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Autore: YakiTheNameless    18/04/2023    0 recensioni
Alice ha vissuto mille vite leggendo i suoi libri, ma l'unica che veramente sta vivendo è quella in una piccola cittadina nell'Indiana. Hawkins non ha castelli, foreste incantate o draghi che ne sorvolano i cieli.
Ma c'è un luogo, perso tra le aule della scuola, in cui intrepidi paladini e potenti maghi sconfiggono orrende creature: l'Hellfire Club. Come Alice, anche Eddie il master del gruppo ha vissuto mille vite insieme ai suoi compagni d'avventura. Ma l'unica reale è sempre quella a Hawkins.
Hawkins è solo Hawkins, niente più.
È quello di cui sono convinti entrambi ed è anche ciò su cui dovranno ricredersi.
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dustin Henderson, Eddie Munson, Nuovo personaggio, Will Byers
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Erick allungò la spada verso l’uomo che aveva davanti, un corpulento omone dalla barba dorata con in volto l’espressione di un orso imbronciato. Quest’ultimo prese l’arma e la rigirò tra le mani come non avesse peso: ispezionò la lama e l’impugnatura con cura quasi maniacale. Schioccò la lingua e dopo averla appoggiata sul tavolo, fece segno al ragazzo di riprendersela. Lui la ripose nel fodero, prese lo scudo appoggiato al muro poco distante e se lo portò sulla schiena.
L'ispezione degli armamenti non durò che una decina di minuti, dopodiché il suo gruppo poté finalmente avviarsi verso la familiare stanza adibita a mensa.
Una dozzina di ragazzi poco più che vent'anni si sedette ai tavoli già apparecchiati in modo spartano con una ciotola, un cucchiaio e un boccale di peltro. Come le tavole anche l'ambiente risultava povero: sui muri di mattoni nudi erano appesi due stendardi, uno con lo stemma della contea e uno con quello della città; una grossa alabarda decorava la cappa del camino ora spento e sopra lo stipite d'ingresso era posizionato un ramo di pino verde da cui si sprigionava un intenso profumo.
La piccola sala della gendarmeria, solitamente silenziosa, era ora animata dal vociare di giovani uomini intenti a fare colazione. Una scodella di latte e del pane era tutto ciò che gli ufficiali ritenevano sufficiente a nutrire i loro stomaci affamati prima dell’addestramento quotidiano.
Solo Erick sembrava non essere d’accordo mentre la sua bocca si piegava all'ingiù dall’insoddisfazione dopo aver finito. Quel misero pasto non l’avrebbe mai saziato e come ogni giorno di lì a poco le sue viscere avrebbero reclamato altro nutrimento.
«Che c'è? Non era buono?» chiese il ragazzo che gli sedeva a fianco.
«È passabile.» disse lui bevendo l'ultimo sorso di latte.
Erick diceva la verità e Quentin lo sapeva. Quel pane non era di certo fresco, anzi probabilmente il fornaio era stato magnanimo e aveva dato ai loro superiori i migliori avanzi dei giorni precedenti. E magnanimo era la parola corretta da usare: non faceva mai nulla per nulla e offriva la sua merce al miglior offerente; che di solito erano gli allevatori di maiali. Il latte era buono, ma mai sufficiente, non lo sarebbe stato per nessuno figuriamoci per dei ragazzi in pieno sviluppo.
«Erick, ti posso chiedere una cosa?» disse Quentin mescolando la poltiglia di pane che si era formata sul fondo della ciotola.
Il ragazzo alzò lo sguardo ambrato e annuì. Conosceva l'amico da qualche mese e sapeva che le sue domande non prevedevano mai risposte facili. A Quentin piaceva conversare e sapere più cose possibili anche se questo significava invadere gli spazi altrui.
«Perché vuoi entrare nelle guardie cittadine? Io, lo sai, lo faccio per mia madre e mia sorella. Ma tu...» disse alzando lentamente gli occhi «Avresti potuto entrare come assistente di tuo padre e poi prendere il suo posto.»
«È proprio per non finire come lui che ho fatto domanda qui. Sai che divertimento risolvere stupidi screzi tra gente che sa solo usare asce e rastrelli per regolare i conti?» disse Erick poggiando un gomito sul tavolo.
«I Pacificatori guadagnano bene in città come questa.»
«Un motivo in più per prendere la licenza e andarmene da questo posto.»
«Erick, davvero? Hai la strada spianata, le spalle coperte e-» Quentin si interruppe bruscamente.
Vide il volto dell'amico percorso da uno spasmo che fece vibrare il sopracciglio sinistro: segnale che la pazienza di Erick si stava esaurendo. Quentin sospirò e mangiò l'ultima cucchiaiata di pappetta in silenzio. Per quanto gli fosse amico, sentiva che ancora non aveva conquistato completamente la sua fiducia. Si chiese quando, anzi se, ci sarebbe mai riuscito.
«Cadetti!» urlò con voce possente un uomo palesatosi all'ingresso della sala «Oggi vi aspetta una giornata intensa. Forza, in piedi.»
