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Autore: aurora giacomini    19/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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      Uno

 

 

La pioggia aveva già smesso il suo capriccio e il sole era tornato a far capolino. Per sicurezza, comunque, avevo infilato il cellulare nella piccola busta trasparente - insieme alle sigarette che avevo dimenticato di riporre - : meglio non fidarsi dell'estate.

Mi accompagnò l'odore leggermente gommoso che rilascia la terra quando inizia a piovere o lo fa con poca convinzione, dopo aver assorbito tanto calore; quel vapore che pare quasi solido ed è molto odoroso. Tutto intorno a me, le foglie scintillavano per via delle gocce d'acqua che riflettevano i raggi; le stesse foglie che, con la loro umidità, mi inzupparono daccapo le scarpe e il fondo del pantaloni.

Alzando la testa vidi ben tre piccoli arcobaleni, che ornavano il campo con i loro colori: era tanta l'umidità che continuava a essere rilasciata e quella ancora intrappolata nell'aria.

Feci il giro largo, ovvero quello fra rovi e ortiche, per non farmi vedere dal Luigi: il ‘‘buon cittadino’’.

Sì, alla fine non era impossibile sgattaiolare senza essere visti, se si avevano i jeans - come avevo più e più volte fatto notare a Fede e Mario. Quel ricordo, fra le altre cose, mi fece ulteriormente dubitare che li avrei trovati dov'ero diretta. Ma dove altro potevano essere, se no? Eh!

Mi dispiaceva ci fosse annegata una ragazza, non dico di no; ma la Cascata era un luogo bellissimo! Tra le tre e le tre e mezza del pomeriggio, tra luglio e agosto, si poteva vedere un arcobaleno che dalla cima arrivava fin dentro la pozza, dove si specchiava, dando vita a infiniti mini arcobaleni. Calcolai che sarei arrivata in tempo e avrei potuto assistere alla fine dello spettacolo naturale.

Persa in quei ragionamenti, dimenticai di badare a dove mettevo i piedi e, inciampando, riuscii ad avvolgermi un rovo attorno alla caviglia. Un dolore rosa, incredibilmente bruciante e luminoso mi costrinse quasi a invocare invano il Creatore.

«Me la pagano anche per questa! Si po' perdona, ma no dismentea!», brontolai acidamente, incolpando i due della mia distrazione, perché sì. «E non me lo scordo no, parola mia!»

Cercando di mantenere l'equilibrio e fregandomene di uggiolare come un cucciolo di umano, cercai il coltellino nella tasca posteriore dei jeans. 

Liberarsi fu doloroso come lo era stato incastrarsi, dal momento che mi ero - quasi - abituata alla sensazione. Era un tipo di dolore che mi dava proprio sui nervi, con quel suo farmi formicolare le tempie; era qualcosa che punzecchiava il mostriciattolo che avevo nel petto.

«Va' sul mus!», sbottai quando, raggiunto uno spazio relativamente aperto, mi fermai a controllare i danni: il sangue era colato e aveva macchiato il calzino che, già sapevo, sarebbe rimasto chiazzato di marroncino, e alcune spine mi erano rimaste dentro. Imprecai per ognuna delle tre che mi tolsi e, rimanendo a contemplare l'ultima, la più grossa, decisi per l'ennesima volta fosse uguale alle unghie di Leonardo - il nostro gatto - : stessa identica forma ad artiglio.

«Che son 'ste lagne? Ora vado alla pozza, mi lavo e bon, basta. Forse riesco a far venire pulito il calzetto, se mi sbrigo.» 

Così rimisi al suo posto il demonietto che mi albergava dentro, lui e la sua acidità. Un po' di autodisciplina!

Alla fine del campo di rovi e ortiche iniziava un boschetto, e, da quel boschetto, scorreva il fiumiciattolo che una volta faceva girare le pale del mulino; bastava costeggiarlo per giungere alla Cascata, ma avevo dovuto abbandonarlo, per non passare dietro la casa del Luigi, che se ne stava sempre lì a fumare la pipa e a vedere se qualcuno o qualcosa gli dava motivo di chiamare i Carabinieri. Mi ero distrutta una caviglia, sì, ma intanto glielo avevo messo in quel posto! Ah-ah, uno a zero per la ‘‘mocciosa’’!

