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Autore: Nadine_Rose    19/06/2023    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
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Capitolo-62-Agnese-bambina

Nella foto, come immagino Agnese.

L’attrice è Giulia Roberto, dalla docufiction “Figli del destino”, nel ruolo di Lia Levi sopravvissuta alla Shoah.

 

Capitolo 62

 

La pellicola dei ricordi

 

Prima parte

 

- Agnese -

 

“Vorrei tu fossi qui.

O io lì.

O noi dovunque.”

Fabrizio Caramagna

 

Stazione di Roma Termini, 24 maggio 1947

 

Dopo mille chilometri e più, ventiquattr’ore di viaggio, tre infiniti e tortuosi anni di vita, i piedi di Hermann toccavano di nuovo terra italica. Con valigia in pelle alla mano, il cappello Panama nell’altra e nell’incavo del braccio la giacca color beige in tinta con i pantaloni e il panciotto rigorosamente sbottonato come aperti erano anche i primi bottoni della camicia bianca, con qualche chilo in meno e ruga d’espressione in più, gli occhiali da sole a nascondere le occhiaie e altresì, inconsciamente, il suo passato da SS che gli occhi avrebbero potuto riflettere, scese dal treno.

Un pensiero che mai gli aveva sfiorato la mente lo trafisse come una freccia dritta al cuore, costringendolo a fermarsi tra il caotico andirivieni della gente nell’ora di punta: non sapeva dove cercarla. Preso dalla foga di ritornare al più presto in Italia e ossessionato dal desiderio di ritrovarla, non s’era mai fermato a pensare che di Sarah non conosceva nemmeno l’indirizzo di casa. Di lei, in effetti, sapeva poco o niente.

A Fossoli, aveva letto e riletto più volte il dettagliato resoconto del suo arresto e pensò che unico punto di riferimento dal quale iniziare concretamente a cercarla potesse essere la chiesa situata nel rione Castro Pretorio, non molto lontano da lì, dov’era stata catturata dalle SS insieme ai bambini e al prete, traditi da una soffiata di un parrocchiano delatore. Al Grande Reich, Sarah era costata 1.500 lire, quanto un bambino.

Tutto ciò che un tempo era banale normalità, adesso gli suscitava ribrezzo e ancor più il pensiero che anch’egli l’aveva comprata con la promessa di una sopravvivenza più dignitosa, con una tavoletta di cioccolato, un paio di calze nuove.

Roma era immensa, rutilante, tra la suggestione di antiche rovine e lo struggimento di macerie belliche, chiassosa e, da ogni volto il cui sguardo tentava di schivare, sembrava irradiarsi la voglia di tornare a vivere. Com’era diversa dalla malinconica e disperata Berlino, divisa tra le potenze occupanti, schiacciata dal senso di colpa.

Dalle mura in laterizio, all’esterno la chiesa si presentava in puro stile neoclassico, sobria, con due iscrizioni sulla facciata dedicate alla Vergine. Esitò prima di entrarvi giusto il tempo di quietare il tremore di non saper cosa aspettarsi, di poter sbagliare nel relazionarsi con chi avrebbe incontrato, magari tradendosi con un accento troppo marcato o l’eloquenza di uno sguardo a un determinato argomento.

L’interno della chiesa si riproponeva nella medesima semplicità, creando un’atmosfera intima e di raccoglimento che induceva a rivolgere lo sguardo al Crocifisso dominante la navata centrale. Fonti di distrazione a un eventuale dialogo interiore iniziarono ad essere l’andirivieni di una perpetua intenta ad adornare l’altare con paramenti rossi e lo strepito di note prodotto dall’organaro alle prese con l’accordatura dell’organo a canne sulla cantoria in controfacciata.

Rivolse lo sguardo indietro, verso l’alto, lì dove sapeva che Sarah aveva cantato sin da bambina, finché non divenne apolide. Era stata lei a confidarglielo in un momento la cui dolcezza valeva sicuramente la pena ricordare, eppure, tra le immagini, quelle più belle della loro storia, che presero a scorrergli veloci nella mente, non riusciva a focalizzarne il ricordo.

