vi permetto di fare le cinciallegre su queste immonde
creature” aveva
detto severa Saerra alzandosi in piedi, una macchia di nero scurissimo,
l’unica
luce era data dallo scialle ocra, “I principisti sono il male
del nostro tempo,
sono le locuste dei nostri campi” aveva professato, la prima
frase l’aveva
detto in un ferriano perfetto, come mai Adda avrebbe potuto sognare di
parlarlo, ma il resto era in un fioriano. La dolce lingua
dell’impero sembrava
essere acida sulle sue labbra, “Questi mostri hanno strappato
al nostro impero
il suo legittimo sovrano!” aveva accusato indignata.
Tutti la guardavano.
“Avevo sentito che il vecchio Imperatore se lo è
portato via un piatto di
funghi un po’ troppo selvatici” aveva risposto
Delisio, con quella sua lingua
di veleno acuta.
Adda aveva sentito lontane, ma comunque presentiti, il frastuono delle
campane
dalla torre del Palazzo Camma – “È morto
l’Imperatore, cresca rigoglioso il suo
fiore, lunga vita all’imperatrice, affondino nella terra le
sue radici” – ed
aveva taciuto, soffocando quel rumore.
“Oh vile bestia scopa principio!” lo aveva
aggredito Saerra, “Tu sai di cosa
parlo! Del vero signore scelto
dal Dio-di-Ogni-Cosa-buona!” aveva
gridato, “Voi mostri senza-dio avete linciato il nostro Dolce
Imperatore!”
Gli impropri di Saerra avevano risvegliato un modo bruciate nel petto
di Adda,
perché quella ricca manimorbide non aveva idea di
ciò che stava dicendo, ciò di
cui stava parlando, differentemente da Adda!
“Tu!” l’aveva appellata lei stessa
facendo un passo in avanti, un tempo sarebbe
rimasta immobile, con lo sguardo basso e l’espressione carica
di vergogna, ma
all’ora era una pecora, cosa che era cambiata. Era umana e
camminava nel
sentiero dell’ignoto.
Garlio l’aveva afferrata per un braccio, forse con troppa
forza, e l’aveva
attirata a se, spalmandola contro il suo ampio petto,
“No” le aveva sussurrato.
Non ora, aveva sentito lei.
Theresia, fredda come l’acqua del primo mattino, aveva
parlato: “Berunio, mio
buon cavaliere, dovresti scortare Monna Saerra a prendere una boccata
d’aria;
l’etere della tenda è viziato, la deve aver
stancata” aveva sancito lapidaria. Ammiccando
al suo cavaliere e guardando la dama, gli occhi della monna di
Perlipsia erano
spire di fuoco.
Saerra era arrossita dalla frustrazione, “Non fidarti di
questi spergiuri, non
hanno dignità né fede” aveva avvertito
Theresia prima di farsi scortare fuori,
con gentilezza dal cavaliere. Nelle parole di Saerra c’era
stata una certa
disperazione.
Adda sapeva cosa fosse: la cecità dei fioriani.
“Perdonate i comportamenti della mia
amica; ha fuoco nelle vene. Quando
saremo a Peripsia, dovrà cambiare” aveva
considerato Thereresia, prendendo
posto sulla sedia con le braccia, “Nessuna donna ferriana non
può parlare così”
aveva aggiunto cupa.
“Ma lei è del Pregiatissimo Impero”
aveva considerato Garlio, la prima cosa che
aveva detto fino a quel momento. Alle manimorbide fioriane erano
concesse molte
più parole di quanto fossero concessi agli uomini come
Garlio stesso. “Entro un
paio di cicli non più, sarà la Monna di Perlipsia
assieme al mio adorato
cugino” aveva risposto pratica Theresia.
“Taddesio portaci del vino; sorella controlla che la nostra
gentile cugina sia
sana e salva” aveva ordinato Theresia, mentre Adda osservava
Deria e Segeste
affiancarsi a lei.
Tre sedie erano rimaste vuote e loro erano quattro, “Deria,
cara, puoi
recuperare una sedia cortesemente, da mettere proprio di fronte a
me?” aveva
chiesto con gentilezza moderata ed accavallando le gambe.
Adda si
era seduta alla sinistra di Siveria, Nerf e Delisio le erano speculari,
mentre
la sedia al centro del semicerchio, orientata verso Theresia Arga era
occupata
da Garlio.
L’uomo non sembrava nervoso, mascherava la sua incertezza
dietro l’assoluta
calma e la scioltezza, di rimando la monna ferriana sembrava ancora
più
tranquilla, con le dita intrecciate nel grembo ed una gamba a penzoli.
“Se son tutti così gli eretici, abiuro Dio oggi
stesso” aveva sussurrato
Siveria all’orecchio di Adda come se fosse una sua vecchia
amica, quella era
rimasta rigida come una stecca e si era
lasciata sfuggire una risatina infantile, prima di ricomporsi dopo
un’occhiataccia
da Delisio dall’altro lato della tenda.
