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Autore: Parmandil    12/07/2023    0 recensioni
È l’ultima speranza di tornare a casa per gli avventurieri della Destiny, smarriti nel Multiverso. E sulle prime sembrano avercela fatta: popoli e pianeti sono quelli noti! Ma qualcosa di diverso aleggia su di loro, un’oscura specularità che trasforma gli amici in nemici, la vittoria in sconfitta.
Ritrovatisi nell’Universo dello Specchio, gli avventurieri affrontano la terribile prospettiva di rimanerci per sempre. Molte cose sono cambiate: l’Impero Terrestre è crollato e dalle sue ceneri è sorta la Confederazione, che promette quella pace e libertà mai viste nello Specchio. Ma i nostri eroi scopriranno che la falsa libertà è peggiore dell’aperta tirannia; specie se a elargirla è un vecchio nemico che si credeva sconfitto.
Ancora una volta è guerra aperta, e una corsa contro il tempo per salvare la Terra; sempre che gli abitanti vogliano essere salvati. Toccherà a Giely, la Vorta che ha sviluppato la propria individualità, affrontare le forze decise a estirparla. Intanto le pareti stesse del Multiverso iniziano a scricchiolare e la misteriosa specularità che lega le due realtà si affievolisce. Vada come vada, lo Specchio è infranto.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Star Trek Destiny Vol. VI:
Lo Specchio infranto
 
 
LA DESTINY DOVEVA ESPLORARE IL MULTIVERSO,
MA QUALCOSA È ANDATO STORTO
E L’EQUIPAGGIO È STATO UCCISO.
ANNI DOPO, UNA BANDA DI CONTRABBANDIERI
HA ABBORDATO LA NAVE ALLA DERIVA,
VENENDO RISUCCHIATA NEL MULTIVERSO,
SENZA LE COORDINATE DI RITORNO.
AGLI AVVENTURIERI NON RESTA CHE
ESPLORARE UNA REALTÁ DOPO L’ALTRA,
IN CERCA D’INDIZI SULLA VIA DI CASA,
MENTRE CERCANO DI RISCOPRIRE IN LORO
QUELLO SPIRITO CHE CREÓ LA FEDERAZIONE...
 
 
-Prologo:
Data Stellare 2595.291
Luogo: Kurill Primo (Quadrante Gamma)
 
   I due soli di Kurill, una brillante stella di tipo F e una leggermente più fioca di tipo G, erano prossimi al tramonto. La loro luce radente tingeva d’arancio gli svettanti palazzi della città, e oltre i confini di questa, la vasta foresta primordiale che la circondava. Non poteva esserci contrasto più stridente. Da un lato vi era l’iper-tecnologica e frenetica città dei Vorta, gli amministratori e gli scienziati del Dominio, secondi solo ai divini Fondatori. Dall’altro ecco la giungla dagli alberi secolari, sui cui rami ancora si dondolavano pigramente i loro cugini scimmieschi. Tutti i Vorta erano così, prima che i Fondatori li elevassero con l’ingegneria genetica, donandogli una vita superiore... ma privandoli di tutto ciò che la rendeva degna d’essere vissuta. E ora una rampolla di quella specie cliente si aggirava sulla terrazza panoramica del complesso universitario, in preda a un’inquietudine sconosciuta ai suoi simili.
   Giely-9, nona esponente di un’illustre e ininterrotta linea genetica di cloni, si era sempre sentita diversa dai suoi simili. Fin dal giorno in cui era emersa, già adulta, dalla vasca di gestazione, aveva avvertito questa misteriosa dissonanza. Tutti i Vorta erano lieti d’ereditare il ruolo dei loro predecessori, entrando nella ben oliata macchina statale del Dominio. Tutti erano intimamente convinti che i Fondatori fossero dèi, e andassero serviti e riveriti per questo. Tutti si sentivano realizzati nel servire lo Stato, ciascuno nel proprio campo, senza l’interferenza d’interessi particolaristici. Tutti, infine, sapevano che un giorno avrebbero attivato la loro ghiandola dell’eutanasia per fare largo ai propri successori. Era l’ordine delle cose, come lo avevano stabilito i Fondatori; e gli dèi non sbagliano. Ma allora perché Giely-9 si sentiva così piena di dubbi e timori, e così vuota di risposte soddisfacenti? Cos’era quella strana sete di verità che la rendeva irrequieta, quasi febbricitante?
   La giovane Vorta passeggiò avanti e indietro sulla terrazza del palazzone in cui era vissuta per tutta la sua breve vita. Il nome esatto di quel luogo era Centro di Formazione. In pratica era una via di mezzo tra un ospedale e una scuola. Lì i Vorta erano clonati, fatti crescere in vitro ed estratti una volta maturati. Lì vivevano in camerate, rigidamente controllati, studiando per alcuni anni tutto ciò che non era inscritto nella loro memoria genetica. Lì infine affrontavano gli esami, per dimostrarsi pronti ad assumere il loro ruolo nella società. Giely-9, ad esempio, era destinata a diventare un medico. L’estrema complessità degli studi aveva richiesto una permanenza più lunga nel Centro di Formazione rispetto alla maggior parte dei suoi simili. La giovane aveva visto molti Vorta uscire dalle vasche, studiare e poi andarsene, mentre lei era ancora immersa negli studi. Ma ora il momento tanto atteso – e temuto – era giunto anche per lei. Quella mattina aveva sostenuto gli esami e presto avrebbe conosciuto l’esito. Se li aveva superati, com’era assai probabile, sarebbe partita presto per il suo luogo di lavoro. In caso contrario, beh... le conseguenze potevano essere spiacevoli. A chi falliva era data una seconda, e talvolta persino una terza possibilità. Ma se si falliva ancora, si era giudicati cloni indegni e malriusciti. E nel Dominio non c’era posto per l’imperfezione...
   Giely-9 aggrottò la fronte, osservando il tramonto. Non era preoccupata dall’eventualità di fallire. Ormai padroneggiava la medicina, era convinta d’essere andata bene. No, al contrario dei suoi compagni, lei temeva di superare gli esami. Temeva di lasciare quel posto – l’unico che avesse mai conosciuto – e d’essere spedita su un pianeta remoto, a servire i Fondatori per tutti i giorni della sua vita, senza mai conoscere altro pensiero o soddisfazione. Temeva che la sua esistenza fosse identica a quella di Giely-8, e della 7, e via all’indietro fino alla numero 1, vissuta secoli prima. Che senso aveva vivere, se la sua esistenza era identica a quelle passate e persino alle future? E dire che il mondo stesso sembrava raccontare un’altra storia, un’altra verità. Quel giorno, ad esempio, quel giorno che stava terminando, non era del tutto identico ai precedenti. E quel tramonto era una precisa iterazione del “tramonto” che non si sarebbe mai ripetuta identica. Mai più le nuvole avrebbero formato quell’esatta configurazione, con quelle sfumature di colore. Mai più il vento avrebbe stormito in quel modo preciso tra le fronde dell’antica foresta, strappando quelle singole foglie. E anche gli abitanti della città, per quanto si sforzassero di ripetere i gesti abituali, non li avrebbero mai più compiuti in quel modo esatto. Lei stessa, Giely-9, non avrebbe passeggiato mai più su quel tetto, aspettando l’esito degli esami...
   «Ehilà! Come sta la mia Vorta preferita?» chiese un vocione alle sue spalle.
   Giely-9 trasalì, non di paura ma di gioia, avendolo riconosciuto. Si voltò di scatto, con gli occhioni viola spalancati e un sorriso radioso sul visetto cereo. «Ome’tikal! Che ci fai qui? Credevo fossi ancora nel Quadrante Alfa!».
