Cap. 5: Worlds apart
Can't
you see can't you feelI'm right by your side
I'm alive I am real
I don't want you to hide
So close but far away
I can travel night and day
I can search for a lifetime
Without finding you
Worlds apart
No matter how close we are
No matter how hard we try
We are worlds apart!
(“Worlds
apart” – Allen/Olzon)
Mellish era rimasto
piuttosto sconvolto da come Saltzmann avesse interpretato il suo regalo, che
nelle sue intenzioni era un gesto gentile e amichevole ma che, evidentemente,
il tedesco aveva preso come un pegno d’amore
o altre bestialità simili. E il peggio era che il giovane americano si era
lasciato baciare e accarezzare e non sapeva neanche lui fino a dove avrebbe
concesso all’uomo di spingersi se non avesse avuto paura che qualcuno entrasse
nella tenda. Non era molto ansioso di scoprire quel suo lato oscuro e quindi, il giorno dopo, ritenne fosse preferibile
chiarire direttamente con Saltzmann.
Per tutta la mattina il
tedesco era stato impegnato con Upham nello studio dell’inglese (e, sperava
Mellish, di quello che gli sarebbe servito davvero in America piuttosto che di
cose ridicole come ti amo o simili!),
perciò il ragazzo ebbe occasione di parlare con lui in privato solo nel
pomeriggio, ancora una volta nella loro tenda e seduti sul letto di Mellish
perché quel giorno fuori pioveva.
“Senti, io non so cosa tu
abbia pensato del mio regalo, ma per me è stato un gesto di amicizia, una cosa
che avrei fatto per un caro amico, tu hai un po’… beh, esagerato, mi pare”
disse, imbarazzato.
Saltzmann rimase male. In
effetti, dopo quello che era accaduto la sera prima, credeva veramente di aver
costruito con il giovane americano un rapporto serio che sarebbe continuato in
America e restò piuttosto deluso.
“Perché tu dire questo? Noi
adesso insieme, noi poter essere felici come compagni in America” ribatté.
“Ma insomma, tu la fai tanto
facile, vero? Non ti rendi proprio conto della realtà delle cose?” sbottò
allora Mellish. “Non c’è niente di facile o di scontato in una cosa del genere.
Secondo te come la prenderebbe la mia famiglia, eh? Dovrei andare da loro e
dirgli Cari mamma e papà, d’ora in poi
vivrò con quest’uomo che ho conosciuto in Francia, lo so che è tedesco ma mi ha
salvato la vita e ora staremo sempre insieme? Sul serio? Probabilmente mio
padre mi butterebbe fuori di casa anche se gli dicessi che ho trovato un compagno di vita tra i miei amici dell’esercito,
ma ti immagini cosa mi farebbe sapendo oltre tutto che sei del Paese che sta facendo
tanto male alle persone come noi?”
Lo sguardo di Saltzmann si
rabbuiò e, per la prima volta, si fece più freddo.
“Questo è dire che tutti
tedeschi per te e per tua famiglia sono assassini e mostri? Tutti tedeschi
uccidere ebrei? Questo pensare tu e tua famiglia?” domandò, lapidario.
“Io non ho detto questo e tu
non mettermi in bocca quello che non penso e che non dico!” protestò il
ragazzo. “Voglio solo farti capire che i miei genitori sono molto chiusi e all’antica
e che di certo non si mostreranno più disponibili con un uomo che proviene dal
Paese che caccia e perseguita gli ebrei. Ma scusa, prova un po’ a metterti nei
miei panni. Che succederebbe a parti invertite, se tu ti presentassi alla tua famiglia dicendo che vuoi stare con
un ragazzo ebreo?”
“Mio Paese non libero come
America, per questo adesso guerra” tagliò corto il tedesco, che sembrava
davvero arrabbiato, anche se Mellish non capiva bene perché.
“Va bene, ma poniamo che a
casa tua tu possa essere libero. La tua famiglia sarebbe contenta di trovarsi
un ebreo per casa?” insisté il giovane.
“Mia famiglia morta sotto
bombe di inglesi!” replicò bruscamente Saltzmann. “Ma prima di arrivo Hitler,
vicini di casa nostra erano ebrei e noi amici. Dora e Hilda andare a scuola con
amici ebrei e loro piangere quando ebrei cacciati da scuola e da casa. Mia
madre provato aiutare loro, ma poi SS portare via in ghetto e non vedere più
loro, non sapere… E tu pensi che mia famiglia meritato morire sotto bombe come
tutti tedeschi assassini e mostri?”