“Volete
che faccia portare il cibo qui dentro o vorrete mangiare fuori, con il
resto
degli uomini? Segeste ed altri hanno preso un cervo, maschio, ieri ed
io ho
comprato dei capponi” aveva rotto il silenzio Therersia,
rivolgendo gli occhi
castani, quasi gialli, a Garlio; “Il vino arriverà
con Taddesio” aveva detto
poco prima che il giovane paggio comparisse con una caraffa di vino ed
un
vassoio pieno di bicchieri in legno lucido e laccato.
Garlio non si era lasciato distrarre. “Non
spezzerò il digiuno con te, ne berrò
il tuo vino finchè non sapremo perché hai mandato
un ruspante cavaliere a
chiamarci” aveva sentenziato poi. O spiegare
perché dei ferriani
gironzolavano per le terre dell’impero in città di
velluto come Cavalcatori
Erranti.
“I galli sono ruspanti, Theresia. Vuol dire
genuino, ma anche un po’
grezzo. Adatto al buon Beronio!” si era intromessa veloce
Siveria, nella
conversazione, leggendo qualcosa nell’espressione della sua
amica. “Grazie”
aveva risposto la monna, prima di rivolgersi alla platea,
“Scusatemi. Il mio
fioriano, come si dice? Sì, è rugginoso”
aveva spiegato.
“Nessun’asperità, mia monna”
aveva risposto Garlio, che non aveva mai appellato
nessuno con titoli onorifici da che Adda lo aveva incontrato
né fatto sfoggio
di parole ridondanti, spesso neanche azzeccate al cento per cento. Se
la parola
aveva messo in difficoltà Theresia, lei non
l’aveva affatto dato a vedere,
rimanendo stoica, “Mio buon Libero Pensatore; sei esattamente
come ti ho sognato,
meno bello – forse” aveva risposto Theresia con
tranquillità.
Un sorriso senza controllo era sorto sul viso di Garlio,
“Vorrei dire che ti ho
sognato anche io, mia monna, ma non sapevo della tua esistenza fino ad
oggi”
aveva ammesso senza vergogna.
Adda aveva scosso il capo, non poteva aspettarsi di meglio da Garlio,
era un
nemico giurato dei manimorbidi, anche coloro che non avevano le radici
sparse
nell’Impero. Lei riconosceva una diversità, la
nobiltà fioriana era convinta di
avere quel sangue, quel ruolo, per divinità investitura, di
rimando, mentre i
manimorbidi ferriani non confidavano affatto nel sangue, ma nella
ricchezza e
nel potere. Nessuna divina investitura, solo antenati svegli e con
possibilità.
Poi si era sentita stupida, per quei pensieri. Adda aveva visto
Theresia senza
gli indumenti da uomo, ma sistemata come una buona dama, con le maniche
a
fisarmonica e le decorazioni da telaio-a-tiro con motivi animali,
volpi.
Ingioiellata, truccata con la biacca sulle guance e le labbra rosse
come
cigliegie, splendida, bellissima e non dissimile dalla sua signora
Canadea.
Poteva non avere il sangue di una nobile, ma ne aveva la ricchezza.
Theresia, Canadea, Saerra e tutte le altre manimorbide erano la stessa
pasta.
“Bevi con me, mio libero pensatore” aveva detto
Theresia poi, “E io
soddisferò tutte le tue richieste” aveva
commentato.
Adda l’aveva guardata incerta, un rivolo di imbarazzo era
cosparso sul viso di
Garlio, presto soffocato. Aveva osservato Nerf divenire rigidissimo
sulla sedia
di fronte a lei, mentre Delisio aveva dovuto nascondere la bocca con le
labbra
per nascondere lo sghignazzare che era sorto sul suo volto.
“Dovrei dirle che
si è espressa molto male?” aveva chiesto con
eloquenza Sivaria.
‘E io risponderò a tutte le tue
domande’ intendeva, o almeno avrebbe
dovuto, anche se Adda aveva un terribile sospetto che in alcun modo
Theresia
avesse sbagliato.
Garlio si era voltato verso di lei. Adda aveva tirato su la schiena,
drizzandola immediatamente, incerta su cosa avesse dovuto interpretare
in
quella ricerca: il suo permesso? Il suo consiglio?
Adda aveva annuito, dando il suo assenso.
Don Teddesio Lamorgilla aveva portato dei bicchieri a tutti; Adda aveva
potuto
osservare come la reazione di Nerf fosse di pura gioia mentre osservava
un
manimorbide servirgli vino bianco in una coppa in un bicchiere
nobiliare.
Delisio aveva ripagato quel sorriso fin troppo appagato con un buffetto
sulla
nuca.
Teddesio le
aveva allungato una coppa di vino e lo aveva riempito, era stato
generoso, e le
aveva sorriso con un sorriso gentile, “Grazie” le
aveva detto lei, con calma.
“Sempre un pasticcino, grazie Teddi!
