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Autore: Francine    29/05/2023    5 recensioni
Milo Papadopoulos, rampante chef, re dei social network e host di innumerevoli programmi sulla cucina, ha indetto un concorso per trovare un dolce che incarni la vera essenza di S. Valentino. E un bel giorno nella sua casella di posta elettronica trova la candidatura del Cafè Verse-Eau, elegante locale di Parigi, a Montmartre, a due passi dal Sacro Cuore e dal Carousel des Abbesses.
Peccato che Étienne Arnoul, il giovane proprietario del Cafè, non solo non badi molto alla promozione sui social, affidandosi al traffico di turisti che affollano Montmartre, ma non abbia neppure candidato il proprio locale alla singolare tenzone...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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9.
 
 
Che faccia da imbecille, pensava Rodrigo guardando e riguardando il post sul profilo Instagram del Verse-Eau.
Se ne stava a fissare il vuoto da dietro le lenti degli occhiali, una tazza di americano tra le dita e l’espressione da povero demente – da persona costipata, avrebbe detto Yngve – che affligge quasi tutti i modelli e le modelle delle pubblicità più disparate.
Perché la gente dovesse sfoggiare uno sguardo intenso, qualunque fosse il momento della giornata e qualsiasi cosa reclamizzasse – dai fazzoletti al sapone da barba, allo shampoo per i pidocchi, alle camicie in popeline –, era e sarebbe rimasto un mistero.
 
Coco doveva aver rubato quello scatto in un momento di pausa, uno dei tanti che si concedeva con la scusa che non c’era molto da fare. E adesso Rodrigo capiva come mai armeggiasse tanto con lo smartphone; lui pensava – beata innocenza – che stesse chattando con qualcuno (un’amica, un amico, vattelappesca). E invece, no. Cercava un’immagine da piazzare sul proprio account. 
Impression, Cafè Verse-Eau, recitava la didascalia. 
Sì, era simpatica. Catturava lo spettatore di passaggio con l’allusione, nemmeno troppo velata, a Monet – perché, come diceva Marco, se non la tocchi pianissimo, tanto vale non toccarla nemmeno.
Però, Rodrigo avrebbe preferito che ci fosse stato qualcun altro, al suo posto.
Così imparo a non farmi venire i dubbi, si disse. 
 
Il problema, e qui doveva dare ragione ad Aiolia, era che con gli smartphone non si capiva mai se qualcuno stesse controllando il display e le millemila notifiche che di norma lo affollavano – c’era e sempre ci sarebbe stata l’App, con dignità di maiuscola, imprescindibile e immancabile con cui zavorrare la memoria del proprio telefono –; o se, come era capitato a lui, quel qualcuno non stesse scattando una fotografia. Infischiandosene di eventuali passanti innocenti, ça va sans dire
O approfittandone.
 
«Il problema dei social», soleva ripetere Aiolia, in maniera quasi ossessiva, con il piglio da saputello di quasi tutti i tuttologi che affollavano qualsiasi angolo dell’etere lasciato libero, «è che hanno dato la stura alla smodata competizione che possiede oi polloi. Nemmeno fosse un daimon da esorcizzare. La gente è in perenne gara con dei perfetti sconosciuti a mostrare l’angolo più bello, lo scorcio più suggestivo, lo scatto più mozzafiato, e sai come finisce? Che scattano tutti la stessa foto. Ovviamente tanto spontanea da far sembrare le fototessere automatiche dei ritratti d’autore.» Pausa drammatica. «Bei tempi, quando Instagram era solo il social dei fotografi. Quelli veri!»
E, anche se, come tutti i tuttologi di cui sopra, Aiolia era rimasto alla Kodak usa e getta – non che questo gli impedisse di pontificare –, Rodrigo doveva dargli ragione.
Stramaledetta ragazzina…
 
«Quel post ha fatto furore, sai?» Coco si era materializzata alle sue spalle, il vassoio davanti al petto e lo sguardo al display del suo telefonino. «Hai visto quanti commenti? E non hai idea dei like che ha ricevuto!»
 
Non voglio saperlo, pensò lui, rigirando lo schermo verso il tavolo.
Tiennot – Étienne. Si chiama Étienne. – non l’aveva strozzata. E questo era stato un gran sollievo. Gli sarebbe dispiaciuto dovergli portare le arance ogni domenica mattina. Sarebbe stato un vero e proprio spreco.
 
