Sette Giorni
1.Giovedì
La spiaggia è assolata, ma un piacevolissimo venticello rende l’aria
fresca e mi impedisce di trasformarmi in un arrosto umano nel giro di due
secondi. Alzo lo sguardo e vedo l’acqua cristallina infrangersi in onde delicate
sulla battigia dove la gente cammina con aria rilassata e felice.
Beh, un vero e proprio paradiso.
Poi sbatto le palpebre e il mare cristallino verde-azzurro torna a essere
il muro tristemente verdognolo, la sabbia fine come cipria: il linoleum rovinato
di un terribile beigiolino.
Per quel che riguarda la gente felice e rilassata, ora che sono tornato
alla realtà, è sparita cedendo il passo alle facce assonnate dei miei compagni
di scuola, rassegnati a rimanere in classe per un altro interminabile paio
d’ore.
La Iacovilli dal canto suo,
del tutto inconscia delle fantasticherie mie e dei miei compagni, continua
imperterrita a spiegare di non so quale teoria di non so quale filosofo, o è
l’ora di storia?, una delle tante lezioni che sarebbero irrimediabilmente
scivolate via per essere riesumate solo in vista delle interrogazioni.
Di fianco a me Giovanni si scarabocchia tranquillo un polso disegnando un
tribale niente male. Quando si accorge che lo osservo mi avvicina la sua opera
d’arte sorridendo orgoglioso. Alzo un pollice sotto il banco per comunicargli il
mio apprezzamento per le sue doti artistiche mentre lui strappa un pezzo di
carta dal quaderno degli appunti, su cui posa la penna solo per disegnare, e
butta giù un paio di righe con la sua bella
calligrafia.
“Oh certo che la Iacovilli è peggiorata, pure d’Alberti sta
dormendo!”
D’Alberti è il secchione in carica della nostra sezione, famoso per il
suo infervorato latinismo e per conoscere a memoria quasi tutte le opere di
Seneca, oltre che per il suo abbigliamento da nerd tipo; il suddetto sta
disperatamente cercando di resistere all’effetto soporifero della Iacovilli
prendendo appunti, ma neanche quello è riuscito a salvarlo.
Sghignazzo piano guardando di sottecchi Giovanni che ostenta la più
innocente delle espressioni mentre continua bellamente a farsi gli affari suoi.
Provo a tornare nel mi paradiso privato, ma niente, il muro e il linoleum
continuano testardamente ad essere loro stessi, lasciandomi intrappolato nella
realtà. Rassegnato butto un occhio all’orologio: l’una e mezza, manca ancora
mezz’ora prima di fuggire da questa sottospecie di Alcatraz formato adolescenti.
Maledizione a me e al giorno in cui ho deciso di fare il liceo classico.
Maledizione anche ai miei che mi hanno lasciato tuffare in quest’avventura per
niente piacevole.
Sbadiglio e torno a guardare Giovanni che apporta le ultime modifiche
alla sua opera d’arte, poi decido di fare qualcosa anch’io, giusto per passare
il tempo. Mi sfilo gli occhiali (passare giornate su un dizionario di greco o
latino nuoce gravemente alla vista, dato che sono diventato miope tanto da non
distinguere più le scritte alla lavagna) e apro il quaderno che deve essere
imparentato con quello di Gio’ visto e considerato che lo uso solo per
disegnare. A dire il vero c’è anche qualcosa riguardante la scuola ma si tratta
di frasi di varie materie mescolate fra di loro in modo del tutto insensato.
Frugo nell’astuccio, amabilmente decorato da ghirigori di Gio’ in questi
cinque mesi di convivenza forzata, fino a trovare un mozzicone di matita, la
biro nera e un pezzo di gomma sbranata a colpi di righello, reduce da una
lezione di greco particolarmente terrorizzante (quando mi trovo sotto pressione
tendo ad essere piuttosto distruttivo) pronto a mettermi all’opera.
Sbircio l’orologio: l’una e trentacinque, ben venticinque minuti per
affinare il mio talento artistico.
La prospettiva di avere qualcosa di mio gusto da fare, ha cambiato
diametralmente il mio punto di vista.
Mentre finisco di sbozzare il profilo del mio modello immaginario, un
suon paradisiaco mi giunge ai timpani: l’ultima campanella del giovedì, quella
che annuncia la fine di sei ore di tortura, la più amata della settimana,
seconda solo a quella che segna il termine delle due terrorizzanti ore di greco
del venerdì.
