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Autore: Francine    18/05/2023    4 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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8.

 

«Mi servono altri croissant!»

Françoise, sempre calma e pacata e avvezza a trattare coi i clienti, anche i più bizzosi, quella mattina sembrava spiritata. Entrava e usciva dalla porta che divideva il laboratorio dal locale con un’espressione sempre più preoccupata. Come se, all’improvviso, avesse dovuto sfamare  un’orda vandalica, uno sciame di cavallette ed una classe di liceali in gita, allo stesso tempo.

«Stanno cuocendo in forno», ribatté Tiennot. «Cinque minuti e sono pronti.»

«Non ce li ho cinque minuti!» sbuffò lei, sbattendo uno strofinaccio sul tavolo. Stizzita. «Ossantabrigida, ma siamo l’ultimo Cafè di Parigi rimasto aperto?»

E se ne tornò in sala, senza attendere risposta, svanendo oltre la porta e in un vociare persistente.

Tiennot si pulì le mani con uno strofinaccio. Che diamine stava succedendo?

Spense la planetaria, controllò che l’impasto fosse morbido, elastico e senza grumi; lo stese con cura; piazzò il burro al centro; effettuò le pieghe necessarie; stese un’altra volta l’impasto. Lo piegò a metà; ne ricavò dei triangoli isosceli; li arrotolò su loro stessi, infilò il tutto nella cella di lievitazione e impostò il timer.

Ci vediamo tra un’ora, pensò.

Poi aprì il forno, estrasse ed inserì le teglie, e sistemò i croissant a raffreddare su una graticola. Prese il burro, ne tagliò qualche ricciolo e li sparse sulla sfoglia ancora calda; poi si fece coraggio e andò a vedere cosa diamine fosse preso a tutti quanti, quella mattina.

 

«Eccolo, eccolo!», gridò qualcuno - una voce maschile - «Ecco l’artista!!».

 

Étienne vide un numero imprecisato di teste voltarsi nella sua direzione. Gli sguardi si spostarono dal suo viso alle sue mani. Vuote. E poi i telefonini entrarono in azione, accecandolo coi loro flash. Si schermò il volto con un braccio.

«Che sta succedendo qui?», ringhiò, avanzando verso sua madre.

«Non lo so», rispose lei. Spaesata. Come una bambina che si ritrova da sola tra la folla e cerca la mano del babbo, della mamma, di qualcuno di familiare che la porti via da quella bolgia. Françoise guardava quelle persone – una quarantina circa, testa più testa meno – come se fossero un branco di leoni e lei una povera gazzella ferita. «Non ho mai visto così tante persone tutte assieme qui dentro», mormorò, senza staccare gli occhi dalla folla.


«E ti dispiace?»

Seduta al bancone, col suo turbante rosso pompeiano e l’immancabile coro argentino di orecchini e braccialetti, Maman Louise aveva tutta l’aria di starsi divertendo un mondo. Una bambina al circo. O allo zoo. È l’ora del pasto dei leoni, pensò Tiennot. E siamo noi il pranzo.

«Sono sicura che, se tuo padre fosse qui, si divertirebbe come un pazzo!»

Peccato che Rémy non sia qui, pensò Tiennot. 

«Si può sapere che succede?», le chiese, mentre la gente continuava a scattare fotografie a tutto: alla sua faccia, ai croissant, al locale, alle sedie, ai quadri, a Salsiccia. Il quale, ben poco contento di quella cagnara, abbaiava da sotto al solito tavolino con tutto il tono rauco di cui la natura lo aveva dotato. E poi, rivolto a sua madre, Tiennot domandò: «Si può sapere dov’è Coco?».

«È il suo giorno libero», rispose lei. E Tiennot la fissò come se fosse appena sbarcata da Plutone.

«Con questo casino?!», sibilò. Rivolse un’occhiata alla sala. Altra gente stava entrando – stava cercando di entrare –, mentre chi era arrivato dopo attendeva paziente lungo il marciapiede. «Richiamala. C’è bisogno di lei qui!»

Françoise sbatté le palpebre un paio di volte, poi prese il telefonino e sgattaiolò nel laboratorio.

«Scusi, vorrei un croissant!», chiese una ragazza, frangetta e coda di cavallo, con un grazioso paio di paraorecchie rosa acceso.

«Anch’io!», le fece eco una signora.

«Io ne prendo tre», disse qualcun altro.