Sarà drammatico quando diventerai
lo scudiere di Tarsio e dovremmo rinunciare a te” aveva
ammesso Siveria
nostalgica. Il ragazzino aveva stretto le labbra, arricciandole in una
smorfia,
“La possibilità mi devasta” aveva
vagliato senza gentilezza, “Piccola
merdina!” aveva ridacchiato Siveria,
“Giuro sul Don-del-cielo adoro quel
marmocchio!”
Theresia si era sollevato in piedi, con la coppa sollevata,
“Voglio fare un
brindisi al nostri cortesi
ospiti. Non viene spesso di
avere eretici alla propria tavola, non che mi importi di queste
corbellerie: io
sono un adoraoro!” aveva detto.
“A Garlio di Rocca Vrisea, un uomo del peccato; il
Principio-in-terra”
aveva sogghignato Theresia tirando su il calice, “O
l’aculeo nella fica
dell’Imperatrice. Sicuramente il mio nomignolo
preferito.”
Garlio aveva sospirato, alzando anche lui il calice, “Alla
Monna di Perlipsia;
Adda mi ha detto che vi chiamano La Volpe di Perlipsia” aveva
detto vago.
Theresia aveva riso, “Sì è un
soprannome che mi ha dato mio cugino Darion
quando avevo … uhm … trenta sorelle o
giù di lì?” aveva scherzato,
“Ma è una
storia uggiosa. Non ho decisamente la tua
fama: bruci villaggi, appendi
preti, ovunque giungi raccogli proseliti. Sei l’erbaccia che
infesta il Gardino
dell’Imperatrice” aveva aggiunto, senza perdere
smalto, “A detta della mia
futura sorella-acquisita, uccidi anche imperatori.”
Adda aveva sentito lo stesso gelo che si percepiva nelle notti della
Sorella
Fredda, quando il cielo piangeva neve.
“Non nego le mie colpe: ho commesso crimini di ogni genere e
di alcuni me ne
pento, di altri molto meno, ma non ho linciato io il dolce imperatore
– se
fossi stato io, avrei lasciato il suo cadavere alle gente
perché vedesse che
anche un dio può morire.
L’Impero è pieno di Liberi Pensatori”
aveva
ammesso cupo Garlio, con gli occhi neri luccicanti. Theresia aveva
sorriso, con
un’espressione quasi cattiva, “Lo so, lo so. Tu e i
tuoi svincolati non avete difetto,
almeno non di questo” aveva considerato Theresia ed Adda
aveva avuto l’orribile
sensazione che sapesse.
Che Theresia sapesse esattamente che ne era stato del Dolce Imperatore.
“L’Imperatrice ha fatto ballare la danza degli
strozzati a ben dodici uomini
che come te, Garlio di Rocca Vrisea si
consideravano Liberi e sverg
…e condannato uno all’essicazione
per la colpa di aver ucciso il suo dolce
marito” aveva raccontato. Adda aveva provato un
brivido al ricordo dell’esecuzione
per essicazione, aveva sentito un dolore forte al petto.
Tredici uomini, “Arlo
Ceidri di Città Rosa” aveva
ricordato Garlio, con disgusto sul suo viso, l’espressione di
Theresia era
rimasta in tralice. “Lo conoscevi?” aveva chiesto
lei, poi.
Adda non ricordava se Garlio ne avesse mai parlato, era già
morto l’uomo ed i
suoi compagni, da molte lune, quando lei aveva abbandonato il giusto
sentiero
per camminare nelle vie ignote. “No, non lo conoscevo, ma
ogni uomo libero è
mio fratello” aveva ammesso candido Garlio, Nerf e Delisio
non si erano
nascosti un boato condiviso, “Che la sua anima sia
consegnata all’eterno!”
aveva dichiarato con orgoglio il miglior amico di Garlio.
“Che modo pittoresco, noi diciamo: che
di te non sia dimenticato
neanche un dente. In Ferriano ha un sono più
bello, ovviamente” aveva
commentato Siveria, con voce bassa e leggermente divertita, Adda era
abbastanza
confusa dall’ilarità con cui la monna ferriana
stava misurando quella situazione.
Theresia
aveva bevuto un po’ del suo vino, “Ora, se devo
essere completamente incorrotta
– non so nulla di Arlo Ceidri, ma avevo
studiato tanto te. Il figlio di
un attendente nato consacrato, che ha rinnegato il
suo fiore, il suo
destino, che per il suo credo accentando di viver
braccato come una
bestia, ma che ora si insinua e si espande nel bel giardino
dell’Impero
divorando tutto. Al punto che la stessa Signora dei Fiori sa della
tua
esistenza” aveva raccontato Theresia.
Una vertigine aveva colpito Adda, come un pugno sullo sterno, da averle
succhiato via il fiato dal petto, aveva stretto i palmi fino a sentire
le
unghie contro la carne dei suoi palmi. “Sono davvero
lusingato nel sapere che
una rispettabile Monna Ferriana abbia speso così il suo
tempo, nello studiarmi”
aveva considerato Garlio rigido.