E perché mai tu avresti dovuto portargli le arance?, gli domandò la voce del buonsenso. 
Così. Per dire.
Il suo buonsenso ebbe la misericordia di non ribattere oltre.
Sì, sarebbe stato un vero peccato se Tiennot – Étienne, buon Dio. Étienne! –  avesse dovuto sprecare venti o trent’anni dietro le sbarre. Tutto quel talento per il dolce della domenica… Quello sì, che sarebbe stato un crimine! 
Tuttavia, Rodrigo non era affatto entuasiasta di essere finito sull’account di qualcun altro. A sua insaputa.
 
«Cambia lo status da pubblico a privato», gli aveva intimato Shaina. E lui, da bravo soldatino, aveva obbedito.
 
«Dammi il tuo handle, ché ti taggo!», insistette Coco. E per fortuna che i francesi proteggono la loro lingua come se fosse un tesoro inestimabile, pensò Rodrigo. «Così le ragazze chiederanno a te di uscire.»
 
«Prego?»
 
«Te l’ho detto. Hai fatto furore.» Lei ridacchiò. Poi prese il proprio smartphone, aprì Instagram e gli mostrò il post. «Molti commenti chiedono di avere i tuoi contatti. Non serve che ti spieghi io il perché, giusto?», e Rodrigo tastò di prima mano quanto potesse essere spiacevole essere trattati come un quarto di manzo al mercato. O una vacca intera.
 
«Non sono interessato. Grazie.»
«Ci sono anche ragazzi, sai?», e Rodrigo si chiese se a Tiennot – Étienne. Proprio non ti garba Étienne? –  sarebbe dispiaciuto se avesse tirato il collo a sua sorella. E quanto.
Secondo me, te la tiene ferma, gli suggerì il buonsenso. Che ormai era in procinto di saltare il fosso ed abbracciare il Lato Oscuro della Forza.
Join the Dark Side. We have les croissants.
Coco piegò la testa da un lato. 
«Tiennot mi ha detto tutto», gli confessò, facendogli l’occhiolino. «Hai detto che non sono il tuo tipo. In genere, dopo il suo approccio non si fanno più vivi. Tu, invece, sei tornato. E allora, ho capito.» 
Lui la fissò ad occhi sgranati.
Capito, cosa? Che cazzo stai dicendo? 
Aspettò una spiegazione sensata, o perlomeno coerente. Uno spiegone à la Sherlock Holmes, anche solo una comparsata di Poirot e delle sue celluline grigie. O un’illuminazione sulla via di Damasco. Qualcosa.
Ma niente.
Coco sospirò. E, con fare melodrammatico, aggiunse: «Pazienza…».
 
Sì, mi ringrazierà, pensò. Prima mi terrà il muso per avergliela strozzata io. Ma poi mi ringrazierà. Oh, se mi ringrazierà…
«Come vanno gli esperimenti?», le chiese. In punta di fioretto.
Coco tacque.
Non era un segreto che, ormai da qualche giorno, terminato il suo turno al Cafè, la ragazza indossasse il camice, si legasse i capelli e iniziasse a sperimentare una versione del Plaisir d’Amour
Quanto poteva essere difficile?
Prima o poi, ce l’avrebbe fatta, a suon di provare e riprovare, no?
Certo, non sarebbe stato buono quanto quello di Tiennot –  che comunque non era buono nemmeno un decimo di quello di Rémy, ripeteva lei –,  ché Tiennot aveva alle spalle molte più ore di volo, e conosceva una manciata di trucchetti per salvare la situazione e risolvere qualsiasi imprevisto. Non sarebbe stata la versione di Tiennot. Sarebbe stata la sua. E pazienza se Milo Papadopoulos le avrebbe riso dietro fino all’eternità. Il solo fatto di averci provato sarebbe stato sufficiente per buona parte dei follower dell’enfant prodige della cucina internazionale. Anzi, avrebbe avuto il fascino maudit e bohémien dell’underdog. Delle strade in salita, categoria Mont Ventoux. Delle cause perse in partenza e miracolosamente portate a casa. Les Fleurs du Mal, versione XXI secolo.
 
Peccato che questo piano –  il cui piglio orgoglioso Rodrigo sposava a piene mani –  avesse un’unica, enorme falla: Coco. La quale non era in grado di distinguere un soufflé da una bouillabaisse o un clafoutis da una ganache. Certo, era consapevole di cosa si stesse parlando – secondo piatto, zuppa di pesce, dolce alle ciliegie e crema al cioccolato –; ma da qui a spiegare preparazione, passaggi, dosi ed ingredienti di ogni singolo piatto… per tacer dell’esecuzione.
Così, era più il tempo speso a rendere di nuovo agibile il laboratorio dopo il suo passaggio, che quello che la ragazza impegnava in catastrofici apprendimenti. E, del Plaisir d’Amour, nemmeno l’ombra.
 