«Anche per me, anche per me!»

E la già poca pazienza di Tiennot scivolò via.

Si rivolse alla folla e, alzando la voce per sovrastare quella confusione, disse: «Spiacente, signori e signore, ma i croissant sono finiti.».


Per un lungo, lunghissimo istante ci fu un silenzio di tomba. Uno di quelli che prelude ad un boato spaventoso. Il Big Bang, ad esempio. Poi, piano piano, il mormorio insoddisfatto delle persone iniziò a salire di tono, fino a prendere corpo.

«Dateci le brioche, allora», suggerì qualcuno.

La ragazza coi paraorecchie rosa acceso pretese: «E tu rifalli! Noi aspetteremo!». Coro di approvazione.

Tiennot stava per oltrepassare il bancone e sbattere tutta quella gente fuori dal locale con le proprie mani, quando una voce maschile si intromise e gli evitò di commettere una strage: «Avanti, signori! Avete sentito? I croissant sono finiti e il locale, per oggi, è chiuso».

Fu solo in quel momento che Tiennot si accorse della presenza di Marco e Yngve. I quali avanzarono come un coltello caldo fende il burro. Marco posò due magnum di Veuve Cliquot sul bancone, Yngve scivolò a sedere accanto a Maman Louise, accavallò le gambe e scoccò un’occhiata truce alle persone assiepate attorno.

«Allora? Siete sordi?»

E, forse per lo stridente contrasto tra il viso da angelo e il tono spietato della voce, qualcuno indietreggiò. La ragazza coi paraorecchie rosa acceso protestò qualcosa senza troppa convinzione, rimettendo il portafogli nello zaino. Qualcuno bofonchiò un «torneremo», più simile ad una minaccia, che ad una promessa. Qualcun altro prese la porta ed uscì dal locale senza colpo ferire.

 

«Siamo dispiaciuti», proseguì Marco, con un sorriso da faina. «Incidenti del mestiere. Tornate domani per i vostri croissant», aggiunse. Come se quello, e non il Susumella, fosse il suo locale. 

«Scusateci, scusateci.» Françoise, tornata in sala, aveva colto la palla al balzo e assecondava Marco. Ripeteva quella frase quasi come fosse un mantra, o una formula magica con cui tenere lontano i guai. E fu solo quando la porta si fu richiusa alle spalle dell’ultimo, stizzito cliente, e la serratura scattò, che si concesse un sospiro di sollievo.

«Mio Dio», sussurrò. «Per un attimo ho creduto che ci avrebbero fatti a pezzi.»

 

«Sappiamo cosa aspettarci oggi», replicò Yngve dal bancone.

Maman Louise lo fissò curiosa. «Ah sì?»

In quella, Papa Nouriet si alzò dalla sua poltrona, raccolse il guinzaglio di Salsiccia – che occhieggiava da sotto al tavolo – e si alzò. «Ci vediamo domani», salutò. E poi, con la sua andatura da Mister Magoo, si avviò alla porta.

Françoise lo lasciò passare, richiuse di scatto la serratura e voltò il cartello dal lato con su scritto CHIUSO.

 

«Scusa se mi sono intromesso», disse Marco, le mani sui fianchi, «ma sembrava che tu avessi bisogno di una mano.».

Puoi giurarci, pensò Tiennot. «Grazie», disse, rivolgendosi a tutti e due.

Marco fece un gesto come a dire: «Non fa nulla». Poi disse: «Avanti. Tira fuori i bicchieri, dobbiamo brindare.».

«Giustissimo», gli fece eco Maman Louise. «Dai, Tiennot, non vorrai far aspettare una signora!»

E Tiennot decise che, per conto suo, quelle due magnum avrebbero atteso fino alla fine dei tempi.

«Qualcuno vuole avere la decenza di spiegarmi cosa sta succedendo?»

Yngve e Marco si scambiarono una lunga, lunghissima occhiata.

«Non lo sai?», chiese, fissandolo coi suoi occhi di mare al mattino.

«No.» Pausa. «Non lo so.»

Marco sbatté le palpebre perplesso. «Non hai visto il cellulare stamattina?», gli chiese. Poi estrasse il proprio smartphone, fece scorrere il dito sullo schermo e lo piazzò davanti agli occhi di Étienne. «Siamo stati selezionati. Tutti e tre.»

«Ma di cosa diamine» stai cianciando?, avrebbe voluto chiedergli. Selezionati? Da chi? Per cosa?