   Il grosso Jem’Hadar le venne incontro, lieto anche lui, sebbene il suo volto scaglioso non fosse fatto per sorridere, il che gli dava un’espressione strana. Se i Vorta erano i cervelli del Dominio, i Jem’Hadar erano le braccia. Ed erano braccia armate... estremamente armate. La loro ferocia in battaglia era leggendaria, la loro devozione ai Fondatori assoluta. Le loro armate avevano fatto tremare interi mondi, sgretolato intere civiltà. Eppure... come Giely-9 era una Vorta sui generis, così anche Ome’tikal era un Jem’Hadar peculiare. Mentre gli altri erano sempre seri, lui era ironico. Mentre gli altri parlavano poco, e solo di lavoro, lui talvolta si perdeva in chiacchiere, persino con gli estranei. In ciò era facilitato dal fatto d’essere un Onorevole Anziano, come si definivano i pochi veterani. Essendo progettati solo per combattere, infatti, i Jem’Hadar avevano un arco vitale assai accelerato: a vent’anni diventavano Onorevoli Anziani e nessuno aveva mai raggiunto i trenta. Ome’tikal ne aveva venticinque, un’età veneranda. Questo gli garantiva alcuni piccoli privilegi: in particolare aveva un po’ di tempo libero, da usare a sua discrezione. Volendo poteva persino lasciare la guarnigione cittadina, aggirarsi per le strade e visitare gli edifici pubblici. E il vecchio Ome’tikal sfruttava appieno i privilegi che si era guadagnato, sopravvivendo a tante battaglie. Mentre gli altri Anziani usavano il loro “tempo libero” per pattugliare le strade, non avendo altro che il dovere in testa, lui ne approfittava per andare da Giely a chiacchierare.
   La Vorta non ricordava neanche come avessero attaccato bottone la prima volta; ma non poteva immaginare la sua vita altrimenti. Il Jem’Hadar conosceva un’infinità di storie curiose, apprese in venticinque anni di servizio, su decine di mondi alieni, e non vedeva l’ora di raccontarle a qualcuno. Giely-9 era l’ascoltatrice ideale, sempre attenta ed emozionata. Quelle storie stimolavano la sua fantasia, facendole sognare altre civiltà, altri modi di vivere. Così tra il vecchio Jem’Hadar e la giovane Vorta si era sviluppata una strana amicizia; i loro incontri erano per entrambi una boccata d’ossigeno.
   «L’Ambasciatore Odo ha terminato la sua missione presso la Federazione prima del previsto. Così eccomi qui» spiegò Ome’tikal. Il veterano, infatti, faceva parte della scorta personale dell’Ambasciatore e quindi lo seguiva sempre nelle sue missioni diplomatiche.
   «La Federazione... raccontami qualcos’altro, ti prego!» fece Giely-9, quasi saltellando dall’entusiasmo. Di tutti i racconti del Jem’Hadar, quelli più suggestivi concernevano proprio la Federazione Unita dei Pianeti. Una vasta alleanza di mondi, creata non tramite la conquista militare, bensì per libera adesione dei membri! Una civiltà interstellare che condivideva risorse e scoperte scientifiche! Una società in cui tutti erano tollerati... meglio ancora, in cui tutti erano padroni della propria vita... la Vorta stentava a credere che fosse vero. Possibile che i Fondatori, con tutta la loro divina saggezza, non avessero creato nulla di così bello?
   «Beh, in realtà non ho visto nuovi mondi, piccolina» spiegò Ome’tikal.
   «Ti prego, non chiamarmi così. Ormai sono grande, ho tre anni!» rivendicò Giely-9.
   «Giusto, vecchia mia» annuì il Jem’Hadar con un sorriso sornione. «Beh, dicevo che la nostra delegazione è stata a Bajor, nella capitale. Ma i colloqui erano a porte chiuse, quindi non so di preciso cos’abbiano discusso gli ambasciatori. Qualunque cosa fosse direi che è andata a buon fine, visto com’era soddisfatto Odo durante il ritorno. Quel che posso dirti è ciò che ho visto in città. Da quand’è finita la Guerra Civile, sembra che la Federazione sia tornata agli antichi fasti...».
   Il Jem’Hadar parlò di come le numerose specie federali si fossero riappacificate, dopo la tremenda Guerra Civile che aveva quasi infranto il loro sogno di coesistenza. Descrisse come su Bajor, e stando ai notiziari anche sugli altri mondi federali, ferveva la ricostruzione. «È sorprendente vedere come si riprendono in fretta i Bajoriani» commentò, scuotendo la testa. «Del resto sono abituati alle avversità. Credo che la loro religione – sai, il culto dei Profeti – abbia giocato anche stavolta un grosso ruolo nel tenerli uniti».
   «Il culto dei Profeti... me ne hai già parlato, ma ho sempre difficoltà a farmene un’idea» commentò Giely-9, che era stata educata a venerare i Fondatori.
   «Mah, non è poi così diverso da altri che ho visto in giro nella Galassia» commentò Ome’tikal. «Ci sono queste entità divine da adorare, un vademecum su come comportarsi in questa vita... e anche la speranza di rincontrarsi tutti in una vita ultraterrena».
   «Questo a noi manca» mormorò la Vorta, a disagio. «I Fondatori ci chiedono solo di servirli... di lavorare per loro... di morire per loro, persino». Guardò di sottecchi il Jem’Hadar, che aveva visto la morte in faccia un’infinità di volte, combattendo in loro nome, e aveva visto morire innumerevoli commilitoni.
   «È vero, loro non ci aspettano in un’altra vita» convenne Ome’tikal. «Beh, forse significa che sono più onesti delle presunte “divinità” degli altri popoli. Ci dicono le cose come stanno, invece di darci false speranze».
   «Sì, però... vedi... c’è qualcosa di strano...» borbottò Giely-9. S’interruppe per guardarsi nervosamente attorno, temendo che qualcuno origliasse quella conversazione sempre più eretica. «Se i Fondatori sono dèi, come ci viene insegnato, perché hanno bisogno di noi per sbrigare tutti i lavori? Perché gli servono i Vorta per l’amministrazione e la ricerca scientifica, e i Jem’Hadar per combattere? Non possono occuparsene da soli?».
   «Immagino che potrebbero, ma noi gli risparmiamo un bel po’ di fatiche e pericoli» ironizzò Ome’tikal.
   «Ma che dèi sono quelli che si stancano, si spaventano, possono essere feriti e persino uccisi?» obiettò la Vorta. «Che dèi sono quelli che hanno perso la guerra contro la Federazione?! Non sono onnipotenti, né onniscienti, e... e... si direbbe che non vogliano nemmeno il nostro bene!». Ciò detto tacque, temendo d’essersi spinta troppo in là. Non aveva mai osato manifestare a nessuno questi dubbi; e certamente non l’avrebbe fatto con altri.
   «Talvolta, in battaglia, ho avuto quest’impressione» ammise il vecchio Jem’Hadar. «Comunque devi riconoscere che, se non altro, i Fondatori ci hanno creati e ci hanno dato uno scopo. E poiché ci hanno donato la vita, non è così irragionevole pretendere che la dedichiamo a loro».