“Ma neanche per sogno, non
lo penso assolutamente, come puoi dirmi una cosa del genere?” esclamò Mellish,
allibito.
“Tu detto adesso” fece
laconico il tedesco. Aveva un’espressione insieme amareggiata e insoddisfatta.
Dallo zaino che teneva accanto alla sua branda prese la scatoletta di latta che
Mellish gli aveva regalato la sera prima, l’aprì e la svuotò da ciò che ci
aveva messo, quindi la tirò sul letto del giovane americano con un certo
disprezzo. “Non volere regalo da chi pensa così di mia famiglia.”
Il giovane americano era
sempre più incredulo e sconvolto: come poteva aver provocato una reazione tanto
gelida semplicemente spiegando la sua situazione personale? Guardò
alternativamente il tedesco e la scatola sul letto come se non credesse a ciò
che vedeva.
“Forse meglio se io non
salvavo te” mormorò Saltzmann, mentre si allontanava e poi usciva dalla tenda,
scuotendo lentamente il capo.
Questa frase era
probabilmente sfuggita al tedesco per il dolore e la frustrazione che lui
stesso provava, ma fu quella che devastò maggiormente Mellish: Saltzmann era l’unico
che sapesse cosa aveva significato per lui l’aggressione del soldato delle Waffen-
SS che stava per trafiggergli il cuore con la baionetta, aveva visto il suo
terrore, la sua angoscia, conosceva i suoi incubi… e ora diceva che avrebbe
preferito lasciarlo morire in quel modo? Avrebbe voluto che quel soldato gli
facesse tanto male e gli desse una morte atroce e spaventosa? Per un attimo fu
come se il ragazzo sentisse ancora il dolore lancinante della punta della
baionetta nel petto, il corpo del soldato che lo bloccava, le sue parole pacate
che lo invitavano a non lottare per soffrire meno… * Un incubo a occhi aperti del quale non si sarebbe mai liberato,
mai. Tremava e sentiva dolore dappertutto. Si rannicchiò sul letto, stringendo
a sé la scatola di latta. Dimenticò tutto, la cena al refettorio con i
compagni, la serata di chiacchiere e sigarette, e rimase lì a piangere
silenziosamente, rivivendo quei momenti terribili come se lo avessero
imprigionato in un’eterna spirale d’inferno. Alla fine, dopo molto tempo,
sfinito e distrutto, cadde in un sonno tormentato da incubi che non lo aiutò
affatto a sentirsi meglio.
La mattina dopo il povero
Mellish era una specie di zombie, ma
si rese conto che doveva iniziare a fare qualcosa di concreto e reagire se non
voleva davvero impazzire, chiuso nella prigione dei suoi ricordi e della sua
paura. Decise di cominciare dalla scatola di latta. Lui l’aveva presa per
Saltzmann pensando di fare un gesto gentile per un amico ed era stato ripagato
così: molto bene, avrebbe donato quella scatola a un altro amico, o meglio,
alla sua famiglia. Aveva con sé un paio di foto che lui e Caparzo si erano
scattati con altri compagni durante l’addestramento, inoltre aveva conservato
lettere, foto e ricordi che Caparzo teneva con sé, li aveva recuperati dal suo
zaino e dalla sua giacca dopo la sua morte. Sicuramente ai genitori dell’amico
avrebbe fatto piacere averli. Mise tutto nella scatola di latta, poi prese
anche lui un foglio di carta e una penna e scrisse una breve lettera
indirizzata ai genitori di Caparzo:
Cari signore e signora Caparzo,
so che ormai da tempo avete ricevuto il
terribile telegramma che vi annunciava la morte di vostro figlio Adrian, ma ho
voluto scrivervi anch’io due righe per farvi sapere che lui era veramente un
ragazzo buono, coraggioso e generoso. Io ho avuto il privilegio di conoscerlo
ed essere suo amico per tutto il tempo dell’addestramento e nella prima parte
della nostra missione e posso assicurarvi che Adrian era amato da tutti e
stimato dal nostro capitano. Sul telegramma c’era scritto sicuramente che
vostro figlio è morto da eroe, ma quella è una frase fatta che scrivono per
tutti. Io però c’ero e vi confermo che Adrian è morto davvero da eroe: non è
stato colpito per sbaglio o in un’azione inutile, è morto perché cercava di
salvare una bambina e non si è accorto che un cecchino lo teneva sotto tiro. È morto
perché aveva un cuore grande e generoso, non indurito dalla guerra, e io avrei
voluto avere il suo coraggio ed essere accanto a lui in quel momento perché
magari così lo avrei salvato, oppure sarei morto con lui.
