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Autore: Orso Scrive    19/05/2023    1 recensioni
Alberto Manfredi e Aurora Bresciani ricevono l’incarico di gestire la sicurezza di una mostra dedicata alla storia della frontiera americana. Fare la guardia a vecchi cimeli privi di valore non sembrerebbe essere un incarico molto gratificante, per i due carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. Ma dovranno presto ricredersi, quando la mostra verrà sconvolta da uno strano furto, che sembra collegato a un’antica maledizione degli indiani d’America e alla scoperta, ai tempi della frontiera, di una miniera misteriosa…
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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17.

 

 

Monti della Superstizione, settembre 1865

 

 

Il cunicolo sembrava non avere mai termine. Le tenui e tremolanti luci delle lampade a petrolio dei due uomini rischiaravano a stento le tenebre, proiettando ombre che creavano strane figure sulle pareti intagliate. Strani echi si amplificavano nel budello sotterraneo, dando l’impressione di voci incorporee sussurrate da persone invisibili.

L’esplorazione dell’alto campanile di pietra aveva richiesto nuove e dure fatiche da parte dei due tedeschi. Weisner, come suo solito, si era limitato a obbedire a ciò che l’Olandese gli diceva di fare. Si erano dati da fare per interminabili settimane, sopportando ogni privazione pur di giungere alla meta. Avevano disceso canaloni, si erano arrampicati lungo pareti ripidissime, avevano visitato ogni anfratto.

Alla fine, stanchi e stremati, con gli abiti ridotti a pochi cenci che minacciavano di disfarsi in polvere, avevano scoperto il cunicolo. Spinti più dalla disperazione che dalla sete d’oro – quella, ormai, si era esaurita, quando la sete d’acqua aveva preso il sopravvento su ogni altra cosa – si erano inoltrati lungo la stretta galleria.

Non si erano fermati a domandarsi se fosse la strada giusta, se oltre quel cunicolo si trovasse realmente l’oro del capitano Kidd – o qualsiasi altro tesoro. Non si erano posti alcun quesito.

Avevano deciso di entrare senza parlare, e lo avevano fatto.

Erano stati costretti ad avanzare quasi carponi per diversi metri, trascinandosi sulle ginocchia e sui palmi spellati e sanguinanti delle mani, prima che il soffitto si sollevasse abbastanza da farli procedere eretti.

«Ci siamo quasi», ripeté l’Olandese, forse per la decima volta.

Nemmeno lui avrebbe saputo dire dove o a che cosa, fossero quasi arrivati.

Sapeva soltanto che era così.

Lo sentiva nell’anima.

L’interno della galleria era caldo e asfissiante. L’aria, secca e immobile, bruciava i polmoni. Se entrambi non fossero stati quasi del tutto disidratati, sarebbero senza dubbio stati ricoperti di sudore. Ma, ormai, i loro corpi straziati e sfiniti, smunti dalle interminabili peregrinazioni, non sembravano più nemmeno in grado di qualcosa di così semplice, banale e scontato come la sudorazione.

«Ne sei sicuro?» domandò Weisner.

La sua voce risuonò roca e graffiata. Erano diversi giorni che non proferiva verbo. Il fatto che avesse parlato, doveva indicare che, persino lui, cominciava a non poterne più.

L’Olandese fu sul punto di rispondere in modo affermativo. Sapeva che non ci sarebbe stato altro modo per convincere il suo socio ad andare avanti. Eppure, non aveva alcuna prova per dire qualcosa di positivo. La galleria, semplicemente, proseguiva in profondità, nel buio e nel calore che pareva sprigionato dall’inferno, in apparenza interminabile.

Poi, però, prima che l’Olandese avesse potuto formulare un qualsiasi pensiero abbastanza solido da poterlo trasmutare in parole, il tunnel si aprì in una vasta caverna. Una grande cavità sotterranea, dal soffitto tanto alto da sfiorare la sommità della montagna. La luce del sole, incuneandosi attraverso alcune crepe e fessure aperte nelle pareti rocciose, giungeva fin là sotto con disegni e ghirigori straordinari.

Entrambi gli uomini si immobilizzarono.

La grotta era un susseguirsi di stalattiti, stalagmiti e colonne di calcare e di pietra. Doveva esserci dell’acqua, perché la si sentiva scorrere da qualche parte. Le pareti erano ricoperte di graffiti e disegni antichissimi, che mostravano immagini stilizzate e imprecise di uomini armati di archi e frecce mentre davano la caccia a bisonti e altri animali.

Nel centro esatto della grotta, sopra un piedistallo di pietra illuminato in pieno da un raggio di luce, era poggiato un piccolo recipiente di terracotta, con il coperchio fissato da una corda rinsecchita.

Di oro, argento, gioielli e monete – insomma, di tutto ciò che si erano aspettati di trovare al termine della loro lunga ricerca – non c’era alcuna traccia. Se il leggendario capitano Kidd aveva davvero raccolto un imponente tesoro e lo aveva nascosto da qualche parte, non si trovava di certo in quella cavità sperduta in mezzo ai monti dell’Arizona.

L’Olandese tremò. Al proprio fianco, sentì Weisner fremere.

