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Autore: Marti Lestrange    21/06/2023    2 recensioni
[ Dal testo: “Con l’esperienza, posso dire che si è felici solo per un limitato lasso di tempo, nella vita, e la maggior parte delle volte - nella maggior parte delle vite - non ce ne rendiamo conto, quando lo siamo. ] — storia partecipante alla challenge “Tanti piccoli semi per far fiorire nuove storie” indetto sul gruppo L’Angolo di Madama Rosmerta.
oneshot sulla madre di Blaise Zabini; i personaggi che compaiono nel canon e tutto ciò che è relativo alla saga di Harry Potter appartiene a J.K.Rowling, ma tutto il resto fa parte del mio personale headcanon
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Blaise Zabini, Gideon Prewett, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Questa storia partecipa alla challenge “Tanti piccoli semi per far fiorire nuove storie” indetto sul gruppo L’Angolo di Madama Rosmerta ♡ a seguire il regolamento estrapolato e rielaborato a partire dal post ufficiale dedicato all’iniziativa:

La challenge è stata strutturata in pacchetti non esclusivi, e ognuno di questi pacchetti ha il nome di un fiore e, per partecipare, abbiamo scelto i quattro che più ci ispiravano (ci si poteva affidare alle “bariste”, con la possibilità di sostituire uno dei pacchetti richiedendone un altro). Una volta ricevuti i pacchetti, al loro interno abbiamo trovato quattro diverse opzioni da cui trarre ispirazione: un prompt, una citazione, una situazione e un bonus. Si poteva decidere se provare a inserirli tutti, o se invece limitarci a un unico elemento. Non vi dirò il nome del pacchetto, è contro il regolamente, ma questo è l’elemento che ho scelto al suo interno: la citazione di William Shakespeare “Quando non sarai più parte di me ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle, allora il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte.”.

 

NOTA DELL’AUTORE: ho sempre voluto scrivere qualcosa sulla madre di Blaise, e questa iniziativa mi ha dato la giusta spinta per mettermici. Questa storia tratta alcuni temi delicati sui quali metterò dei warning, in modo che possiate decidere se proseguire la lettura o meno. Il rating è arancione ma fatemi sapere se è il caso di alzarlo a rosso. Ringrazio chiunque dia a questa storia - e alla mia Pauline - una possibilità.

Warning: prostituzione, malattia, morte. 

 

DISCLAIMER: I personaggi che compaiono nel canon e tutto ciò che è relativo alla saga di Harry Potter appartiene a J.K.Rowling, ma tutto il resto fa parte del mio personale headcanon. Grazie dell’attenzione e buona lettura ☾

 



wrathchild.



PARTE PRIMA

 

Non avevamo cognome, Adèle e io. Avevamo a malapena un nome, ed era quel nome che ogni giorno ci ricordava che esistevamo. Non eravamo nessuno per la società là fuori, non eravamo nessuno per il mondo, solo due fantasmi le cui ombre si proiettavano dietro le quinte di un microcosmo ingabbiato, un universo a sé fatto di brillantini, sete e musiche al pianoforte e rossetto sbavato. 

Talvolta ci chiedevamo se il nome di nostra madre - Roxane - fosse realmente quello o fosse solo un nome d’arte, un’identità che la donna si era costruita, un personaggio che, ogni sera, portava sul palco insieme al suo corpo, davanti a uomini sconosciuti, a occhi famelici e mani svelte. Era quella la realtà, quindi? Il mondo era davvero un mondo di uomini pronti a saltarti addosso e fare di te cosa loro per poi lasciarti lì come un ammasso di stracci abbandonati, fino alla sera successiva? 

A noi sembrava un mondo di donne, proprio come il mondo in cui vivevamo. Sapevamo poco o nulla di ciò che c’era fuori, il fuori era pericoloso, ignoto, pieno di gente che avrebbe potuto farci del male. Non potevamo fidarci di nessuno a parte di noi stesse, e delle donne in mezzo alle quali eravamo nate e cresciute. Uscivamo solo accompagnate da nostra madre e da uno dei “Guardiani”, gli uomini che badavano alla nostra sicurezza e che vivevano oltre le porte chiuse del locale, rigorosamente lontano da noi. Non parlavano con noi, non domandavano, e noi non domandavamo di rimando. Avevamo solo richieste pratiche da mettere sul piatto, esigenze materiali facilmente risolvibili. Non avevamo bisogno dei loro abbracci né della loro comprensione, ma solo della loro protezione. Portavano bacchette alla cintura e cappelli Borsalino e completi scuri con cravatte sottili. E occhiali neri per celare i loro sguardi. Erano sicari, erano assassini. Erano ombre. 

Tutto passava per mamam Clarisse, ma sapevamo che, sopra di lei, incombeva una presenza, una figura astratta che non avevamo mai visto e che possedeva tutto quanto - possedeva anche noi. Eravamo come burattini nelle sue mani, creazioni di pezza o creta che aveva creato e modellato e che un giorno sarebbero uscite sotto quelle stesse luci accecanti che ora investivano nostra madre e le altre, e che un giorno avrebbero cinto anche la nostra testa come tante stelle finte in un cielo di cartone. 

Erano stelle appese, stelle filanti in uno spettacolo di varietà. E noi eravamo le sue protagoniste. Le attrici di un film muto. Il nostro corpo era il nostro modo di esprimerci. Il nostro corpo era allo stesso tempo un tempio, e moneta di scambio per stare a galla. Il nostro corpo ci avrebbe per sempre assicurato protezione e sicurezza, un tetto sopra la testa, un letto caldo al quale tornare, le braccia delle altre donne e i loro pollici ad asciugare le nostre lacrime e a lenire i lividi che poi nascondevamo con il cerone. 

Adèle era brava in quello che faceva, proprio come nostra madre. Aveva quel modo di ballare che non ti dimentichi, si muoveva sul palcoscenico come se volasse, leggera, senza peso. Aveva il corpo di una guerriera e la delicatezza di un fiore in boccio. Quegli occhi sapevano ferire, quelle labbra sapevano uccidere, eppure quando ti guardava in quel modo lì tutto spariva, rimaneva solo lei e il suo pubblico, era come se li guardasse tutti quanti negli occhi, uno per uno, e pronunciasse il loro nome a fil di labbra, un sussurro sommesso e ipnotico, un goccio di veleno che non faceva male ma guariva invece ogni dolore, portandoli con sé laddove c’era solo quella bocca, e tutto ciò che prometteva. 

Tutto quello che so l’ho imparato da Adèle. Lei ha sempre badato a me, sin da quando sono nata. Lei era figlia di nostra madre, e io pure, ma era come se fossi più figlia di Adèle. Mia madre non aveva tempo per me, non ne ha avuto mai. Diceva che ero una bambina volubile, capricciosa seppur silenziosa, viziata e con la lingua lunga, e che quella lingua, invece di essere usata a mio vantaggio, avrebbe finito per farmi passare dei guai. Io non pensavo che avere delle opinioni fosse un male, ma a quanto pare non era contemplato, nulla che ti facesse mettere in dubbio quella realtà era contemplato o ben accolto, anzi, l’individualità veniva fortemente scoraggiata. 

Ognuna di noi doveva trovare una sua voce, essere parte del corpo di ballo quando lo spettacolo lo richiedeva, e sapersi esprimere liberamente quando quel palco si svuotava per noi e rimanevamo sole, ma era una libertà solo e soltanto artistica. Iniziava e finiva sul palco, iniziava e finiva con noi che ballavamo e mostravamo quello che avevamo da offrire - come bestie al mercato. Forse, un giorno, se fossimo state abbastanza brave, qualcuno avrebbe pagato per più di qualche ora, avrebbe pagato per tenerci con sé per sempre, e ci avrebbe portate via da lì. Eravamo incoraggiate a guadagnare il più possibile finché il nostro corpo ce lo avrebbe permesso, finché saremmo state non solo belle da guardare, ma anche desiderabili, e lievi, quasi effimere nella nostra apparenza di profumi costosi ma che non ci appartevano, di vestiti che poi ci venivano tolti di dosso e riposti e sostituiti con una vestaglia di raso che doveva apparire delicata e raffinata e promettere meraviglie al di sotto, nella musica che non ci accompagnava mai oltre, oltre quelle soglie impervie di stanze da letto in penombra, luci soffuse e lenzuola stirate, cassetti pieni di tutti i giocattoli nascosti che i nostri clienti avrebbero potuto desiderare di provare con noi, e su di noi, ciò di cui non si parlava, che non si raccontava mai, nemmeno quando i lividi si trasformavano in tagli e sanguinavano. C’era solo una regola: tutto è permesso tranne in viso. Il nostro viso doveva rimanere perfetto, illeso, puro. Ricordo ancora quando Margot aveva perso un dente: il cliente era stato allontanato e invitato a non tornare, e Margot era partita la mattina dopo per non fare più ritorno tra noi. Nessuno ne aveva più sentito parlare, e nessuno aveva domandato. Ho sempre pensato che ormai fosse stata merce avariata, come un quadro dalla tela strappata: inutile. 