La donna non aveva perso il suo sorriso, “Dovresti, non
è una cosa che faccio
per tutti” aveva considerato lei, scavalcando le gambe ed
accavallandole di
nuovo, portando a penzoloni l’altra gamba, “Anche
se, be, l’imperatrice ha
messo molto impegno nel definirti un eretichino senza
impegno” aveva
raccontato.
“Non avete appena detto che l’Imperatrice sa di
lui?” aveva chiesto Delisio
senza vergogna – lui e la sua bocca ben velenosa.
Theresia aveva riso con divertimento, ma era stata Siveria a
rispondere:
“Ovviamente, la terribile Signora dei Fiori sa di tu,
tutto l’Impero sa
di tu, anche nella Lega si parla di tu!
Ma l’Imperatrice non può
permettersi due sezioni … ehm
… sedizioni” aveva considerato con una
punta di divertimento ben evidente.
Garlio si
era lasciato sfuggire un sorriso, piuttosto divertito, mentre a Adda
aveva
sentito la bile salire lungo il suo esofago, le era tornata voglia di
vomitare
il poco che aveva mangiato la sera prima ed il sapore del vino nel suo
palato
si era guastato, sapeva di uova e di marcio. “Parli del
Margravio Traditore e
della sua piccola rivolta che ha concimato i campi” aveva
vagliato Garlio,
revocando quella storia.
Adda aveva serrato le palpebre, impegnandosi per cacciare via quel
gusto
disgustoso dalla sua lingua e quel pensiero ancora più
orribile dalla sua
mente.
Theresia aveva annuito, prima che le trecce biondo-castano si
piegassero
insieme alla sua testa, la monna aveva deviato lo sguardo, non aveva
più gli
occhi su Garlio ma guardava nella direzione di Adda e Siveria.
Lei non era stata certa di chi cercasse lo sguardo tra lei e la sua
amica, fino
a che non aveva parlato: “Mi pare di ricordare, correggi
se sbaglio, che
tu, Adda, conoscessi il margravio … Non ricordo il suo nome,
finiva per Ren,
si?” le aveva chiesto con una punta di divertimento, che
smascherava il suo
tono finto di ignoranza.
“Quasi tutti nomi irtosi finisco per Ren
o Ran” aveva farfugliato
Delisio, ma il suo commento era caduto nel vuoto. Adda aveva annuito,
“Il
signore Gathren Rastia di Irti Pini e no”
aveva dichiarato Adda e non
era una menzogna.
Tutti la guardavano. “Non lo conoscevo. Lo ho veduto
sì, quando lavoravo al Bocciolo,
lo ho servito come mi era richiesto e gli ho anche lavato le mutande
questo sì.
Ma no, non lo conoscevo. L’unica cosa che ci siam scambiati
è stato: Fai
questo e quest’altro e Sì, mio
signore” aveva spiegato seccata Adda,
ricordando quel periodo con dolore, rabbia e risentimento.
“Quindi?” si era inserito Nerf, intrecciando le
dita sul ventre ed osservando
tutti con un interesse nervoso, era una delle prime cose che la vedette
aveva
detto da quando erano entrate nella casa di stoffe.
Siveria le aveva sorriso, scoprendo i denti da cavalla,
“Sì, tutto questo
preambolo era per dire che abbiamo conosciuto di
voi da una vecchia
conoscenza” aveva canticchiato, giocando con le
dita dritte giocherellando
con il bel brillocco che indossava al collo.
Adda aveva drizzato le spalle, ogni sensazione di disgusto e voglia di
espletare che aveva sentito si era asciugata immediatamente,
perché un’idea
precisa – e rincuorante come poche – era balenata
di prepotenza nella sua
testa.
“Saiji!” lo aveva detto di getto, senza riflettere.
Sentiva la speranza sbocciare
nel suo petto come il fiore che si era strappato. Solo dopo aver
parlato si era
resa conto di averlo fatto e vergognosa aveva cercato lo sguardo di
Garlio. Lui
la stava già guardando, gli occhi neri duri, si erano
fissati per un secondo,
prima che lui tornasse a guardare Theresia. Adda si era ritrovata
perduta ed
incerta di quello scambio.
La Volpe
di Peripsia aveva annuito, “Sì. Sir Alderichi mi
ha raccontato della vostra
impresa sui pendii della Vosterna, a Forte Agave in Spessi
Abeti” aveva
considerato lei, “L’ultima cosa che mi aspettavo di
sentire di era un gruppo di
eretici che aiutava un cavaliere cordato a liberare un forte fioriano,
conquistato da briganti sussurranti” aveva raccontato
Theresia, meravigliata.
Garlio le aveva sorriso in una maniera sinistra, ma che lo rendeva
irresistibile, “Se fossi un uomo di fede di direi che
è la volontà del nostro
tiranno, ma non lo sono: la bellezza dell’Ignoto è
che le sue vie sono
inimmaginabili. Nessuna misteriosa mano a guidare il caso, ma libero
arbitrio
o, forse, servo arbitrio – non sono mai stato un buon
filosofo” aveva
cominciato a spiegare.
