“La morte può
essere l'espiazione delle colpe,
ma non può mai
ripararle.”
(Napoleone
Bonaparte)
CAPITOLO
1
UN
NUOVO MONDO
«L’Imperatore
è morto!».
Questa era la frase che rimbombava in
ogni angolo di quella squallida stamberga che era diventata la mia prigione,
assieme a quella maledetta isola.
Potevo quasi vederli i servitori, i
pochi militari rimastimi vicini, i miei carcerieri e tutti gli altri, raccolti
intorno al letto ad assistere ai miei ultimi istanti di vita.
Sicuramente tra di loro c’era qualcuno
che non vedeva l’ora di vedermi tirare le cuoia, e anche se mi ero abituato
nella mia vita a deludere le aspettative dei miei nemici stavolta tutti
sapevano che non ci sarebbe stato nessun colpo di scena.
E lo sapevo anche io.
Eravamo al gran finale.
Avrei voluto godermi la scena, ma in
verità come ho già detto potevo solo immaginarmela.
Perché se il mio corpo era ancora lì, in
quella minuscola stanza, la mia coscienza era già altrove.
Immerso in un mare di luce, mi ritrovavo
a fissare l’enigmatica e decisamente inquietante figura che mi stava di fronte,
e che si presentava a me nella forma di un individuo completamente nascosto
all’interno di un mantello nero, con tricorno e maschera bianca a celarne le
fattezze.
Se ne stava lì, immobile, guardandomi attraverso
quei due buchi neri a forma di occhi come se cercasse di scrutarmi dentro.
Decisi di rompere il silenzio.
«E dunque? Sono morto?»
«Più o meno.»
«Non sapevo che la Morte avesse il senso
dell’umorismo.»
«Credi che io sia la Morte?»
«Di sicuro vuoi farti passare come tale,
con quel mantello e la maschera.»
«Sembri piuttosto calmo per qualcuno che
ritiene di trovarsi faccia a faccia con la Morte.»
«È già da molto che il tristo mietitore
mi cammina accanto. Sono scampato ad una fine prematura più volte di quante io
possa ricordarmene. Peccato solo che altri abbiano avuto minor fortuna.»
Non posso dirlo con certezza, ma sono
quasi sicuro che la mia ultima affermazione suscitò un sorrisetto divertito nel
mio interlocutore.
«Allora anche il grande Imperatore
Bonaparte aveva qualcuno che gli era caro.»
«Un uomo che non abbia degli affetti è
un uomo arido come il deserto. E un uomo arido non lascerà mai nulla dietro di
sé degno di essere ricordato.»
«E l’uomo che vive senza gloria muore
ogni giorno, dico bene?»
Era davvero il colmo: la Morte che mi
faceva il verso.
«Dunque dimmi, Imperatore. Sei fiero di
come hai vissuto? Di ciò che hai lasciato?»
Stavolta fui io a sorridere, e non certo
di gusto.
«Considerato che i miei nemici non hanno
nemmeno aspettato la mia dipartita per distruggere tutto ciò che ho costruito
dovrei sentirmi deluso e arrabbiato. Ma non è così. Al contrario, provo pena
per loro.»
«Per quale motivo?»
«Perché per quanto si illudano del
contrario, le lancette del tempo non si muovono mai all’indietro. Presto o
tardi saranno travolti dall’onda delle coscienze che io ho risvegliato, e che
loro pensano di poter ridurre nuovamente in catene. Mi spiace solo che non sarò
lì a godermi la scena quando il castello di carte che hanno costruito gli franerà
addosso. Ho preso un continente che aveva smarrito la via, ho portato ordine
dove regnava il caos, e sparso i semi del cambiamento in ogni angolo del globo.
E anche se a giudicarmi da fuori non si direbbe, ho dedicato tutti i miei
sforzi ad un solo fine. La pace. Perché non vi è gloria più grande per un uomo
che aspiri alla grandezza del portare la pace.»
«Portare la pace? Con la guerra?»
«La pace non cala dall’alto, né risulta
indolore. Perché un nuovo mondo possa prevalere, è necessario che quello vecchio
venga spazzato via. E se persino il buon Dio è dovuto ricorrere al diluvio per
eliminare gli empi e salvare i giusti, non vedo come sia possibile per un
semplice uomo agire diversamente. Chiunque non riconosca e non accetti questo
semplice assunto è uno stolto o un bugiardo.»
«Quindi nessun rimpianto? Nessun aspetto
della tua vita che non cambieresti, o in cui ritieni di aver sbagliato?»
In effetti c’era una cosa.
«Forse avrei dovuto essere più avveduto
riguardo alle persone cui ho concesso la mia fiducia. Anche coloro di cui ero
convinto di potermi fidare, nel momento della difficoltà non ci hanno pensato
due volte a rinnegare me e ciò in cui sostenevano di credere pur di salvarsi la
vita o la carriera.»
«Tutto qui? Non c’è altro?»
«Dovrebbe?»
La Morte parve fare un cenno sotto il
mantello, di colpo mi ritrovai ad osservare tutto attorno a noi cose di cui mi
sarei volentieri dimenticato.
Le statue, i dipinti. Perfino quella
pantomima chiamata incoronazione, al cui solo pensiero mi ritrovavo ancora a
volermi sotterrare per l’imbarazzo.
«E questi come li chiameresti?»
«Apparenze.» risposi senza esitazioni.