Tiennot aveva deciso di usare la linea dura, e Françoise, per una volta, si era trovata d’accordo con il figlio maggiore. Coco sarebbe uscita da quell’impiccio colle proprie gambe, o non ne sarebbe uscita affatto.
E se da un lato a Rodrigo piaceva questa solonica visione delle cose, c’era il rischio concreto che il suo lavoro finisse a gambe all’aria. Come Alaphilippe alla Liegi-Bastogne-Liegi. O forse anche peggio.
Shaina, interpellata subito dopo il brindisi al Cafè, non l’aveva presa bene. Smoccolando peggio di un camallo di cattivo umore, gli aveva consigliato di prendere tempo.
«Aspettiamo», aveva risposto. «Semmai non dovessero far pace con il cervello, possiamo sempre ripescare le informazioni generiche che hanno specificato al momento dell’iscrizione.»
Aveva bevuto un sorso di qualcosa –  la sua immancabile tisana drenante alle ciliegie, forse –  e aveva aggiunto: «Tu sei lì a fare da cartina tornasole. A controllare che non abbiano infiocchettato la verità. Non troppo, almeno.».
Non le aveva chiesto cosa sarebbe accaduto nel malaugurato caso in cui qualcuno avesse ingigantito ed imbellettato la reale natura delle cose. Non ne aveva avuto il coraggio.
 
La voce –  il sospiro accorato –  di Coco lo riscosse dai suoi foschi pensieri.
«Male», confessò lei. «Malissimo.»
Pausa.
«Avanti di questo passo, non caverò un ragno dal buco» 
Altra pausa pregnante. 
Altro sospiro melodrammatico da far invidia a tutte le Violetta e le Mimì che avevano infestato Parigi nel corso della sua storia. 
Altro, soffertissimo:«Pazienza.».
«Non sono fatti miei», esordì Rodrigo, mentre la voce del buonsenso, come un coro greco, rimarcava il concetto testé espresso, «ma non c’è proprio possibilità di convincere tuo fratello ad aiutarti?».
 
Lei lo guardò come se gli fossero spuntate, nell’ordine: sei teste, quattro paia di ali da drago, dodici paia di corna ed altrettante paia di occhi. La Bestia che sale dal Mare. O quella che giunge dal Deserto. O tutt’e due.
«TU non conosci Tiennot», disse – soffiò, come fosse un segreto indicibile, da sussurrare appena nelle notti di novilunio, quando anche il proprio respiro assomiglia ad una sentenza di morte.
«No, certo», convenne lui. Il suo buonsenso annuì. «Però, è davvero impossibile sanare la situazione? Tu lo conoscerai, no? Se gli chiedessi scusa, lui non ti aiu-» -terebbe?, ma lei non gli diede il tempo di terminare la frase.
«No. Tu proprio non conosci Tiennot», concluse, prima di tornarsene dietro il bancone scuotendo la testa, la coda di cavallo che ondeggiava pigramente. Rassegnata, quasi.
 
«Lavoriamo sodo, eh?»
Françoise, la madre di Tiennot e Coco, sembrava averlo preso in simpatia. Nemmeno fosse il fidanzato dell’uno dell’altra. Ci pensò su un istante. Naaah, si disse. Tiennot è etero. E poi le rispose: «Eh, sì. Il tempo stringe. Mi dispiacerà lasciare questo posto.».
Quella risposta parve piacerle.
«Eh, lo so. Partir, c’est un peu mourir, n’est-ce pas?», aggiunse, spolverando il tavolo e portando via la tazza ormai vuota. «Ti porto qualcos’altro?»
Per il momento sto bene così, grazie, avrebbe voluto risponderle. Aveva dovuto acquistare due paia di pantaloni di una taglia più grande, e se avesse continuato ad assecondare il palato, sarebbe rientrato a Londra rotolando. E forse non sarebbe neppure riuscito a passare per la porta di casa. Ma poi vide lo sguardo della donna – dolce e materno – e non se la sentì di dirle di no.
«Una spremuta d’arancia», le rispose. E poi aggiunse: «Non so come facciate a rimanere tutti così magri come acciughe con i dolci di Tiennot…».
Françoise ridacchiò ed arrossì. «Troppo gentile», disse, e si diresse al bancone per preparargli la spremuta.
Fu in quel momento che entrò il donnone con il turbante rosso.
 