   «Non ci hanno donato la vita» sussurrò Giely-9, pallida come un cadavere. «Le nostre specie esistevano già da prima. I Fondatori si sono limitati ad alterare il nostro DNA per adattarci ai loro scopi. Non hanno il potere di creare... solo quello di manipolare... in un modo che chiunque può replicare con la giusta tecnologia. E non è tutto...». I suoi occhioni si spalancarono, facendosi vitrei, e la voce divenne un sussurro. «Nei miei studi di medicina, ho approfondito anche la fisiologia dei Fondatori. Perché se qualche malattia li colpisse, come accadde durante la guerra con la Federazione, toccherebbe a noi Vorta curarli. Ho esaminato le loro cellule al microscopio, ho visto cosa possono e cosa non possono fare. E mi sono resa conto, al di là d’ogni ragionevole dubbio, che non c’è niente di divino in loro. Sono fatti di materia, nient’altro che materia. Certo, hanno straordinarie capacità metamorfiche, ma non sono gli unici nella Galassia; e comunque non c’è niente di sovrannaturale. Tutto è perfettamente spiegabile in termini scientifici».
   Cadde un silenzio pesante. Giely-9 temeva d’essersi spinta troppo oltre e che il Jem’Hadar l’avrebbe denunciata. Invece Ome’tikal sospirò e scrollò le spalle. «Avevo già sentito discorsi simili dai federali. Tu non fai che confermarli» disse. «Beh, sembra che io abbia dedicato la mia vita a falsi dèi, e che tu debba fare lo stesso. Però ti consiglio di non dire queste cose ad altri. Non la prenderebbero bene, e tu passeresti dei guai» avvertì.
   «Lo so» rabbrividì la Vorta. «Quasi vorrei non aver mai cominciato a farmi tutte queste domande. Ma ora che ho iniziato, non riesco più a smettere! E quelle poche risposte che riesco a darmi sono così deprimenti!».
   «Beh, il fatto che i nostri dèi siano falsi non significa per forza che lo siano anche tutti gli altri» notò Ome’tikal. «La Galassia è piena di popoli, ciascuno con le sue credenze...».
   «Già, tutte che si contraddicono a vicenda!» sbuffò Giely-9. «Come si presume che possiamo riconoscere quella giusta, nella nostra breve vita? E poi, la verità non dovrebbe essere la stessa per tutti? A questo punto è più logico pensare che siano tutte sbagliate».
   «Non so... forse è il nostro intelletto a essere limitato. O forse la logica non è lo strumento migliore per approcciarsi a questo argomento. Ci sono troppe cose che non sappiamo, o che crediamo di sapere...» mormorò il Jem’Hadar, fissando le ultime luci del tramonto.
   «Sì... più cose impariamo, più ci accorgiamo di quanto sia vasta la nostra ignoranza» convenne la Vorta. Restò a fissare il tramonto con l’amico, finché il primo sole scomparve sotto l’orizzonte. Restava solo il gemello minore a tingere il cielo e la terra di toni fiammeggianti.
   «Devo andare. Per il regolamento devo rientrare in caserma prima che faccia buio» si riscosse Ome’tikal, lasciando la balaustra.
   «Sì, scusa se ti ho trattenuto. E scusami per tutti quei discorsi; non volevo rattristarti» disse Giely-9, temendo di averlo ferito.
   «Non preoccuparti, piccolina. Parlare con te non mi rattrista mai» fece il Jem’Hadar, con un altro di quegli strani sorrisi simili a smorfie. «Arrivederci alla prossima».
   «Sì, alla prossima» annuì la Vorta. Restò a guardarlo mentre si allontanava, finché l’Onorevole Anziano scese le scale del terrazzo, scomparendo alla vista. Non gli aveva detto che, proprio quel giorno, aveva sostenuto gli esami. E che quindi, con ogni probabilità, quella era stata la loro ultima chiacchierata prima che la spedissero chissà dove.
 
   Tornata nella sua camerata, Giely si recò al terminale del computer e controllò se le erano arrivate comunicazioni personali. Come previsto ce n’era una, gli esiti degli esami. Aprì il file con dita tremanti e lesse: aveva superato tutte le prove a pieni voti. Qualunque altro Vorta ne sarebbe stato deliziato. Non che il successo fosse celebrato: non c’erano cerimonie di laurea o simili rituali nella loro cultura. Ciascuno si accontentava della soddisfazione personale e assumeva i nuovi incarichi. Ma Giely-9 non riuscì a provare nemmeno quella, anzi si sentì sprofondare. La sua vita le pareva, più che mai, un cammino tracciato da altri, in cui lei non aveva alcuna voce in capitolo.
   Fu allora che giunse la chiamata per una comunicazione audio-video. Dal codice identificativo, si trattava di una chiamata esterna; un fatto molto raro. La giovane Vorta aprì il canale e si trovò a fissare una versione più anziana di se stessa. Giely-8 era davanti a lei, coi capelli grigi e il viso raggrinzito, come un sinistro memento mori.
   «Salve, erede» esordì l’anziana Vorta in tono formale. «Mi è appena stato notificato che hai superato gli esami con ottimi voti. Me ne rallegro. Del resto non c’era motivo di temere il contrario: la nostra linea genetica si è sempre contraddistinta per la professionalità».
   «Ti ringrazio, antesignana. I tuoi successi mi hanno spronata a dare il meglio» rispose Giely-9 con un groppo in gola.
   «Ti comunico che, per disposizione del Comando Medico, sei pronta a subentrarmi» disse sbrigativamente Giely-8. «Al momento mi trovo su Karemma, dove lavoro nel reparto di tossicologia dell’Ospedale Centrale. Tra due giorni partirà il trasporto militare 610, linea diretta Kurill-Karemma; l’autorizzazione all’imbarco dovrebbe già esserti stata inviata. Prepara i bagagli e non mancare alla partenza. Sono impaziente di accoglierti e impartirti le ultime istruzioni, prima del nostro avvicendamento».
   «Vuoi dire prima che tu debba...» fece la giovane con voce incrinata.
   «C’è un tempo per ogni cosa, anche per concludere il proprio servizio» rispose l’anziana, inflessibile. «Apprezzo la tua vicinanza, ma come ben sai, la ghiandola dell’eutanasia ci dona una morte rapida e indolore. Così hanno stabilito i Fondatori, così deve essere. Non temere... come una giornata ben spesa ci dà un sonno sereno, così una vita ben spesa ci dà un sereno trapasso. Sia lode ai Fondatori!».
   «Sempre siano lodati» rispose meccanicamente Giely-9, con la bocca secca.
   «A presto, allora. Ricorda, è solo adesso che la tua vita comincia davvero. Giely-8, chiudo».
   Lo schermo si oscurò, così che al viso anziano di Giely-8 subentrò il riflesso più giovane di Giely-9. La Vorta si specchiò, chiedendosi se sarebbe diventata proprio come la sua antesignana. Anche lei avrebbe dimenticato i sogni e le speranze di gioventù, rassegnandosi alla monotona esistenza di serva del Dominio? Anche lei, un giorno, avrebbe contattato la sua erede per invitarla a sostituirla? E dopo aver sbrigato le ultime formalità burocratiche, avrebbe diligentemente attivato la ghiandola dell’eutanasia? Possibile che fosse già tutto scritto, fino all’epilogo?
   A quel pensiero, la giovane Vorta si prese la testa fra le mani. No, da quando Ome’tikal le aveva parlato della Federazione, le si era spalancato un mondo che non poteva più essere richiuso. E sebbene non credesse più nei Fondatori, Giely-9 sentì di avere una sua personalissima fede. La fede che un giorno, in qualche modo, sarebbe stata artefice del suo destino.
 
   Il giorno dopo, all’ora consueta, Ome’tikal uscì dalla caserma per la sua passeggiata serale. Contava di andare da Giely, come al solito, per fare un’altra chiacchierata. Stranamente, invece, la trovò già ad aspettarlo subito fuori dall’area militare. La giovane Vorta aveva un’aria particolarmente infelice. I suoi occhi erano arrossati, come se avesse trascorso la notte insonne.