«Fondamentali quando si governa. Il popolo non segue chi non dimostra di avere
la giusta dose di ambizione. Io ho dimostrato che potevo fare qualunque cosa, è
questo che dovrebbe fare chiunque aspiri ad essere un leader. E se il problema
sono i colpi di stato, il dispotismo, o l’accentramento del potere, ti
risponderei che le circostanze non mi concedevano il lusso di poter agire con i
guanti di velluto.»
Mentre parlavo, però, un dubbio mi si
stava insinuando nella mente, e forse era proprio questo ciò che la Morte
sperava di ottenere.
«A ben pensarci, se mi fossi circondato
di persone lungimiranti e competenti invece che di ambiziosi caproni ed
esecutori scodinzolanti, forse avrei potuto gestire la cosa in maniera diversa.
Sfortunatamente quando me ne sono reso conto era tardi per tornare indietro.»
Decisi di fermarmi. Visto che ero morto,
non aveva senso rimuginare oltre su ciò che era stato.
«Se mi fai tutte queste domande,
suppongo che il tuo ruolo sia quello di giudicarmi. Ebbene, che si fa? Se vuoi
spedirmi all’inferno non tiriamola ulteriormente per le lunghe. So di aver
fatto molte cose discutibili, ma rivendico la bontà e la correttezza dei miei
propositi. Anche se dubito che voi dei abbiate molto in simpatia simili umane
sottigliezze semantiche.»
«In effetti, è proprio all’inferno che
stavo pensando per te. Ma non il genere di inferno che potresti aspettarti.»
«Prego?»
«Contrariamente a ciò che gli abitanti
del tuo mondo credono, non esistono cose come il paradiso e l’inferno. Quando
una persona muore perde tutti i ricordi della sua vita passata, ma il suo
spirito si reincarna immediatamente da qualche altra parte. La maggior parte
rinasce nel proprio mondo d’origine, alcuni invece trascendono il tempo e lo
spazio per tornare in vita in altri mondi.»
«Presumo che la tua presenza qui
implichi che il mio caso rientri nella seconda opzione.»
«Come ho detto all’inizio, dipende da
te. In verità, ho una proposta da farti.»
«Sentiamo.»
«C’è un mondo là fuori, simile al tuo e
al tempo stesso diverso. A prima vista potrebbe sembrare pacifico e prospero,
ma in realtà si trova sull’orlo del baratro.»
«Che intendi dire?»
«Questo mondo è composto da due
continenti, Erthea e Treibam. La distanza che li separa è troppo grande perché
abbiano mai potuto sapere l’uno dell’esistenza dell’altro, ma ora le cose sono
cambiate. Cento anni fa il Re dei Demoni è apparso su Treibam, che ora sta per essere
completamente sottomesso dal suo esercito. E quando questo accadrà, Erthea
diventerà inevitabilmente il suo prossimo bersaglio. Teoricamente le nazioni di
Erthea sarebbero abbastanza potenti da riuscire a difendersi dall’invasione, se
unissero le forze combattendo tutte insieme. Il problema è che al momento
Erthea è un continente tutt’altro che unito. Al contrario, è funestato da
innumerevoli problemi.»
«Di che problemi stiamo parlando
esattamente?»
«Niente che tu già non conosca. Schiavi
maltrattati, poveri sfruttati, nobili ambiziosi. Anche se le sue nazioni hanno
smesso di farsi la guerra, l’equilibrio che lo ha tenuto in vita per molti
secoli è sul punto di spezzarsi.»
«È chiaro dunque. Se le truppe del Re
dei Demoni arrivassero con Erthea così divisa, non avranno problemi a
sottometterla.»
«Il che ci porta al fulcro della
questione. Se ti facessi rinascere ad Erthea saresti in grado di impedire il
destino che l’attende?»
La situazione era così assurda che se
non fossi stato sicuro di essere già morto avrei pensato di stare facendo il
più bizzarro dei sogni.
Ma poi, che razza di richiesta era?
Rinascere ad altra vita solo per rivivere quella che avevo appena concluso, e
che non era certamente finita nel migliore dei modi?
E allora come mai il pensiero mi faceva
tintinnare le corde del cuore?
«Che questa storia della reincarnazione
sia vera o meno, ora posso affermare con esattezza che tu non sei un angelo, un
demone, e di sicuro neanche la Morte.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«La Morte è assoluta e imparziale. È
l’immagine stessa dell’inevitabilità del destino. Non si scomoderebbe mai a
cercare di invertire le sorti dei viventi.»
«Tu credi nel destino?»
«Io credo che il destino è una tela
bianca che ogni uomo dipinge con le azioni che compie. Alcune diventano quadri
superbi, altri scarabocchi da bambini. Ma prima o poi il disegno termina, ed è
quel disegno a stabilire ciò che siamo stati e cosa lasceremo di noi.»
«Quand’è così, ti offro una nuova tela.
E se non basta, anche i colori con cui realizzarla.»
«Che intendi dire?»
«Se accetti la mia offerta, rinascerai a
nuova vita con tutti i tuoi ricordi. Se conosci già da ora quali conseguenze
potrebbero avere certe tue scelte, saprai come evitare di commettere di nuovo
gli stessi errori.»
«Supponiamo che io decida di accettare.
Che cosa ti aspetteresti che io faccia? Dovrei unificare a mia volta Erthea e
prepararla all’invasione? Formare un’alleanza tra le sue nazioni? E anche
ammesso che ci riesca, poi come mi dovrei comportare? Dovrei concentrarmi sulla
difesa? Oppure lanciare un attacco preventivo?»
«La cosa non mi riguarda. L’importante è
che Erthea venga pacificata e l’invasione scongiurata. Il modo in cui porterai
a termine quest’incarico è molto secondario.»