Veloci come razzi ventidue adolescenti infilano libri e varie negli zaini
schizzando fuori dall’aula biascicando un vago “Arrivederci” alla prof. che,
forse più felice di noi, raccatta tutta la sua roba per seguire il nostro
esempio e fuggire.
Ecco forse questo è uno dei pochi pregi di quella donna: a differenza di
molti colleghi al suono della campanella non continua sadicamente a spiegare ma
se la dà a gambe a tutta velocità.
Solo Giovanni, al suo solito, impiega quella che mi sembra un’eternità a
riporre le sue quattro cose con metodica precisione nell’Eastpak mezzo
scassato.
-Guarda che se ti scoccia aspettarmi puoi anche andare- borbotta mentre
mette i libri in ordine di altezza. Sembra quasi che lo faccia apposta a
metterci un’eternità per il semplice gusto di
irritarmi.
Mi siedo sull’angolo del banco vicino e lo guardo rassegnato, tanto lo sa
che non me ne vado, lo aspetto sempre, e afferro il pacchetto maciullato di
sigarette che si è ficcato sul fondo dello zaino, l’accendino al solito è
disperso.
Constatando lo stato del pacchetto mi lascio uscire un’esclamazione di
sconforto
-Ed è esattamente per questo che io tengo le mie cose in ordine- esclama
tirando fuori le sue perfettamente integre con l’accendino riposto accuratamente
nel pacchetto.
Guardandolo storto mi infilo il pacchetto nella tasca dei jeans e
acchiappo lo spallaccio dell’Invicta buttandolo su una spalla di
malagrazia.
Gio’ si infila il piumino e butta un’occhiata alla finestra sospirando:
il tempo è veramente orrido tra le nuvole quasi nere e il vento gelido ma grazie
al cielo non piove, non ancora almeno. Il mio amico mi guarda e impietosito al
pensiero di me alla fermata dell’autobus sotto la pioggia mi chiede se voglio
uno strappo fino a casa.
-Io e te su quell’ affare con
la pioggia?- già lui non è precisamente Valentino, oltretutto il suo è lo
scooter più scassato che abbia mai visto, una specie di catorcio che si muove
grazie ad un motore asmatico, di cui Gio’ si è, inspiegabilmente e perdutamente,
innamorato.
-Chiamalo ancora affare e ti
lascio a fare la muffa alla fermata- mi risponde senza neanche voltarsi
piazzando quel mattone che è il libro di filosofia -e comunque mamma mi ha
prestato la sua macchina-
Ecco, di bene in meglio, la macchina in questione è una Fiat Punto
immatricolata nel ’98 circa il cui colore originale è ormai andato dimenticato,
leggenda vuole che fosse verde ma io ho sempre creduto che fosse più sul celeste
(Tra l’altro: lo scooter sta a Gio’ come la Punto a sua
madre)
-Va beh scusa ma se vengo a studiare da te è un problema?- non mi va di
tornare subito a casa.
Nel mentre siamo riusciti a superare l’orda dei nostri “colleghi”
ammassati nell’atrio (chiamarlo atrio non è un’iperbole e puro ottimismo: un
trenta o quaranta metri quadri con tanto di scale ad ostruire) usciamo
finalmente dal portone. La prima cosa che facciamo e infilare la mano in tasca e
accenderci una meritata sigaretta.
-Leo, scusa, ma da quand’è che noi studiamo a casa mia?- sghignazza mentre
tiro la prima boccata. Espiro e lo guardo –Dillo che hai paura che ti faccia a
pezzi-
Mi riferisco ai nostri tornei di videogame quasi tutti disputati a casa
sua visto che è riuscito a mettere le mani su una Play 3, a mia differenza che
sono rimasto alla Play 1, un reperto bellico
praticamente.
-Ma vattene! Da quando tu sei
in grado di battere me, Supremo Re
dei Videogiochi?!- esclama sottolineando le sue parole con movimenti circolari
della mano con cui tiene la sigaretta.
Schivo uno dei suoi fendenti e gli do uno spintone ridacchiando –E piano
co’ sta sigaretta che prima o poi becchi qualcuno…-
Alza gli occhi al cielo e scrolla la cenere –E va, bene vieni da me se
proprio ci tieni barbone- dice con la sua migliore aria da stronzo
–Grazie della concessione Vostra Altezza- ribatto mentre scaraventiamo
gli zaini nel bagagliaio. Butto il mozzicone e lo spengo col tacco dello stivale
mentre mi siedo sul sedile e ne accendo un’altra.
