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Autore: Eurinome    14/09/2009    0 recensioni
Sette giorni per scoprire cosa è cambiato. Sette giorni per accettare il cambiamento. Sette giorni per capire se si può salvare tutto. Per due amici inseparabili, pressochè fratelli è ora di guardarsi in faccia e vedere cosa ha cambiato l'arrivo dell'adolescenza. Potranno sopportare il peso di questi cambiamenti o divideranno per sempre le loro strade?
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Sette giorni_ Giovedì

 

 

Sette Giorni

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Lo so che dovrei terminare l'altra long-fic ma ho voluto iniziare a scrivere questa "storia" e mi ha sorprendentemente preso come MRA non faceva più da tempo...

Ora, non ho grandi pretese per questo testo, che tra l'altro devo ancora terminare (per quanto per una volta ho tutta la trama definita) ma la prendo più che altro come un... esercizio.

Nonostante ciò mi farebbe piacere sapere come va questo esercizio che ho in ogni caso intenzione di terminare, ahivoi.

 

 

1.Giovedì

 

La spiaggia è assolata, ma un piacevolissimo venticello rende l’aria fresca e mi impedisce di trasformarmi in un arrosto umano nel giro di due secondi. Alzo lo sguardo e vedo l’acqua cristallina infrangersi in onde delicate sulla battigia dove la gente cammina con aria rilassata e felice.

 

 

Beh, un vero e proprio paradiso.

 

 

Poi sbatto le palpebre e il mare cristallino verde-azzurro torna a essere il muro tristemente verdognolo, la sabbia fine come cipria: il linoleum rovinato di un terribile beigiolino.

Per quel che riguarda la gente felice e rilassata, ora che sono tornato alla realtà, è sparita cedendo il passo alle facce assonnate dei miei compagni di scuola, rassegnati a rimanere in classe per un altro interminabile paio d’ore.

La  Iacovilli dal canto suo, del tutto inconscia delle fantasticherie mie e dei miei compagni, continua imperterrita a spiegare di non so quale teoria di non so quale filosofo, o è l’ora di storia?, una delle tante lezioni che sarebbero irrimediabilmente scivolate via per essere riesumate solo in vista delle interrogazioni.

 

 

Di fianco a me Giovanni si scarabocchia tranquillo un polso disegnando un tribale niente male. Quando si accorge che lo osservo mi avvicina la sua opera d’arte sorridendo orgoglioso. Alzo un pollice sotto il banco per comunicargli il mio apprezzamento per le sue doti artistiche mentre lui strappa un pezzo di carta dal quaderno degli appunti, su cui posa la penna solo per disegnare, e butta giù un paio di righe con la sua bella calligrafia.

 

 

“Oh certo che la Iacovilli è peggiorata, pure d’Alberti sta dormendo!”

 

 

D’Alberti è il secchione in carica della nostra sezione, famoso per il suo infervorato latinismo e per conoscere a memoria quasi tutte le opere di Seneca, oltre che per il suo abbigliamento da nerd tipo; il suddetto sta disperatamente cercando di resistere all’effetto soporifero della Iacovilli prendendo appunti, ma neanche quello è riuscito a salvarlo.

Sghignazzo piano guardando di sottecchi Giovanni che ostenta la più innocente delle espressioni mentre continua bellamente a farsi gli affari suoi.

 

 

Provo a tornare nel mi paradiso privato, ma niente, il muro e il linoleum continuano testardamente ad essere loro stessi, lasciandomi intrappolato nella realtà. Rassegnato butto un occhio all’orologio: l’una e mezza, manca ancora mezz’ora prima di fuggire da questa sottospecie di Alcatraz formato adolescenti. Maledizione a me e al giorno in cui ho deciso di fare il liceo classico. Maledizione anche ai miei che mi hanno lasciato tuffare in quest’avventura per niente piacevole.

 

 

Sbadiglio e torno a guardare Giovanni che apporta le ultime modifiche alla sua opera d’arte, poi decido di fare qualcosa anch’io, giusto per passare il tempo. Mi sfilo gli occhiali (passare giornate su un dizionario di greco o latino nuoce gravemente alla vista, dato che sono diventato miope tanto da non distinguere più le scritte alla lavagna) e apro il quaderno che deve essere imparentato con quello di Gio’ visto e considerato che lo uso solo per disegnare. A dire il vero c’è anche qualcosa riguardante la scuola ma si tratta di frasi di varie materie mescolate fra di loro in modo del tutto insensato.

 

 

Frugo nell’astuccio, amabilmente decorato da ghirigori di Gio’ in questi cinque mesi di convivenza forzata, fino a trovare un mozzicone di matita, la biro nera e un pezzo di gomma sbranata a colpi di righello, reduce da una lezione di greco particolarmente terrorizzante (quando mi trovo sotto pressione tendo ad essere piuttosto distruttivo) pronto a mettermi all’opera.

 

 

Sbircio l’orologio: l’una e trentacinque, ben venticinque minuti per affinare il mio talento artistico.