La sua parlata si era fatta lenta come la melassa, dolce come il miele
più
puro, Adda si accorta che ogni persona in quella tenda, dal guerriero
enorme
all’ultimo cavaliere entrato dall’uscio era
completamente rapito da lui.
Adda non sapeva se fosse per il suo sangue benedetto o per la sua
dialettica,
anche Theresia sembrava rapita, “Ogni scelta da me compiuta,
ogni scelta da Sir
Saiji Alderichi da lui compiuta, corda e non corda, ci hanno guidato
lì. E le
nostre scelte ci hanno unito. Posso essere un senza-dio per essere
gentile, un
principista o liberista o come vogliano chiamarmi, ma sono anche un
fioriano
che ha sempre avuto a cuore il suo popolo” aveva raccontato,
“E Sir Alderichi
può aver indossato le spine dell’Impero, ma
è sempre stato un cavaliere al
servizio del suo regno. Potrei essere l’aculeo
della fica dell’Imperatrice,
ma sono un uomo che ama la sua terra” aveva detto, senza
neanche una menzogna –
“E se mi chiamano nemico è solo perché
non comprendono quanto io voglia di più
per la mia casa” aveva detto.
Gli occhi scuri di Theresia erano sembrati rapiti come quella di
un’innamorata,
“Questo è un sentimento che io abbraccio
meglio di tante altre mio
libero pensatore, Peripsia è il mio cuore” aveva
detto gentile, alzandosi dalla
sedia, con il bicchiere di legno ormai quasi vuoto.
“Riguardo alle vie ignote. Io concordo, non su tutto ma
quasi; Non so se esiste
un Dio, se davvero la sua mano è così decisiva
o se i nostri fiori siano
solo un’erbaccia spontanea. Però in qualcosa
credo: in situazioni più grandi
degli uomini, come terremoti, inondazioni, ma anche un Signore che
decide di
guidare un esercito contro un altro, trascinando gente di ogni tipo nei
loro
schemi” aveva fatto una pausa, “Questo
sì, questo esiste, ma ritengo che la
grandezza di un uomo sia da attribuire alle scelte che compie in
conseguenza,
forse a dirittura in previsione, a queste circostanze” aveva
considerato. Aveva
usato tutte le parole giuste.
“Interessante” aveva considerato Garlio ed Adda era
dannatamente sicura che
fosse interessato, lui che sempre aveva pronunciato
parole indicibili
contro i manimorbide.
Theresia si era avvicinata, la sua camminata era marziale, dura, come
quella di
una cavalla, “Oggi sono qui, davanti a voi, tutti vuoi,
per condizioni
più grandi e una storia tragicamente lunga. Mentre nella mia
casa a Perlipsia
si consumavano piccoli intrighi di ogni genere, chi sposa chi, chi
tradisce
chi, chi spia chi, cose divertenti, carine, intriganti” aveva
fatto una pausa,
“Mentre succede questo negli alti palazzi, fuori le mura, tra
i contadini che
coltivano le terre: un bambino, orfano di padre, con fratelli troppo
impegnanti
a lui ed una madre … diciamo non sana,
un bambino senza ambizioni
per il futuro, che prova, a modo suo a fare la sua parte: aiuta nei
campi, nel
mercato, ma che ha un talento o una passione, non so, sa andare per
boschi a
raccogliere funghi” aveva fatto una pausa, “So che
per voi fioriani i funghi
sono sempre augurio di sventura, ma dalle mie parti abbiamo un gusto
differente” aveva spiegato Theresia, strappando una risata
sommessa alla sala.
“Quindi, abbiamo un ragazzino che va in cerca di funghi nel
Bosco di Ferro, non
dovrebbe, perchè non è un posto tranquillo quel
luogo, animato da fiere. Ma si
sa, no, come sono i bambini: convinti della loro
immortalità, a quaranta
sorelle io camminavo sui cornicioni del mio palazzo, perché
credevo di non
poter cadere, così è il bambino: innocente,
per coscienza, del pericolo
che corre tra bestie e uomini. Ma non è la sua prima
avventura e la necessità e
la fame sono più pressanti del buon senso, ma il nostro
modo, però, non è un
mondo gentile” aveva respirato “Il bambino incontra
un cinghiale ed allora il
buon senso ed il terrore tornano, si danno la mano e lo aiutano a
fuggire, così
veloce da tagliare l’aria, tra urla e dolore.
Ha gambe piccole e magre, ma non si perché,
perché la paura può renderci state
di sale ma a volte ci nutre e ingrossa la
nostra volontà. Così lui
corre, corre, come un frenetico e urla, per il
bosco, certo di morire.
Ma non lo fa, scopre che nel bosco non è solo. Un manipolo
di uomini, tra cavalieri,
nobili, scudieri e quant’altro è lì, il
Bosco di Ferro non manca di fiere e
premi per i ricchi annoiate di Peripsia. E perché non
proprio quel cinghiale
lì?