Con eguale velocità, a ritroso, la pellicola dei ricordi si riavvolse, interrotta improvvisamente dalla perpetua, una donna all’incirca della sua età, con capelli riccissimi color castano ramato che fuoriuscivano dal velo in pizzo bianco, i tratti del viso morbidi e le guance ricoperte di lentiggini. Fu pervaso dalla strana e assurda sensazione di averla già vista da qualche parte.

“State cercando qualcuno?” La cadenza austera sembrava collidere con lo sguardo ch’era pregno di accoglienza.

Sospirò mutamente per liberarsi dalla residua paura dell’errore, prima di risponderle sereno e sicuro: “Sì, dovrei parlare con il parroco.”

“Domani celebreremo la Pentecoste e il parroco è molto impegnato in questo momento”, disse, mentre enfatizzava il diniego scuotendo il capo, “potreste ripassare con calma lunedì mattina.”

S’impanicò all’idea di dover ancora attendere e posticipare di nuovo il ricongiungimento con Sarah e ancor di più lo turbò il pensiero che, in fin dei conti, il prete potesse non saperne affatto di lei e ch’egli potesse addirittura essere don Franco, miracolosamente sopravvissuto ad Auschwitz.

“Io non posso aspettare. Ho fatto un lungo viaggio per venire fino a qui”, dichiarò, senza nascondere la sua agitazione, rivelando così un accento straniero che non sfuggì all’attenzione della donna.

Ancor prima delle parole, furono gli occhi ad esprimere il sospetto. “Voi avete un accento particolare. Da dove venite? Come vi chiamate?” 

Non esitò Hermann nel recitare il copione che aveva preparato e ripetuto più volte, conscio del fatto che, prima o poi, qualcosa, come il suo aspetto nordico o il suo accento troppo tedesco, lo avrebbe tradito.

“Vengo dalla Svizzera, ma, prima del ’38, io e la mia famiglia vivevamo a Bolzano. Mio padre, ebreo, nativo di Roma, s’era trasferito lì da ragazzino per lavoro e aveva conosciuto mia madre, austriaca. A casa parlavamo regolarmente il tedesco. Sono tornato in Italia per cercare mio zio, il fratello di mio padre e come unico indirizzo di riferimento ho questa chiesa. Potete aiutarmi? Sono Bonanni, piacere”, disse, porgendole la mano.

La donna sgranò gli occhi in un’espressione mista tra meraviglia e sconcerto e, mentre continuava a tenergli la mano, ribatté con voce afona, tremante: “Quindi voi siete il cugino di Sarah?”

Trasalì, sforzandosi di non darlo a vedere, agitato da quell’improvvisa, strana tensione che aveva pervaso la sua interlocutrice e, adesso, anche lui al pensiero che alla sua Sarah potesse essere accaduto qualcosa di brutto.

“Sarah fu deportata al campo di Fossoli insieme alla mia povera figliola ed è stata l’unica della sua famiglia e del gruppo di bambini affidati alla protezione di don Franco ad aver fatto ritorno”, disse la donna, avendo interpretato come assenso il suo silenzio ed egli ne comprese lo stato emotivo.

Innanzi a sé v’era una madre che viveva nel limbo del lutto, tra l’attesa del ritorno e la realtà della perdita e, osservandone le fattezze, rivide una bambina con i capelli ricci e castani e il viso pieno di lentiggini. Era la madre della bambina a cui Sarah aveva regalato la sua tavoletta di cioccolato e per la quale, insieme ad altre cinquemila anime, lui aveva decretato la condanna al viaggio fatale. Agnese.

“Ma che io sappia non è più qui”, concluse la donna, riferendosi a Sarah e non fu tanto per tal rivelazione ch’egli deviò lo sguardo e ritrasse la mano.

 

“Se non è sincero,

se l’amore è vero, muori dentro.

Un sentimento puro,

no, non ha futuro, se ti perdo.

Darei la mia vita che non è infinita

a un prezzo onesto,

ma per fortuna che,

che poi ci siamo trovati.”

 

Blanco & Mina, Un briciolo di allegria

 

   
 
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