«Oh, sei qui.»
Lo disse come se avesse temuto di non trovarlo al solito posto, davanti alla vetrata panoramica. O se l’avesse cercato in lungo e in largo per tutta la città. Banlieue comprese.
Rodrigo la guardò accomodarsi accanto a lui, posare il proprio borsone sul pouf verde bottiglia e sfilarsi la sciarpa dal collo. 
«Fanchon, il solito!», urlò rivolta al bancone, col sempiterno tintinnio d’argento. Poi portò gli occhi su di lui – occhi da civetta – e Rodrigo ebbe la sgradevole contezza di cosa dovesse provare uno sparuto topolino di campo, di fronte a quel genere di sguardo. O anche una pingue pantegana di città.
«Oggi Tiennot farà le crêpe.» Lo disse come se stesse rivelando un segreto capitale. «Sì, lo so. La Candelora è passata. E allora? Le crêpe di Tiennot sono ottime in ogni stagione. Pure d’agosto. Scrivilo, su quel tuo libro», aggiunse, picchiettando sulla superficie immacolata del tavolo con l’indice laccato di rosso sangue.
«Maman, lascialo stare. Sta lavorando.»
Françoise – Fanchon – era intervenuta in suo soccorso, ponendo un bicchiere di spremuta d’arancia e un cappuccino con molta schiuma, misera barricata di fortuna tra lui e quel donnone energico. Parigi, 1870 reloaded.
«Lo so», ribatté lei. «È per questo motivo, che glielo sto dicendo. Lo sto aiutando, Fanchon. Vero, giovanotto?»
No, avrebbe voluto ribattere. Ma poi il ricordo del viso arcigno e severo e per nulla compiaciuto di suor Bertilla, che poco gradiva la mancanza di educazione nei confronti degli anziani, e soprattutto delle ore passate in ginocchio sui ceci secchi a rimuginare sui propri errori, lo fecero optare per una strada più diplomatica.
«Verissimo», disse. «Ogni informazione è più che preziosa.»
A Maman Louise piacque quella risposta. Gli diede un colpo affettuoso con il gomito e disse: «Così si fa.». Poi, rivolgendosi a Françoise, ribadì: «Di’ a quel pelandrone di tuo figlio che voglio delle crêpe Suzette.».
«Temo che dovrai accontentarti della classiche crêpe alla marmellata, Maman.»
«Crêpe. Suzette», quasi sillabò il donnone. «Se non avete il Cointreau, vado a prendervelo io.»
Françoise sospirò. «Vedrò cosa posso fare», e tornò dietro al bancone.
 
«Tiennot è buono e caro, ma è così testardo», si lasciò sfuggire Maman Louise. «Niente cose fuori menù, dice lui. Basta insistere appena, dico io.»
«Funziona?»
«Garantito.»
«Buono a sapersi», commentò Rodrigo. «Ma forse è meglio omettere questo piccolo particolare nella mia guida, no?»
Quell’approccio parve piacere al donnone. Sorridendo, versò lo zucchero nel cappuccino, mescolò la bevanda un paio di volte e ne gustò un sorso, lasciandoselo scivolare in punta di lingua. Poi, come se all’improvviso si fosse ricordata di qualcosa, posò la tazza sul piattino e rovistò nel suo borsone, tirandone fuori un mazzo di carte dai bordi consumati.
«Che testa!», disse, quasi scusandosi. «Eh, ho proprio bisogno di una lunga, lunghissima vacanza.»
E prese a mischiare le carte. Poi posò il mazzo davanti a lui e gli disse – gli intimò – : «Taglia. Con la mano sinistra. E non incrociare le gambe.».
 
Rodrigo sbatté le palpebre un paio di volte. Ecco, ci mancava l’attrazione pittoresca, pensò. «Non credo in queste cose», disse, con ferma gentilezza.
«Nemmeno io», ribatté lei. «Avanti. Su. Taglia il mazzo.»
E Rodrigo si disse che insistere sarebbe stato una perdita di tempo.
Ormai era chiaro che il Plaisir d’Amour non avrebbe partecipato alla sfida. 
Milo, dando per scontato che fosse sopravvissuto al tentativo di avvelenamento da parte di Coco, avrebbe dovuto scegliere tra Yngve e Marco e sarebbe stato molto, ma molto più prudente per lui trovarsi a miglia e miglia di distanza quando ciò sarebbe successo. Sarebbe stato saggio trovarsi in un altro posto. Un altro continente. Un altro emisfero. Uno sprovvisto di cartomante, ad esempio.
 