Le fronde nascosero completamente il sole e, mio malgrado, dovetti ammettere di sentire un po' freddo; le gocce d'acqua, che cadevano dritte sul mio collo, non miglioravano la situazione. Ma presto mi consolai, pensando alle facce di quei due quando li avrei scovati e buttati in acqua con tutte le scarpe. Ci sarebbe stato di che ridere, per me! E poi, quella sera sarebbe andata in onda la mia serie preferita, con un episodio che aspettavo dalla scorsa primavera. 

Sì, trovai il modo di farmi rispuntare il sorriso, fra una cosa e l'altra.

 

Il sorriso, dicevo? Bene, quello mi si dileguò dal volto quando, svoltando insieme al corso d'acqua, vidi che lì non c'era nessuno. Non era una questione di avvicinarsi o meno: la pozza era proprio davanti a me, così come le due pietrose spiaggette, ai lati.

Il mostriciattolo si agitò e mi piantò qualcosa di freddo e acuminato, decisamente chiaro e acido al centro dello sterno: delusione, in parole povere; delusione e ira. Ebbi la sensazione di sentire le sue zampette attorno alla gabbia d'osso: strattonava le sbarre e ruggiva.

Ero così arrabbiata, che dimenticai di apprezzare gli ultimi istanti degli infiniti arcobaleni.

«Sai cosa? Chissenefrega!», esplosi, pestando i piedi e rischiando di prendermi una bella storta su sassi instabili e ricoperti di fradicio muschio, o di rompermi direttamente il cranio. «Ma che mi frega, dico io. Che mi frega. Non ho bisogno di loro. Sono capacissima di stare da sola. Chi ha bisogno di due mona come loro? Mì no, di certo!»

Man mano che avanzavo, il rombo dell'acqua che cadeva nella pozza si faceva gradualmente più impetuoso, ma non abbastanza da impedirmi di sentire le mie stesse lamentele.

«Perché sì, viene un'ernia a dire: ‘‘Ehi, Andrea, oggi non possiamo venire’’! Viene il cagotto o ci si rompe il pollice a scrivere un messaggio! Proprio così, parola mia! E non c'entra niente che c'ho il cellulare spento, perché prima, quando mi chiamava la Patrizia, l'ho guardato: c'era qualcosa di loro? Nossignore!»

Raggiunsi la spiaggetta sulla destra, quella maggiormente incorniciata da cappelloni - quale sia il nome scientifico lo ignoravo e lo ignoro tutt'ora: sono semplicemente delle piante a foglia molto, molto larga, più della ruota di un piccolo trattore, a volte - e mi tolsi scarpa e calzino, per vedere di pulire il tutto; e intanto continuai col monologo:

«Che poi, no, i marroni vanno sempre in coppia. E io cosa sono? Eh, la testa di ca-» Mi interruppi, perché con la coda dell'occhio mi era parso di cogliere un movimento, sulla sommità, dove nasceva e cadeva la cascata. 

Valutai per un momento se potessero essere quei due, ma poi ricordai che c'eravamo promessi di non risalire lì, se e quando fossimo riusciti a tornare dalla Cascata.

«Sto messa proprio bene: come se la parola di quei due avesse un peso. Certo! No, non potevano essere quei due: se la farebbero nei pantaloni a salire senza di me», sghignazzai perfidamente. «In ogni caso, è stata sicuramente un’allucinazione.»

Immersi l'arto offeso e l'acqua gelida mi diede insieme piacere e dolore, che si irradiarono dal piede fin la nuca. Poi mi impegnai a lavare il tessuto macchiato di sangue; ci voleva olio di gomito, poco da fare.

«Anche la zia Alberta, pensandoci», ripresi, «ha cominciato così: vedeva le ‘‘sagome’’ e... bam!, tre anni dopo era al manicomio. O clinica... o centro di salute/igiene mentale, se vogliamo a tutti i costi fingere sia così diversa, la cosa; ma sì, politically correct prima di tutto! Se la follia è ereditaria - cosa probabile, visto anche l'altro membro della mia famiglia - sono sulla buona strada, dal momento che lassù non c'è proprio nes-»

«Tu aimes parler seule!»

Il mio corpo ebbe uno scatto, qualcosa di del tutto involontario, e scivolai, sbattendo brutalmente il ginocchio sulle pietre. Quella volta, mi spiace dirlo, invocai qualcuno invano.