C’erano ancora un paio di cose che mi
premeva di chiedere, anche se dentro di me la mia decisione l’avevo già presa.
«Sembri oltremodo potente. Perché ti
serve uno come me? Io non sono che un uomo.»
«Per due motivi. Il primo è che
circostanze che non starò a spiegarti mi impediscono di agire in prima persona
nel mondo fisico. Posso solo indicare la strada ad altri.»
«E il secondo?»
La Morte parve sospirare, distogliendo
lo sguardo per la prima volta da che aveva avuto inizio la nostra
conversazione.
«Diciamo che alcuni dei problemi che
affliggono attualmente Erthea sono una diretta conseguenza delle mie azioni.
Sento di avere un debito nei confronti dei suoi abitanti più sfortunati, e
questo mi è sembrato l’unico modo possibile per ripagarlo. Allora? Qual è la
tua risposta?»
«Accetto.» dissi senza pensarci
ulteriormente.
«Molto bene.»
«Ma voglio essere chiaro fin d’ora.
Quando io mi assumo un obiettivo lo perseguo a prescindere da ogni altra cosa.
Non mi sono mai fermato davanti a niente per fare ciò che ritenevo giusto, e
voglio che tu sappia che non intendo farlo neanche stavolta. Non sarò
responsabile del sangue che sarà destinato inevitabilmente a scorrere.»
«Non ha importanza. Fino a che avrò la
convinzione che tu stia agendo nel miglior interesse di Erthea, non farò nulla
che possa ostacolare la tua missione.»
La luce attorno a noi aumentò la sua
forza, e partendo dai piedi vidi il mio corpo iniziare a farsi gradualmente
pulviscolo scintillante.
«E adesso?»
«In verità ero sicuro che avresti
accettato la mia offerta, così ho agito per tempo. La tua anima si è già
reincarnata in un nuovo corpo. Quando ti sveglierai sarai un bambino umano di
dieci anni. Ne avrai a disposizione altri dieci prima dell’arrivo delle truppe
del Re dei Demoni.»
«Dovrei riuscire ad ottenere in dieci
anni quello che non sono riuscito ad ottenere in trenta?»
«Non ho detto che sarebbe stato facile,
d’altronde non ti sei mai fatto spaventare dalle imprese impossibili. E poi
avrai ancora i tuoi ricordi. Confido che ne farai buon uso.»
«Ci rivedremo?»
«No, se farai bene il tuo lavoro.»
Ormai più di metà del mio corpo era
svanito, e potevo percepire la mia stessa coscienza che andava affievolendosi.
«A presto, Imperatore. Non mi deludere.»
«Daemon!
Svegliati!»
Quella voce tanto soave quanto imperiosa
mi catapultò con la forza di una cannonata nel mondo reale, spalancandomi gli
occhi sulla volta di paglia che mi stava sopra.
«Arrivo subito!»
Il tempo di saltare giù da quello
scomodo letto, gettarmi addosso due manate di acqua fredda, disfarmi del
camicione rattoppato in favore dell’uniforme, ed ero al piano di sotto.
Scalia e Zorech erano già seduti al
tavolo intenti a consumare la loro misera colazione a base di gallette, latte
annacquato e, solo per mio padre, del sidro caldo.
«Finalmente, era ora.» protestò mia
sorella agitando nervosamente la coda «Lo sai che ore sono?»
«Scusami Scalia. Dormivo profondamente e
così…»
«Basta con le scuse. Ormai hai più di
dieci anni. È ora che impari a mettere un po’ di giudizio. Non chiedo tanto, mi
basterebbe che ti svegliassi la mattina senza doverti chiamare tre o quattro
volte.»
«Dai Scalia, non essere così severa.»
disse Zorech grattandosi il corno alla base del mento che gli faceva da barba.
«Dopotutto ieri sera ha studiato fino a tardi.»
«Ti ci metti anche tu padre?»
Ebbene sì.
Era questa la mia nuova famiglia.
Un cinquecentenario dragone con le ali
tarpate, il muso allungato da lucertola e il corpo ricoperto di scaglie
grigio-azzurre e la sua figlia sanguemisto dalla pelle scura, tanto carina quanto
irascibile.
E io?
Io ero un umano, come aveva predetto
Faucheur - l’unico nome che mi fosse venuto in mente per il mio funereo
committente, essendosi rifiutato di rivelarmi la sua vera identità-
Il mio nome? Daemon.
Erano già trascorsi due mesi dal mio
risveglio in quel mondo; o meglio, dal risveglio dei ricordi della mia vita
passata. Perché da quanto avevo avuto modo di capire io vivevo con quei mostri
fin dal giorno della mia nascita.
E quando parlo di mostri non intendo in
senso dispregiativo. Era così che tutti li chiamavano: mostri.
Mi ci era voluto un po’ per riuscire ad
assimilare le memorie che il mio nuovo corpo aveva collezionato fino a quel
momento; in questo modo ero riuscito a metabolizzare velocemente la lingua, la
cultura e l’alfabeto di quel mondo, al punto che ormai leggere, parlare e
comprendere l’idioma locale mi veniva naturale.
«Ora però sbrigati a fare colazione
Daemon. È tardi, e devi andare a scuola.»
«Sì, padre.»
Ingurgitate un paio di mele e un
bicchiere di latte raccolsi la cartella appoggiata su una panca, e augurata la
buona giornata uscii all’esterno.
Malgrado la pioggia avesse lavato via il
proverbiale puzzo e rischiarato il cielo, il ghetto di Ende restava la solita
cloaca a cielo aperto di sempre.