Accontentò il donnone dall’età indefinibile e divise il mazzo in due.
«Prendi la prima carta», ordinò Maman Louise. Lui obbedì e gliela porse. 
«Asso di Spade.» 
Sembrava soddisfatta. Quasi si aspettasse quel risultato. E Rodrigo si chiese se, per caso, quello non fosse un mazzo sistemato alla bisogna. Come in un gioco di prestigio. 
«Indica un nuovo inizio. Ci sarà da lottare. Da sudare. Ma ne varrà la pena.»
A-ah, pensò lui. Annuì. In quel modo che si riserva ai vecchi e ai pazzi.
«Poi me lo saprai dire», lo apostrofò lei. «Reagiscono tutti così. Tutti. Pure il marito di Fanchon non mi credeva, quando gli predissi che avrebbe sposato una bionda. “Maman, a me piacciono more!”, ridacchiava. Indovina com’è finita? Che ho avuto ragione io e lui torto.» Ridacchiò, il solito coro argentino a farle da antifona. «Quando la previsione si avvererà, mi darai ragione pure tu.»
 
Facile così, pensò lui, fissando quella carta. Una mano che sbucava da una nuvola e reggeva salda una spada – un brando – nel pugno chiuso. Con frasi generiche, che possono andar bene per qualsiasi contesto, è facile dire, poi, di averci azzeccato.
«Vorrà dire che le offrirò un caffè, madame
«Maman», lo corresse lei. «Io sono Marie Louise. Milou. Ma per tutti, qui, io sono Maman Louise.»
Sollevò la prima carta dell’altro mazzetto. Gliela mostrò.
«Asso di Coppe.»
Stavolta il disegno, più che una coppa, raffigurava una specie di fontana a forma di coppa, che zampillava rivoli d’acqua tutt’attorno a sé.
Indovina, indovinello, pensò Rodrigo. Fortuna in amore…
«Predice una nuova impresa. Un nuovo lavoro. Anche una gravidanza, ma non credo sia questo il caso», e Rodrigo sentì il proprio sguardo allargarsi. Shaina e Adriano, pensò. Non avevano quasi rinunciato all’idea di mettere in cantiere un marmocchio, dopo che lei ne aveva persi due?
Non farti infinocchiare, si disse. Sono frasi generiche, buone per tutte le stagioni.
Eppure, qualcosa, dentro di lui, risuonò. E il donnone se ne accorse.
 
«L’Asso di Coppe è un nuovo inizio, che riguarda prettamente qualcosa che ci sta a cuore», gli spiegò. «Questa carta», aggiunse, mostrandogliela più da vicino, «sta a confermare l’Asso di Spade. Ci sarà da combattere, non farti illusioni. Ma tu mi sembri un tipo combattivo, no?»
Una volta, forse, pensò lui, mentre annuiva alla donna. Combattere aveva senso se c’era qualcosa in palio, qualcosa per cui valesse la pena smuovere le umane e divine cose. E, al momento, Rodrigo Diaz non vedeva nulla, all’orizzonte, per cui sputare sangue, se non la guida a cui stava lavorando.
Sorrise. Forse quella donna un po’ toccata lo stava incoraggiando, a modo suo. Che altro potevi aspettarti da una cartomante, se non un approccio fideistico ed esoterico? Sarebbe stato strano il contrario, no?, si disse. Veicolando a sua insaputa Aiolia.
 