-Ciminiera- commenta Gio’ sedendosi al
volante.
Mentre mette in moto mi guardo riflesso nello specchietto laterale e poi
sbircio Gio’, quasi confrontandoci. Non c’è storia. Lui con la sua faccia da
angelo bastardo e i boccoli di un biondo chiarissimo (presente quel tipo di
capello che non è riccio ma nemmeno mosso, insomma roba da dipinto di Raffaello,
che può vantare solo l’un per cento della popolazione? Ecco quello.),
apparentemente impermeabili all’umidità che mi ha trasformato nella controfigura
di Simba, è capace di far venire un complesso di inferiorità a chiunque non
appartenga alla sua stessa specie. Faccio un tiro nervoso e cerco di far uscire
il fumo dallo spiraglio del finestrino aperto.
-Scusa, ma non devi avvertire i tuoi?- Chiede mentre ingrana la marcia
maltrattando il cambio.
-Ah, sì- mugugno distrattamente mentre comincio a mandare l’SMS; chissà
perché ho sempre l’impressione che a mia madre faccia piacere non avermi troppo
intorno… -ok, fatto- poi passo ad una cosa più urgente –Takeaway di Mac’Donald o
del cinese?-
-Hm. Bella domanda…- fa concentrandosi e tamburellando le dita sul
volante –Pizza e crocchette?- propone poi, memore dell’ultima volta che abbiamo
mangiato cinese.
-Mica male… vada per la pizza- rispondo pensando ad una margherita
filante di mozzarella.
Torno a scrutare il mio riflesso nello specchietto. Vedo un diciottenne
con una massa di capelli selvaggi tra il castano e il nero che circondano un
viso dai lineamenti un po’ troppo duri e marcati per essere propriamente bello.
Ho gli occhi grandi ma leggermente sporgenti di un comune marrone chiaro, nulla
di eccezionale; secondo mia sorella (che ha invece un bel viso ovale, ma i miei
stessi capelli e può sbizzarrirsi, tuttavia, con decine di prodotti per capelli
senza sentirsi una deficiente) sono quel che si definisce un “tipo di bellezza
particolare”, secondo me cerca semplicemente di essere gentile.
Gio’ fa un sorpasso un po’ azzardato mentre accelera improvvisamente, il
che mi fa smettere di pensare alla mia faccia costringendomi a prestare
attenzione alla sua guida da pazzo.
-Piano, va piano…!- lo supplico, cominciando a preoccuparmi, reggendomi
alla maniglia della portiera con tutta la mia forza
-Non è colpa mia se quel cretino ci mette due ore per fare tre metri!-
sbraita facendo un gestaccio all’altro conducente che si è, in risposta,
attaccato al clacson.
-Sì ma tu va piano lo stesso non siamo mica sulla pista di Monza!-
ribatto sentendomi schiacciare contro lo schienale per via della brusca
accelerazione.
Penso che, grazie al cielo, casa di Gio’ è a soli venti minuti di
macchina e non dovrò sottostare alla sua guida folle ancora a
lungo.
Venti minuti e dieci anni di vita in meno dopo, tra sorpassi al limite
dell’illegale e frenate da farti finire nel parabrezza (continuo a credere che
l’esaminatore della la prova pratica per la patente fosse mezzo ubriaco quel
giorno, o col cavolo che gli lasciavano guidare una macchina che non fosse una
di quelle delle giostre di autoscontri, ed anche lì ho i miei dubbi!) arriviamo
a destinazione, le pizze prese a metà strada spandono un aroma tanto
meraviglioso che il mio stomaco comincia a ruggire d’aspettativa.
-Senti ma…- mi fa ammiccante
Giovanni arraffando una scatola di pizza –poi con Letizia? Ci hai combinato o
no?- chiede nel suo tipico tono da maniaco .
-Dritto al punto tu, eh!?- Gli dico un po’ imbarazzato, forse perché non
ho di che vantarmi, cercando anche di prendere tempo per inventarmi qualcosa che
mi eviti di fare la solita figura dell’imbranato con le
ragazze.
-Eddai su, che voglio i particolari!- sghignazza mentre mi butta il
braccio libero intorno al collo quasi strangolandomi. Mentre gli intimo di
aprire il portone e farla finita con quell’atteggiamento da scemo, ripenso con
fastidio allo scorso fine settimana.