Lo saremmo diventate tutto, un giorno: inutili. Era per questo che Adèle mi diceva di trovare presto qualcuno che mi volesse, un uomo che facesse follie per me, un uomo che io potessi girarmi intorno a un dito e fargli fare tutto ciò che desideravo, dietro promessa di gioie e piaceri senza fine. “Solo così sarai salva, Pauline,” mi diceva, proprio come nostra madre aveva detto a lei. Io non pensavo che la mia salvezza dovesse dipendere da un uomo, ma se doveva passare da un uomo, allora avrei fatto tutto ciò che Adèle mi consigliava. 

 

 

Non potevamo usare la magia. Ci era vietato. La magia era qualcosa che era dentro di noi ma che non poteva mai essere fuori di noi. Era un germe che volevano estirpare, ma un germe troppo forte da debellare. La magia era una malattia incurabile. 

Non possedevamo bacchette, e quelle dei clienti venivano custodite all’ingresso per questioni di sicurezza, per cui non sapevamo nemmeno come fossero fatte. Immaginavamo, quello sì. Con l’immaginazione facevamo tante cose. 

Tutto ciò che sapevo della magia mi era stato insegnato da mia sorella Adèle. Mi disse che nostra madre non aveva poteri, era nata senza magia, e per questo la odiava, la odiava con tutto il suo cuore. Era qualcosa che lei desiderava ma che non avrebbe mai potuto possedere, nè lì nè altrove. 

Come Adèle fosse venuta a conoscenza di tutto ciò che poi mi insegnò rimane per me un mistero ancora oggi. Adèle nascondeva molti segreti, anche troppi, ed è per questo che forse se n'è andata così presto - troppo presto. 

Vidi per la prima volta una bacchetta magica quando me ne fu regalata una, ma questa è un’altra storia. 

 

 

Un’altra cosa di cui non sapevo nulla era l’amore. Dentro le quattro mura in cui vivevo non c’era spazio per l’amore di cui leggevo segretamente nei romanzi che mi passava Adèle, gli amori tempestosi delle sorelle Brontë, o quelli tragici di Tolstòj e Flaubert, o ancora i romanzi della Austen, passando per Dickens e Dumas. Conoscevo solo l’amore di Adèle, l’amore di mia sorella, e l’affetto senza affanni che mi legava alle altre donne e ragazze. 

L’amore materno no, mia madre non era donna da mostrare i suoi sentimenti, e per lei era tutto destinato a perire, e non esistevano sciocchezze come il romanticismo e i cuori palpitanti. “Dice così solo perché le hanno spezzato il cuore,” disse un giorno Adèle, e passarono anni prima che finalmente la convinsi a parlare e spiegarsi. 

Roxane aveva avuto un grande amore, e questo grande amore l’aveva lasciata. L’uomo con cui aveva messo al mondo Adèle era morto prematuramente, prima che riuscisse a riscattarla e portarla via da lì, ma lei non lo amava, era solo un mezzo per andarsene ed essere libera. Mio padre però lo aveva amato. Eccome se lo aveva amato. 

Lui le si era presentato come il classico cavaliere dall’armatura scintillante, tutto sorrisi e promesse. L’aveva ammaliata con le sue parole, e i suoi progetti di vita: l’avrebbe portata con sé nella sua tenuta fuori Parigi, avrebbero iniziato la loro vita insieme e Roxane non avrebbe mai più conosciuto dolori e afflizioni, ma avrebbe vissuto giorni dorati di splendore e serenità e bellezza. 

Nostra madre era stata imprudente. Forse aveva peccato di ingenuità. Quando si era accorta di portare in grembo un bambino, era ormai tardi. E il suo eroe l’aveva già lasciata, solo un biglietto a chiederle scusa e niente altro, nemmeno aveva avuto il coraggio di parlarle di persona. Roxane ne era uscita a pezzi. Aveva anche rischiato di venire cacciata, a un certo punto, e non le importava granchè, ma poi cosa ne sarebbe stato di lei? E cosa ne sarebbe stato di Adèle? Adèle era innocente, era solo una bambina di cinque anni paffutella e chiacchierona e troppo dolce. E lei voleva bene ad Adèle. 

Ho sempre pensato che a me, invece, non avesse mai voluto bene. Io rappresentavo la sua infelicità, incarnavo il frutto del suo amore perduto, le ricordavo costantemente il suo fallimento - l’uomo che non l’aveva voluta amare, che l’aveva abbandonata al suo destino, a un destino in cui mai nessun altro l’avrebbe voluta, non con due bambine dietro, a un destino di solitudine e disprezzo per se stessa. E, insieme a se stessa, disprezzava anche me. Mi teneva lontano, non si interessava ai miei progressi e alla mia crescita, nemmeno voleva vedermi, talvolta, come se la mia vista le causasse dolore. 

“Le ricordi troppo lui,” mi disse una volta Marie, che aveva più o meno la stessa età di mia madre e che praticamente mi aveva cresciuta i primi anni di vita, prima che Adèle si facesse carico di me. “Siete molto simili, tu e tuo padre. Gli assomigli molto, Pauline. E lei non riesce a sopportarlo.”

Il mio aspetto fu per parecchio tempo causa del mio stesso tormento, della mia stessa inquietudine. Non volevo specchiarmi, mi rifiutavo di vedere la mia immagine riflessa, e tutti avevano preso la cosa come un semplice capriccio adolescenziale, un’intemperanza del momento. Andò avanti per molto tempo, invece. Andò avanti finché non mi sposai e, il giorno del mio matrimonio, un uomo che non era il mio futuro marito mi disse: “dovresti davvero guardarti allo specchio e vedere finalmente quello che vedo io.” 

Non dimenticherò mai quel giorno. Forse fu in quell’occasione che perdonai mia madre. Era già morta da tempo, e in realtà pensavo di averla già perdonata sul suo letto di morte, quando mi aveva mandato a chiamare e mi aveva guardata fissamente per dei minuti che mi erano sembrati ore intere, e alla fine aveva girato il viso con un lamento e mi aveva chiesto di andarmene. Ma la verità è che quel giorno non la perdonai affatto, anzi, la odiai con tutta la forza che avevo in corpo. Aveva rovinato tante cose di me, cose che non sarei mai riuscita a riparare. 

Invece la perdonai il giorno del mio matrimonio. Adèle era morta l’anno prima, mi aveva lasciata sola, completamente sola, in un mondo che sentivo mio ma che non sapevo come affrontare. C’era così tanto là fuori che ero pronta a conoscere, ma non sentivo di avere i mezzi, mi sentivo come in balia di ciò che desideravo. Quello che bramavo era anche ciò che temevo di più. 

 

 

Volevo volevo volevo - volevo, sopra ogni altra cosa, essere libera. Volevo andare al di là di quelle quattro mura, volevo vedere il mondo e ciò che conteneva, volevo conoscere altre persone, imparare una lingua straniera, nuotare nel mare. Adèle mi aveva sempre detto che il matrimonio mi avrebbe assicurato la libertà, ma io pensavo che fosse solo un altro modo per mettermi delle catene ai polsi, e lo pensai per molto tempo, seppure non lo dissi mai ad alta voce, a nessuno, nemmeno a mia sorella. Lei non avrebbe capito, non fino in fondo. 

Io non volevo un uomo che mi definisse, non volevo un marito a cui essere legata e obblighi da espletare e una casa da accudire e figli da mettere al mondo, io volevo solo essere me stessa, e volevo portare quella me stessa là fuori. 