«Diciamo di sì», rispose.
«O è sì, o è no», lo rimbeccò lei. E qualcosa vibrò dentro di lui. Perché Rodrigo avrebbe risposto alla stessa, identica maniera se qualcuno, dall’altra parte, non avesse preso una posizione netta. E si chiese che fine avesse fatto quell’approccio manicheo e indefesso. 
Nella pattumiera, rispose il suo buonsenso.
«Per certe cose, non esistono vie di mezzo, o scale di grigio», continuò Maman Louise. «O si è. O non si è.»
E Rodrigo si ritrovò a darle ragione.
«Vediamo un po’.» 
Il donnone proseguì con la lettura delle carte. Ne voltò un’altra manciata sul tavolo, le dispose secondo un preciso schema, chiaro solo a lei, e poi ci pensò su.
Rodrigo attese.
Che altro avrebbe potuto fare?
Rimetterti a lavorare, magari, si sentì suggerire dalla buona coscienza rediviva. La voce di Aiolos. 
Non era poi una cattiva idea. Così la signora, forse, avrebbe tolto il disturbo e lo avrebbe lasciato lavorare in pace. Ma, se l’avesse fatto in quel momento, il donnone sarebbe stato capace di piantare un casino mica da ridere.
Appena avrà finito con queste scemenze, si disse – si promise. E, nel malaugurato caso in cui avesse continuato a cianciare di assi, carte e tarocchi, si sarebbe ricordato di un appuntamento improrogabile, avrebbe messo tutto nello zaino e se ne sarebbe andato via. Magari per un paio di giorni. O forse tre.
E se nel frattempo Tiennot – Étienne. É. Ti. En. Ne. –  fosse capitolato e avesse fatto questo benedetto Plaisir d’Amour, tanto meglio.
Lui doveva ancora sbrigare un paio di formalità.
Quel salto al Quartier Latin, ad esempio.
La data della partenza si avvicinava. Isabelle glielo aveva ricordato quella stessa mattina. E lui non poteva ignorare oltre quella manciata di strade attorno alla Sorbona. Anzi. Vista la bella giornata, si sarebbe fatto coraggio, avrebbe pagato il conto (e girato la spesa a Shaina) e avrebbe attraversato la Senna.
 
Il donnone alzò la testa in quel preciso momento.
«Sette di denari. Il Matto. C’è uno spostamento che ti attende», vaticinò. Sì, il mio rientro a casa, pensò lui. «Un trasloco», precisò la voce un po’ roca della donna.
Rimase impassibile. La vedo dura. Ho il contratto d’affitto valido per altri tre anni, pensò.
Maman Louise gli indicò le ultime carte. La Torre. Il Giudizio. La Morte. L’Innamorato.
«La Torre indica un qualcosa di improvviso. Di inaspettato.» Pausa. «Hai presente una tegola che ti cade tra capo e collo? Ecco.»
Oh, che fortuna, pensò, lo sguardo fisso sulle carte, che non sembravano esattamente amichevoli. Specie la Morte, con quella falce che prometteva lo stesso trattamento riservato alle teste mozze sul terreno, e il ghigno del teschio che sbucava da sotto al cappuccio nero. Niente di personale, amico, sembrava dire quella Lama – ecco come si chiamano! Lame – ma Rodrigo non ne sembrava sollevato. Affatto.
«Il Giudizio rinforza il carattere inaspettato dell’evento. Una telefonata. Una mail. Una cosa del genere», aggiunse lei. «La Morte è una trasformazione di qualche tipo. Morte, sì. Non letterale, ma metaforica. Ma poi c’è la rinascita.»
«Garantito?», si sentì chiederle.
Lei ridacchiò. «Io mi preoccuperei più di questa carta», disse il donnone, prendendo l’Arcano dell’Innamorato e piazzandoglielo davanti agli occhi. «Ti aspetta una scelta. Una scelta fondamentale.»
Ho già scelto, pensò lui. Da domani non mi vedrete più. «Ho capito.»
«No, non hai capito.» Lo sguardo della donna era serio. Serissimo. Ma non aveva detto di non credere a queste cose? Prese un’altra carta e sorrise. «Il Carro. Trionfo assicurato.»
Mai nessuno che ti predice disgrazie, pensò Rodrigo. Sarebbero più credibili. «Splendido», commentò, con poca convinzione.
Maman Louise ridacchiò ancora.
«Me lo saprai dire», lo ammonì, riprendendo le carte, gettandole alla rinfusa nel suo borsone pieno di carabattole e alzandosi dal tavolo. «E adesso, se non ti spiace, vado a guastarmi le mie crêpe. Con permesso…»
E così dicendo si diresse verso il bancone, proprio mentre Coco usciva dal laboratorio con un piatto in mano. Parlottarono tra loro, il donnone si accomodò e la ragazza lasciò il bancone per dirigersi verso di lui.
 