   «Che succede, piccolina?» chiese il Jem’Hadar, intuendo subito che era qualcosa di grave.
   «Ieri, quando sei tornato, c’è una cosa che non ti ho detto» rivelò Giely-9. «Ho superato gli esami per l’abilitazione alla professione. Significa che sto per partire, per sostituire la mia antesignana su Karemma. Il trasporto parte domattina, dopo di che passerà molto tempo prima che io possa tornare. Quindi...».
   «... quindi questo è un addio» comprese Ome’tikal. Non era sorpreso; in effetti sapeva che gli esami di Giely erano imminenti, pur ignorando il giorno preciso.
   «Ieri non me la sono sentita di dirtelo, dopo che eri appena tornato dal viaggio. Ma ora devo, perché... potremmo non vederci più» confermò la Vorta, con gli occhioni lucidi dal dolore. «E ci tengo a farti sapere quanto ti sono grata per il tempo che mi hai dedicato. I tuoi racconti mi hanno aperto gli occhi. Sei il mio unico amico, e ti ricorderò con affetto finché avrò vita!» gemette.
   «È stato bello anche per me. Ho preferito di gran lunga le nostre conversazioni a... tutte le altre cose che ho fatto» mormorò Ome’tikal, adombrandosi nel ricordare la sua vita piena di battaglie e uccisioni.
   «Ma tu starai bene?» si preoccupò Giely-9.
   «Certo, sono un Onorevole Anziano e ormai ho solo compiti di scorta. Del resto non ci sono guerre, al momento» la confortò il Jem’Hadar. «La vera domanda è se tu starai bene. Conoscendoti, non credo che il tuo nuovo incarico ti entusiasmi» indovinò. I due presero a passeggiare lungo la strada, allontanandosi dalla caserma.
   «A dire il vero... sono terrorizzata» confessò la Vorta, lo sguardo basso. «Non per l’incarico in sé, ma per il fatto che alla lunga potrei abituarmi a questa vita, come tutte le altre Giely... come tutti gli altri Vorta. Mi angoscia l’idea di perdere quel poco d’originalità che i tuoi racconti hanno risvegliato in me».
   «Uhm... per te è così importante distinguerti dagli altri?» indagò Ome’tikal.
   «Mi chiedi se è egoismo, o un’infantile ribellione all’autorità? Non so che dirti. So solo che dev’esserci qualcosa di più, nella vita, che servire i Fondatori. Ancora non sono certa di cosa, ma... deve esserci!» disse Giely-9, con un’inedita determinazione.
   Per un poco i due passeggiarono in silenzio, assorti nei loro pensieri. Poi, d’un tratto, il Jem’Hadar giunse a una conclusione. «Allora non c’è tempo da perdere. Partiamo stasera stessa» decise.
   «Come?!» fece la Vorta. Smise di camminare e lo fissò con occhi stralunati.
   «Con una navicella, naturalmente» rispose Ome’tikal, con aria sagace.
   «No, intendevo... come sarebbe a dire? Partire noi due? E per dove?!».
   «Per la Federazione» chiarì il veterano. «Mi hai detto che non puoi sentirti realizzata qui nel Dominio, che devi tracciare la tua strada. E io so per certo che la Federazione accoglie i rifugiati politici. Quindi faremo così: attraverseremo il Tunnel Spaziale, raggiungeremo la Federazione e chiederemo asilo» disse con disarmante semplicità.
   «Ma... non funzionerà mai! Ci sono troppi ostacoli!» fece Giely-9, esterrefatta.
   «Senti un po’: vuoi dare una svolta alla tua vita, sì o no? Perché se accetti il mio aiuto adesso hai una speranza, ma se rifiuti e vai su Karemma, sarà molto più difficile sganciarti dal Dominio» avvertì il Jem’Hadar.
   «Può darsi... anzi, è certamente così» ammise la Vorta. «Ma non voglio coinvolgerti nel mio sogno impossibile. Hai già fatto tanto; ora meriti di vivere in pace, con gli onori di un Anziano».
   «Ho sprecato la mia vita a combattere per falsi dèi» obiettò Ome’tikal. «Ora lascia che lo faccia, un’ultima volta, per aiutare una vera amica. Se tu reclami il diritto all’autodeterminazione, perché io non posso fare altrettanto?».
   «Gli altri Jem’Hadar potrebbero ucciderti...».
   «Potrebbero uccidere anche te, se mai tenterai la fuga» puntualizzò il veterano. «Se agiamo insieme, avremo maggiori probabilità di successo. Ma dobbiamo farlo subito, perché domattina sarai già su quel trasporto, e sarà troppo tardi. Allora, sei con me?».
   La Vorta rimuginò per qualche momento. Infine parlò con grande sforzo, meravigliandosi nell’udire la propria voce, come se una nuova volontà l’animasse: «Sì, lo sono».
 
   Presa la decisione, bisognava attuarla tempestivamente. Ome’tikal snocciolò la sua idea su come lasciare il pianeta. Era un piano così dettagliato che Giely-9 si trovò a pensare che doveva averci rimuginato già da tempo, aspettando solo l’occasione buona per metterlo in atto. Per quanto lo analizzasse, la Vorta non trovò alcuna miglioria da apportare; così lo accettò in blocco. Eppure non sapeva se avrebbe realmente funzionato. Le maglie della sicurezza del Dominio erano notoriamente strette. Nessuno, Jem’Hadar o Vorta che fosse, poteva impadronirsi di una navicella e lasciare il pianeta senza aspettarsi una caccia spietata. Eppure, contro ogni buonsenso, i due erano ormai legati dalla comune decisione. Si lasciarono temporaneamente, con l’intesa di ritrovarsi di lì a poco davanti a un ingresso secondario dello spazioporto.
   Mentre tornava in fretta e furia al Centro di Formazione, Giely-9 si disse che era una follia. Non sarebbero nemmeno riusciti a salire sulla navicella; le guardie li avrebbero disintegrati prima. E se anche fossero saliti a bordo, le batterie polaroniche li avrebbero abbattuti in fase di decollo. Eppure la giovane non se la sentì di disertare il piano. Aveva promesso al suo unico amico d’incontrarlo a quell’ingresso, per tentare la sorte, e non lo avrebbe tradito.
   Tornata al Centro, la Vorta accedette ai laboratori con una scusa e s’impadronì dell’unico oggetto davvero indispensabile per la riuscita della fuga. A vederlo non pareva granché: un contenitore metallico squadrato, munito di manici per sollevarlo. In realtà era uno degli oggetti più preziosi che vi fossero nel Dominio: un dispensatore di ketracel bianco. E il ketracel era la sostanza che teneva in vita i Jem’Hadar, l’unica di cui si nutrissero. Senza di quello, i guerrieri del Dominio perdevano totalmente la ragione, diventando belve incontrollabili. Uccidevano chiunque vedessero, amico o nemico; infine si trucidavano a vicenda. Perciò ai Vorta era affidato, tra le altre cose, anche il delicato compito di gestire i dispensatori. Erano i Vorta che, una volta al giorno, li usavano per replicare le fialette di ketracel bianco, che poi consegnavano ai Jem’Hadar, con la breve formula di rito: «Ricevete questo premio dei Fondatori, possa esso mantenervi in forze». Perciò, se Giely-9 e Ome’tikal dovevano lasciare per sempre il Dominio, era indispensabile portarsi dietro un dispensatore; e solo la Vorta poteva azionarlo.