Il brusio delle sedie spostate fu coperto solamente dal chiacchiericcio dei ragazzi che ordinatamente seguirono il loro superiore fuori dalla sala. Tutti equipaggiati, percorsero il lungo corridoio la cui fine si apriva sul cortile interno della gendarmeria. Alte mura di pietra calcarea delimitavano il perimetro del quadrato d’erba e terra. Un unico grande albero si stagliava nell’angolo a nord, offrendo con la sua chioma ombra a una finestra sbarrata che dava su un piccolo terrazzino.
«Credi sia ancora lì che aspetta?» sussurrò Quentin affiancandosi a Erick.
Il ragazzo scosse la testa «No, non credo.»
Quentin si irrigidì. La sua mano attorno all’elsa della spada era talmente stretta da lasciargli i segni del cuoio sul palmo e quando Erick gli mise una mano sulla spalla, trasalì.
«Calmati o non arriverai a fine giornata neppure tu.» disse il corvino.
«Così non sei d’aiuto Raven»
«Come hai detto scusa?» chiese Erick stringendo la spalla dell’amico.
«Erick. Non sei d’aiuto se fai così, Erick.»
Il giovane annuì e lasciò la presa tornando a guardare il superiore che si stava posizionando al centro del cortile. Il sergente Wert portò le braccia dietro la schiena passando in rassegna con lo sguardo la faccia di ogni cadetto che aveva davanti.
«Mattel e Hornraven… Vi vedo attivi quest’oggi.» disse l’uomo «Perchè non iniziate voi la sessione dimostrativa di questa mattina.»
Erick guardò l’amico con sguardo accusatorio mentre Quentin, dopo aver sentito il suo cognome, aveva tentato inutilmente di mascherare l’agitazione stando sull’attenti ma aveva finito per sembrare solo innaturalmente rigido, al pari di uno stoccafisso.
«Venite pure al centro.» li esortò il sergente «Sarà un combattimento a una mano. Liberi di scegliere voi quale.» concluse sposandosi vicino al gruppo di cadetti.
I due ragazzi presero posizione uno di fronte all'altro. Erick afferrò l’elsa della spada con la mano destra, Quentin con la sinistra.
Il corvino piegò la testa di lato e aggrottò le sopracciglia. Puntò gli occhi sull'amico che, come avesse carpito i suoi pensieri, alzò le spalle con indifferenza. Un gesto così eloquente che Erick si trovò spiazzato. Lo stava sicuramente prendendo in giro: Quentin non era mancino e nemmeno ambidestro. Erick era un osservatore, uno di quelli che studia l’avversario forse anche con troppa attenzione per non notare questo particolare, in più loro due si erano già affrontati parecchie volte durante gli addestramenti e in nessun combattimento, nemmeno una singola volta, il biondino aveva anche solo avvicinando la mano sinistra alla spada.
«Perchè…?» sussurrò Erick in modo che solo Quentin potesse sentirlo. Non vi fu risposta, solo una rapida occhiata alla finestra sbarrata per poi riportare l’attenzione sull’amico davanti a sé.
Erick si interrogò per qualche secondo. Era ovvio che il suo avversario volesse perdere l’incontro, ma il sergente Wert non era così ingenuo da non notare una sconfitta palesemente volontaria. Quentin aveva qualcosa in mente e la parte più preoccupante era che aveva partorito il suo piano in pochi minuti. Aveva proprio la mente di un stratega, pensò Erick.
«Cadetti, in posizione. Il primo che viene atterrato dall’avversario, pone fine all'incontro. Il primo che chiama la resa, pone fine all'incontro. Il primo che rimane indifeso, pone fine all’incontro.» spiegò Wert alzando poi una mano e abbassandola per decretare l’inizio dello scontro.
Erick fece mezzo passo indietro estraendo la spada. Alle orecchie gli arrivò il suono metallico di quella di Quentin che veniva sguainata e l’eco della brezza tra le fronde del vecchio albero del cortile. Il tepore di quel respiro arrivò al suo viso come una carezza, scompigliò qualche ciuffo della sua chioma corvina e si placò pochi istanti dopo. Fu strano. Sembrò come se qualcosa avesse soffiato sulla città come fosse la fiamma d'una candela e tutto ciò che era rimasto era solo un inquietante silenzio.
Il sergente batté le mani per richiamare l’attenzione e subito i due giovani si sporsero in avanti facendo partire un fendente ciascuno. Quentin si abbassò prontamente usando la lama per spazzare a terra arrivando alle caviglie di Erick. Usare l’arma con la mano sinistra lo rallentava più di quanto potesse aspettarsi, ma era astuto e incredibilmente imprevedibile. Per questo Erick non poteva permettersi di sottovalutare l’amico, tant’è vero che evitò il colpo di pochi centimetri saltando sul posto.
«Mi spieghi che intenzioni hai?» chiese Erick puntando la punta dell'arma verso l’amico.
«Non voglio andare di ronda.» rispose lui muovendo la mano cosicché la spada ruotasse sopra la sua testa.
«Ronda? Quentin ma che diavolo di-» Erick sgranò gli occhi dopo aver realizzato «E andare alle prigioni ti sembra un’idea migliore?»