Quattro mura di legno su di un
terrapieno rialzato delimitavano come un recinto quel piccolo e sovraffollato
agglomerato di baracche improvvisate, suddivise in quattro isolati delimitati
da un cardo e un decumano che unendosi al centro formavano una croce quasi
perfetta.
La proverbiale attenzione ai dettagli e
all’ordine geometrico dell’Impero si vedeva persino nel modo in cui trattava i
suoi schiavi.
Perché questo erano i mostri: schiavi.
Tutte quelle creature dai tratti
distorti o animaleschi che fossero dotati di un minimo di raziocinio erano
chiamati mostri; e tutti, con pochissime esclusioni, erano la forza lavoro sul
cui sangue, sudore e ossa l’Impero di Saedonia aveva costruito la propria
grandezza.
La domanda, più che legittima, veniva da
sé: perché dei mostri avrebbero dovuto, a prezzo di grandi rischi e ancor più
grandi sacrifici, prendersi cura di un orfano appartenente alla stessa specie
che li trattava come animali?
La risposta era tanto semplice quanto
scontata: empatia.
Tanto per cominciare, un neonato per sua
stessa natura è innocente per i crimini compiuti dai propri simili. Inoltre
così vicini alla frontiera, in una terra tanto ricca quanto inospitale e
pericolosa, i più saggi del gruppo avevano convenuto che tenermi con loro era a
conti fatti l’unica soluzione per evitarmi una morte prematura che avrebbe
pesato sulle loro coscienze.
O almeno, questo era ciò che ritenevo
potesse essere stato il loro pensiero, perché frugando nei ricordi della mia
infanzia non riuscivo a trovare una sola volta in cui, a precisa domanda, fosse
seguita un altrettanto precisa risposta.
Ovviamente non mi avevano fatto firmare
una cambiale in bianco. In base ad un qualche accordo stabilito nell’istante in
cui avevano accettato di tenermi con loro sarei potuto restare nel ghetto solo
fino al compimento dei sedici anni, passati i quali avrei dovuto andarmene per
non fare più ritorno.
Era anche per quello che ora si stavano
dannando tanto per mandarmi a scuola, al punto da avermi creato una finta
identità per permettermi di frequentare il villaggio e farmi degli amici:
dovevo acquisire le competenze e conoscenze necessarie a crearmi una vita e un
avvenire fuori da Ende.
Mentre mi avviavo con circospezione alla
baracca dietro la nostra casa potevo scorgere in lontananza i mostri già
allineati di fronte all’ingresso in silenziosa attesa dei sorveglianti che li
avrebbero condotti ai campi di lavoro.
Non c’erano ceppi, né corde, né altre
costrizioni di sorta. Ogni schiavo portava dentro di sé la propria catena,
nella forma di una piccola pietra magica che veniva inserita alla base del
collo, e tramite la quale era possibile per qualunque guardia infliggere ogni
sorta di dolore con il semplice movimento di un dito.
Perché sì, in quel mondo esisteva anche
la magia. E non parlo di quelle cose da ciarlatani e venditori di fumo del mio
vecchio mondo, ma di vera magia.
Ancora non capivo bene come funzionasse
o cosa fosse esattamente, ed era anche per questo che amavo frequentare la
scuola; qualsiasi informazione avessi incamerato su quel mondo e sulle sue regole
mi sarebbe stata molto utile per capire come assolvere all’incarico che mi era
stato assegnato.
Ma i minuti passavano, e io ero già in
tremendo ritardo.
Il tunnel che partendo dall’interno
della baracca arrivava fino ad una piccola baita poco distante nel cuore della
foresta esisteva già da diversi anni, e serviva principalmente per rifornire
segretamente gli schiavi di derrate alimentari in aggiunta a quelle fornite
dalle guardie.
Nella baita in questione viveva un
satiro, Drufo, che per quanto ne sapevano all’esterno era solo lo schiavo di un
tale signor Jacob Haselworth, che per inciso ufficialmente era anche mio zio e
tutore legale.
Ovviamente si trattava di una creatura
fatta d’aria, più finta di una moneta da tre goldie, comparsa evanescente di
una recita che solo in un posto così mal gestito e lontano dalla capitale
poteva sopravvivere alla rigida burocrazia imperiale.
«Finalmente, si può sapere dove ti eri
cacciato?» bofonchiò quel brontolone aprendomi la botola che stava sotto la sua
branda
«Scusa Drufo, ho dormito troppo.»
«E allora sbrigati a levarti di torno.
Sono stato a caccia tutta la notte, e ora a dormire voglio andarci io.»
Senza perdermi in ulteriori discussioni
uscii di casa e mi misi a correre lungo la strada sterrata, raggiungendo in
pochi minuti il sentiero che scendendo a valle mi condusse fino alle porte di
Dundee.
Per essere solo una piccola cittadina
Dundee era dotata di un sistema difensivo di tutto rispetto, con mura turrite,
doppie porte, e una fortezza della legione sul colle appena più a sud.
Tutti retaggi dei cento e più anni di
tensioni con la vicina Unione, e il fatto stesso che ormai le torri fossero
deserte, la fortezza pressoché abbandonata, e a sorvegliare le porte ci fossero
solo un paio di guardie cittadine annoiate testimoniava che quei tempi
sopravvivevano ormai solo nella memoria dei più anziani.
«Buongiorno Daemon.» mi disse una bella
bimba con occhiali e una lunga treccia appena entrai in classe
«Buongiorno Mary.»
«Dormito troppo? Mi stavo quasi
abituando alla tua nuova puntualità.»