 

 

Conobbi Gideon Prewett in una notte di pioggia. All’inizio non si presentò come Gideon Prewett, ovviamente. Disse di chiamarsi Peter. Un nome come un altro, ci era stato insegnato a non fare domande ai clienti, e io non domandai. 

Era seduto sotto il palco, e lo notai subito. Portava i capelli rasati, cosa desueta, e aveva tutta l’aria di essere un forestiero. Il mantello scuro che indossava era umido e gli stivali erano sporchi di fango. Gli occhi, però, gli occhi azzurri brillavano come il cielo. 

Chiese di me, e fu accontentato. Non gli chiesi mai perché, tra tutte, volle vedere proprio me. Il nostro primo incontro fu il primo di una lunga serie, in verità, ma lo ricorderò sempre come il momento in cui iniziò la seconda parte della mia vita - il momento in cui Gideon Prewett la cambiò per sempre. 

 

 

Cominciai a spogliarmi, nella penombra velata della mia stanza, ma Gideon posò le sue grandi mani sulle mie e scosse la testa. Non capivo, lo guardavo aggrottando le sopracciglia, l’angoscia che cominciava a salire a ondate. Forse era uno di quelli strani, di quelli che volevano fare con me cose che non facevano con le loro mogli, cose talvolta violente, cose che non mi piacevano e il cui ricordo mi faceva piangere, più tardi, nella solitudine del mio letto o tra le braccia di Adèle. 

“Per favore,” sussurrò lui. “Siedi per un momento, d’accordo?” 

“Il signore non vuole…” cominciai. 

Scosse la testa. “No, Pauline. Ti chiami Pauline, giusto?” 

Annuii. 

“È un bel nome. Ti sta bene.”

Non capivo dove volesse arrivare. Lo studiavo da sotto le ciglia, le dita ancora sospese sopra i lacci del corpetto che indossavo. 

Gideon sedette su una poltrona e mi indicò il letto con una mano. Insisteva che io mi sedessi, così lo accontentai. Bisognava sempre accontentare i clienti. 

Rimanemmo in silenzio. Il silenzio andò avanti per tutto il tempo in cui Gideon rimase con me. Ci guardammo e basta e, per la prima volta nella mia vita, non mi dispiacque essere guardata da un uomo. 

Quando Gideon se ne andò (“ci vediamo presto, Pauline”), tirai un sospiro di sollievo, ma solo perché non mi ero accorta di aver smesso di respirare, per tutto il tempo: ero senza fiato. 

 

 

A quel primo incontro ne seguirono degli altri. Gideon - Peter - veniva tutte le sere, si sedeva sotto il palco, mi guardava ballare e cantare (ero una delle poche che sapesse anche cantare, e suonare il pianoforte) e poi chiedeva di me, e sedevamo nella mia stanza, sempre a debita distanza. 

Una sera gli chiesi di sedere accanto a me sul letto, e lui sembrò pensarci, ponderò la faccenda a lungo, e dopo che promisi di non mordere, finalmente si sciolse in un sorriso e acconsentì. Sedette sul bordo del letto, sempre a distanza, ma per me fu comunque una vittoria. Non sapevo perché lo desiderassi accanto, il primo uomo del quale genuinamente anelavo le attenzioni, e la vicinanza - non lo sapevo ancora, ovviamente. 

 

 

Chiacchieravamo. Chiacchieravamo tantissimo, ma a bassa voce. Non potevo permettere che qualcuno scoprisse che non davo al cliente ciò per cui ogni sera pagava, e anche bene, ciò che ero nata per dare. Temevo che Gideon venisse allontanato, e il pensiero di non rivederlo più mi faceva diventare matta. Per cui ci sussurravamo cose, lui mi raccontava del mondo, e del suo paese, l’Inghilterra. 

“Un giorno mi piacerebbe fartela vedere,” disse una volta, gli occhi lucidi per l’emozione. 

“Sarebbe bello, Peter.” 

Non gli dissi che non sarei mai stata in grado di vedere l’Inghilterra, a meno che lui non avesse deciso di portarmi via da lì, ma non volevo che si sentisse parte del problema, non volevo rischiare di allontanarlo dicendogli la verità. 

“Piove spesso, e non c’è nulla di paragonabile a Parigi, ma secondo me ti piacerebbe.”

“Da quando sai cosa mi piacerebbe?” 

Lui sorrise, con quel sorriso sghembo che mi piaceva tanto, la fessura in mezzo ai denti e il naso arricciato. “Penso di conoscerti, ormai. E poi ci piacciono le stesse cose.” 

Il mio cuore sobbalzò. Fu il primo dei tanti battiti che Gideon mi avrebbe fatto perdere. 

 

 

Ricordo ancora oggi la sera in cui mi arrabbiai con lui, e litigammo. 

“Quindi è solo per questo che hai sprecato il tuo tempo con me,” gli dissi, la voce che mi tremava per la rabbia e la paura e la frustrazione, ma non potevo alzare la voce, e tenevo tutto rintanato dentro. 

Gideon era in piedi dall’altra parte del letto, le braccia lungo i fianchi. Mi aveva appena chiesto di fare la spia per lui. 

“Pauline, per favore, lasciami spiegare…”

Scossi la testa. “Hai fatto in modo che mi fidassi di te, e ora mi stai chiedendo di rischiare la vita, per te.”

“Per tutti noi, Pauline. Te lo sto chiedendo per aiutarmi a salvare il Mondo Magico, non c’è nulla di personale, in tutto questo.” 

“Certo,” risposi. “Non c’è nulla di personale, ovviamente. Che stupida sono stata! Stupida e cieca. Ti sarò sembrata una bella cretina, chissà quante risate ti sarai fatto.”

“Nessuna risata. E non sei cretina. Nè stupida. Altrimenti non ti avrei mai chiesto quello che ti ho chiesto, non avrei mai affidato il destino di questa missione nelle tue mani, Pauline. Abbiamo bisogno di te. Ho bisogno di te.”

Cominciai a camminare a grandi passi per la stanza, irrequieta. Non era giusto. Non era onesto che mi chiedesse tutto questo. 

“Non c’è bisogno che tu mi dia una risposta adesso,” riprese facendosi vicino a me, e io non lo rifuggii. Rimasi esattamente dov’ero, guardandolo avvicinarsi guardinga. “Pensaci. Dormici su. So che ti ho chiesto tanto, e non mi aspetto che tu decida così su due piedi.” 

“Non hai paura che ti denunci a qualcuno?” 

“Non credo che lo farai.”

“Ah, sì?” chiesi, alzando il mento in segno di sfida, gli occhi che mandavano bagliori. 

Gideon mi guardava fisso negli occhi, senza alcun timore o esitazione. E, sempre senza indugio, mi prese per mano, e non mi aveva mai più toccata, da quella prima sera in cui mi impedì di spogliarmi. Il suo tocco mi bruciò. Non volevo che mi lasciasse. 

“Non volevo che fossi tu,” cominciò. “All’inizio ti ho scelta perché avevi acceso qualcosa in me, una miccia sopita. Poi ho cominciato a conoscerti e, più ti conoscevo, più diventavi adatta al ruolo e più io non volevo coinvolgerti. Ma ormai è troppo tardi. Sono andato troppo avanti, mi sono spinto troppo in là. Non voglio che sia tu ma allo stesso tempo non voglio che sia nessun altro. E non voglio lasciarti andare. Scegliendo qualcun altro dovrei smettere di vederti, e io non voglio smettere di vederti. Tu vuoi smettere di vedermi?”

Scossi la testa, lasciai la sua mano. Mi confondeva. La sua presenza mi mandava in pappa il cervello, e il cuore aveva preso a battere troppo forte, e non capivo più cosa fosse giusto e cosa no, dove finisse il desiderio e cominciasse la mancanza. Nella mia ingenuità, avevo creduto che quello che io e Gideon avevamo sarebbe durato per sempre, pensavo che sarebbe sempre venuto da me, e avremmo sempre seduto vicini, ma non troppo, su quel letto, a parlare dell'Inghilterra, dei suoi poeti morti e dei suoi laghi. Così, invece, capivo che un giorno più o meno lontano Gideon non sarebbe venuto più, il mio compito sarebbe finito e lui sarebbe tornato a casa. Io non gli sarei servita più. 