Ma poi vide la storia che Marco gli aveva messo davanti. Un tizio improbabile – uno Joey Tempest dei poveri e fuori tempo massimo – sorrideva alla telecamera, si sfilava un paio di occhiali a specchio e nominava il Susumella, il Gokötta e il Verse-Eau.

 

«Questi tre sono i locali scelti per la sfida di San Valentino», aggiungeva il tizio, in un inglese davvero improbabile. «Chi vincerà la gara e l’assegno da cinquemila euro in palio? Stay Tuned!»

 

E poi seguivano tre istantanee, con il tag della localizzazione. Il Susumella. Il Gokötta. E il Verse-Eau.

 

Poi la faccia da schiaffi di Joey Tempest 2.0 riappariva e salutava, promettendo: «Ci vediamo a Montmartre tra una settimana!». 

E basta.

 

Étienne alzò la testa.

«Chi è stato?»

«A fare che?», chiese Marco riprendendo lo smartphone.

«A giocarmi questo scherzo da prete», sibilò Étienne.

«Noi, no», rispose Yngve. Tranquillo e atarassico come una rosa appena in boccio. «Anche volendo», aggiunse, quando Tiennot gli scoccò uno sguardo capace di incenerire un ghiacciolo seduta stante, «per iscriversi occorre essere il proprietario. O fornire dei dati tecnici che solo il proprietario può conoscere. O i suoi familiari…»

 

Gli occhi di Étienne si ridussero a due fessure, due mezzelune d’acciaio affilato, lo stesso, identico luccichio che scivola sinistro sulla lama del boia.

 

«Quindi, se non siete stati voi…» chi è stato?

 

La domanda restò a galleggiare nell’aria che puzzava di piombo, mentre fuori, trovando la porta chiusa, alcune persone scattavano selfie davanti alla vetrina, per poi condividerli sui social.

 

«Maman?»

 

Sapeva che era innocente. Lo sentiva con ogni atomo del suo essere. Eppure, le pose quella domanda, per sgomberare il campo da ogni possibile ostacolo, prima di procedere come un panzer verso il reale colpevole.

 

«Io non sono stata», rispose lei. Come da copione. «Neppure ce l’ho, un account social…»

E fra poco non avrai più neppure una figlia, pensò Étienne. Sì, l’avrebbe strozzata. Le avrebbe tirato il collo, come si fa coi polli quando è venuta la loro ora; con la sola differenza che Étienne avrebbe stretto e allentato le dita attorno al collo di sua sorella più volte. Apri e chiudi. Apri e chiudi. E si sarebbe gustato il suo sguardo allarmarsi, riprendersi alla fievole fiammella della speranza, e poi precipitare di nuovo nel terrore cieco. Oh, sì. Coco avrebbe imparato la lezione. Una volta per tutte.

«Io avevo detto di no.» Li guardò uno per uno, chiamandoli a testimoni delle sue parole. «Io. Avevo detto. Di no.»

«Oh, avanti», proruppe Maman Loiuse, nel solito tintinnio argentino. «Quando si è in ballo, bisogna ballare!»

«No, Milou», e quando Étienne la chiamava così era furioso, di quell’ira quiescente che cova sotto le braci. «Lei ha iscritto il locale. Lei ne uscirà con le proprie gambe.»

E così dicendo scoccò uno sguardo serio a Marco e Yngve. «Congratulazioni», disse loro. «Che vinca il migliore. E ora, se volete scusarmi», ho un laboratorio a cui badare, avrebbe voluto dire, ma fu in quel momento che la sua attenzione si riversò sulla porta. Coco, il naso spiaccicato contro la vetrina e le mani ai lati del viso, guardava nel locale. Bussò un paio di volte. Françoise la fece entrare e richiuse di scatto la porta.

«Che cosa hai fatto?»

«Posso spiegare!», disse lei, liberandosi della sciarpa e del piumino. «Che ci fanno loro qui?», chiese, guardando ora Marco ora Yngve.

«Ci stiamo comportando da persone civili, noi…», ribatté Yngve, un gomito sul bancone e l’aria offesa.

«Non capisco.» Coco si voltò verso sua madre, a pretendere una spiegazione.

«Nemmeno io», ribatté Étienne. «A casa mia, no significa no. Non significa: fai pure come ti pare e piace.»

Coco piegò la testa da un lato. «Il Cafè Verse-Eau è anche mio», lo rimbeccò.