   Nascosto il congegno in un borsone a tracolla, la giovane lasciò il Centro di Formazione, eludendo con varie scuse i pochi che si fermarono a farle domande. Fino ad allora la sua condotta era stata impeccabile, e ora che aveva superato gli esami, nessuno sospettava che fosse in procinto di fuggire.
 
   Era ormai il tramonto quando Giely-9 giunse al punto d’incontro, presso l’ingresso posteriore dello spazioporto. Presto la sua assenza sarebbe stata notata al dormitorio del Centro di Formazione e notificata alle autorità. E naturalmente anche l’assenza di Ome’tikal sarebbe stata notata in caserma, provocando una reazione ancora più rapida. Se volevano fuggire, dovevano farlo subito.
   «Eccoti, finalmente!» l’accolse il Jem’Hadar, che era già lì ad aspettarla. «Hai il dispensatore?».
   Giely-9 annuì e dette una pacca al borsone.
   «Allora andiamo» la esortò Ome’tikal.
   La giovane lo seguì, col cuore che batteva all’impazzata. I due entrarono nello spazioporto, mimetizzandosi nella folla di loro simili perennemente al lavoro. Furono fermati più volte da sentinelle Jem’Hadar, ma l’Onorevole Anziano riuscì sempre a cavarsela con delle scuse. Del resto, le guardie lo conoscevano e si fidavano di lui, per quanto possano fidarsi i Jem’Hadar. Eppure Giely-9 si aspettava che da un momento all’altro qualcuno incrociasse i dati e li smascherasse, o che un allarme rilevasse il dispensatore nel suo borsone. Invece, incredibilmente, i due giunsero in un hangar secondario, in cui si trovava il mezzo che Ome’tikal aveva scelto per la fuga.
   Era un Infiltratore, ovvero una navicella militare agile e veloce, progettata per missioni di ricognizione e spionaggio. Lunga appena una trentina di metri, somigliava a una grossa cimice, grigia e viola, con le gondole di curvatura protese ai lati. Di regola aveva un equipaggio di otto elementi, ma all’occorrenza bastavano pilota e copilota per farla volare. Giely-9 intuì che Ome’tikal l’aveva scelta oculatamente. Una navicella più grande era impossibile da manovrare in due, mentre una più piccola sarebbe stata troppo fragile e non avrebbe resistito all’inseguimento. L’Infiltratore era la giusta via di mezzo, ma non era incustodito: nell’hangar c’erano un controllore Vorta e due guardie Jem’Hadar.
   «Ehi, voi due che ci fate qui?» chiese subito il controllore, alzando gli occhi da uno schermo.
   «Dobbiamo fare un volo d’addestramento, codice 389» rispose Ome’tikal, venendogli incontro con la massima faccia tosta.
   «Strano, non ho ricevuto nessun avviso» s’insospettì il Vorta. «Attendete, devo chiedere conferma al centro di comando». Le sue mani corsero alla consolle, ma Ome’tikal fu più veloce. Il veterano estrasse il piccolo disgregatore polaronico che nascondeva in tasca, colpendo prima le due guardie e poi il controllore. Era stato così fulmineo e inaspettato che nessuno, nemmeno i suoi simili, avevano avuto il tempo di reagire. Scioccata, Giely osservò i caduti. Le ci volle un attimo per capire che erano solo storditi. Ome’tikal aveva avuto tanto riguardo da prendere un’arma munita di stordimento, il che era una rarità negli arsenali Jem’Hadar.
   «Svelta, da un momento all’altro squillerà l’allarme!» la esortò il veterano, spintonandola verso la pedana d’imbarco, mentre con la mano armata teneva sotto tiro l’ingresso.
   La Vorta salì di corsa, sempre col borsone a tracolla, seguita dal Jem’Hadar. Appena furono a bordo ritirarono la pedana e sigillarono il portello dall’interno. Giely-9 gettò il borsone a terra e seguì Ome’tikal in cabina, dove sedettero ai comandi. «Sai, questo è il mio primo volo» confessò la giovane, osservando nervosamente i comandi.
   «Bah, che ci vuole a far volare un Infiltratore? Mettiti questo e segui le mie istruzioni» disse il veterano, porgendole un visore. Sulle navi Jem’Hadar, infatti, non c’era lo schermo: bisognava indossare gli appositi visori di guida per vedere cosa accadeva all’esterno. Indossato il suo, Ome’tikal prese la postazione del pilota e attivò rapidamente i sistemi. La Vorta lo imitò e prese il posto del copilota, inserendo i comandi ausiliari secondo le sue istruzioni.
   «Ehm, come apriamo quello?» chiese Giely-9, alludendo al portone dell’hangar, ancora chiuso. In teoria avrebbe dovuto aprirlo il controllore, dalla sua postazione a terra.
   «Nel modo più spiccio» spiegò Ome’tikal, attivando il cannone polaronico anteriore. Bastò un unico raggio azzurro per sfondare il portone, rendendo visibile il cielo. La via di fuga era aperta, ma ora tutti sapevano della loro diserzione. L’attimo dopo il Jem’Hadar attivò i motori a impulso.
   Con un bang supersonico, che assordò e gettò a terra tutto il personale in un raggio di centinaia di metri, l’Infiltratore schizzò fuori dall’hangar. Prima che le batterie polaroniche potessero agganciarlo, l’agile vascello prese quota, sfrecciando verso il cielo vespertino. E verso l’agognata libertà.
 
   Giunti in orbita, Ome’tikal diresse l’Infiltratore verso lo spazio aperto. Ma non era così facile lasciare Kurill Primo, una delle maggiori roccaforti del Dominio. Il pianeta era circondato da piattaforme orbitali, e solo metà di esse era rivolta all’esterno, per contrastare eventuali invasori. L’altra metà puntava verso l’interno, proprio per impedire eventuali fughe. I raggi polaronici balenarono tutt’attorno all’Infiltratore e ben presto uno lo colpì. Ma Ome’tikal aveva già attivato gli scudi; la navicella tremò mentre il colpo era assorbito.
   «Scudi all’80%, dobbiamo balzare in curvatura» disse Giely-9.
   «Sto ultimando i calcoli, dammi solo qualche secondo» rispose il Jem’Hadar. Più si era vicini a un pozzo gravitazionale, come quello del pianeta, più balzare a curvatura era rischioso. Il minimo errore poteva ridurre la navicella in atomi. Ma per dei fuggitivi come loro, non c’era tempo di allontanarsi a distanza di sicurezza. Un secondo raggio colpì gli scudi, poi un terzo.
   «Scudi al 40% e c’è un incrociatore in avvicinamento!» avvertì la Vorta. La grande astronave, dalle linee aggressive e lo scafo violaceo, era chiaramente in rotta d’intercettazione. Alcuni caccia Jem’Hadar la oltrepassarono, ancora più rapidi. Con gli scudi già indeboliti, l’Infiltratore non poteva reggere il loro fuoco.
   «Ci siamo!» fece Ome’tikal. L’Infiltratore schizzò in avanti, sfuggendo al fuoco nemico, e balzò a curvatura. Gli scossoni cessarono.
   «Ce l’abbiamo fatta?» chiese Giely-9, incredula.
   «Quasi. Ora cerco di confondere la traccia di curvatura» spiegò il Jem’Hadar, ancora concentrato sui comandi. «Inoltre voglio depistare gli inseguitori, quindi non andremo subito verso il Tunnel Spaziale. Prima ci dirigeremo verso la Nebulosa Lantar, dove spero di far perdere definitivamente le nostre tracce. Solo allora cambieremo rotta e ci dirigeremo verso l’imboccatura del Tunnel. Ci vorrà più tempo, ma è la strategia più sicura» spiegò.