Con uno scatto non dissimile da quello che mi aveva atterrata, ma di completa diversa natura, poiché volontario, balzai in piedi; cosa che non fu apprezzata dalla mia gamba, dal momento che visualizzai il mio ginocchio come una cerniera - da mobile - di un bianco abbagliante: dolore. E volsi la testa alla cima, dove prima mi era parso di vedere qualcosa.

O la mia testa è veramente andata, pensai, oppure quella è una ragazza...

La guardai per un po', aspettando che svanisse - come faceva la zia Alberta con le sue ''sagome'' - ma quella non sembrava averne voglia. Oppure era reale, anche se la pozione e l'ombra non mi permettevano di andare oltre la constatazione del sesso - che era stato chiarito più che altro dalla voce, invero.

Ricordando che non si era rivolta a me in italiano, abbassai la testa e mi misi a pensare - dandole, se voleva, anche il tempo di svanire.

«What... Ahm...» bofonchiai, cercando di ricordare; poi tentai ad alta voce, dal momento che era ancora lì: «What are you doing? You speak Italian, by chance?»

Grazie, serie canadese! Cominciavo, però, ad avere l'impressione che non avessimo usato la stessa lingua...

«Oui, posso parlare un peu italiano!», mi urlò di rimando, cercando di sovrastare il fragore dell'acqua.

Francese: ecco che lingua aveva usato! Dato che il mio francese non era - e non è - pervenuto, mi convinsi che quello fosse un indizio: non me la stavo immaginando! Dai, forse la mia testa non stava ancora così male: ottima notizia!

«Grandissima! Ehi, che ne dici di scendere da lì?» Accompagnai la domanda con gesti inequivocabili; noi italiani siamo maestri, in questo: piazzaci nel Paese che vuoi, a suon di gesti ci faranno presidenti... di qualcosa. «E' pericoloso!», rincarai poi. Già, perché, dal basso dei miei stereotipi, lei non mi sembrava il tipo di ragazza da fare quelle robe spericolate con successo: non era come me!

Forse alzò il pollice, forse me lo immaginai, fatto sta che si voltò e prese il ‘‘sentiero’’ per scendere. Io, dal canto mio, cercai di riprendermi dalla figura meschina che in quel momento mi resi conto di aver fatto - essere scivolata, per lo spavento, e aver imprecato - e cercai di rivestirmi. 

C'era un solo problema: non avevo un calzino, io?

Eh sì, l'avevo, appunto...

D'istinto volsi l'attenzione alla corrente e, con un misto di stizza e sollievo, vidi che il mio candido indumento era stato trascinato fino a incastrarsi in un dedalo di foglie morte e rami. Bene, ora non mi restava che scegliere se avanzare con un piede nudo fra pietre aguzze, vetri e tutta la porcheria umana... o tornare sulla riva, recuperare l'altra scarpa e, nel frattempo, pregare che la corrente rimanesse di flusso costante e non mi portasse via il calzino.

Che rogna...

Decisi, guidata dell'ingenuità, che quella giornata non potesse storcersi più di così e che, comunque, la natura si era accanita a vonde sul mio povero piedino. Era ingenuità, sì, ma io decisi di pensare alla statistica: avanzai.

Arrivata in prossimità del mucchio umido, mi chinai a recuperare il calzino e, prendendo sufficiente aria nei polmoni, mi preoccupai della ragazza-non-immaginaria:

«Combini?!»

«Cosa combinato? Rien!»

Non mi resi subito conto che la replica era arrivata dalla mia prossima, immediata destra, dunque riformulai: «Ce la fai?»

«Me voilà!»

Poi mi accorsi, probabilmente più grazie alla sua esclamazione che altro.

Mi voltai e incontrai la figura alta e piena di una ragazza; sì, insomma, non era il solito smilzo di femmina che ero abituata a vedere: non era grassa, per nulla, ma aveva una sua importanza fisica. Aveva un cespuglio di capelli ricci, neri e crespi - cosa incrementata dall'umidità del posto - due grandi occhi scuri e labbra carnose, il tutto racchiuso in un viso tondeggiante e pieno. Indossava un semplice vestito bianco-sporco, forse giallo particolarmente pallido, che le lasciava completamente esposte le braccia e le arrivava fin quasi alle caviglie: una roba molto estiva e femminile. Ai piedi aveva delle semplici scarpe da ginnastica, non dissimili dalle mie, ma in condizioni notevolmente migliori. 