«Al cinquanta percento», sottolineò lui.

Una mano sugli occhi, Françoise esclamò: «Sacré, Coco! Perché devi essere così testarda?!».

«Perché se io non avessi iscritto il Cafè Verse-Eau al concorso, lui non l’avrebbe mai fatto!!», sbottò Coralie, indicando il fratello con il pollice. «Sbaglio?»

«No», rispose spiccio Étienne. «Ma questo non è il momento per discuterne.» Abbiamo ospiti, dardeggiarono i suoi occhi blu.

Lo vedo, replicò lei, allo stesso, identico modo.

«Su, su», cercò di mediare Marco. «Arrabbiarsi non serve a nulla e fa venire il sangue amaro.» Pausa. «Ce l’hai un cavatappi?»

Étienne lo fissò come se gli fosse appena spuntata una seconda testa.

«Sì», rispose. Dubbioso. «Secondo cassetto.»

Marco aprì e richiuse i cassetti, trovò il cavatappi e aprì stipetti e pensili alla ricerca di bicchieri puliti. Come se stesse a casa propria.

«Ci dispiace se il momento non è dei migliori.» Yngve era bravissimo a calamitare l’attenzione su di sé. «Non avevamo idea della situazione. Speriamo vogliate brindare con noi a questa nuova avventura.»

«Certamente», rispose Françoise, tenendo sott’occhio i suoi figli. «Tra buoni vicini, questo e altro…»

«Meno male», sospirò Maman Louise. «Un altro po’, e ci faccio le ragnatele su questo sgabello!»uhjn

«Per me no», disse Étienne, rivolgendosi a Marco.

«Non fare il guastafeste», gli sibilò quest’ultimo a mezza bocca. «Adesso ti comporti da persona civile, lasci da parte l’ira funestissima e ti bagni le labbra. Tua sorella puoi strozzarla dopo.» Pausa. «Lontano da occhi indiscreti.» Punto.

«Va bene», disse - concesse - Étienne. 

Di nuovo calmo, controllato, padrone di sé. Raccolse sei bicchieri e li allineò sul bancone, mentre con lo sguardo notava sua madre prendere da parte Coco e catechizzarla a muso duro circa le sue azioni. 

«Ragazzi, congratulazioni», disse Étienne con sincerità. «Che vinca il migliore.»

«Che vinca il migliore», gli fece eco Yngve. «Sarà una dura battaglia.» Ma non specificò se si stesse riferendo a sé, o alla concorrenza.

Marco, capita l’antifona prima ancora che l’altro avesse aperto bocca, non raccolse e disse invece: «Prendi un altro bicchiere.».

Étienne contò bicchieri e presenti. «Perché? Sono giusti.»

«No, non sono giusti», rispose Marco. «Ne manca uno. Per lui.»

E con un cenno del mento indicò la vetrina panoramica. Fuori, le mani a coppa attorno al viso e il naso quasi premuto contro il vetro (con un margine stentato di decenza in più rispetto a Coco), c’era l’Hemingway dei poveri, come lo chiamava Maman Louise – Étienne preferiva chiamarlo Hemingway in salsa ali oli.

Non si era fatto vivo da qualche giorno – Tre. Quando gli hai intimato di lasciar stare Coco – e adesso sbirciava dentro al locale, bardato come se dovesse attraversare il Polo Sud a piedi, lo zaino in spalla e l’aria di un bambino uscito da un romanzo di Charles Dickens.

 

Fammi entrare, Heathcliff…

 

«Perché mai», domandò Étienne. «Cosa c’entra lui?»

Yngve trattenne il fiato. Marco lo fissò.

«Non te ne sei accorto, Tiennot?»

«Di che?»

«Quel tizio è lo stesso che appare nella foto del Verse-Eau», gli spiegò Marco. Tirò fuori il cellulare, aprì Instagram e gli mostrò la story di Joey Tempest 2.0 una seconda volta. Sì, era proprio lui. Senza alcun dubbio.

Étienne si voltò a cercare sua sorella.

«Serviva una foto del locale», spiegò lei, la stessa aria imbronciata che metteva su da bambina quando si ritrovava inspiegabilmente in punizione.

Yngve, che si era voltato verso la vetrina, commentò: «Ah, è lui.».

«Lo conoscete?»