   «Certo, mi fido della tua esperienza» sorrise Giely-9.
   Ome’tikal trafficò coi comandi per mezz’ora, assicurandosi che la traccia di curvatura fosse mascherata. Infine si abbandonò contro lo schienale. «Questo è il meglio che so fare, ora non ci resta che aspettare. Anche se viaggiamo ad alta curvatura, serviranno alcuni giorni per raggiungere la nebulosa, e ancora di più per andare da lì al Tunnel Spaziale. A bordo c’è un replicatore alimentare, quindi non devi preoccuparti dei pasti. Quanto a me... comincio ad aver bisogno del ketracel» disse.
   Giely-9 notò che le mani del veterano tremavano, primo segno della crisi d’astinenza. Non c’era tempo da perdere; balzò in piedi e si fiondò dove aveva lasciato il borsone. Estrasse il dispensatore di ketracel e lo portò in cabina. Naturalmente sapeva usarlo, come tutti i Vorta, e a maggior ragione come medico. Posò la mano sinistra sul lettore di DNA, mentre con l’altra inseriva un breve codice di sicurezza. «Prepara dieci dosi» ordinò, pensando che era bene fare scorta.
   Il congegnò ronzò brevemente, segno che il replicatore interno si era attivato. Allora Giely-9 rimosse il coperchio, mettendo in luce le preziose fialette. Ne prese una, porgendola all’amico. «Ricevi questo premio dai Fondatori, possa esso...» disse meccanicamente, ma si arrestò, notando il paradosso. Per dei fuggiaschi eretici come loro, era assurdo continuare a riverire i Fondatori. «Come non detto. D’ora in poi dirò solo... buon appetito» si corresse.
   Ome’tikal fece il suo strano sorriso e prese la fialetta, inserendola in un taschino dell’uniforme nera. Un sottile tubicino, collegato direttamente alla sua carotide, portò il ketracel bianco nel circolo sanguigno. Il Jem’Hadar sospirò e le sue mani smisero di tremare; allora anche Giely-9 si rilassò. La crisi era scongiurata, ed erano entrambi in fuga verso la libertà. Andava tutto bene, per il momento.
 
   I giorni successivi furono strani, ma emozionanti. I fuggitivi erano confinati sulla piccola navicella ed erano insolitamente a corto di doveri, dato che la ferrea routine delle loro vite era saltata. Quindi passavano la maggior parte del tempo chiacchierando. Giely-9 non aveva mai avuto conversazioni così lunghe, e così libere, con quello che ormai era il suo mentore. Ome’tikal aveva ancora tanto da raccontarle, soprattutto sulla Federazione. Le parlò dettagliatamente dei pianeti, dei popoli e delle leggi federali. In effetti la Vorta si rese conto che il Jem’Hadar la stava preparando a cavarsela senza di lui, una volta giunti nello spazio federale. Ad esempio parlarono di cosa avrebbe fatto Giely-9 se avesse ottenuto la cittadinanza federale. La giovane non poteva pensare ad altro che esercitare la professione per cui, ormai, si era preparata: la medicina. Pur essendo fuggita dall’asfissiante controllo del Dominio, infatti, non aveva nulla in contrario a fare quel mestiere. Anzi, se fosse riuscita a farsi accogliere le pareva un modo per sdebitarsi con la società federale.
   Ciò di cui Ome’tikal non volle mai parlare, invece, era ciò che avrebbe fatto lui. Per un veterano Jem’Hadar non c’erano molte possibilità, nella Federazione... anzi, Giely-9 non riuscì a pensarne proprio nessuna. A peggiorare le cose, Ome’tikal era già in età avanzata per un Jem’Hadar, al punto che realisticamente non gli restavano che due o tre anni di vita. La Vorta si promise di trovare impiego al più presto, così da provvedere anche al suo mentore, affinché questi potesse riposare per i pochi anni che gli restavano.
 
   Dopo una settimana di viaggio i due giunsero alla Nebulosa Lantar, dove Ome’tikal confuse ulteriormente la traccia di curvatura. Allora, finalmente, i fuggitivi poterono cambiare rotta, dirigendosi verso il Tunnel Spaziale. Il loro morale era più alto che mai: se i Jem’Hadar non li avevano ancora rintracciati, era difficile che ci riuscissero adesso. «Fra dieci giorni saremo all’imboccatura del Tunnel» calcolò Ome’tikal.
   I fuggitivi tornarono così alla loro routine, fatta di lunghe chiacchierate, inframmezzate di controlli ai sensori e ai sistemi di bordo. Giunti al penultimo giorno di viaggio, persino Ome’tikal sembrava piuttosto rilassato e convinto che ce l’avrebbero fatta. Il veterano stava descrivendo gli strani giochi dei Wadi – un popolo del Quadrante Gamma – in cui le persone facevano da pedine, quando a un tratto squillò un allarme. Il Jem’Hadar indossò il visore di guida e si precipitò alla consolle. «Allarme di prossimità» disse. Per quanto fosse poco espressivo, Giely-9 intuì dal tono di voce che era una faccenda seria.
   La Vorta gli venne accanto, col visore sghembo per la fretta con cui l’aveva indossato. Per quanto fosse poco pratica di astronavi, sapeva che un inseguitore esperto può uniformare il campo di curvatura a quello della preda, arrivando a distanza di tiro. La giovane regolò il suo visore per l’inquadratura di poppa, come il suo mentore aveva già fatto. Allora vide la sagoma inconfondibile di un caccia da guerra Jem’Hadar, l’unità base della flotta del Dominio. Somigliava all’Infiltratore, con la sua forma a scarafaggio, ma era più grosso, avendo un equipaggio di quarantadue Jem’Hadar, più un Vorta al comando. Perciò disponeva di maggior potenza di fuoco e di scudi più resistenti dei loro.
   «Eccoli lì. Ci hanno trovati, infine...» mormorò Ome’tikal. L’attimo dopo il caccia Jem’Hadar aprì il fuoco col cannone polaronico. L’Infiltratore si scosse mentre i suoi scudi posteriori assorbivano il colpo.
   «Che facciamo?!» chiese Giely-9, terrorizzata.
   «Finché restiamo in curvatura siamo un bersaglio facile. Devo scendere a impulso per poter manovrare» spiegò Ome’tikal, concentrato sui comandi. Fece quanto detto, sperando che il caccia li oltrepassasse, ma non fu così. I Jem’Hadar ebbero la prontezza di scendere a impulso assieme a loro e subito ripresero a far fuoco.
   «Scudi al 50%, in rapida diminuzione!» avvertì Giely-9, mentre la navicella sussultava sotto i colpi spietati degli inseguitori.
   «È inutile rispondere al fuoco, abbiamo meno potenza di loro. Devio tutta l’energia agli scudi e cerco di seminarli» disse Ome’tikal. «Tu manda una richiesta d’aiuto subspaziale. Ormai siamo vicini al Tunnel, potrebbero esserci navi federali nei paraggi».
   Il fatto che un veterano Jem’Hadar decidesse di chiedere aiuto era la prova definitiva di quanto fosse disperata la loro situazione. Giely-9 comprese che, se fosse stato solo, Ome’tikal avrebbe accettato la morte in battaglia. Se sopportava quell’umiliazione era solo perché c’era lei a bordo. Con mani tremanti, la Vorta inviò il segnale subspaziale, trasmettendo le loro coordinate.