Adrian era una persona speciale e, come
voi, nessuno di noi potrà mai dimenticarlo.
So che questo non potrà guarire il
dolore che provate, ma spero che almeno riuscirete a sentirlo più vicino. Vi
porgo le mie più sincere condoglianze, per sempre vostro
Stanley Mellish
Dopo aver scritto la lettera
e averla legata alla scatola con due giri di spago, Mellish iniziò a sentirsi
meglio, almeno interiormente. La sera prima non aveva mangiato, ma aveva la
nausea e non aveva voglia di fare colazione, così decise di andare a cercare
subito il capitano Miller per consegnargli il tutto e chiedergli se poteva
fargli il favore di impacchettarlo e spedirlo alla famiglia di Caparzo.
Quando se lo trovò davanti,
Miller lo guardò bene in faccia.
“Certo, posso fare in modo
che venga fatto un pacchetto e inviato al più presto alla famiglia di Caparzo,
mi fa piacere che tu me lo abbia ricordato e di sicuro avere le foto e i
ricordi sarà di conforto ai suoi genitori, è davvero un bel gesto, Mellish.
Anzi, dovresti passare da Wade, aveva copiato lui la lettera che Caparzo aveva
scritto e dovrebbe averla ancora, così mandiamo tutto insieme” disse l’uomo.
Ma, prima che il suo giovane soldato lo ringraziasse e lo salutasse, riprese: “Tu
stai bene, Mellish? Non eri a mensa ieri sera e i tuoi amici si sono
preoccupati.”
“Certo che sto bene,
signore, grazie, ero solo… stanco. Non dormo bene ultimamente ed è assurdo
perché adesso dovremmo essere più tranquilli, non è vero? E invece… ma passerà,
ne sono sicuro” rispose il ragazzo, cercando di apparire disinvolto.
Miller, però, aveva imparato
a conoscere bene i suoi ragazzi e Mellish non gli diceva la verità: il suo
volto pallidissimo e gli occhi arrossati, cerchiati di nero, raccontavano una
storia ben diversa, era ridotto addirittura peggio di quando si trovavano
ancora in missione!
“Hai ragione, capita anche a
me, forse proprio perché siamo tranquilli e abbiamo troppo tempo per pensare”
ribatté il capitano. “Comunque, quando passi da Wade, chiedigli di darti un’occhiata
professionale, così, tanto per stare sul sicuro.”
“Va bene, signore, la
ringrazio” disse Mellish.
Lasciò la scatola e la
lettera a Miller e si avviò verso il tendone da campo che fungeva da infermeria
dove Wade curava i soldati feriti.
“Ciao, Wade. Scusa se ti
disturbo, so che hai molto da fare con i feriti, ma volevo chiederti se potevi
darmi la lettera che hai copiato per la famiglia di Caparzo” gli disse,
cercando di mostrarsi spigliato come al solito. “Sai, ho messo tutte le sue
foto, le lettere e i ricordi in una scatola di latta e il capitano Miller farà
in modo di spedirla presto, così i suoi genitori avranno almeno questo di lui
oltre a quel telegramma freddo e uguale per tutti. Possiamo metterci insieme
anche la sua… la sua ultima lettera.”
“Sì, hai ragione, è una
bella idea” si frugò nella tasca interna della giacca, sotto il camice, dove
aveva sempre tenuto la copia con sé, forse anche lui per sentirsi più vicino al
compagno scomparso. “Eccola. Non sarà una grande consolazione per quella povera
famiglia ma è sempre meglio di niente. Piuttosto… tu stai bene, Mellish? Mi
sembri troppo pallido e hai degli aloni scuri sotto gli occhi.”
Il ragazzo non aveva mai
parlato davvero apertamente dei suoi incubi e del suo terrore, ma adesso
sentiva di potersi confidare con il caporale medico.
“No, non sto bene, Wade, non
sto bene per niente. Ho sempre incubi spaventosi, rivivo il momento in cui
stavo per essere ucciso e tu… tu non sai com’è, nessuno lo sa, non l’ho mai
detto a nessuno, ma non ce la faccio più, ho bisogno di dormire normalmente e
tu puoi darmi qualcosa? Che so, qualche pillola… sei il nostro dottore, in
fondo.”