«Come fai a essere già qui?», brontolai, dimenticando le buone maniere. Un razzo, zio bon! «Hanno messo un ascensore a mia insaputa?»

In risposta ottenni una risata, che fu seguita da un amichevole «ciao».

«Sì, scusa... Ciao...» mormorai, forse troppo piano per coprire il suono della corrente.

Indicò l'acqua che mi sommergeva le gambe fin quasi alle ginocchia: «Aiuto?»

«No, no! Combino, grazie», replicai, più per orgoglio che altro.

Tagliai e, col mio trofeo, tornai a riva, nascondendo abilmente il dolore che camminare scalza sui sassi mi stava procurando.

«Ma sul serio, spiegami: come hai fatto a scendere così in fretta?» Eh niente, non mi andava giù, dal momento che il mio record era un minuto e tre secondi; e lei ci aveva impiegato quanto? Trenta, quaranta secondi? Forse meno: quello era solo il tempo che avevo impiegato ad accorgermi di lei...

Alzò e mi mostrò i palmi, che erano color rosa-castagna; mi ricordarono proprio quando, d'inverno, si mettono ad arrostire o si fanno bollire, e l'interno di quelle cotte in acqua è di quel particolare rosa-giallo strano.

«Magie!»

«Magia? Eh, direi, sì...» 

La contemplai di nuovo per un lungo momento, decidendo fosse carina. Poi ritrovai l'abilità di fare conversazione come un essere civile: 

«Come ti chiami? Io sono Andrea.»

«Je m'appelle Nevrè. Bello conoscere te, Andrea!»

Valutai che la cosa assomigliasse a ‘‘mi appello’’, quindi poteva stare per ‘‘mi chiamo’’... ma l'ultima parte?

«Non ho capito il suono del tuo nome», dissi infatti, avvicinandomi alla scarpa che avevo abbandonato poco distante e cercando un punto dove non infilzarmi le chiappe.

«Ne-vrè», ripeté, scandendo con cura.

«Non l'ho mai sentito. E' molto particolare», commentai, decidendo fosse un nome africano o francese. «Potrebbe succedere che te lo richieda, sai?»

«Tu pensare ‘‘neve nera’’, oui?», mi consigliò, e io mi trovai d'accordo sull'associazione. «Afin de ne pas oublier... Euh... Così tu non dimentichi, oui? Neve nera.»

«Ma la neve nera non esiste!», protestai poi, per una ragione conosciuta solo a... boh, nessuno, invero.

«Et moi? J'existe?»

«Se esisti? Mah, vedi te... Certo che ne dici di robe strane!» 

Strizzai il calzetto e mi tolsi anche l'altra scarpa, per farli asciugare un poco. Ormai non avevo più nessuna missione, quindi mi sembrò ragionevole potermi fermare un po' con quella strana ragazza che, stavo realizzando, mi stava facendo sentire la paura e l'eccitazione di un nuovo incontro. Effettivamente il tutto era successo davvero in fretta e, ora che mi ero davvero fermata, potevo rendermi conto di quanto strana mi apparisse l'intera vicenda. 

Ripensai anche a quello che aveva appena detto.

«Prima credevo tu non fossi reale, sai? Ho visto uno strano movimento e poi più nulla; e allora mi sono messa a pensare a mia zia Alberta, che vedeva le ‘‘sagome’’.»

«Parlez plus lentement: non capisco bene», mi pregò.

«Hai ragione», mi scusai. «Era una cosa cretina, quindi forse è meglio che tu non mi abbia capita...» 

E, anche questa volta, ottenni una risata.

Mi si era messa poco distante, scegliendo saggiamente una liscia seduta, levigata ad arte dalla corrente. Aveva incrociato le gambe sotto di sé e aveva appoggiato le mani sulla gonna formata dal vestito, in modo davvero delicato e pudico; al contrario di me, che avevo le cosce belle larghe ed esponevo senza pudore il cavallo dei pantaloni. Quella fu la seconda volta in vita mia che pensai alla questione. La prima volta fu guardando un Western in cui la donzella cavalcava con le gambe al lato della sella, all'amazzone; allora andai da mia madre, la Lucrezia, e le chiesi perché la tipa volesse a tutti i costi farsi male.