Letizia (-Chiamami pure Titti!- si era presentata così) è una nostra
comune conoscenza, l’abbiamo incontrata la prima volta un paio di mesi fa al
solito bar dove ci infiliamo il sabato sera da tre anni a questa parte. Ricordo
che quando l’aveva vista per la prima volta, Gio’aveva tirato fuori il suo
sorriso lubrico e l’aveva indicata
con eloquenti cenni del capo: quando avevo guardato nella direzione che mi
indicava entusiasticamente avevo scorto in mezzo ad uno stuolo (o forse stormo e
il termine più adatto) di ragazze una che non era particolarmente bella ma che
aveva un gran bel paio di… occhi e un… sorriso da perdere la testa. Il fatto che
quella sera (ma ore che ci penso è una sua piacevole abitudine) indossasse una
mini talmente corta da sembrare quella di una Barbie, che non lasciava nulla all’immaginazione, non c’entra per
niente col nostro, quasi esageratamente, positivo giudizio di adolescenti,
schiavi dei nostri ormoni.
Inutile dire che Titti aveva puntato il mio amico da subito, lui con i
sui boccoli biondi e gli occhi verdi, facendomi sentire al solito la spalla
sfigata: un po’ come Batman e Robin.
Eppure il mio personale Bruce Wayne non le aveva prestato attenzione
nonostante l’ammirata occhiata iniziale (condita da una serie di commenti degni
della peggiore delle osterie) e aveva dichiarato che se volevo provarci con
Letizia avevo campo libero.
Non era una novità il suo atteggiamento: tutte le volte che una ragazza
ci prova con lui non mostra il minimo interesse per lei anche se in un primo
momento sembrava che volesse saltarle addosso. Quando cerco di capire il perché
e gli chiedo spiegazioni per quell’atteggiamento, a mio parere un po’
schizofrenico, mi guarda con un sorriso da sfinge e mi dice –Tu non ti
preoccupare che mi tengo impegnato…- come a dire che aveva già fatto conquiste
di chissà che livello.
Tornando a quel sabato: ero arrivato lì tutto tronfio come il peggiore
dei galletti di periferia, chiuso nel mio giubbotto di pelle nero e con la
sigaretta accesa in bocca, contavo su un’entrata trionfale, ma lei ancora non
c’era e avevo dovuto rinunciarci, oltretutto avrei dovuto aspettare quasi
quaranta minuti lì, in piedi, come uno scemo, a morire di freddo, era pur sempre
Gennaio, a maledirmi per la mia fissa per le giacche di pelle (pensavo con
malinconia al piumino chiuso nell’armadio) e a dare nervosamente fondo al
pacchetto di Marlboro. Quando poi era arrivata, tutta in tiro strizzata in una
giacchetta di denim rosa col cappuccio un pelliccia sintetica e due dita di
cerone, che non avevo mai notato con le luci soffuse ad arte del bar, ero
talmente fuori di me che non l’avevo praticamente salutata, facendo anche la
figura del maleducato ed offendendola anche. Anche se, obiettivamente, dopo che
uno è stato a congelarsi per quaranta minuti e si vede arrivare la figlia
segreta di Moira Orfei (odio le ragazze che si truccano troppo, mi sembra di
girare con un clown) che esordisce sorridendo ebete e tranquilla con un –Eh,
scusa mi sa che sono un po’ in ritardo!-
potrà anche irritarsi leggermente…O
no?
-Eh ma sei permaloso forte!- commenta Gio’ guardandomi di sbieco dopo che
ho rinunciato a inventare balle e ho iniziato a raccontare della
serata.
-No dico solo che poteva pure poteva evitare farmi rimanere lì a morire
di freddo…!- esclamo sostenendo la mia posizione a
oltranza
-Senti Leo è una cosa perfettamente normale che una ragazza ci metta una
vita ad arrivare e poi tieni presente che si muove con i mezzi pubblici, e tu
sai perfettamente che la sera è un incubo girare con l’autobus- mi fa notare lui
cercando di farmi essere obiettivo –E poi non è colpa sua se tu sei un idiota
che in pieno Gennaio continua a girare con la giacca di pelle!- ridacchia
indicando la giacca incriminata buttata su una delle poltrone ultramoderne con
cui la madre di Gio’ ha riarredato recentemente l’ampio
salone.