“Ho bisogno di pensare,” dissi voltandomi verso la finestra. Ovviamente non c’era nulla da vedere oltre le sue tende tirate, ma solo il nero di un’esistenza sospesa dietro un velo. “Non riesco a pensare, con te qui.”

Lo vidi fare qualche passo indietro, lo vidi raggiungere la porta. “Buonanotte, Pauline.”

“Buonanotte, Peter.” 

Non lo vidi per una settimana. 

 

 

Pensai che sarei impazzita. Dormii poco e male. Quasi non mangiai. Adèle capì tutto e subito. 

“Ti piace tanto, vero?”

Io girai il viso verso di lei, durante uno dei miei pomeriggi in preda al mal di testa e a un delirio che aveva poco a che fare con qualcosa di fisico ma tutto a che fare con Gideon. 

“Non so di cosa parli. O di chi.”

“Non mi puoi nascondere niente, Lin.” Mi chiamava Lin fin da piccola. Era una cosa solo nostra. La sentii sedere accanto a me sul letto. “Ti leggo come un libro aperto, sorellina.”

“Non c’è nulla che io possa fare. Non è più venuto, e questo è quanto.”

“Magari ha avuto un contrattempo. O è stato male.”

Non risposi. Non volevo cullarmi in quell’eventualità, avevo paura che avrei finito per vivere in quell’illusione per sempre. 

“Dovesse tornare,” cominciò Adèle, anche se il suo tono di voce aveva tutta l’aria di essere definitivo, “devi dirglielo, Lin. Digli la verità. Quello che provi. Cos’hai da perdere?”

Adèle non aspettò una risposta. Mi strinse una spalla e si alzò. La sentii lasciare la stanza. 

Cos’avevo da perdere? 

 

 

Lo rividi dopo tre giorni da quella conversazione con Adèle. Cercai di non guardarlo, mentre mi esibivo sul palco, ma i suoi occhi non mi lasciarono nemmeno per un secondo, potevo sentirli addosso, ovunque. 

Quando finalmente lo guardai, più tardi, nella mia stanza, quello che vidi mi fece perdere un battito. Aveva due brutte occhiaie viola sotto gli occhi stanchi, e un taglio rosso ancora troppo fresco sulla guancia destra. Corsi da lui senza esitazione, e lui mi accolse tra le sue braccia, mi cinse la vita, mi strinse a sé, e io mi lasciai cullare dal suo abbraccio, sprofondai il viso nel suo collo, ne aspirai il profumo. Non ero mai stata così vicina ad un uomo, prima, con tutti i miei vestiti addosso. Era strano ma bello. Era nuovo. Era intossicante. 

“Mi sei mancata tantissimo.”

Sospirai. Le mie mani tremavano, così lui le prese tra le sue mentre ci guardavamo in viso. 

“Cos’è successo? Mi hai fatto preoccupare.” 

“Sono tutto intero. Me la sono vista brutta ma sono qui.”

Scossi la testa. “È questo che fai? Che fate? Tu e i tuoi? Rischiate la vita?” 

“Rischiamo la vita per uno scopo, Pauline. E lo facciamo con onore.” 

“Siete un branco di sciocchi.”

“Tu la vedi così perché ti preoccupi per me,” spiegò lui mentre io mi allontanavo, e sedevo sul letto, sopraffatta dai miei stessi sentimenti. “La lotta contro il male è qualcosa che va al di là degli scopi dei singoli. Lui non può vincere.”

Rabbrividii. Mi aveva raccontato tutto, ovviamente, di colui che si faceva chiamare Lord Voldemort. Lì le notizie non arrivavano, era come se nemmeno vivessimo nel mondo. Ma cose transitavano. Persone. Le persone che Gideon mi aveva chiesto di spiare. 

“Non mi dirai niente, vero?”

Gideon scosse la testa. “Non posso metterti in pericolo.”

“Però mi metti in pericolo chiedendomi di fare quello che mi hai chiesto di fare per te. Per voi.”

Sospirò. “Mi dispiace. Se non te la senti lo capisco. Sparirò dalla tua vita e ti potrai dimenticare la mia richiesta.”

“Lo farò,” risposi di getto. Già lo sapevo, in verità. Avevo già deciso nel preciso istante in cui Gideon se n’era andato, quella sera di dieci giorni prima. Sembrava una vita fa. 

“Lo farai.” E non suonò come una domanda.

Annuii. “Lo farò, sì. Dimmi solo precisamente cosa vuoi che faccia.” 

Mi raggiunse, sedette accanto a me. Vidi le sue mani indugiare sulle mie guance, come se temesse di farmi male, e allora gliele presi, erano callose sotto il mio tocco, ma calde, e ne baciai il palmo, e lo sentii tremare sotto le mie labbra. Era la prima volta in cui lo vedevo vacillare. 

“Pauline…”

Lo guardai da sotto le ciglia. I suoi occhi azzurri erano scuri di piacere, piacere liquido. Guidai le sue mani sul mio seno, lasciai che il loro peso mi definisse. Gideon non si mosse, ma notai che il suo respiro aumentò. Si fece più frammentario. 

“Puoi avere tutto questo,” cominciai. “Non hai mai voluto niente.”

“Non era per questo che venivo qui.” 

“Sei un uomo di guerra, Peter.”

“Gideon.”

Aggrottai le sopracciglia. 

“Gideon Prewett. È il mio vero nome. Mi dispiace.”

Non mi stupii più di tanto. Non era il primo uomo che mentiva sulla sua identità, quando entrava lì dentro. Sorrisi.

“Sei un uomo di guerra, Gideon Prewett.”

“E combatto per la pace.”

“A volte la pace è sopravvalutata, sai? A volte bisogna lasciarsi andare al caos. Non tutto ciò che ci possiede è male.”

Lo vidi chiudere gli occhi, deglutire. 

Lasciai le sue mani sui miei seni e spostai le mie sul suo viso, ne tracciai i contorni senza insistenza, evitai lo sfregio che aveva sulla guancia, anche se ne seguii il percorso, sospirando.

“Chi ti ha fatto questo?” Sapevo che non mi avrebbe dato spiegazioni, e non mi aspettavo di riceverne. 

“Pauline…” questa volta suonò più come una preghiera.

“Puoi avere tutto quello che vuoi, Gideon. Posso darti tutto quello che vuoi. Devi solo chiedere.”

“Non posso.”

“Non puoi?”

“Non posso approfittarmi di te.”

Riaprì gli occhi, e vi lessi tutto il suo tormento. Accostai le mie labbra alle sue, allora, e per un momento respirammo la stessa aria. Baciava delicatamente, Gideon, come non ero mai stata baciata, prima, e come nessuno mi avrebbe mai più baciata, dopo. 

“Mi vuoi?” gli chiesi, le mie mani ora sul suo petto, la lingua a contornarne le labbra. 

“Ti voglio da sempre. Ti vorrò sempre.” 

Fu l’inizio e la fine di tante cose, quella notte. Per me, per lui, per la guerra là fuori. Fu come se sancissimo un patto, qualcosa di così sacro che nessuno avrebbe mai potuto indurci a romperlo. Rimanemmo nudi, e non solo fisicamente. Ci leggemmo dentro e scoprimmo di provare le stesse paure, camuffate da incubi e spettri e mostri sotto i letti. Desideravamo le stesse cose, anche. Fu la seconda volta in cui accolsi un uomo dentro di me sapendo che avrei perso qualcosa, ma qualcosa che era radicato nella mia anima, questa volta, forse un altro tipo di innocenza. 

Decidemmo di non dirci quelle parole, quelle poche parole che avrebbero però potuto cambiare tutto. Ci pregammo a vicenda silenziosamente, senza nemmeno parlare, ché dirle avrebbe cambiato tutto, avrebbe cambiato me, avrebbe cambiato lui - avrebbe cambiato ogni equilibrio. Sarebbe stato difficile, lasciare quella stanza, e tornare nel mondo, dopo. Sarebbe stato difficile per lui lasciarmi, e sarebbe stato difficile per me lasciarlo andare via. E nessuno dei due poteva permetterselo. 