“Per far arrivare il belloccio di turno?”, avevo ipotizzato; e lei mi aveva risposto che non era signorile, soprattutto un tempo, andarsene in giro a gambe larghe. 

Quel ragionamento mi spinse al successivo, che risultò in una domanda:

«Quanti anni hai?»

«Dix-sept ans... diciassette: un et sette, oui? Tu?»

«Oui! Ahm... sì, volevo dire. E' giusto! Io ne faccio sedici fra un paio di mesi...»

Più agile di me, più grande di me, che altro? Se avessi avuto quei tipi di complessi, avrei incluso “più bella di me”.

Non sembrava esserci un reale motivo per rimanere lì a parlarci, ma lo facemmo, quasi senza rendercene conto, credo. Penso che la percezione del tempo e delle dinamiche, fino a una certa età, sia sballata; qualcosa che agli occhi di un adulto può sembrare quasi forzata o nonsense, come effettivamente un po' appare alla sottoscritta, ora che rammenta quel tempo. E' vero che non avevo più nulla da fare - nessuno da scovare e cazziare - ed è vero anche che la sua presenza, in quel luogo appartato e un po' sperduto, mi intrigava - inoltre era veramente carina, come man mano mi rendevo sempre più conto - ma... ma niente: è la mia percezione da adulta, ripeto, che mi fa vedere le cose in modo diverso. 

Però, in tutto questo, qual era il suo, di motivo, per rimanere a parlare con una che non aveva neppure provato a venirle in contro con la lingua?

«Che facevi lassù? E' pericoloso, sai? A giugno c'è annegata una ragazza della nostra età, o via di lì: pensano sia caduta dalla cima.»

La stavo guardando, per cogliere l'espressione di sorpresa e interesse nei miei confronti, avendole rivelato una cosa un po' macabra. Ma la vidi solo farsi un po' triste.

«Oui, caduta», confermò. «Elle a voulu sauter... Euh... Ella voluto saltare, oui? Saltare da altra parte», mi spiegò, dimostrando di saperne più di me in merito.

«Ah... non sapevo. Come le sai 'ste robe? Non credo tu sia di qui; da dove vieni?»

«De France», palesò, giocando con un filamento del vestito. «Maman, papa, Nicole et moi en vacances. Estate viene qui. Vacanza, oui?»

In tutto quello, mi ero fermata su un dettaglio in particolare: il modo in cui aveva pronunciato quel nome.

«Mi piace un botto come dici “Nicole”!», ci tenni a farle sapere. «Guardo una serie dove c'è una che si chiama Nicole. Gli americani lo pronunciano in un modo, noi italiani in un altro; mi piace il modo in cui lo pronunci tu, che penso sia anche quello più giusto, di modo, quindi lo farò anch'io. Mi piace, perché in questo modo, dicendo “Nicole”, il suono fa come un giro su un ottovolante... mezzo giro, invero: qualcosa che quasi scivola, come ci fosse dell'olio sotto!»

Aggrottò le fini sopracciglia: «Qu’as?»

«Niente. Roba da sinestetici, penso...» borbottai, rivivendo il litigio con la maestra, alle elementari, che non ne voleva proprio sapere di capire che il rosso fa solo finta di essere un colore caldo; l'aveva ingannata per bene, come del resto aveva fatto con la maggior parte delle persone. Ma non li biasimo più che tanto, ormai: è furbo il rosso! Non per nulla: di che colore sono le volpi? Eh, vedi!

«Quoi? Voglio capire.»

«E come te lo spiego? E' una roba che ad alcune persone fa vedere delle cose o sentire degli odori; tipo vedi il verde e pensi al numero tre o viceversa. Robe così.»

«Et tu?»

«Immagini, forme, colori... e sento odori, oppure gli odori mi fanno vedere delle immagini... ma funziona anche con i suoni: la tua voce, per esempio, mi fa vedere una linea color vaniglia su uno sfondo biancastro, con qualche piccola screpolatura, come quando la vernice non fa presa o ci versi qualche solvente.»

«Capito un di trois di quello che tu ha detto; mais c'est cool!»

«Un terzo.»

«Pardon?»

«No, dico... uno di tre, ovvero un terzo.»