Il bambino trova i cavalieri, fine della storia, lieto fine. No! Le
urla del
ragazzo infastidiscono i cavalli, uno di questi si imbizzarrisce, il
suo
cavaliere forse non ben agganciato, forse incapace, forse distratto,
non
importa, perde l’equilibrio e cade giù da cavallo,
poteva non essere nulla ma
la testa del cavaliere incontra un sasso. Tredici lune dopo il bambino
è ancora
vivo, sta bene, ma il cavaliere è morto e con questa
piccolezza: tutto il mio
mondo si è ribaltato. Nessun complotto, nessun
colpo, nessun cataclisma,
solo un bambino in cerca di funghi” aveva terminato.
Adda si
era sentita profondamente smarrita da parte di quell’infinito
discorso, con
quella incredibile e lunga perifrasi, ma non era stupida non
particolarmente.
“Chi è morto?” aveva chiesto,
perché doveva essere qualcuno di importante. Non
era rimasta informata di tutte le vicende politiche e sociali della
lega,
riusciva a malapena a tenere a mente le famiglie fioriane, trentuno
grandi
famiglie, per trentadue territori ed erano solo le maggiori. Ogni
porzione del
Pregiatissimo impero aveva il suo sottobosco.
E la Rivolta fallita del Margravio Traditore aveva soffocato ogni altra
notizia. Adda aveva sentito che i campi vicino a Malvasia si erano
tinti di
rosso e che lo Scintillante Generale avesse completamente spezzato il
fratello
minore di Gatrhen.
Theresia l’aveva guardata: “Don Lorezin
Persepoli” le aveva risposto, “Lo
ricordi?” aveva inquisito poi. Adda si era dovuta prendere un
momento per
frugare nella sua memoria, isolare le lune che aveva speso alla Bestia
Bicefala.
Ricordava la vistosa famiglia di Theresia, in particolare i due cugini
del ramo
principale, gli eredi, l’uomo torvo e quello dal sorriso
gioviale e gli occhi
brillanti. Ricordava, Adda, che c’era stata una festa,
l’ottolune della terza
decimana del secondo ciclo per celebrare la festa delle Dieci Candele
– non
riusciva a ricordare la storia di quella ricorrenza, ma ricordava bene
la
festa.
E ricordava che Theresia bella come la Rigogliosa, vestita di seta
finissima,
perle ed oro bianco aveva ballato con un ragazzo piacente. La pelle
d’ambra, il
naso aquilino e capelli biondo polentina, con un sorriso tutto miele e
le
fossette, che era sembrato capace di condurre Theresia senza urtarla.
Adda aveva pensato sarebbero stati una coppia buon assortita.
A lei quella sera le sarebbe piaciuto di gran lunga avere un vassoio o
un otre
e dover correre a destra e manca per riempire calici o pance vuote, che
restare
lì, nascosta quanto più possibile
nell’ombra, schiacciata contro un muro, con
le mani molli e da invitata.
Anche vestita con il pizzo di bisso e di ciniglia, Adda non
era una
manimorbide e mai sarebbe potuto esserlo, non nell’Impero e
non a Peripsia dove
il valore di uomo valeva dalla sua borsa.
E ricordava Saiji con lo stesso disagio affianco a lei, abbigliato come
il più
pulito dei nobili, con la blusa azzurra, che spiccava sulla pelle
zucchero
cotto. “Quello è Don Lorenzin Persepoli.
L’altra testa della Bestia” le
aveva spiegato il suo amico, seguendo il suo sguardo, dove sui
pavimenti di
marmi colorati al ritmo di una musica intrigante, dominavano la scena.
“Il lupo” aveva detto Adda, pensando a quella notte
caotica, alle luci soffuse
delle candele – dieci, solo dieci – e il quasi buio
che regnava nella sala da
ballo degli Arga; ‘Chiedimi di ballare, chiedimi di
ballare’.
Theresia
aveva mosso la testa con un gesto d’assenso,
“Sì, il povero, povero, Lorenzin.
Intelligente, brillante e morto dannatamente prima del tempo”
aveva considerato
rancorosa. Adda non ricordava di aver sentito la Monna di aver parlato
con
particolare affetto dei loro nemici-alleati giurati, ricordava di
averla vista
chiacchierare di sottecchi, al matroneo, con una donna di quella
famiglia, ma
mai parole troppo ovvie e pubbliche.
“Ed indovino, a lei, monna, fa gola il ruolo che aveva questo
lupo morto” aveva
considerato Delisio, con un certo interesse, inclinando la schiena per
mettersi
ancora di più pronto all’ascolto; Nerf al suo
fianco aveva le labbra serrate,
l’espressione rigida di chi non stava gradendo una sola
parola.