Ci addormentammo sfiniti e sudati. Il mattino dopo Gideon non c’era più, ma c’era un suo biglietto. Sarebbe tornato tra due giorni, aveva bisogno di tempo per organizzarsi. Niente altro. Io appallottoli il biglietto e lo diedi alle fiamme. Poi tornai a letto e mi riaddormentai. 

 

 

PARTE SECONDA

 

Cosa posso dire dei due anni che seguirono? Furono anni difficili. Intorno a me, un paio di ragazze se ne andarono, sposate, e due nuove “leve” arrivarono a raccoglierne il testimone. Adèle rifiutò ben due proposte di matrimonio, tra lo stupore e il disappunto e, in parte, il malcontento generale. Io provai solamente stupore, e un filo di delusione quando mia sorella mi spiegò che aspettava che io trovassi marito e lasciassi quel posto, e soltanto dopo lei sarebbe stata libera di andare. Non c’era alcun bisogno che si sentisse ancora in dovere di badare a me, ero ormai più che adulta, ma lei sembrava non volesse sentire ragioni. Ai piani alti, il protrarsi della presenza di Adèle portava solo preoccupazione: l’avanzare dell’età era un rischio, uno svantaggio che rischiava di precluderle un “buon affare”, con la conseguente prospettiva di rimanere una schiava per sempre, e quale cliente l’avrebbe più voluta quando fossero apparse le prime rughe o avesse messo su troppo peso? Ma Adèle sembrava scevra da preoccupazioni, andava avanti a testa alta, e per adesso la carenza di clienti non era un problema che l’affliggeva, anzi: era sempre tra le più richieste. 

Dall’altro lato, io cercavo di temporeggiare e di allontanare il momento in cui avrei dovuto decidermi. Non erano ancora arrivate proposte, ma avevo parecchi clienti fissi, e prima o poi qualcuno di loro avrebbe potuto decidersi. Mi aiutava il fatto che sapevo parlare inglese e quindi ero la preferita dei viaggiatori stranieri (anche se non parlavamo granché, quindi la preferenza aveva un che di illogico, ma diciamo che era più facile per loro farmi richieste e per me capirle e “metterle in pratica”), e nessun cliente arrivato da fuori aveva alcun interesse a procurarsi una sposa in un bordello. Soprattutto, un sacco di questi erano coloro che spiavo per conto di Gideon: non sapevo i loro nomi, loro non me li dicevano, ma il mio talento nel disegno mi permetteva di far comprendere a Gideon chi fossero tramite i ritratti che tracciavo e che poi buttavo nel fuoco. Non avevo alcuna fretta anche perché amavo Gideon, lo amavo di un sentimento tenace e nuovo, qualcosa che non avevo mai provato prima - e che non avrei provato più, almeno non in quei termini. Avrei amato mio figlio, sì, ma di un altro tipo di amore. 

Gideon andava e veniva, appariva a volte quando meno me lo aspettavo, sporco di fango e stanco, oppure più silenzioso e malinconico del solito. Mi preoccupavano, i suoi silenzi e le sue occhiaie, ma lui mi diceva solo che la mia presenza lo aiutava a stare meglio, la mia vicinanza lo sanava di ogni ferita, materiale e spirituale. Scoprivo sempre qualche nuovo segno su di lui che poi si sarebbe trasformato in una cicatrice, più o meno visibile, e non solo sulla pelle ma nell’animo, scolpita come una crepa che non era possibile colmare. Gideon era come una di quelle porcellane giapponesi che poi si riempivano d’oro - mi diceva che io ero il suo oro, andavo a riparare ciò che in lui era rotto. 

Era bravo, con le parole, Gideon, ma nonostante ciò non mi facevo illusioni: sapevo che la nostra era una storia con la data di scadenza. Un giorno lui mi avrebbe detto che la sua missione era finita, e con essa anche la mia, e saremmo tornati alle nostre solite vite. Non c’era certezza, non c’era sicurezza. Gideon non era nemmeno sicuro di restare vivo, come avrebbe potuto assicurarmi che saremmo durati un altro anno, o cinque, dieci, una vita intera - era quasi divertente, pensare a una vita intera con lui. Era forse anche sciocco. Ed ero tutto tranne che sciocca. Lui non mi illudeva, mai, non parlava di futuro ma solo di prossimità. Non si faceva illusioni lui stesso, in fondo: la guerra stava diventando sempre più crudele e dura, e contrastarla era una battaglia che li aveva messi di fronte a troppe perdite, sacrifici, rinunce. Era il peso delle vite umane perse che incideva: nessuno si lamentava degli sforzi, collettivi e individuali, tutti lavoravano per cercare di assicurare al Mondo Magico un futuro, ma ciò che si perdeva durante il percorso era qualcosa che non avrebbero mai più riavuto indietro. Vite, sorrisi, risate. E la loro stessa anima. 

 

 

Non appena conobbi Auguste Zabini, sapevo che avrebbe recitato un ruolo importante nella mia vita. Non era come gli altri clienti, ed ebbi modo di verificarlo la prima sera in cui si fermò da me - in cui chiese specificatamente di me. Era francese, nato e cresciuto a Nizza, ed era a Parigi per un lavoro che molto probabilmente lo avrebbe trattenuto qualche giorno. Era gentile, mai sgarbato o violento. Non avanzava richieste “particolari” e gli piaceva fermarsi qualche minuto in più soltanto per accertarsi che stessi bene e mangiassi qualcosa. All’inizio non sapevo bene come interpretare questo suo comportamento. In fondo, non era “animale da bordello”, non rispondeva in nulla ai canoni del cliente tipico di posti come il nostro. 

“Sono solo,” mi spiegò una sera, la testa di capelli ormai bianchi poggiata sul mio seno. “Sono solo da anni, ma chère.” 

La sua solitudine non lo rendeva invalido di spirito, dentro di lui celava una tenacia ammirevole, considerato anche che non era più giovanissimo. Ci passavamo una trentina d’anni, e questa differenza sarebbe potuta risultare abissale nella stragrande maggioranza dei casi, ma non con Auguste. Era depositario di una saggezza gentile che non ti faceva pesare, sapeva tante cose del mondo che io ignoravo, aveva visto tanti di quei posti che io avevo studiato solo nei libri di Adèle, eppure me ne parlava non con l’antipatico sottinteso di insegnarmi qualcosa, ma solo per il puro e semplice piacere di raccontare e condividere. 

A volte non lo vedevo per settimane, perché tornava a Nizza oppure partiva per qualche viaggio. Scoprii che era una specie di mercante, e girava la Francia - e in generale l’Europa - a vendere ingredienti magici certificati. Era un’attività pulita e onorevole, almeno da quanto sembrava. Durante quelle settimane di assenza, scoprii che mi mancava: mi mancava la sua lenta quotidianità, i racconti delle sue giornate, i resoconti di viaggio, le sue mani mai insistenti o volgari, quel modo che aveva tutto suo di ringraziarmi e baciarmi sulla guancia quando se ne andava. Non lo amavo, ovviamente, certo che no. Ero innamorata di un solo uomo, e avrei amato quel solo uomo per tutta la vita, ma provavo dell’affetto per Auguste. 

Adèle insisteva con me “di tenermelo buono”, di “lavorarmelo” cosicché un giorno mi avrebbe sposata, ma avrei potuto farlo con chiunque altro tranne Auguste. Ormai avevamo un rapporto così sincero e paritario (lui mi aveva sempre fatta sentire uguale a lui, non diversa per via del lavoro che facevo o per il colore della mia pelle, come spesso mi succedeva con altri clienti) che non avrei mai potuto fargli questo: raggirarlo solo per indurlo a chiedermi di sposarlo. Non sapevo nemmeno se fosse al corrente di questa nostra “usanza”. E non osavo chiederglielo per paura di allontanarlo e non vederlo più. La prospettiva di perdere Auguste, non solo come cliente ma come persona, come amico, mi diede la forza per litigare con Adèle per la prima volta in vent’anni. Non ci parlammo per qualche giorno, e fu in quel frangente che scoprii che non stava bene. Adèle non stava bene e non ne aveva fatto parola con nessuno. 