-Poteva avvertire!- controbatto senza sentire
ragioni
Gio’ alza gli occhi chiari al cielo e azzanna un altro pezzo della sua
quattro formaggi innaffiandolo poi di birra chiara. Ingoia il boccone e dopo
essersi schiarito la voce cerca ancora di farmi
ragionare.
-Ma se ti dava tanto fastidio perché sei rimasto lì?- poi annuisce
guardandomi e riprende prima che possa rispondergli –Perché sei cocciuto come un
mulo, ecco perché…-
Ferma le mie proteste mi chiede di andare avanti con il
resoconto.
Borbotto che non c’è molto altro da dire. –Abbiamo finito il drink e poi
è schizzata via dicendo che non dovevo disturbarmi a richiamarla…- concludo
sotto il suo sguardo allucinato.
-Dimmi che le sei corso dietro e poi vi siete appartati a fare del sesso
selvaggio su una panchina- mi chiede non so se scherzando o se seriamente. La
butto sullo scherzo.
-Sì con un barbone che faceva il tifo- gli dico mentre afferro un pezzo
di margherita e lo faccio sparire in due morsi.
Giovanni sospira e si siede più vicino a me sul tappeto dove ci siamo
accampati, ignorando bellamente il grosso tavolo di vetro che fa sfoggio di sé
al centro del salone, appoggia la testa sulla mia spalla ed anche se non lo vedo
so, sento, che sta sghignazzando
malevolo. –Il mio grizzly…- mi dice con un tono che vorrebbe suonare intenerito
ma puzza di sarcasmo lontano un chilometro –Non è neanche capace di lasciar
correre una sciocchezza per uno scopo nobile…- continua aggrappandosi con una
mano alla spalla su cui è appoggiato. Io lo guardo di traverso e gli chiedo di
cosa stia parlando. –Ma di un po’ di sano sesso a buon mercato, no?- risponde
con il tono che in genere si usa con i bambini stupidi.
Me lo scrollo di dosso infastidito sibilandogli un –Porco- e prendo
l’ultimo pezzo della pizza guardandolo male, lui continua a ghignare divertito e
mi da del bigotto e continua a mangiare anche lui sempre al mio fianco come
un’immobile folletto maligno –E comunque piantala di stare lì con quell’aria da
guru del sesso, cosa credi che non sappia come funzionano le cose?- borbotto
irritato dalla sua aria compiaciuta, ma ovviamente lui deve avere l’ultima
parola ad ogni costo –Se tu ti dessi da fare ed evitassi di mandare all’aria
tutte le occasioni che ti si presentano…- ribatte mentre attacca il supplì e lo
finisce in tre morsi rapidi. –Ok, Gio’, mettiamola così: non mi viene da farlo
con una come chiamami-pure-Titti
- gli dico sottolineando con
disgusto le ultime tre parole. Lui mi guarda senza dire niente e fa una smorfia
cercando di trattenersi dal dire qualcosa, poi non regge –Ho capito Leona’ ma
ultimamente non ti viene da farlo con nessuna!- poi fa il suo solito sogghigno
da bimbo pestifero –Non è che niente niente tu sei un po’…- fa insinuante e io lo guardo allibito: ha parlato quello
che non si fa vedere con una ragazza da secoli. Glielo faccio notare ma anziché
fare il solito sorriso da sfinge che mette su quando gli chiedono perché non
esce con nessuna, lui mi guarda (ed è la prima volta che vedo nei suoi occhi uno
sguardo del genere: uno sguardo cupo e incredibilmente stanco) e prende fiato
come se volesse iniziare un discorso piuttosto lungo e mi guarda per una
frazione di secondo, poi fa riapparire il solito sorriso e prende una lunga
sorsata di birra, cambiando idea.
Quell’atteggiamento non mi piace –Stai bene?- annuisce –Sicuro, mi era
sembrato volessi dire qualcosa…- gli dico ma lui ignora il mio tono preoccupato,
anche se si irrigidisce appena, e sostiene che non voleva dirmi
nulla.
Io non insisto anche se vorrei fargli sputare il discorso che si è
ingoiato e chiedergli dell’espressione che aveva pochi secondi fa a costo di
tirargli fuori le parole con le tenaglie, però lo conosco e so che cocciuto
com’è non riuscirei a cavargli nulla di bocca, anzi, riuscirei solo a farlo
arrabbiare e a farmi dare della “mamma orsa”.