«Sicuro. Lui è Rodrigo.» Yngve proprio non ce la faceva a restare in disparte. E se per puro caso qualcuno lo tagliava fuori dai discorsi, lui vi rientrava sganciando una bomba ad un numero indecente di megatoni con la stessa grazia di una ballerina che attraversa il palcoscenico in punta di piedi.  «È venuto anche da noi. Sta scrivendo una guida su Parigi. Una guida per innamorati.»

La bottiglia stretta tra le dita, Marco riprese a respirare. 

Étienne non se ne accorse.

Quindi, era tutto vero. Non erano cazzate inventate per scroccare il WIFI o accattivarsi le simpatie di Coco.

 

«Non è il mio tipo», gli aveva detto. Possibile che?

E se anche fosse?

 

«Dai, aprigli la porta, a quel disgraziato. È finito a sua insaputa sui social di Milo Papadopoulos con un’aria da triglia! Il minimo che possiamo fare, è offrirgli una coppa di champagne!»

Questi sono bicchieri, avrebbe voluto ribattere Étienne. Invece tacque e capitolò. Sbuffando aria dal naso come una locomotiva lanciata nella notte, Étienne posò un altro bicchiere di fronte a Marco ed andò personalmente alla porta, la aprì e fece cenno al señor Hemingway di entrare.

L’altro scivolò dentro come un’ombra.

 

«Non sapevo foste chiusi per la Candelora…»

 

Le parole gli morirono in gola. Lo sguardo al bancone, fissava Marco, Yngve e Maman Louise come se fossero appena sbarcati da Marte. 

«Temo di essere capitato in un brutto momento», disse; ed Étienne notò come il suo accento castigliano salisse a galla con maggior forza quando si trovava in situazioni potenzialmente spiacevoli.

Étienne rispose: «No, affatto. Accomodati».

E, a quel punto, Rodrigo – questo era il nome dell’Hemingway dei poveri – abbandonò giacca, sciarpa e zaino sulla poltrona di Papa Nouriet. «Mia sorella ha iscritto il Cafè Verse-Eau ad una competizione», aggiunse torvo, indicandogli il bancone. «Stavamo brindando all’evento. Vieni.» 

Era, quello, un invito che non sarebbe stato saggio rifiutare.

 

«Non vorrei disturbare», si schernì Rodrigo, per educazione e in un ultimo, disperato tentativo di mettere in salvo le cuoia.

«Nessun disturbo», replicò Étienne, in un tono che puzzava di piombo e non ammetteva repliche. «Dopo tutto, fai parte anche tu di questa faccenda.»

«Io?!»

«Marco, gli mostreresti le foto?», chiese Étienne, prendendo Rodrigo per un gomito e sospingendolo verso il bancone. Come se fosse un bambino. O avesse bevuto un bicchiere di troppo.

«Sicuro», e Marco gli piazzò sotto il naso la story di Milo.

Dannato stronzo, pensò Rodrigo. Potevi pure avvisarmi! 

Ma poi il buonsenso, con la vocina petulante di Aiolos, gli suggerì che Milo aveva aspettato sin troppo. E che, forse, era stata proprio la sua chiacchierata con Adriano, qualche ora avanti, a far pervenire Milo alla decisione di rivelare i nomi dei tre contendenti.

 

«I cinquemila euro sono una goccia nel mare», gli aveva confessato una settimana – o una vita – prima lo stesso Milo, al tavolo dello Starbucks di fronte la Cattedrale di Saint Paul. «Certo, puoi comprartici una lievitatrice nuova. Rinnovare il servizio di bicchieri e delle posate, o prendere una macchina per l’espresso decente. Ma il vero guadagno è la pubblicità che ottieni. Tutto gratis. Senza nemmeno le tasse da pagare. Ed è un guadagno ENORME.»

 

Peccato che Tiennot non sembrasse interessato all’articolo.

Mia sorella ha iscritto il Cafè Verse-Eau, aveva detto.

Non un ho iscritto il Cafè; oppure un più rassicurante plurale, abbiamo iscritto il Cafè. Tiennot aveva usato la terza persona singolare. E questo poteva significare una cosa sola. Che a Tiennot non solo non interessava la competizione, ma che avrebbe fatto l’impossibile per restarne fuori. E Rodrigo seppe, con assoluta certezza, che quell’anno il Plaisir d’Amour – qualsiasi cosa fosse –  non avrebbe fatto bella mostra di sè sull’alzata del Cafè Verse-Eau.

 
   
 
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