«Oui, penso tu ha ragione. Mon italiano non très buono. Capisco mieux di come parlo... Euh... Capisco un peu, ma non brava a parlare, oui?»

«Il mio francese non esiste», la rincuorai. «Ti capisco solo quando dici cose che assomigliano all'italiano. E il tuo italiano è buonissimo, non ho problemi a capirti!»

«Je suis contente, merci!»

«Ecco, tipo questo suonava veramente come uno strano e pigro  “contento”, quindi ti ho capita!» 

Con mio grande piacere, il commento l’aveva fatta ridere. 

Mi piaceva la sua risata e il suo colore; mi piaceva proprio lei, cominciavo a sospettare. Volevo dirle qualcosa di carino e ci provai:

«Grazie che fai lo sforzo di parlare con me, per di più in una lingua diversa dalla tua.»

«J'étais sola et tu sei arrivate. Ora non più sola! Merci... Grazie te!»

Le sorrisi e abbassai lo sguardo, improvvisamente imbarazzata. 

Probabilmente avevo le orecchie color barolo, nonostante il fresco generato dalla particelle d'acqua che mi arrivano addosso; e il cuore mi batteva un po' forte, almeno da farmi rendere conto che stava battendo.

Forse fraintese la direzione del mio sguardo, che in realtà vagava su colori e forme: le sensazioni di stare lì con lei.

«Beau le tua T-shirt.»

Pinzai la maglietta nera con ambo le mani, per mettere in mostra la stampa: «Ti piace? Sono i Lordi! Conosci?»

«Non...» mi sorrise, piegando un po' la testa di lato.

«Non se li caga quasi nessuno. Bon, son per l’élite della narrazione romantica dell’orrore - no, non fanno rock gotico - e a me piacciono un botto: le loro canzoni sono una figata! Ne ho cinque nel cellulare - quello che riesce a tenere la memoria - le mie preferite», continuai, imperterrita e sollevata dal cambio di discorso e atmosfera. «Vuoi sentire?»

«Oui, sûr!»

Decisi che potevo anche riaccenderlo, il cellulare, tanto era un miracolo se prendeva mezza tacca. Quindi lo tirai fuori dalla plastica, che ospitava anche le sigarette - gliene offrii una e lei fece anche per prenderla, poi però cambiò idea e rifiutò garbatamente.

Ero indecisa se far partire prima “Evillove” o “The Ghosts of the Heceta Head”, quando accadde l'imprevedibile: una tacca di copertura e, con essa, una miriade di notifiche!

Avevo ben ventitré chiamate perse, fra la Patrizia, mio padre e il Pietro... Un po' troppe e troppa gente, per una ramanzina, decisi; contemporaneamente, un palloncino argentato cominciò a gonfiarsi un po' nel petto, chiedendo posto al mostriciattolo: era un sentore di paura e allarme.

«Che quella piccola peste non sia rientrata?», bofonchiai, col fiato improvvisamente corto, tentando di richiamare Pietro. Neanche a dirlo: la tacca era scomparsa con la stessa velocità con cui era comparsa.

«Tu va bien?», mi chiese, evidentemente preoccupata per il cambiamento che era avvenuto in me e che si era manifestato anche fuori da me.

«Non lo so», ammisi. «Forse è meglio che vada a vedere di mia sorella: ho paura non sia tornata a casa», spiegai, rimettendo il cellulare nel sacchetto. 

Decisi che al mulino avrei avuto una possibilità di avere copertura, altrimenti dalla Collina dei Salti, ma a quel punto tanto valeva correre direttamente a casa e controllare che Lilla non fosse per strada. Chissà, magari l'aveva sorpresa la pioggia e aveva cercato un riparo, e poi si era persa; era plausibile, dal momento che il suo senso dell'orientamento lasciava parecchio a desiderare.

«Combini a venire qui alla stessa ora, domani?», chiesi, rimettendomi le scarpe.

«Perché sempre devo combinare qualcosa? Oui, toutefois, domani qui ancora.»

«Non ti ho mai accusata di nulla: è dialettale... credo. Sarà dura togliersi il vizio», spiegai, alzandomi. «Ora vado. E' stato bello conoscerti, Nevrè!»

Sentii appena la sua risposta, perché ero partita in una corsa folle.

  
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