Vuoto la mi bottiglia di birra e tiro fuori le sigarette per accendermene
una, Gio’ che continua a essere più strano del solito mi allunga un posacenere
finendo la sua pizza con aria meditabonda. Tiro la prima boccata e con il
braccio sinistro me lo stringo addosso spinto dall’impulso irrefrenabile di
proteggerlo fisicamente da qualsiasi problema abbia, anche se un po’ rigidino si
lascia andare contro il mio fianco.
Giovanni è una delle due persone che senta veramente vicine. Lui e mia
sorella. Punto. Io e Gio’ ci conosciamo dalla prima media quando io giocavo a
fare il piccolo teppista e lui lo studente modello. Secondo il copione lui
avrebbe dovuto essere la mia nemesi e io avrei dovuto essere il suo tormento,
eppure nonostante la storia sembrasse dall’esterno null’altro che la classica
lotta tra il bravo bambino giudizioso e il delinquente in erba le cose non erano
neanche lontanamente così. Gio’ era tutt’altro che un bravo bambino giudizioso, anzi era,
forse allora più di adesso, uno spiritello malvagio e combinaguai: quasi tutte
le mie malefatte erano realizzate in coppia col piccolo demonio dai boccoli
biondi, io mettevo l’idea e lui la realizzava in modo strabiliante. Solo che lui
era più bravo di me a mentire e a non farsi beccare con le mani nel sacco.
Col tempo però gli adulti avevano mangiato la foglia e il mio malefico
amico era stato libero di dare sfogo alla sua natura distruttiva senza dover più
impersonare l’angelico studente perfetto, anche se tutt’ora rimpiange la libertà
d’azione che viene dall’essere insospettabili agli occhi altrui.
Passati gli anni delle medie siamo entrati in questa fossa di leoni che è
il liceo. Il nostro piccolo mondo era impazzito e mutato sotto l’azione
micidiale degli ormoni che scorrevano frenetici nel nostro sangue. E non solo
quello, anche dal punto di vista fisico stavamo cambiando: non mi ero reso conto
di quanto fosse bello il mio amico finché non avevo visto tutte le nostre
compagne rivolgergli attenzioni e cure che non riservavano ad altri, chi lo
invitava a pranzo chi a uscire, bionde, more, rosse tutte addosso a lui. Io,
mentre lui diventava sempre più richiesto dal gentil sesso, mi limitavo a
diventare sempre più alto: nel giro di un paio d’anni avevo dovuto ricomprate
quasi tutti i miei vestiti. Pantaloni, magliette non mi stava più nulla.
Alla fine non sembravamo più solo due ragazzini pestiferi, ma il divo e
il suo bodyguard, Batman e Robin, l’eroe e la spalla fedele. Non ci ho mai fatto
troppo caso in realtà, le cose mi sono state sempre bene così come sono, anche
se secondo la mia amabile sorella (oh Becca!, un giorno dovrai spiegarmi come
funziona quel buco nero che è la tua testa…) il giorno in cui mi libererò del
mio imponente (nonché presunto, aggiungo io) complesso di inferiorità nei suoi
confronti l’equilibrio precario in cui io e Gio’ viviamo andrà a farsi
benedire.
Me lo stringo più forte e cerco di comunicargli fisicamente quello che
non riesco a dire (e che lui non riesce ad ascoltare) a parole cioè che può
dirmi qualsiasi cosa e che se ha un problema allora potremmo risolverlo insieme.
Anche la fisicità spontanea che c’è fra noi non mi è mai appartenuta con
altre persone, Becca compresa, ma con lui sono me stesso e posso concedermi di
essere il sentimentale che sono in realtà sotto la
scorza.
Alla fine lui si lascia andare contro di me completamente per poi
avvinghiarsi al mio petto.
In quel momento, come tutte le volte che siamo così vicini, sono
assolutamente sicuro che nulla potrà mai dividerci o incrinare il nostro
rapporto.
Eppure dovrei saperlo che Giovanni è un terremoto ambulante e che con lui
il mondo cambia come plastilina nelle mani di un bambino capriccioso. Perché con
un frase riesce a sconvolgere il nostro mondo scuotendolo nelle fin
fondamenta.
-Leo, non esco con nessuna ragazza perché sto con un uomo…- sospira e mi
guarda –Hai capito ora qual è il problema?-
Ho capito, ma non posso impedire a tutta l’aria che ho nei polmoni di
bloccarsi nella mia gola e di
rimanere lì.
Perché con uno schianto profondo sono crollate tutte le mie convinzioni e
non mi sono mai sentito tanto istupidito.