Non ebbi il coraggio di arrabbiarmi con lei per questa sua grave omissione, ma passai i successivi quattro giorni al suo capezzale, cercando di farle passare la febbre alta. Delirava, parlava in latino, chiamava nomi di persone che non conoscevo. Al termine di quel calvario, il medico che mensilmente veniva a visitarci, e che invitai caldamente a “esaminare” Adèle, ci disse che aveva preso una qualche malattia, molto probabilmente da un cliente, e che le prospettive di vita non erano ottimistiche. Ormai Adèle sputava sangue quando tossiva, ed era diventata magrissima. 

Piansi tra le braccia di Auguste tutta la notte quando finalmente lo rividi ed ebbi modo di raccontarglielo. Quella notte non facemmo sesso, Auguste si rifiutò visto che ero sconvolta, e pagò per passare con me tutta la notte, nonostante le mie proteste. Mi tenne stretta a sé, e i suoi abiti sapevano di sapone. Mi diedi della stupida, ché non ero stata in grado di accorgermi dello stato di salute di mia sorella, troppo presa com’ero dalla mia vita e i miei affari. Ovviamente Auguste non sapeva di Gideon, pensava solo fosse uno dei miei tanti clienti. Un uomo come un altro nella mia vita. Quella mattina, quando mi svegliai e Auguste era ancora accanto a me, seppi che lo avrei sposato. Lo seppi proprio con certezza. Avrei fatto di tutto per non lasciarlo uscire dalla mia vita. 

 

 

Circa un anno dopo, Adèle mi lasciò. Si era spenta come una candela, lentamente ma giorno dopo giorno. Ogni giorno che passava era sempre più magra, più pallida, più triste. Nell’ultimo paio di mesi non si alzava neanche più dal letto. La lasciarono fare: sapevano che aveva i giorni contati e, per rispetto verso il duro lavoro di nostra madre prima, e di Adèle poi, e verso di me, che ancora lavoravo lì, le accordarono silenziosamente l’opportunità di morire nel suo letto, circondata dalle persone che ormai erano la sua famiglia, al caldo. 

La sua mano era ridotta a uno scheletro e io la strinsi fino alla fine, fino al suo ultimo respiro. Ne sento ancora il fantasma tra le dita, quando penso a lei, o quando un momento particolarmente difficile mette a dura prova la mia vita. È come una presenza confortante e silenziosa. So che c’è. E, se c’è qualcosa dopo la morte, allora la reincontrerò là. 

“Promettimi che sposerai Auguste,” mi disse, la voce fine e roca. “Promettimelo, Lin.”

Ovviamente glielo promisi. Mantenni fede alla promessa.

 

 

“Mi ha chiesto di sposarlo.”

Gideon girò lo sguardo verso di me, la testa di capelli rasati distesa sul cuscino. Ci copriva solo un lenzuolo, ma io mi sentivo quanto mai esposta. Vulnerabile. Mi tremavano le mani, ma la mia risolutezza era ferma. 

“E tu hai detto di sì.” 

Non era una domanda.

Annuii. 

“Lo capisco. Lo capisco, Pauline.” Mi accarezzò i capelli sciolti, le sue dita scesero sulla mia spalla. Lievi. Quelle dita sapevano uccidere, eppure su di me sembravano fatte di sogno.

“Non hai altro da dire?” gli chiesi. 

Pensavo che avrebbe protestato, che in qualche modo avrebbe cercato di fermarmi, di farmi cambiare idea e riconsiderare la mia scelta. O meglio, più che pensarlo lo speravo, dentro di me lo desideravo. Sapevo che non avrei cambiato idea, eppure desideravo smuovere Gideon, desideravo che lui si riscuotesse. 

Gideon si mise a sedere, la schiena appoggiata alla testiera del letto. “Cosa vuoi che ti dica?”

“Non è questione di volere, il fatto è che.” Esitai, poi scossi la testa, arresa. “Il fatto è che pensavo mi avresti chiesto di non farlo.”

“Non posso chiedertelo, Pauline. E anche se potessi, non lo farei comunque. Ti meriti di essere felice.”

“Quindi pensi che un altro uomo mi possa rendere felice. Non tu.” 

“Penso che Auguste ti possa rendere felice. Anzi, ne sono sicuro. Penso ti possa dare la stabilità di cui hai bisogno, la sicurezza, la protezione. Io non posso darti nulla di tutto ciò, tranne incertezza, paura, preoccupazione, e l’ombra della morte a farti compagnia ogni sera, in attesa del mio ritorno.”

Deglutii, torcendomi le mani. Lui me le prese con delicatezza. “Pauline. Guardami, ti prego.” Lo guardai. I suoi occhi brillavano di qualcosa che non avevo mai visto. “Non è vita, quella che ho da offrirti, lo capisci?”

“Non che finora abbia davvero vissuto.”

“Proprio per questo ti meriti di cominciare a farlo. E Auguste è l’uomo che ti serve.”

“Non avrei comunque cambiato idea,” ammisi. Si meritava la verità, e non avevo mai avuto paura di parlargli con franchezza. “Nonostante tutto.”

Lui sorrise. “Sei incredibile. E comunque avresti fatto bene a non cambiare idea. Vieni qui.”

Mi accolse sul suo petto e io vi trovai rifugio, stringendomi a lui, sorridendo impercettibilmente.

“Non amerò mai nessuno come ho amato te. Come ti amo,” sussurrai, disegnando forme immaginarie sul suo braccio.

“Non amerò mai nessun altro,” replicò. “Questa parentesi è stato più di quanto avrei mai potuto desiderare dalla mia vita.”

“Piantala con questa storia delle premonizioni. Tu non morirai. Anzi, invecchierai, e un giorno ci rincontreremo quando saremo bianchi entrambi e ricorderemo i bei tempi andati bevendo qualcosa di forte.”

“So di non avere futuro, nessuno mi farà cambiare idea.”

“E con questo pensi di buttarti a testa bassa nel pericolo, incurante delle conseguenze? Hai una famiglia che ti ama.” 

“La mia famiglia è forte. Fabian, e Molly: sono tra le persone più forti che io conosca.”

Rabbrividii. 

“Scusa, ora la smetto con questi discorsi.”

“Bravo.”

Rimanemmo lì ancora un po’, non seppi precisamente per quanto. So per certo che mi addormentai, ad un certo punto, e quando mi svegliai, Gideon non c’era più. Mi misi a sedere, la mano a toccare il materasso ormai freddo. Vi trovai un biglietto, però. 

 

Quando non sarai più parte di me ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle, allora il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte. Non è mia ma di un signore che si chiama William Shakespeare. Al giorno in cui ci rivedremo. Sempre tuo, G.

 

Seppi che non l’avrei più rivisto, almeno non nell’immediato. Seppi che la mia missione era conclusa. 

 

“Al giorno in cui ci rivedremo, Gideon Prewett,” sussurrai. Piansi silenziosamente finché non mi riaddormentai. 

 

 

Sposai Auguste in estate. Nizza profumava di sole e possibilità. La casa che avremmo comprato aveva i muri imbiancati a calce e le imposte dipinte di blu. Si poteva salire sul tetto piatto e guardare le stelle, contarle tutte una a una. A volte ci addormentavamo lassù, incuranti, l’aria calda a cullarci. Auguste sembrava ringiovanito di dieci anni, sorrideva come un bambino, e mi viziava senza ritegno o pentimento. Dapprima mi mostravo timida, quasi riluttante, di fronte a quei regali - gioielli, tessuti, soprammobili, vestiti, borse e scarpe, tutto ciò che avrei mai potuto immaginare lui me lo portava a casa -, ma ben presto mi ci abituai, e cominciai a godere delle sue premure e attenzioni. “Dovresti davvero guardarti allo specchio e vedere finalmente quello che vedo io,” mi aveva detto Auguste il giorno del nostro matrimonio. Il cuore aveva minacciato di esplodermi in petto.

Uno dei primissimi regali di mio marito fu una bacchetta magica: mi accompagnò a sceglierne una, a Parigi, il giorno prima del matrimonio, e prima di partire per Nizza. Per me fu come nascere una seconda volta: presi possesso realmente della mia identità di strega, nonché di essere umano. Ora sentivo di avere dei diritti, sentivo di contare qualcosa. 