«Erick,» disse il biondo colpendo con l’elsa il fianco del ragazzo non perché volesse veramente farlo barcollare ma per avere la scusa per potersi avvicinare «magari è ancora lì. Ieri l’hai vista anche tu, no?»
«Probabilmente sarà stata giustiziata, sarà già morta.» gli rispose Erick a denti stretti.
Quentin si fermò bruscamente con la spada a mezz’aria. La faccia era una maschera di terrore e incredulità, mentre scuoteva la testa come cercasse di scacciare quelle parole dalle orecchie. Gli occhi color nocciola si abbassarono a guardare il terreno, tristi e sconsolati. Abbassò il braccio sinistro lungo il corpo e alzò la mano destra voltandosi verso il sergente Wert. Quest’ultimo annuì per nulla stupefatto dall’atteggiamento del giovane, probabilmente se l’aspettava da quando l'aveva chiamato una decina di minuti prima. La resa del cadetto Mattel venne ufficializzata quando sua la spada fu riposta e lui si allontanò dal cortile con la scusa di un improvviso dolore allo stomaco.
Erick rimase solo, impassibile in mezzo al cortile in cui si iniziavano a sentire i primi commenti di qualche compagno curioso. Ma lui non capiva: perché a quel logorroico biondino importava di una straniera vista un’unica volta da una finestra della prigione adiacente. Sì, anche lui la ricordava, o meglio ricordava lo sguardo che aveva rivolto loro. Illeggibile e impenetrabile ma in cui, per un secondo, era sicuro di aver percepito qualcosa che assomigliava allo smarrimento e alla rassegnazione. In quelle iridi silvestri si nascondeva qualcosa, e forse Quentin non voleva abbandonarsi all’idea di non sapere cosa. O forse stava solo cavalcando l’onda dell’empatia preoccupandosi un po’ troppo per la sorte di un detenuto.
E a lui, Erick Hornraven, la questione doveva importare? Come doveva sentirsi? Forse triste per la morte di una persona di cui non sapeva nulla o in colpa per aver scosso l’amico tanto da mandarlo in panico. No, quella situazione non aveva motivo di creare in lui questi futili dubbi, tutto quello era solamente come la colazione del mattino: passabile.
«Hornraven.» la voce del sergente si intromise irruenta nei suoi pensieri «Curioso di sapere cosa hai vinto?» chiese l’uomo avvicinandosi
«Se vuole chiamarla vittoria, signore.» rispose lui atono.
Al sergente sfuggì un piccolo sorriso divertito «Beh figliolo, puoi sempre rifiutarti e andare con Mattel a pulire le latrine delle celle.»
Erick storse il naso all’idea dell’olezzo di urina e ratto che avrebbe dovuto respirare.
«Sarai di ronda questa notte insieme a Lodel.» disse il sergente allargando il petto. Erick annuì.
Al corvino la notte piaceva più del giorno. Il massiccio edificio di mattoni che era la gendarmeria diventava estremamente silenzioso, tanto che se si tendevano le orecchie e si respirava piano si poteva sentire lo crepitio del fuoco della cucina che lentamente consumava la legna trasformandola in cenere. Anche in città l’atmosfera era simile.
Appoggiato a una delle colonne della porta principale, Erick osservava i dintorni fuori dalle mura immersi in quella quiete surreale. Ogni tanto si voltava verso la via principale, spostando lo sguardo fino al tempio in fondo, alla ricerca di qualcosa che potesse essere degno di nota. Nulla che potesse minare la sicurezza degli abitanti. 
Il tempo passava lento, le lune nel cielo si spostavano placide giocando a nascondino con le poche nuvole che erano comparse. La serata proseguiva tranquilla, l’attenzione di Erick fu catturata solo da un paio di movimenti. Il giovane cadetto seguì con lo sguardo due individui entrare in città, fermarsi davanti dall'orefice e poi proseguire ed entrare nella taverna. Poco più tardi un’ombra fece capolino da una laterale parallela al tempio e sparì poco più in là fuori dalla portata della sua vista.
Lodel, il compagno di guardia, sembrava più addormentato che sveglio se non fosse stato per il cambio che faceva ogni mezz'ora nell'appoggio del piede lo si sarebbe potuto scambiare per una statua. Erick invece non accusava la stanchezza della giornata e la flebile melodia che sentiva provenire da chissà dove allietava la altrimenti noiosa ronda. Prese una boccata di aria fresca ed espirò chiudendo gli occhi, quando gli riaprì Lodel aveva appoggiato la testa in una nicchia formata dai mattoni del muro di cinta e probabilmente di lì a poco si sarebbe sentito solo il suo russare.
Erick incrociò le braccia al petto e diede un’ultima occhiata ai dintorni fuori dalla città verso il bosco e poi di nuovo verso la cittadina. Scorse solamente una sagoma rossa passeggiare vicino alla fontana, dopodiché la città si assopì avvolta dalla serenità soporifera della notte fino al mattino successivo quando l’odore dolce delle mele al forno di Lucrezia le diede il buongiorno.
   
 
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