«Mi dispiace. Ho studiato fino a
mezzanotte, e stamattina lo zio ha dovuto strillare parecchio per riuscire a
farmi svegliare.»
«Tu che studi fino a tardi?» disse la
rossa Giselle dal banco accanto al mio. «Non ci crederei neanche se lo
vedessi.»
«Credici invece.» gli fece eco Septimus
dal fondo dell’aula. «Ormai Daemon è diventato un bravo scolaretto modello.
Pensa che non viene nemmeno più a tirare palle di fango su quei porci di
miliziani.»
«Finitela, e prendete esempio da lui.»
li ammonì Mary. «Daemon, che ne dici se oggi andiamo insieme in biblioteca?»
«Volentieri.»
«Che storia è questa? Mi avevi promesso
che oggi ci saremmo allenati insieme!»
«Scusa Septimus, ma ho ancora parecchie
materie da recuperare.»
«Puoi sempre allenarti con me.» gli
sibilò Giselle con occhi da lince
«Fossi matto! L’ultima volta mi hai
quasi slogato una spalla! Ma come fai ad essere così forte?»
«Sono pur sempre la figlia di un
locandiere.»
In realtà il motivo era un altro, ma non
stava a me rivelarlo; e poi quei due se la intendevano così bene che non mi
andava di mettere il becco nei loro bisticci da mocciosi.
«In piedi!» ordinò Mary appena il
maestro si palesò in classe.
Come al solito la prima ora fu dedicata
alla lezione di storia, dalla quale mi chiamai subito fuori. Ormai tutti quegli
sproloqui sulle Guerre Sacre, la gloriosa resistenza del grande Impero, le
Sette Nazioni e tutto il resto li sapevo a memoria, e a giudicare dalle facce
dei miei compagni valeva lo stesso anche per loro.
La mia attenzione fu ben presto
catturata da quanto stava accadendo oltre le finestre, nel piazzale antistante
la scuola, dove il mercato settimanale era in pieno svolgimento.
Malgrado le finestre chiuse si poteva
sentire il vocione del banditore che cercava di spingere il più possibile al
rialzo il valore della merce, spacciando sassolini per diamanti come il peggior
imbonitore.
«Centodieci! Siamo a centodieci, nessuno
offre di più? Avanti signori, guardate questo magnifico orco! Forte come dieci
uomini, può sollevare due tronchi con un braccio e un covone di fieno con un
solo dito!»
Ma
per favore, quello di tronchi è già tanto se ne solleva uno. E guarda che occhi
sprezzanti. Scommetto che è un piantagrane.
«Mi voglio rovinare! Se superiamo i
duecento, con soli cinquanta goldie in più vi portate via anche questa
dolcissima gattina! Guardate che denti, e che visino dolce! Sarà il perfetto
animale da compagnia per i vostri figli, e una volta cresciuta… ci siamo
capiti, vero?»
Peccato
che il mese prossimo entrerà in vigore il nuovo editto imperiale che raddoppia
le decime per il possesso di schiavi al di sotto dei sei anni. Altrimenti
perché avresti tanta fretta di liberartene?
Come già fatto altre volte mi misi a
trascrivere i risultati delle varie assegnazioni, arrivando a calcolare l’utile
netto dell’asta molto prima che lo facesse il banditore.
Detraendo
il mantenimento, il trasporto, le tasse e le tangenti per le guardie, siamo a
circa duemilasettecento goldie. Proprio come pensavo.
Era evidente che ormai da tempo l’Impero
produceva più schiavi di quanti non ne avesse effettivamente bisogno, e dal
momento che era già la terza settimana di fila che l’asta degli schiavi andava
al ribasso era evidente che la manodopera stava iniziando a sovrabbondare
perfino nell’Eirinn Occidentale, dove tra miniere, segherie e latifondi
agricoli i lavoratori tecnicamente non bastavano mai.
Oltretutto la schiavitù era una lama a
doppio taglio. Nell’immediato o in situazioni di carenza di manodopera era
sicuramente utile, ma nel lungo periodo produceva solo disoccupazione e
malcontento nella popolazione libera. E questo senza contare che gli schiavi
stessi se spinti al limite potevano diventare un problema non indifferente,
come avevo avuto modo di sperimentare io stesso ad Haiti.
Un gessetto mi arrivò sulla fronte con
la forza di un proiettile.
«Haselworth, se la mia lezione non è di
tuo gradimento c’è sempre il corridoio!»
«Vogliate scusarmi maestro.»
Con
la mira che ti ritrovi avresti fatto un figurone nella mia guardia, razza di vecchiaccio.
Come
promesso finita la lezione io e Mary ci portammo nella biblioteca, situata in
un’ala del palazzo del municipio.
Anche nella mia precedente vita mi ero
sempre trovato a mio agio tra i libri, ed ero stato particolarmente felice di
constatare che in quel mondo c’erano molte cose da imparare.
I miei volumi preferiti erano quelli di
magia e alchimia, che leggevo in modo quasi morboso.
Mi era capitato di assistere ad alcune
dimostrazioni di arte magica eseguite dai sacerdoti del piccolo tempio locale,
e un po’ mi dispiaceva di non essere rinato con il segno di Gaia necessario a
praticarla.
Per quanto riguardava l’alchimia invece,
mi ero accorto ben presto che con le dovute eccezioni non era altro che un
altro modo di intendere la chimica; cambiavano alcuni fattori e c’erano più
elementi da tenere in considerazione, ma una volta presa confidenza mi stava
venendo molto facile assimilarne i concetti.