Ovviamente non mi mancava nulla di Parigi, e del mio lavoro, e della gente che avevo lasciato indietro: una volta persa Adèle, niente e nessuno mi tratteneva più. Le ragazze mi avevano salutata con una grande festa, avevamo bevuto vino e versato qualche lacrima: si trattava comunque della fine di qualcosa che conoscevamo dal momento della nostra nascita.

I ritmi miei e di Auguste come marito e moglie cambiarono quando, passata l’estate, lui tornò al lavoro. Partiva con la sua borsa di cuoio a tracolla dalla quale, con un colpo di bacchetta, tirava fuori ciò di cui aveva bisogno durante i suoi incontri con i clienti - e dalla quale estraeva nuovi regali per me quando tornava a casa, stanco ma felice di essere rientrato e di potermi riabbracciare. Io passavo le mie giornate badando alla casa, e all’inizio usare la bacchetta per sistemare, rassettare e pulire mi sembrava così strano, ma ci feci l’abitudine presto. Durante il resto del tempo passeggiavo, mangiavo gelati - finché la stagione me lo permise, poi diventarono cioccolate calde - e leggevo. Leggevo tantissimo, tutti i libri della libreria di Auguste, tutti i libri che non avevo mai avuto l’occasione di leggere. Leggere mi permetteva di evadere, ma era un’evasione consapevole, e non era davvero uno scappare dalla realtà, ma solo un viaggiare con la fantasia e la mente verso terre sconosciute ed epoche lontane, talvolta epoche che ancora dovevano venire. 

Auguste era premuroso, attento, sempre gentile. Mi raccontava tutto dei suoi viaggi, e di come andavano gli affari. Lo aiutavo addirittura a tenere aggiornati i libri contabili. Lui si fidava della mia dimestichezza con i numeri, che considerava innata. Sapevo tenere le redini della borsa della casa in sua assenza - e talvolta anche in sua presenza, se la situazione o l’occasione lo richiedeva. Non mi dispiaceva, avere quel piccolo potere in più. Mi faceva sentire indipendente, in qualche modo, una persona a sé rispetto al nucleo costituito dal matrimonio, fuori dalla coppia che formavamo. Mi resi conto che avrei potuto andare ovunque, e vivere ovunque, solo con le mie forze. Lavorare non mi spaventava, e proposi ad Auguste la cosa, una sera: era tornato da poche ore da un viaggio che lo aveva portato nella Germania del Sud, e sedevamo in salotto; gli proposi la possibilità di aprire una mia attività in paese, o di fare la nounou (un paio di mamme avevano manifestato l’esigenza di assurmene una al più presto, un giorno al mercato), o qualsiasi cosa sarei stata in grado di fare, ma lui non ne volle sapere; asserì che non avrei mai più dovuto alzare un dito per guadagnarmi da vivere, almeno finché lui fosse stato in vita, e in grado di ragionare, ma sicuramente anche dopo la sua morte, visto che mi avrebbe lasciato tutto. Non sollevai più l’argomento.

La notizia della gravidanza ci portò soltanto gioia. Per i primi tempi temetti di non essere in grado di concepire un bambino, o comunque di poterne portare uno in grembo, per via del mio precedente lavoro - l’unico mio lavoro. Temevo di essermi definitivamente rovinata, temevo che il mio corpo si fosse trasformato in un deserto sterile, e invece. Nell’agosto, esattamente un anno dopo il nostro matrimonio, nacque Blaise. Quando lo vidi per la prima volta capii che lo avrei amato di un amore incondizionato. E realizzai di essere diventata madre solo in quel momento, e che sarei stata prima di tutto una madre, per il resto della mia esistenza. Non avrei amato nessuno come amavo Blaise. E davvero andò così. 

 

 

Due anni dopo successero tre cose. Una bella e due brutte. 

Ci trasferimmo in Inghilterra a seguito dell’espansione dell’attività di Auguste oltre Manica e la progressiva riduzione del suo giro d’affari sul continente. Fu una scelta rischiosa, visto che l’Inghilterra era uscita soltanto da poco da una Guerra Magica senza precedenti che aveva lasciato strascichi e macerie. Leggemmo di ciò che accadde ai Potter su Le Courrier Magique, il quotidiano preferito di Auguste. Sedevamo al tavolo della colazione, mio marito teneva Blaise in braccio e io leggevo le notizie, come ci piaceva fare. Non sapevamo che, di lì a poco, saremmo partiti e avremmo lasciato Nizza per sempre. Mi costò lacrime impacchettare tutto, smantellare la nostra casa, lasciarmi alle spalle quel periodo della nostra vita che, sapevo, non sarebbe più tornato. In qualche modo, sarebbe cambiato tutto, e ancora non sapevo in quale misura. Non potevo immaginarlo. 

Nonostante tutto, quella fu una scelta felice. L’Inghilterra ci accolse bene, anche se il tempo non era quello della Francia del Sud e le persone sembravano solo badare ai loro affari. Ma era normale, gli inglesi erano appena usciti da una guerra, e non riuscivano a liberarsi del sospetto che si erano portati dietro per così tanto tempo. E degli stranieri - nonostante parlassimo bene l’inglese, questo eravamo, ai loro occhi, stranieri, e rimanemmo tali per parecchio tempo - non erano esattamente i primi di cui andarsi a fidare. Lo capivo. Non pretendevo niente. Mi facevo gli affari miei e vivevo la mia vita, crescendo Blaise, educandolo, rendendolo felice. Era un bambino così affettuoso. Era facile volergli bene, in questo assomigliava in tutto e per tutto a suo padre. Io mi sono sempre considerata una persona troppo difficile, non sono mai stata quella che “tutti amano senza alcuna riserva”. Ho sempre pagato il prezzo della mia impertinenza, delle facce esibite mio malgrado, delle parole taglienti. 

Rammentai quasi subito le descrizioni che Gideon faceva del suo paese, e di quanto gli sarebbe piaciuto portarmici. Mi ripromettevo di indagare, di scoprire dove fosse in modo da rintracciarlo, ma non lo facevo mai: qualcosa di urgente e che necessitava un’immediata soluzione mi distoglieva dal mio intento.

 

 

Con l’esperienza, posso dire che si è felici solo per un limitato lasso di tempo, nella vita, e la maggior parte delle volte - nella maggior parte delle vite - non ce ne rendiamo conto, quando lo siamo. Non mi rendevo conto di quanto fossi felice con Auguste, e Blaise, finché tutto cambiò, ancora una volta. Non so se il mio declino umano ebbe inizio con la morte di Auguste o di Gideon. Non so bene quando la mia anima si corruppe e non fui più in grado di godere di un giorno di sole dopo l’altro, delle nuvole nel cielo dalle forme pazzesche, del richiamo dei grilli nelle sere estive. 

Auguste se ne andò piano, senza fare rumore, proprio come aveva sempre vissuto - come mi aveva amata. Una mattina non si svegliò più, e seppi dal Medimago che ne esaminò il cadavere che era morto per un infarto, nel sonno. Fulminante. La sera prima avevamo cenato e poi avevamo giocato con Blaise seduti sul tappeto, come sempre, e lo avevamo messo a dormire, il corpicino rannicchiato nel letto con le sbarre, il suo peluche preferito al fianco, caldo e profumato di sapone. E poi ci eravamo messi a letto anche noi, e io mi ero addormentata nell’incavo del braccio di mio marito mentre lui leggeva un libro, come al solito, senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta - l’ultima volta in cui avrei sentito il suo corpo caldo accanto al mio. 

Lo seppellii senza tante cerimonie, ché sapevo non avrebbe gradito. Era sempre stata una persona modesta. Non amava le esagerazioni e le eccessive manifestazioni pubbliche, né di gioia, né di dolore. Era riservato. La sua casa era il suo santuario, una delle cose che aveva di più caro, simbolo e manifestazione del suo amore per la sua famiglia. Lì era dove eravamo stati felici - anche se non lo sapevamo. Almeno, io non lo sapevo. Me ne accorsi soltanto molto dopo. 

Davanti alla fossa scavata di fresco di Auguste Zabini, mentre i pochi che avevano partecipato alla cerimonia funebre scemavano via silenziosi e ammantati di cordoglio, in quel momento, vestita di nero, la veletta calata davanti al viso, e Blaise per mano, promisi a me stessa che non mi sarei mai più sposata per amore. 