   Intanto Ome’tikal compiva delle elaborate manovre evasive, cercando di schivare i colpi nemici e mettere una certa distanza tra le due navi. La gara tra piloti infuriò per parecchi minuti, tra finte e giravolte. A un certo punto il caccia Jem’Hadar rimase indietro; ma poi un raggio polaronico centrò l’Infiltratore, che sussultò e perse l’accelerazione. Il caccia tornò ad avvicinarsi.
   «Siamo senza scudi. Il propulsore di dritta è andato, non posso più tenerli a distanza» disse Ome’tikal, tirato. «Mi spiace, piccolina, ma la nostra fuga è finita». Un ulteriore colpo mise fuori uso le armi dell’Infiltratore, lasciandolo completamente indifeso e alla deriva.
   «Ci distruggeranno?!» chiese Giely-9, sentendo tutta l’amarezza della sconfitta. Essere arrivati così vicini alla libertà, solo per fallire, le sembrò un atroce scherzo della sorte. Forse i Fondatori erano veramente dèi, a cui non ci si poteva ribellare.
   «Aspetta... hanno cessato il fuoco» notò Ome’tikal. «Credo che vogliano abbordarci. Se è così, posso tentare un’ultima difesa». Si tolse il visore di guida, per non avere distrazioni. Poi aprì l’armadietto delle armi e imbracciò un fucile polaronico.
   «No, ti uccideranno!» cercò di fermarlo la Vorta.
   «Questo accadrà in ogni caso. Ma tu potresti cavartela, se li convinci che sono stato io a rapirti» consigliò il Jem’Hadar. La spinse al riparo dietro una consolle, dopo di che si appostò all’ingresso della cabina, col fucile spianato.
   «Non potrei mai...!» annaspò Giely-9, ma in quella si udì il ronzio del teletrasporto. Numerosi bagliori viola scintillarono nel comparto posteriore della navicella, meno schermato della cabina, e in un attimo ecco un plotone di Jem’Hadar, pronti alla battaglia.
   «Sei finito, traditore! Gloria ai Fondatori!» gridò il Primo, ovvero il caposquadra, aprendo il fuoco.
   «Se i Fondatori sono così in gamba, perché gli servite per fare il lavoro sporco?!» ribatté Ome’tikal, rispondendo al fuoco da dietro lo stipite. I raggi polaronici balenarono, facendo sprizzare scintille dalle paratie colpite. Dalla sua posizione riparata Giely-9 non riusciva a vedere granché, ma dalle ripetute grida capì che il veterano aveva abbattuto diversi avversari. A un certo punto, tuttavia, un raggio nemico gli colpì il fucile polaronico, facendolo esplodere. Ome’tikal cadde all’indietro, gravemente ustionato sul volto e sul petto. Allora i nemici superstiti irruppero in cabina. Erano solo due, segno che il veterano aveva eliminato quasi tutto il plotone.
   «Mi deludi, Ome’tikal. Sapevo che eri mezzo matto, ma credevi davvero di poter tradire impunemente i Fondatori?!» chiese il Primo, mirandogli alla testa.
   «Tan’turak, immaginavo che mi avrebbero sguinzagliato te alle calcagna» tossì il veterano. Anche l’altro era un Onorevole Anziano, e tra loro non correva buon sangue. «Se i Fondatori sono così potenti, è solo perché gli stolti come te continuano a servirli» aggiunse Ome’tikal.
   «Hai sentito? Il disertore ha confessato la sua eresia!» commentò Tan’turak, rivolto al suo secondo. Stava per eseguire la sentenza, ma in quella notò Giely-9. «Ah, ecco l’altra traditrice! Che peccato... tu avevi un futuro luminoso, giovanotta. Ma lo hai sprecato per seguire questo folle in una fuga senza speranza. Ora non aspettarti maggior compassione!» avvertì. Non la uccise subito, perché i Vorta erano pur sempre una casta superiore ai Jem’Hadar, e quindi Giely-9 doveva essere processata dai suoi pari.
   «Lei non c’entra, sono stato io a rapirla» disse Ome’tikal, cercando di discolparla.
   «Non mentire, le olocamere dello spazioporto mostrano che è salita spontaneamente su questa navicella!» obiettò Tan’turak. «La domanda è perché una giovane così talentuosa abbia deciso di disertare. Volevi vendere dei segreti militari alla Federazione?!» si rivolse all’interessata. «Non occorre che mi rispondi subito... lo farai con calma, durante l’interrogatorio» avvertì.
   «Esaminate pure questa navicella. Smontatela da cima a fondo, se volete; non troverete alcun segreto militare. Io e Ome’tikal volevamo solo vivere liberi» ribatté Giely-9.
   «Nella Federazione reduce dalla Guerra Civile? Poveri illusi... anche se foste riusciti a raggiungerla, non vi sareste mai integrati!» sostenne Tan’turak. In quella fu contattato dalla sua astronave. «Attenzione, siamo sotto attacco! Dobbiamo alzare gli scudi, mantenete la posizione» giunse l’ordine del Vorta. Evidentemente qualcuno aveva captato la richiesta d’aiuto ed era giunto in soccorso dei fuggiaschi.
   I due Jem’Hadar rimasero sorpresi, tanto che per un attimo non badarono a Ome’tikal, ancora steso a terra. E il veterano ne approfittò per estrarre il mini disgregatore polaronico che nascondeva in tasca. Dapprima sparò al secondo Jem’Hadar, che gli era più vicino; poi mirò il Primo. Ma anche Tan’turak, allertato dal primo colpo, reagì con prontezza. Gli avversari spararono nello stesso istante, a neanche due metri di distanza. Tan’turak fu colpito in piena fronte e cadde stecchito. Invece Ome’tikal fu colpito al petto; il disgregatore gli cadde di mano ed egli si abbandonò al suolo.
   «Ome’tikal!» gridò Giely-9, accorrendo presso di lui. Le bastò un’occhiata per constatare che la ferita era mortale. Sarebbe servita una sala operatoria attrezzata per salvarlo, ma su quella navicella c’era solo un armadietto medico, dal contenuto insufficiente.
   «I nuovi arrivati... chi sono?» rantolò il Jem’Hadar, tossendo sangue.
   La Vorta riattivò il visore di guida, che indossava ancora. Vide il caccia Jem’Hadar venire bersagliato da una strana astronave dallo scafo compatto e privo di finestre. L’astronave sparò con una sorta di cannone phaser, poi con dei raggi anti-polaronici, mettendo fuori uso le armi del caccia. Ai Jem’Hadar non restò che fuggire, perdendo plasma da una gondola di curvatura. Una ritirata ingloriosa, per un’astronave del Dominio.
   «Credo che siano i federali» disse Giely-9, togliendosi il visore. «Ce l’abbiamo fatta, siamo salvi. Ma tu resisti, ti prego!».
   «Va bene così, piccolina» sussurrò Ome’tikal. «Del resto non mi rimanevano che due o tre anni. Ma tu ne vivrai più di cento, e li vivrai libera. Sono contento... alla fine qualcosa di buono l’ho fatto» disse, guardandola con affetto.
   «Non lasciarmi!» supplicò la giovane, prendendogli la mano tra le sue.
   «Ricorda, la vittoria è vita» disse il veterano, citando il motto dei Jem’Hadar. «Ma ci sono molti tipi di vittoria. Questa mi basta. Addio, piccola mia».
   «Addio... padre» sussurrò Giely-9, con voce rotta. Non c’erano famiglie tra i Vorta, non c’erano padri né madri. Eppure quel termine, preso a prestito da altre culture, fu l’unico che le venne in mente per esprimere la sua riconoscenza.