Mary invece aveva una vera predilezione
per la matematica, e forse era per questo che ancora prima del risveglio dei
miei ricordi mi ero sempre trovato così bene a passare del tempo con lei:
avevamo parecchi interessi in comune.
Studiammo insieme fin quasi al tramonto,
e il custode dovette letteralmente buttarci fuori perché ci decidessimo a
prendere entrambi la via di casa.
«Senti, pensavo…» mi disse, tutta rossa
in volto, e tenendo gli occhi bassi «Forse potrei accompagnarti a casa. A
quest’ora la foresta può essere pericolosa, e poi…»
«Sarebbe bello, ma lo zio non
approverebbe. Ti ho già spiegato quanto possa essere burbero.»
«Quasi mi dispiace che tu sia costretto
a vivere con una persona tanto problematica.»
«Ormai ci ho fatto l’abitudine. E poi mi
ha accolto dopo la morte dei miei genitori, quindi non può essere tanto cattivo
in fin dei conti.»
«Forse hai ragione. Però, mi permetti di
accompagnarti almeno fino ai cancelli?»
«Certamente.»
Lungo il tragitto la nostra attenzione
venne catturata da un rullo di tamburi, e ignorando l’esortazione di Mary a
tirare dritto seguii il suono fin nella piazza centrale del villaggio, dove una
piccola folla era in procinto di assistere all’impiccagione di tre condannati.
«Nel nome di Sua Eccellenza Tiberio
Longinus, governatore dell’Eirinn Occidentale!» lesse il Comandante Beek,
comandante della milizia locale. «I qui presenti membri del gruppo dei
Guerrieri di Eirinn sono stati accusati di cospirazione e di alto tradimento, e
sono pertanto condannati ad essere appesi per il collo finché morte non
sopraggiunga! Lunga vita a Sua Maestà!»
Un colpo alla panca da parte del boia e
tutto era finito.
Tutti, inclusa Mary, distolsero lo
sguardo. Ovviamente non io; avevo visto troppi morti e assistito a troppe
esecuzioni per farmi impressionare da una cosa del genere.
«Daemon ora andiamo. Ti prego.»
«Sì, d’accordo.»
«Daemon!
Ma insomma, perché non vieni più a trovare la tua adorata mammina che ti vuole
tanto bene?»
Lori era stata la mia nutrice quando ero
piccolo, ma si considerava a tutti gli effetti mia madre.
Come tutti i minotauri aveva
essenzialmente tre cose che la facevano costantemente svettare nella massa:
l’altezza vertiginosa, le corna bovine ai lati della testa e, soprattutto,
quelle tette improponibili.
Sul serio, persino la donna più
prosperosa che avevo conosciuto nella mia precedente vita faceva la figura di una
sottodotata se paragonata a lei.
Sfortunatamente nel suo caso c’era anche
una quarta cosa a renderla speciale, quella che avevo sempre trovato in
assoluto la più insopportabile: il suo essere troppo, troppo… troppo emotiva!
Il momento peggiore era quando mi
abbracciava, ovvero ad ogni possibile occasione, dimenticandosi che con la sua
forza avrebbe potuto rompermi tutte le ossa.
«Lori, lasciami! Non sono più un
bambino!» urlai cercando di trovare un appiglio in quella coppia di budini
tremolanti
«Quanto sei permaloso. Sembra solo ieri
che ti davo il latte e piangevi quando ti portavano via da me. Ma non puoi
ridiventare piccolo? Ti ordino di ridiventare piccolo!»
Come se fosse stato possibile.
E poi un’infanzia con lei mi era
bastata.
Casa sua era assieme alla nostra una
delle poche ad avere un aspetto dignitoso, e andare a cena da lei voleva dire
quasi sempre potersi concedere il lusso di un pasto come si deve.
Le guardie si assicuravano personalmente
che le sue razioni fossero le più abbondanti, perché solo da un minotauro sano
e ben pasciuto poteva sgorgare quel prelibato nettare bianco che solo i più
ricchi potevano permettersi.
Stando alle sue stesse parole, uno dei
motivi per il quale aveva accettato fin dal primo momento di adottarmi e farmi
vivere con loro era che avrebbe finalmente potuto dare il suo latte a chi
voleva lei.
Insomma, paragonare Lori alla mia
precedente madre voleva dire paragonare il giorno alla notte.
Quella
megera! Non solo non è venuta alla mia incoronazione, ma quando le ho chiesto
di baciarmi l’anello imperiale mi ha rifilato un ceffone!
Ma nonostante tutto le avevo voluto
bene, tanto quanto ne volevo a Lori: perché che uomo è quello che non ha il
massimo rispetto per la propria madre?
Andavamo a cena da Lori più o meno una
volta al mese, un giorno che Scalia in particolare bramava più del suo
compleanno, perché era l’unica occasione in cui la sua insaziabile fame di
drago potesse essere in qualche modo placata.
Ovviamente la cosa non si applicava a
me: per me c’era sempre qualcosa di più.
Se altri avevano zuppa di miglio, latte
annacquato o sidro, io avevo piccoli spezzatini di cervo, del pesce essiccato o
una zuppa di carne e verdure. Non erano certo i pasti che consumava
abitualmente un bambino anche solo del ceto medio, ma era grazie a questo se
malgrado tutto ero riuscito a crescere in modo abbastanza decoroso. Al massimo
ero un po’ più basso e asciutto della media, ma niente a cui non fossi
abituato.
«Ho saputo che da qualche settimana a
questa parte stai studiando molto e che i tuoi voti stanno migliorando sempre
di più. La tua mamma è così fiera di te.»