«Sopravvissuto a Milou?», gli chiese.
«Diciamo di sì.»
Lei si strinse nelle spalle. «Prima o poi, sarebbe dovuto accadere», filosofeggiò, con uno stoicismo all’acqua di rose. «Milou fa una stesa gratuita a tutti i clienti fissi del Cafè. Anzi, è strano che non te l’abbia fatta prima.»
«Capisco», tagliò corto lui. Non aveva deciso di andare al Quartier Latin? Certo che sì. Meglio battere il ferro finché è caldo, diceva sua nonna, e Rodrigo aveva tutta l’intenzione di fare un salto laggiù durante il giorno. Quando la vista delle strade, del pavé e dei tetti blu stinto non gli avrebbe fatto troppo male. «Mi prepareresti il conto, per favore?»
«Certamente.» 
Lo disse, ma rimase lì, accanto al suo tavolo, ritta come un soldatino di piombo.
E adesso che c’è?, pensò lui. Le rivolse uno sguardo. Come a dirle: «E allora?». Ma lei si stava cercando le parole nelle tasche dei jeans, e lo stava facendo con molta, molta accuratezza.
«Senti, che fai stasera?»
Lui la fissò perplesso. «Prego?»
«Che fai stasera?», ripeté lei. Come se all’improvviso lui fosse diventato duro d’orecchi. O di comprendonio. O entrambe le cose assieme. «Ho bisogno di una serata libera. Per far snebbiare il cervello. E c’è un ristorante vegetariano che vorrei provare. E…»
Lui alzò una mano. Come a volersi difendere da quel fiume di parole sconnesse. «E io che cosa c’entro?», le chiese.
«Tu scrivi una guida per innamorati, no?» 
Lui annuì. 
«Ed esistono anche innamorati vegetariani. No?»
Lui annuì, ancora.
«Io ho bisogno di una serata libera. O impazzirò. Più di quanto non sia già pazza», chiarì lei. «Quindi, visto che non sono il tuo tipo, che ne diresti di andare a cena?»
Ma se io avessi altri piani?, si domandò lui. Sinceramente perplesso.
«Perché non ci vai con il tuo ragazzo?», chiese.
«Perché non ce l’ho, il ragazzo.»
«Le amiche, allora…»
Lei ridacchiò. «Le amiche? A ridosso di San Valentino?» Sbuffò. «Sarebbe più semplice uscire a cena con Stromae.»
«Capisco», le rispose. «Ma ho già visitato i ristoranti vegetariani e…»
«Non ci credo!», ribatté Coco. «Sei stato pure al Chez Tante Giselle
No. Quello gli mancava. Inutile mentire.
«No. Non ci sono andato», disse. «Dov’è?»
«Quinto Arrondissement», rispose lei. Secca e rapida come la lama della ghigliottina. «Hai presente rue du Dragon?»
Lui aggrottò le sopracciglia. 
«Hanno aperto un ristorante in rue du Dragon?», le chiese sbigottito.
«Sì. Te lo sto dicendo.»
«Quando?»
«Un paio di mesi fa. Prima di Natale, se non sbaglio.» 
«Ma dov’è il ristorante? A che altezza?»
«Civico 23», rispose Coco. «All’angolo, subito dopo il tabaccaio.»
«Ma lì c’è la macelleria kosher», protestò lui.
«C’era», specificò lei. «Il vecchio David è andato in pensione e la figlia, Giselle, ha deciso di aprire un ristorante. Vegetariano.»
«Ma veramente?!»
«Certo che sì», rispose lei. «E la cucina di Giselle è da urlo!»
 
Ma sai che forse non è poi una cattiva idea?, pensò. E poi lo disse: «Ma sai che forse non è poi una cattiva idea?».
«Evviva!» Saltellò sul posto, come una bambina a cui hanno promesso un giro sulla ruota panoramica. O sul cavallo bianco del Carosello. «Allora è andata!»
«Andata», disse lui.
«Prenoto io. Va bene alle sette?»
«Va benissimo», rispose.
«Ah, sei mio ospite.» Pausa. «Per farmi perdonare della tua faccia sull'account del Cafè Verse-Eau
No, non se ne parla, stava per dirle; al massimo, ognuno avrebbe pagato per sé. Ma lo sguardo di Coco non ammetteva repliche.
«Pago. Io», quasi sillabò lei. «Siamo nel XXI secolo. Una ragazza può offrire una cena ad un amico, no?»
E va bene, si disse Rodrigo. Avrebbero ripreso il discorso al momento di pagare il conto. O forse avrebbe dato retta a quella vocina subdola – quella di Aiolia – che gli sussurrava, con tono melodioso, che sì, era il caso che quella ragazzina si prendesse la responsabilità di qualcosa, una volta tanto. 
Così soffiò un: «Andata», sollevò le mani in segno di resa – momentanea – e aggiunse: «Ma adesso avrei davvero bisogno del conto.».
Lei annuì, la coda di cavallo svolazzò alle sue spalle, e, esclamando: «Arriva!», si diresse verso il bancone.
 