   Udendola, Ome’tikal sorrise; l’attimo dopo era spirato tra le sue braccia. Allora la giovane fece qualcosa che non aveva mai fatto prima, qualcosa che i Vorta non facevano quasi mai: pianse. Pianse calde lacrime, accasciata sul pavimento, sorreggendo la testa del Jem’Hadar che si era sacrificato per lei. Fu così che la trovarono gli agenti della nave federale USS Keter, quando si teletrasportarono a bordo.
 
   Giorni dopo, la Keter era tornata nel Quadrante Alfa e attendeva presso la nuova Deep Space Nine, ancora in costruzione. Giely-9 era stata accolta e rifocillata, oltre a subire un controllo medico. I federali le avevano assegnato un alloggio degli ospiti sulla Keter, permettendole di aggirarsi liberamente sulla nave. Inoltre, come previsto, l’avevano sottoposta a lunghi interrogatori. La Vorta aveva confessato tutto, dalle motivazioni della fuga fino al tragico epilogo. Sapendo che il Dominio avrebbe preteso la sua estradizione, aveva subito chiesto asilo politico alla Federazione. Poi si era rassegnata ad aspettare. Se i federali avessero ceduto alle pressioni del Dominio... no, non voleva pensarci. Da quando Ome’tikal era morto, si sentiva più sola e svuotata che mai. Quando non la interrogavano se ne stava chiusa nell’alloggio, in attesa di conoscere la sua sorte.
   «Be-beep» annunciò il cicalino dell’ingresso.
   «Avanti» disse stancamente Giely-9, aspettandosi l’ennesimo interrogatorio. Ma si sbagliava. Invece di qualche ufficiale tattico della Keter, apparve il Capitano Ki’Lau in persona. Era uno Xaheano alto e smilzo, dai capelli neri pettinati all’indietro. «Spero di non disturbarla, dottoressa. So che questi sono giorni difficili per lei, ma devo parlarle» esordì.
   «Certo Capitano, si accomodi» disse Giely-9, alzandosi per riceverlo. «Notizie dal Dominio?» chiese.
   «I Fondatori esigono la sua estradizione» confermò lo Xaheano. «A dire il vero è notizia di qualche giorno fa, ma non ho voluto allarmarla, prima che ci fossero sviluppi».
   «E ora che è venuto a informarmi, che sviluppi ci sono?» chiese la Vorta, sulle spine.
   «Ho perorato la sua causa con l’Ammiraglio Hod, e l’Ammiraglio a sua volta ha fatto pressioni sul consolato federale. Sono lieto d’informarla che la sua richiesta d’asilo è stata accolta» annunciò Ki’Lau.
   «Le sono profondamente grata, Capitano» disse Giely-9, tornando a respirare. «Ma il Dominio che fa? Ha minacciato qualche rappresaglia? Perché se devo diventare la miccia di un conflitto, preferisco consegnarmi e farla finita» dichiarò.
   «Beh, è il caso di dire che lei ha un santo in Paradiso... o a essere esatti, un Fondatore nel Grande Legame» sorrise il Capitano. «L’Ambasciatore Odo ha convinto i suoi simili a rinunciare alle rappresaglie e a lasciarla stare. Lei è al sicuro, dottoressa. C’è solo una condizione posta dai Fondatori: poiché ha abbandonato il Dominio, non potrà mai più tornare. Se lo facesse, le conseguenze sarebbero – ehm – spiacevoli. Intendo che la giustizierebbero per tradimento» chiarì.
   «Questo lo avevo messo in conto» disse Giely-9. «È tutto qui? Non ci sono altre ricadute?» chiese, incredula della sua fortuna.
   «Beh, a dire il vero c’è una cosa» ammise lo Xaheano, a disagio. «Non riguarda lei direttamente, ma la sua... famiglia».
   «Come sarebbe? Noi Vorta non abbiamo famiglie» obiettò la giovane.
   «No, ma avete delle linee genetiche di cloni» puntualizzò Ki’Lau. «Lei ad esempio ci ha detto d’essere Giely-9, la nona della sua linea».
   «Sì, e quindi?».
   «Ecco, a causa di quella che considerano un’aberrazione genetica, i Fondatori hanno deciso di porre fine alla sua linea» rivelò il Capitano. «Quindi anziché clonare una Giely-10 per sostituirla, assegneranno i suoi incarichi a qualcun altro. Forse sdoppieranno un’altra linea genetica, non so bene come funzioni la cosa» ammise.
   «Sì, dovrebbero sdoppiarne un’altra, magari rimaneggiandola un po’» confermò la Vorta, assente. «Così sarò l’ultima Giely...». Era l’ennesima certezza che si sgretolava, quella della posterità. Perfino mentre fuggiva dal Dominio non si era soffermata a considerare questa possibile conseguenza. Chissà quante potenziali Giely non sarebbero nate e vissute, a causa della sua ribellione. Si chiese se questo la rendeva una persona egoista.
   «È molto grave per lei?» chiese lo Xaheano a bassa voce.
   «Non so, forse sì. Devo metabolizzare la notizia» ammise la Vorta.
   «Beh, le consiglio di concentrarsi sulla sua vita, sul suo futuro personale» esortò Ki’Lau. «Ora la porteremo al consolato federale su Bajor, per formalizzare la sua nuova cittadinanza. Sa, c’è l’iter burocratico per farle avere i documenti. Non abbia timore, ci sarà un tutor ad assisterla in ogni passaggio. Dopo di che, potrà iscriversi alle liste federali di collocamento. Ha già un’idea di cosa potrebbe fare?» indagò.
   «Beh, finora ho studiato medicina» mormorò Giely-9. «Pensavo di restare nel settore. Non so, forse dovrò studiare ancora qualche anno per specializzarmi nelle specie federali».
   «Abbiamo cittadini originari del Quadrante Gamma che beneficeranno senz’altro delle sue conoscenze» spiegò il Capitano. «Ma se vuole proseguire gli studi, si può fare. Su Bajor ci sono ottime università».
   «A dire il vero...» mormorò la Vorta, quasi vergognandosi della sua audacia, «... voi della Flotta siete stati così gentili e generosi con me, che stavo valutando d’entrare nella sezione medica della Flotta Stellare».
   «Beh, essendo di parte, non posso che augurarle buona fortuna» sorrise lo Xaheano. «Però le suggerisco d’informarsi a fondo su com’è il nostro lavoro e su quali sono i rischi. Sa, operare nello spazio profondo non è una passeggiata. Non lo faccia solo per sdebitarsi; non ha alcun obbligo nei nostri confronti. Ci pensi bene e decida in piena autonomia se è quello che desidera» consigliò.
   «Lo farò. Grazie, Capitano».
   «A presto, allora. Le comunicherò quando potrà sbarcare» disse Ki’Lau, e fece per lasciare l’alloggio.
   «Ah, un’ultima cosa!» lo seguì la Vorta. «Quando mi presenterò all’anagrafe federale, crede che potrò cambiare nome?».
   «Come? Beh, sì, credo di sì» fece lo Xaheano, un po’ sorpreso. «Ma perché vuol farlo?».
   «Oh, non lo cambierò completamente» spiegò la giovane. «Non voglio rinnegare la mia identità, mi basta togliere la cifra finale. Anziché Giely-9, sarò semplicemente Giely. Così forse non penserò a me stessa come a un clone difettoso, ma come a un vero individuo» mormorò.
   «Mi sembra un buon compromesso» sorrise il Capitano, incoraggiante. «Allora... benvenuta tra noi, dottoressa Giely» la salutò, scambiando una calorosa stretta di mano. 
 
   
 
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