Lo so, avevo pensato di non amare Auguste, almeno non dell’amore con cui avevo amato Gideon, ma la verità è che forse l’ho amato da subito, seppur di un amore diverso. Guardatevi da chi vi dice che non si può amare più di una persona allo stesso tempo: credetemi, per me è stato così. Gideon è stato l’amore impetuoso, il primo, vero amore, il primo uomo a vedermi prima come una persona, e mai come una puttana. Il primo a guardarmi con desiderio ma senza bramosia - senza pensare di poter pretendere e prendere tutto, da me, solo per via dei soldi che si erano spesi. Non dimenticherò mai l’amore che ho provato per Gideon, un amore che effettivamente non ho provato più, nella mia vita. Ma Auguste l’ho amato di un amore lento, gentile, mai insolente o pericoloso. Auguste era la calma, era il balsamo sui miei lividi, era il conforto di essere capita e vista - soprattutto vista - come un essere umano. Auguste era l’uomo che ha avuto il coraggio di sposarsela, questa puttana. Auguste non era solo parole, era anche fatti. Auguste era l’amore calmo che ti fa sentire accolta e protetta, e amata senza riserve o tornaconto, pur lasciandoti libertà di scelta, sempre, ogni giorno della vita che abbiamo condiviso insieme. 

Promisi - a me stessa e al cielo e alla dea Ecate - che non mi sarei più sposata per amore, non che non avrei amato più. Quella promessa la feci due mesi dopo, quando venni a conoscenza della morte di Gideon, e delle sue circostanze, quasi per caso. Nel corso di quei primi tempi in Inghilterra, gli inglesi avevano cominciato a conoscerci, e si fidavano finalmente di noi. Ormai chiacchieravo con le altre streghe della comunità quando ci vedevamo al mercato, o quando qualcuna di loro passava davanti a casa nostra e chiedeva sempre se io o il piccolo Blaise avessimo bisogno di qualcosa. Inaspettatamente, tutti si chiusero intorno a noi, protettivi, dopo la subitanea morte di Auguste. Non me lo sarei mai aspetatto. Ciò non cambiò nei mesi successivi, e fu proprio così che scoprii di Gideon, il suo nome buttato nel mezzo di una conversazione, la sua morte reale, tangibile, giunta a me dopo un lungo percorso ad ostacoli, di bocca, in bocca, in bocca, mesi dopo.   

Mi tremavano le mani, mentre qualcuno, al mercato, raccontava dei fratelli Prewett, di come fossero morti da eroi, poco prima della fine della guerra - come sapeva essere beffarda la sorte. E mantenni alta la facciata, ma la sera della mia scoperta piansi, sola nel mio letto, mentre fuori pioveva e i miei singhiozzi erano attutiti dal vento. Avevo perso due delle persone più importanti della mia vita in così poco tempo, una senza nemmeno saperlo. Ricordai la brutta sensazione che Gideon diceva di portarsi dietro, la premonizione di morire giovane. Lo insultai a denti stretti: odiavo dovergli dare ragione. 

Ebbi modo di visitare la sua tomba un paio di anni dopo, quando la vita mi portò altrove. I fiori erano secchi, nessuno veniva a cambiarli da parecchio tempo, così ne misi un mazzo nuovo io, me l’ero portato dietro con l’intenzione di aggiungerlo. Lasciai anche un biglietto, un foglio di pergamena con sopra trascritte le parole di Shakespeare che lui mi aveva lasciato anni prima, l’ultima volta in cui ci siamo visti - e amati. 

“Ciao, Gideon,” lo salutai per nome, affidando un ultimo bacio al vento perché lo portasse fino a lui, ovunque fosse.

Mi ripromisi di andare a cercare Molly Prewett, per dirle che avevo conosciuto uno dei suoi fratelli, e magari per porgerle le mie condoglianze, ma poi non lo feci mai. La vidi per la prima volta sulla banchina dell’Hogwarts Express, molti anni dopo, quando accompagnai Blaise alla partenza per Hogwarts. Capii istantaneamente che era lei, quasi come se Gideon me lo avesse sussurrato nell’orecchio. Dopo aver salutato mio figlio, la gioia della mia vita, il mio orgoglio, con le lacrime agli occhi dietro la veletta scura, mi voltai e notai che Molly mi stava osservando. Ricambiai la sua occhiata, quasi accennai un passo per andare da lei, ma poi mi fermai. Lei si era voltata a chiacchierare con una donna alta che l’aveva chiamata per nome, “Molly Weasley! Da quanto tempo, amica mia!”, forse un’ex compagna di scuola, e io persi la mia occasione - o forse non volli coglierla, non lo so fino in fondo. Me ne andai, silenziosa, e sparii oltre la barriera. La rividi in futuro, ma non ci guardammo mai più in viso. 

 

 

EPILOGO

 

Lasciai il quartiere, e la casa che avevo diviso con Auguste, quando uno dei mariti delle donne con cui avevo fatto amicizia lasciò la moglie per me. Fu facile, cedere al richiamo della seduzione. Fu quasi come un gioco, un gioco pericoloso, sì, ma pur sempre divertente. Non avevo nulla da perdere. E quando mi accorsi dell’effetto che facevo sugli uomini, be’, fu come tornare indietro agli anni che mi ero lasciata alle spalle, solo che qui ero perfettamente padrona del mio destino e delle mie scelte. 

Perché lo feci? Sinceramente non lo so, forse per noia, forse per amore del rischio, forse per arrecare dolore alle altre donne, e mogli, che credevano di vivere una vita felice, la vita felice che a me era stata portata via. Volevo rovinarle, volevo rovinare le loro esistenze artefatte con le loro case perfette e le loro famiglie serene e tranquille. Non mi importava davvero degli uomini che seducevo, ma cominciai a sposarli per divertimento, solo perché mi andava, per poi godere dei loro soldi dopo che una morte misteriosa se li era portati via. Avevo bisogno di sfogare tutto il mio scontento, e il mio rancore, e il mio dolore sordo che però dentro di me faceva rumore, e non mi lasciava dormire. 

Vagavo come un’ombra o un fantasma, infestavo i sogni degli uomini che avevano incrociato il mio sguardo, popolavo il loro letto, quasi tangibile, e li stringevo tra le mie gambe fino a lasciarli febbricitanti e senza fiato, tormentati e perduti. E l’unica cosa che potevano fare per porre fine a quella sofferenza era cercarmi, cercarmi e pregarmi di accettarli come miei fedelissimi servitori, per sempre grati e attenti. E allora quei sogni diventavano realtà subito dopo il rito nuziale, quei letti dalle lenzuola sudate diventavano solidi, questo corpo lo potevano toccare con mano, e loro giacevano inermi, succubi della loro stessa lussuria, ottenebrati dal piacere liquido che scorreva loro nelle vene, proni di fronte alla loro dea. Io facevo di loro quello che volevo, li assoggettavo al mio volere, li piegavo con le mie mani abili e loro gridavano nella notte nera, mentre fuori infuriava il temporale e i nostri gemiti li copriva il tuono. I lampi squarciavano il cielo e illuminavano la stanza, le membra allacciate, i corpi incastrati l’uno nell’altro, la mia schiena scura e flessuosa piegata nel piacere, i capelli scuri sciolti, la piega del seno pieno tra le loro mani pallide e bramose, movimenti febbrili e lenti allo stesso tempo, orgasmi trattenuti che facevano male, le mie cosce strette intorno alle loro teste. 

Cambiai. Cambiai col dolore e la perdita, mi tramutai in quest’essere senza scrupoli e remore, lasciai alle mie spalle la Pauline che aveva amato Gideon, e soprattutto la Pauline che aveva amato Auguste, e che da entrambi era stata riamata. Soltanto Blaise rimaneva, presenza ferma della mia esistenza, unica gioia della mia vita. Si vedeva scorrere i miei mariti davanti senza fare una piega, bastava che ci guardassimo negli occhi per capirci, e lui davvero mi capiva, capiva tutte le mie ragioni e le mie scelte. Non amai più nessun altro, e non conobbi mai nessun altro che mi capisse quanto mio figlio. Stavamo bene, insieme, noi due, un’isola in quel mondo corruttibile che ci aveva portato via tutto. Stavamo bene. 

 



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