«È giusto che sia così. State facendo
tutti grandi sacrifici per me, il minimo che posso fare è ripagarli
impegnandomi nello studio.»
«Ma sentilo.» disse Scalia «Parli quasi
come un adulto. Se penso che fino a due mesi fa eri una perpetua fonte di guai,
e di studiare non ne avevi la minima intenzione. Sembri quasi un’altra
persona.»
«Diciamo che ho avuto un risveglio di
coscienza. Però giacché ne stiamo parlando, forse potrei fare anche qualcosa
d’altro oltre a studiare. Potrei imparare un mestiere, oppure aiutare Drufo
nella caccia.»
«Ne abbiamo già parlato altre volte
Daemon.» mi fermò mio padre «Per adesso devi pensare solo alla scuola.
L’impegno che metti nello studio è una ricompensa più che sufficiente per i
nostri sforzi. Dico bene Lori?»
«Benissimo! E poi se passassi altro
tempo fuori di qui, quando avrei l’occasione di coccolare e viziare il mio
adorato bambino? Con quegli occhi azzurri, e quelle guanciotte rosate. Fatti
abbracciare!»
«Per favore Lori, non di nuovo.»
L’improvviso aprirsi della porta
interruppe sul nascere quell’ennesima situazione imbarazzante, ma la mia gioia
durò solo per il tempo che impiegai ad accorgermi dell’identità dei nuovi
arrivati.
«Felice serata, mastro Zorech.» disse il
grassissimo maiale, ingioiellato come un re, che guidava il trio.
«Buonasera, mastro Borg.» rispose mio
padre, come se ogni sillaba di quella frase gli venisse a costare uno dei suoi
denti aguzzi.
Per interminabili secondi, nessun’altro
aprì bocca.
«Lori. Porta Scalia e Daemon a casa.»
«Ma, padre…»
«Niente ma, Scalia.»
Sulle prime fingemmo di obbedire, ma una
volta fuori facemmo a gara per arrivare per primi dietro la casa e poter
sbirciare ciò che accadeva all’interno dalle fessure tra le assi del muro.
Borg aveva preso il mio posto
accomodandosi di fronte a Zorech, mentre il coboldo e la lucertola che gli
facevano da guardaspalle seguitavano a stare in piedi accanto alla porta
chiusa.
Sembrava che la situazione potesse
cambiare da un momento all’altro, difficile dire in che direzione; da parte
mia, non ricordavo di aver mai visto un’espressione più spaventosa negli occhi
di mio padre.
«Gradite, mastro Zorech?» disse il
maiale prendendo un cofanetto d’argento dal taschino del suo giaccone doppio
petto.
Zorech non si mosse né accennò alcunché.
Al che il maiale aprì la scatola, prendendone fuori un grosso sigaro e
accendendolo con la candela appoggiata sul tavolo.
«Lukra. Con le migliori foglie essiccate
di Torian. Potresti fumarne uno sul letto di morte dopo una vita intera da
pezzente, e diventerebbe di colpo una vita ben spesa.»
«La mia risposta l’avete già avuta,
mastro Borg. Non importa quante volte ritornerete, non cambierà.»
Borg non sembrò raccogliere la
provocazione, e anzi piegò le labbra sottili in un sorrisetto compiaciuto.
«Devo dire che vi facevo molto più
lungimirante. Il vostro piccolo business della caccia ha delle enormi
potenzialità, delle quali voi stesso sembrate non rendervi conto. Ora come ora,
quanto vi frutta? Sette, forse ottocento goldie d’oro all’anno? Con le vostre
competenze e la mia esperienza, vi assicuro che potrebbe fruttare dieci volte
tanto.»
«Non ho creato questa operazione per
arricchirmi. Quel denaro serve per il mantenimento di Daemon, ed è frutto degli
sforzi di tutta la comunità. Gli paghiamo la retta, i libri di scuola, e quel
poco che riesco a mettere in più in tavola per lui. E quello che avanza finisce
in un fondo che stiamo mettendo da parte per darglielo al suo sedicesimo
compleanno, quando dovrà andarsene da Ende.»
«Appunto. E allora per quale motivo non
valorizzarlo ancora di più? Io chiedo solo una piccolissima percentuale. Sapete
com’è, i rischi.»
«Esattamente. I rischi. Noi ne stiamo
correndo già troppi. E non ho intenzione di rimettere la nostra sorte e l’unica
piccola fonte di introiti che abbiamo nelle mani di qualcuno che la userebbe
solo per riempirsi le tasche a nostre spese, o che ancora peggio sarebbe pronto
a sacrificarci se le cose dovessero mettersi male.»
Stavolta Borg sembrò accusare il colpo
fissando in cagnesco il suo interlocutore, che tutto sembrava meno che
intimorito.
«Voi pensate di conoscermi, mastro Borg.
Ma anche io conosco voi, e la reputazione che vi precede. Potreste uscire da
qui in qualsiasi momento. La verità è che con i vostri intrallazzi avete fatto
arrabbiare le persone sbagliate, e vi siete fatto rinchiudere qui dentro perché
è l’unico posto in cui i vostri nemici non possono raggiungervi. Chiunque viva
qui ad Ende è sotto la mia responsabilità, e ciò include ovviamente anche voi e
i vostri tagliagole. Ma se voi dite o fate qualsiasi cosa che possa mettere in
pericolo la nostra comunità, a cominciare dalla mia famiglia, vi posso
assicurare che ciò a cui siete sfuggito là fuori è niente rispetto a quello che
passerete per causa mia. E ora, fuori da qui.»