Theresia aveva distolto lo sguardo da Adda per rivolgerlo al giovane
uomo
imperfetto, “Si potrebbe dire così. Una donna
ferriana può poco, anche una
Arga. Si mi piacerebbe occupare il ruolo che era del mio buon Lorenzin,
ma mi
accontenterei che quel ruolo tornasse in vita, che
l’equilibrio sia
ripristinato o almeno che l’uomo che ora governa, da solo, su
una diarchia
fosse diversa” aveva spiegato senza peli sulla lingua,
“So di poter apparire
sciocca, immatura, anche egoista per qualcuno e senza alcun dubbio
ingenua, ma come
diceva il buon Libero Pensatore Garlio: il mio cuore è per
la mia terra.
Perlipsia è il mio cuore” aveva spiegato con un
melodramma quasi credibile.
Adda si
era dovuta mettere una mano sul viso, per evitare che una risata
cattiva
emergesse, che era andata ben oltre il suo controllo. Il discorso
melodrammatico di Theresia che aveva imbevuto i suoi tre compagni a lei
aveva
ricordato quelli di Canadea la sua signora, quella che per sorelle
lunghissime
aveva servito. Aveva rammentato la giovane, da che era poco
più di una
ragazzina, che sedeva davanti ad uno specchio per ripetere discorsi
perfettamente studiati, mentre Adda le pettinava i capelli
perché fossero lisci
e morbidi come la seta. ‘Voglio essere
così naturale che nessuno, che
chiunque pensi che ogni mia parola sia sbocciata dall’ardore
del momento’
le aveva confidato.
Una naturalezza ben studiata.
Theresia era uguale; la sua emotività era così
artefatta che se Adda non avesse
vissuto una vita intera in un maniero a servire una vera signora, le
avrebbe
creduto. Forse Peripsia era il suo cuore, ma come tutte le creature di
quella
risma, quello che Theresia voleva era il potere.
Inoltre non aver usato alcun termine errato, rendeva stranamente il suo
discorso molto meno genuino.
“Cosa
vuoi
da noi?” aveva chiesto Adda, conoscendo
l’inutilità di continuare a ballare
davanti quell’argomento, togliendo la mano dal viso ed
inghiottendo la risata
isterica con la bile. Monna Theresia poteva essere brava nella danza
delle
parole, Garlio amava i grandi discorsi ma solo quando lui stesso ne era
il
centro e non aveva la pazienza, né la voglia, di affascinare
una nobile
signora, per non parlare di Nerf che era lì rigido come una
pietra. Di rimando,
Delisio stava godendo il momento migliore del suo tempo, amava e
prosperava di
quello – Adda lo aveva inteso ormai.
La Volpe aveva girato lo sguardo verso di lei nuovamente, spalancando
gli occhi
castani, quasi miele, “Oh! Che voce ponderosa e che
sfacciataggine! Oh Adda, ne
avevo avuto il sospetto da che ti ho veduta che non eri più
la sguattera senza
bocca che avevo conosciuto” aveva chiosato divertita
Theresia. “All’ora ero una
pecora, ma, in questa Luna sono una persona” aveva risposto
serena Adda.
“Felice di questa metamorfosi, io sono ancora
un’animale temo” aveva scherzato.
Adda non aveva distolto lo sguardo, così Theresa aveva
ripreso a parlare,
quando non aveva ricevuto risposta: “In realtà
è molto semplice, la risposta:
io voglio voi!” aveva ammesso: “Voglio i vostri
uomini per combattere! Voglio
l’uomo che ha lacerato Forte Agave ai
Sussurranti! Ma non ho solo borie,
offro anche. Prenderò anche le vostre donne,
perché abbiano un tetto e vesti
calde, prender i vostri figli perché abbiano pane e
latte” aveva fatto una
pausa, lunga.
“Peripsia è una terra di veneraoro, per lo
più si segue il culto del Descrino
Prescritto, ma esiste un tempio per la Dura Madre Terra ed uno per la
Signora
Umida; è nelle catacombe, qualcuno, celebra le
Divinità Calme – lungi da me
sapere cosa sono – ed altre divinità che neanche
ricordo. Dei Liberisti …”
aveva fatto una pausa molto meno enfatica, ma calcando bene quella
parola. I
liberisti erano la frangia più leggerà tra gli
eretici, almeno a detta delle
chiacchiere che Adda aveva raccolto negli anni, “…
risulterebbero la cosa meno
strana nella nostra bella Diarchia. Certo, i cittadini potrebbero non
essere esaltati,
ma una soluzione è sempre trovabile; liberisti ovviamente,
atei, principisti e volontisti
potrebbero essere troppo, ma come ho detto: l’unico Dio che i
ferriani venerano
fedelmente è la pecunia.”
Nerf si era lasciato sfuggire una smorfia.