Wade si morse il labbro
inferiore, a disagio.
“In effetti ci sono dei
sedativi che potrei prescriverti, Mellish, ma… insomma, sono barbiturici,
sedativi ipnotici piuttosto forti e anche pericolosi, possono darti dipendenza
e…”
“Non m’importa, Wade, io se
vado avanti così impazzisco. Mi farei sparare la morfina in vena se servisse.
Ho bisogno assoluto di dormire e di non pensare più a niente” replicò il
giovane, disperato.
“Non posso più rivivere quei
momenti, mi stanno distruggendo!”
Wade annuì. Vedeva tutti i
giorni soldati in quelle condizioni, poveri ragazzi sopravvissuti a esplosioni,
bombardamenti, attacchi di mitragliatrici, che avevano visto morire i loro
compagni e che di notte gridavano e piangevano.
“So cosa vuol dire avere
paura, lo vedo qui tutti i giorni e io stesso l’ho provato quando sono stato
ferito durante l’attacco al nido della mitragliatrice” disse poi, piano. “Ero
sicuro che sarei morto, ma sono stato fortunato perché c’eravate voi e mi avete
salvato, siete riusciti a fare tutto quello che vi ho detto per ricucirmi… Tu,
invece, eri da solo, vero?”
E per la prima volta Mellish
aprì il suo cuore e raccontò a Wade tutto quello che era accaduto in quella
stanza mezza sventrata dalle bombe, il suo corpo a corpo con il soldato delle
Waffen- SS, il momento in cui lo aveva bloccato e gli aveva puntato la
baionetta al petto, il dolore atroce, il terrore gelido… A lui poteva dirlo,
sì, poteva dire tutto, perché Wade lo aveva vissuto e ci conviveva ogni giorno
in mezzo ai suoi pazienti.
“Va bene, capisco, è stata
un’esperienza devastante anche più di quanto credessi” ammise il caporale
medico. “Per adesso posso prescriverti dei sedativi, i più leggeri che ho, ma
sono sempre fin troppo pesanti, ricordalo. Non abusarne mai, prendi una
pillola, una sola, la sera prima di andare a dormire, e, appena starai meglio,
cerca di farne a meno. E comunque, quando torneremo a casa, dovrai vedere
qualcuno che ti aiuti a superare lo shock che hai subito… come molti altri,
temo.”
“Lo farò, te lo prometto,
amico mio, ma se non mi aiuti adesso non ci arriverò neanche, a casa” rispose
Mellish, e Wade dovette convenire che il compagno era messo davvero male. Gli
diede la scatola dei sedativi, sperando con tutto il cuore di non aver commesso
un errore.
Poco più tardi Mellish era
di nuovo da Miller per consegnargli la lettera di Caparzo.
“La ringrazio ancora,
capitano, e… grazie anche per il consiglio di andare dal dottore” cercò di scherzare,
senza tuttavia ingannare il suo capitano.
All’ora di pranzo, Mellish
non aveva voglia di andare alla mensa e di trovarsi in mezzo al rumore e alle
chiacchiere, aveva tanto mal di testa e si sentiva stordito. Decise di
prendersi un panino e una bottiglietta d’acqua e tornare a mangiare nella sua
tenda, dove sapeva che sarebbe stato da solo. Dopo mangiato, guardò a lungo la
scatola dei sedativi che gli aveva dato Wade. Sì, lo sapeva, gli aveva promesso
di prendere una sola pillola al giorno, ma erano solo le tre del pomeriggio e
come avrebbe fatto una sola pillola a farlo dormire a sufficienza? Decise così,
solo per quella volta, di prenderne due, ingoiandole con l’ultimo sorso d’acqua,
poi si spogliò restando in maglietta e boxer e si mise sotto le lenzuola,
affondando il volto nel cuscino.
Si addormentò in pochi
minuti, vinto dalla stanchezza e dalle pillole, e questa volta fu un sonno
lunghissimo, senza sogni, ipnotico e quasi comatoso che però era proprio ciò
che il giovane americano desiderava. E sarebbe stato davvero tentato di restare
in quel modo per sempre…
Fine capitolo quinto
* Esiste una traduzione precisa delle frasi che il soldato SS dice a Mellish mentre lo uccide e non sono minacce o insulti come pensavo io, letteralmente dice: “Smettila, non hai possibilità. Facciamola finita. Così è più facile per te, molto più facile. Vedrai che sarà tutto finito in un attimo”. Non so perché, ma a me così sembra anche più agghiacciante!