I due guardaspalle avevano già infilato
le mani all’interno dei mantelli, ma Borg, rientrato in possesso del proprio
autocontrollo, fece loro un cenno. Quindi, quasi sorridendo, si alzò dal tavolo
dirigendosi verso la porta.
«Ho sentito che hai combattuto con il
Signore Oscuro a suo tempo. Sai quale fu il suo più grande errore? Si era fatto
i nemici sbagliati.»
E detto questo se ne andò, seguito a
ruota dai suoi uomini.
Quella
notte la passai in bianco, e non certo perché Scalia si era addormentata
un’altra volta avvinghiandosi a me come fossi stato il suo orsacchiotto.
Nella mia vita precedente ero solito
dire che solo gli stolti scendono in battaglia con un piano in testa, e che
nell’improvvisazione vi è la chiave per la vittoria.
Ebbene, quello era invece il classico
caso in cui tale affermazione andava a farsi benedire.
Per questo mi ero preso tutto quel tempo
per ambientarmi ed avere un’idea più o meno chiara della situazione che mi
stava intorno.
E ora, dopo due mesi, potevo affermare
con assoluta certezza che Faucheur era stato fin troppo ottimista nel
descrivermi la situazione.
Altro che inferno, altro che orlo del
baratro: non avevo idea di quale fosse la situazione altrove, ma quella
provincia era una santabarbara con la miccia innescata.
C’erano tutte le premesse per un
disastro: un governatore inviso e incompetente, una politica altamente
repressiva, moti indipendentisti faticosamente sopiti a suon di esecuzioni, e
come se non bastasse gli schiavi.
Di questo passo non vi era dubbio che
probabilmente Erthea era destinata a crollare su sé stessa prima ancora
dell’arrivo del Re dei Demoni.
Come fare dunque?
Di ritentare la scalata alle sfere del
potere o dell’esercito dell’Impero come avevo fatto nella mia vecchia vita non
se ne parlava neanche; potevano aver aperto le porte delle accademie militari e
delle università alle donne, ma era fuori discussione che un orfano cresciuto
in un tugurio di confine potesse aspirare a tanto. E comunque ci sarebbe voluto
troppo tempo.
Provare
ad aggirare l’ostacolo facendosi amico qualcuno di importante e spiegandogli la
situazione? E che cosa dovrei dirgli? Che un tizio vestito di nero mi ha
predetto l’arrivo di un’invasione da parte di un continente che nessuno ha
neanche mai sentito nominare? Sarei preso per pazzo.
Anche la carriera ecclesiastica, con cui
provare a smuovere le coscienze usando lo spauracchio della fede, non era una
strada percorribile, essendo le alte sfere precluse a chiunque non fosse dotato
di poteri magici. E inoltre non mi ci vedevo per niente nella parte del
fanatico religioso che in nome di Gaia chiama alla santa crociata contro il Re
dei Demoni.
Rimaneva solo l’opzione che fin dal
primo momento non avevo voluto neanche prendere in considerazione: una
rivoluzione.
La sola idea mi suscitava disgusto, ma
dopo ore e giorni spesi a scervellarmi inutilmente non potevo fare altro che
rassegnarmi.
Vista la situazione una cosa del genere
era comunque destinata a succedere, tanto valeva prenderne le redini e tenerla
entro limiti accettabili, evitando il ripetersi di quella follia collettiva
alla quale avevo già assistito.
Non sarebbe stato facile, e di certo al
momento non ero in condizione di poter fare la differenza.
Tanto per cominciare avevo ancora i miei
ricordi e la mia esperienza bellica, ma non il corpo adatto a fare ciò che
avevo in mente per lui.
Il primo passo sarebbe quindi stato
quello di rafforzarmi fisicamente, ma una volta che fossi riuscito a vincere la
reticenza di mio padre questo non sarebbe stato un grosso problema.
Ben più complicato sarebbe stato
ottenere l’influenza e l’autorità necessarie a mettere in atto i miei
propositi, ma a quello ci avrei pensato in un secondo momento.
Non mi sarei fermato. Né avrei esitato.
Il destino mi aveva dato un’altra occasione per dimostrare all’universo ciò che
potevo essere e quello che potevo fare, ed ero più determinato che mai a non
sprecarla.
Giratomi verso la finestra vidi le due
lune gemelle stagliarsi nel cielo buio, alle quali rivolsi il medesimo
giuramento che avevo pronunciato solennemente il giorno in cui avevo messo
piede a Brienne.
Cambierò
il destino di questo mondo con le mie mani.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!
Mi presento, mi chiamo Cj Spencer.
Frequento da anni EFP con il nickname di Carlos Olivera, ma ho creato questo secondo canale per dedicarlo interamente a questo progetto.
“Furansu Kōtei ga Isekai ni Tensei shi Maō to Tatakau!”, questo il titolo originale, rappresenta la mia prima avventura nel mondo delle light novel, e rappresenta la tappa finale di un lungo lavoro preparatorio che è passato attraverso vari rimaneggiamenti e riscritture che hanno modificato profondamente sia i personaggi che lo svolgimento della vicenda.
Trattandosi del mio “esordio” in questo ambiente ne consegue che sono aperto ad ogni sorta di opinione, consiglio o critica che possa aiutarmi a migliorare.
Attualmente ho completato il primo volume, e sto lavorando alla stesura del secondo. Pubblicherò regolarmente un capitolo ogni 2 settimane, la domenica mattina, mentre le tempistiche relative all’attesa tra un volume all’altro ovviamente non posso dare garanzie, anche se cercherò ovviamente di non farvi aspettare troppo.
Ecco, e questo è quanto.
A presto!^_^
Cj Spencer