“Perché?” aveva chiesto invece Garlio,
inclinando il capo ed aggrottando le
sopracciglia scura, “Perché il Liberismo
è … come si dice? Tranquillo. Il
Volontarismo è tremendamente aggressivo. So che è
punibile di morte
nell’Impero, mutabile nella Ghaadiana e condannabile nelle
Terre del Sussurro;
anche nella Lega non sono illecite. Negare
l’esistenza di un dio troppo
invadente e l’adorare un male riconoscibile, sembra
abbastanza grave. Forse
troppo anche per noi venali adoraoro” aveva spiegato
didascalica Siveria
“Credo che il mio buon amico si chiedesse: perché
noi” si era intromesso
Delisio, accompagnato da uno sbuffo di Garlio. Poca pazienza.
“Perché ho bisogno dell’uomo che ha
preso Forte Agave e non sono stupida da
presentarmi con niente in mano, come ho detto: prenderò
anche le vostre donne e
i vostri figli, darò a voi tutti: una cosa. Posso mettere
sul piatto: oro,
argento e damigelle, ma Ser Alderichi mi ha raccontato molto di voi e
sarei più
stupida di una capra se non avessi ascoltato il mio amico. Come ho
detto: su
qualcosa, io e te, Garlio Il-Principio-Incarnato siamo uguali come due
fiocchi
di neve. Amiamo la nostra gente” aveva dichiarato orgogliosa
Theresia.
Oro, argento e damigelle potevano comprare molto, ma un luogo da
chiamare casa
… non per loro, non per l’impero. Ma in terra di
ferro?
“Troppo
semplice” aveva stabilito Garlio. Adda aveva annuito, a lei
era sembrato
bellissimo, ma riconosceva che lei era una donna semplice, nonostante
tutto ciò
che avesse subito.
“Ovviamente” aveva concesso Theresia, senza battere
ciglia, “La città va
conquistata – o non avrei bisogno dell’uomo che ha
preso Agave. Senza la città
le mie parole valgono quanto promesse scritte
sull’acqua.”
“Vuoi la mia mente per la conquista e i miei uomi per
l’azione. Vuoi che
moriamo per te” aveva sibillato Garlio, il suo tono era
neutro quasi, ma i suoi
occhi scuri erano fiammeggianti.
“Per me? Certo, perché io sarò
lì, con mio cugino, i miei uomini e chiunque
voglia unirsi. E se prenderemo la città, non sarà
solo per me, sarà per tutti.
Una nuova Città del Peccato, lontano dalle golose mani della
Ghaadia e dal
pugno-duro dell’Impero” aveva risposto
Theresia, fingendo una calma che non aveva, gli occhi brillanti
scintillavano
di desiderio, “Una città che vi accoglierebbe,
uomini che non dovrebbero vivere
accampate in pievi distrutte, con occhi cresciuti sulla nuca,
aspettando solo
di venire calpestati dai tacchi di sua magnificenza
Imperiale.”
Il Libero Pensatore aveva guardato la Monna.
Due mondi opposti a confronto.
Garlio aveva voltato il capo verso Adda, ma lei si era già
allontanata, con la
mente da quel luogo. Pensava alla Città del Peccato, pensava
alla strega gnuda
e scinta esposta in piazza e tutti quei bambini presi e rovinati
– con gli
occhi morti e piangenti.
‘Ci son volute così tante sorelle
perché non avessi incubi la notte su quel
giorno e non vomitassi al solo pensiero dell’odore del
sangue’ le aveva
confidato Saiji una volta.
Il suo ragazzino del Peccato … che aveva dato fiducia a
Theresia.
“Non sarebbe un brutto mondo, quello dove avrei un tetto
sulla testa, per
quanto luna e stelle siano suggestive” aveva rotto il
silenzio Delisio, con un
sorriso storto.
Adda era lì, che continuava ad essere spaccata in due tra
sua sorella che le
diceva di guardare la strega e Saiji che le raccontava del sangue
offerto ai
fiori quel giorno lì.
“Potreste rifletterci meglio, mentre dividiamo il desco.
Spero che chiarite le
mie ragioni, mio Libero Pensatore voi vogliate spezzare il digiuno con
me”
aveva dichiarato Theresia con tono di ferro. “Non potrei mai
rifiutare una
gentile offerta. Paio una bestia, ma uomini buoni mi hanno educato,
chiedo solo
che il desco venga portato anche ai miei compagni, che si nutrono poco
e
meritano molto” aveva risposto Garlio, togliendo lo sguardo
da lei per
rispondere alla Monna, il suo tono era di miele puro.
“Ho ovviamente molte altre domande da porle, mia signora. Su
cosa è accaduto
precisamente a Peripsia dopo la morte di tale Don Lorenzin, chi governa
ora,
come è la città. Quante forze siano
necessarie” aveva ammesso, “Perché se la
mia memoria mi assiste: Perlipsia è nota come La
Città Inviolabile.”
“Sfortunatamente non ricordale male a
fatto” aveva ammesso Theresia.
“Oh penso di essermi appena innamorata” aveva
squittito Siveria in ferriano,
con gli occhi cattivi intrecciati a Garlio.
L'Incontro tra Adda del Bocciolo e Theresia Arga di Peripsia (non un granchè, ma ...)