Rodrigo tirò un sospiro di sollievo.
Qui sono tutti fuori come balconi, pensò, iniziando a raccogliere le proprie cose e chiedendosi come avrebbe impegnato il pomeriggio. Non c’era quel bistrot proprio davanti il Musée d’Orsay? Quello che all’esterno sembrava un (bel) po’ male in arnese, ma all’interno era un piccolo gioiellino scappato dai romanzi di Maigret?
Controllò gli appunti.
Sì, c’era. Ma era attorno al Quai des Orfèvres. 
Pazienza. Avrebbe girato per Saint Germain, Rue du Bac e controllato i dintorni. E poi, solo quando sarebbe stato improrogabile, si sarebbe avvicinato al Quinto Arrondissement. Era un buon piano. 
E così fece.
 
Qualche ora più tardi, riflesso nello specchio appannato della chambre d'amis, Rodrigo stava vagliando con cura i suoi vestiti in cerca di cosa indossare. Sì, Coco non era il suo tipo – e forse non lo sarebbe stato neppure quando si credeva etero convinto: graziosa, simpatica e alla mano, ma troppo, troppo, troppo impulsiva. E cocciuta. Tuttavia, Rodrigo Diaz detestava presentarsi ad un appuntamento in maniera sciatta. Era sintomo di maleducazione. Gli piaceva scegliere cosa indossare. Anche se il suo guardaroba al momento gli consentiva delle opzioni ristrette – letteralmente e metaforicamente –, un asciugamano attorno ai fianchi e i capelli asciutti, cogitava su quale camicia indossare per la serata. Quella bianca? O forse sarebbe stato meglio il dolcevita nero?
Il dolcevita. Fa freddo, stasera, gli sussurrò il Buonsenso – con dignità di maiuscola. La dignità di Aiolos – e lui obbedì.
Dolcevita, giacca di velluto rosso, jeans scuri, dopobarba, giaccone pesante, sciarpa, telefono, chiavi e finalmente via in strada, uscendo su rue Pigalle, mentre ciascuno tornava alla propria abitazione e ai propri affanni.
In quella, gli arrivò un messaggio di Coco.
Lei gli aveva dato il proprio numero, scrivendolo sul retro dello scontrino fiscale. 
«Nel caso dovesse succedere un qualche imprevisto», gli aveva spiegato lei, come voler sgombrare il campo da qualsivoglia fraintendimento, e lui l’aveva reputata un’idea sensata. «Aggiungimi su Whatsapp», lo aveva esortato, e lui aveva obbedito.
 
Ciao,
Giselle mi ha confermato il tavolo per le sette e trenta.
Coco
 
Erano le sei e dieci.
Pazienza. Avrebbe fatto volentieri due passi. E forse c’era anche tempo per un salto alla Shakespeare and Company
Perché no?, si disse, alzandosi il bavero del giaccone e dirigendosi verso la Senna, giù per strade, stradine e vicoletti, fino a sbucare a Saint-Germain-des-Prés, consentendo ai suoi piedi di guidarlo senza una meta precisa.
Lasciò che Parigi e la sua allure lo attraversassero, senza opporre resistenza. Con dolcezza. E alla fine, si ritrovò davanti alla ex macelleria kosher di David.
L’insegna era cambiata, i colori scelti viravano verso il verde prato, il giallo Napoli e il bianco, e c’era un discreto numero di persone davanti al ristorante. Ma di Coco nessuna traccia.
La busta di Shakespeare and Company in una mano e l’aria perplessa, Rodrigo controllò il display del proprio telefono. Niente. Ed erano le sette e venticinque.
Aspetto altri dieci minuti. Poi confermo il tavolo e torno fuori, si disse, quando una voce – una voce nota ed una tantum non nella sua zucca – lo apostrofò: «E tu che ci fai qui?». 
Rodrigo si voltò.
Tiennot – Étienne! Étienne! Étienne! Tiens-le bien! – lo stava osservando dentro al suo cappotto blu scuro, l’aria sinceramente curiosa ed anche un po’ incazzata di chi si ritrova invischiato in un appuntamento al buio.
Io la strozzo, pensò Rodrigo. Io. La. Strozzo. 


Lo giuro sul canguro. Sui ceci. E pure sui cocci. Risponderò a tutte le recensioni e i messaggi entro la settimana.
Mi scuso del ritardo apocalittico, ma la vita ha ingranato il turbo, e io posso solo aggrapparmi al cruscotto, nella speranza che non deragli
once again come le piace tanto fare. Ma tanto, tanto, tanto, TANTO.
Arrivo. Portate pazienza.


   
 
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