«Sarebbe quello il tesoro?!» sbottò l’uomo, alzando una mano in direzione del vaso. «Mi hai trascinato in questa follia per quello?!»

L’Olandese si voltò verso il suo socio. Non fu abbastanza rapido. Il pugno di Weisner lo colse alla sprovvista, colpendolo in pieno viso. Un pugno debole, a causa della mancanza di forze, ma in cui comunque vibrava tutta la rabbia repressa che l’altro uomo covava da chissà quante settimane.

Jakob Waltz incassò il colpo. Sentì una scossa partirgli dal naso e scendergli lungo il torace, attraversandogli tutto l’organismo. Sgomento, non disse una parola, limitandosi a guardare Weisner che, in preda a un cieco furore, partiva di corsa verso il centro della grotta.

Lo guardò maneggiare il vaso, rompere il sigillo di corda e togliere il coperchio. Forse sperava di trovare almeno lì qualcosa di prezioso, qualcosa che potesse giustificare tutti i loro patimenti, fosse stata anche soltanto una manciata di polvere d’oro.

Accadde tutto all’improvviso.

Dal recipiente uscì uno sbuffo di fumo polveroso, che avvolse completamente Weisner, celandolo alla vista. Poi la sabbia si condensò, assumendo le fattezze di una bellissima donna. Una donna dai lunghi capelli neri, vestita con una casacca di pelle con le frange che le arrivava a mezza coscia e i piedi avvolti in mocassini morbidi.

Inebetito, incredulo, l’Olandese guardò Weisner abbandonarsi a un abbraccio con quella donna misteriosa, e inutilmente cercò di urlargli di tirarsi indietro, di allontanarsi, perché una donna uscita da un vaso non poteva che portare con sé pericoli e sfortuna.

Cercò di urlare, ma non ci riuscì.

La voce si rifiutò di uscirgli dal corpo.

Riuscì soltanto a sentire l’urlo di Weisner, che si perse nella crescente oscurità che, all’improvviso, celò la grotta alla vista dell’Olandese.

Poi tutto divenne buio.

 

* * *

 

Waltz si risvegliò diverse ore più tardi.

L’aria fresca gli accarezzò il viso, e sentì qualcosa di caldo contro il naso. Riaprì gli occhi, cercando di mettere a fuoco qualcosa, di capire che cosa fosse successo.

Un cavallo era fermo al suo fianco, e stava cercando di risvegliarlo. Sotto il proprio corpo, sentì il contatto con l’erba fresca. Uno sciacquio ininterrotto gli suggerì che, a breve distanza, doveva scorrere un corso d’acqua.

Improvvisamente tornato in sé, l’Olandese si rizzò a sedere e si guardò attorno.

Per un istante, pensò di essere morto e che, quello, dovesse essere il paradiso. Dopo quel primo istante di esaltato smarrimento, si rese conto di essere ancora nel mondo dei vivi.

In lontananza, al termine della verde vallata, vide innalzarsi delle aspre e riarse montagne, rosse cupe contro il cielo blu cobalto. Le Montagne della Superstizione.

«Ma che diavolo…?»

Rinunciò a domandarsi che cosa ci facesse lì. Non volle nemmeno provare a immaginare come avesse fatto, in modo del tutto inconscio, a trascinarsi fuori da quella grotta maledetta e a percorrere qualcosa come centinaia di chilometri, senza acqua e senza viveri.

Per un istante, il ricordo di quello che era accaduto nella grotta gli attraversò la mente. Rivide la bellissima donna uscita dal vaso e Weisner che l’abbracciava. Durò pochi secondi. Si convinse di aver sognato.

«C’è stato un crollo», dedusse.

Un crollo che aveva scatenato una nube di polvere che, per qualche strano gioco del caso, aveva assunto per un attimo le fattezze di una forma femminile. Il resto lo avevano fatto i suoi sensi, accesi dalla stanchezza e dalla paura.

«Povero Weisner», borbottò.

Era chiaro che, il suo socio, non doveva avercela fatta a scampare al crollo. Tante fatiche e sangue spesi alla ricerca del tesoro, per poi lasciarci la pelle in quella maniera.

L’Olandese fece per balzare in groppa al cavallo che lo aveva svegliato, quando il suo sguardo fu attratto da un involto appoggiato accanto alle sue zampe.

Non ebbe bisogno di aprire il sacco di iuta chiuso da un laccio per sapere che cosa contenesse.

In un qualche modo che non provò nemmeno a spiegarsi, era riuscito a salvare l’antico recipiente dal crollo e lo aveva portato con sé.

«Magari ne ricaverò qualcosa vendendolo a un museo o a qualcosa di simile», concluse.

Una ben magra consolazione, viste tutte le fatiche che aveva affrontato, ma era pur sempre un risultato. Meglio accontentarsi di quello che aveva avuto e, soprattutto, di aver riportato a casa la pelle – anche se un po’ malmessa e rinsecchita.

Afferrato l’involto, l’uomo si issò sul cavallo e lo spronò.

Jakob Waltz, detto l’Olandese, partì verso il tramonto.

 
   
 
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