La prospettiva di avere qualcosa di mio gusto da fare, ha cambiato diametralmente il mio punto di vista.

 

 

Mentre finisco di sbozzare il profilo del mio modello immaginario, un suon paradisiaco mi giunge ai timpani: l’ultima campanella del giovedì, quella che annuncia la fine di sei ore di tortura, la più amata della settimana, seconda solo a quella che segna il termine delle due terrorizzanti ore di greco del venerdì.

 

 

Veloci come razzi ventidue adolescenti infilano libri e varie negli zaini schizzando fuori dall’aula biascicando un vago “Arrivederci” alla prof. che, forse più felice di noi, raccatta tutta la sua roba per seguire il nostro esempio e fuggire.

Ecco forse questo è uno dei pochi pregi di quella donna: a differenza di molti colleghi al suono della campanella non continua sadicamente a spiegare ma se la dà a gambe a tutta velocità.

 

 

Solo Giovanni, al suo solito, impiega quella che mi sembra un’eternità a riporre le sue quattro cose con metodica precisione nell’Eastpak mezzo scassato.

 

 

-Guarda che se ti scoccia aspettarmi puoi anche andare- borbotta mentre mette i libri in ordine di altezza. Sembra quasi che lo faccia apposta a metterci un’eternità per il semplice gusto di irritarmi.

Mi siedo sull’angolo del banco vicino e lo guardo rassegnato, tanto lo sa che non me ne vado, lo aspetto sempre, e afferro il pacchetto maciullato di sigarette che si è ficcato sul fondo dello zaino, l’accendino al solito è disperso.

Constatando lo stato del pacchetto mi lascio uscire un’esclamazione di sconforto

 

 

-Ed è esattamente per questo che io tengo le mie cose in ordine- esclama tirando fuori le sue perfettamente integre con l’accendino riposto accuratamente nel pacchetto.

 

 

Guardandolo storto mi infilo il pacchetto nella tasca dei jeans e acchiappo lo spallaccio dell’Invicta buttandolo su una spalla di malagrazia.

Gio’ si infila il piumino e butta un’occhiata alla finestra sospirando: il tempo è veramente orrido tra le nuvole quasi nere e il vento gelido ma grazie al cielo non piove, non ancora almeno. Il mio amico mi guarda e impietosito al pensiero di me alla fermata dell’autobus sotto la pioggia mi chiede se voglio uno strappo fino a casa.

 

 

-Io e te su quell’ affare con la pioggia?- già lui non è precisamente Valentino, oltretutto il suo è lo scooter più scassato che abbia mai visto, una specie di catorcio che si muove grazie ad un motore asmatico, di cui Gio’ si è, inspiegabilmente e perdutamente, innamorato.

 

 

-Chiamalo ancora affare e ti lascio a fare la muffa alla fermata- mi risponde senza neanche voltarsi piazzando quel mattone che è il libro di filosofia -e comunque mamma mi ha prestato la sua macchina-

Ecco, di bene in meglio, la macchina in questione è una Fiat Punto immatricolata nel ’98 circa il cui colore originale è ormai andato dimenticato, leggenda vuole che fosse verde ma io ho sempre creduto che fosse più sul celeste (Tra l’altro: lo scooter sta a Gio’ come la Punto a sua madre)

-Va beh scusa ma se vengo a studiare da te è un problema?- non mi va di tornare subito a casa.

 

 

Nel mentre siamo riusciti a superare l’orda dei nostri “colleghi” ammassati nell’atrio (chiamarlo atrio non è un’iperbole e puro ottimismo: un trenta o quaranta metri quadri con tanto di scale ad ostruire) usciamo finalmente dal portone. La prima cosa che facciamo e infilare la mano in tasca e accenderci una meritata sigaretta.

 

 

-Leo, scusa, ma da quand’è che noi studiamo a casa mia?- sghignazza mentre tiro la prima boccata. Espiro e lo guardo –Dillo che hai paura che ti faccia a pezzi-

Mi riferisco ai nostri tornei di videogame quasi tutti disputati a casa sua visto che è riuscito a mettere le mani su una Play 3, a mia differenza che sono rimasto alla Play 1, un reperto bellico praticamente.

 

 

-Ma vattene! Da quando tu sei in grado di battere me, Supremo Re dei Videogiochi?!- esclama sottolineando le sue parole con movimenti circolari della mano con cui tiene la sigaretta.

Schivo uno dei suoi fendenti e gli do uno spintone ridacchiando –E piano co’ sta sigaretta che prima o poi becchi qualcuno…-

Alza gli occhi al cielo e scrolla la cenere –E va, bene vieni da me se proprio ci tieni barbone- dice con la sua migliore aria da stronzo

–Grazie della concessione Vostra Altezza- ribatto mentre scaraventiamo gli zaini nel bagagliaio. Butto il mozzicone e lo spengo col tacco dello stivale mentre mi siedo sul sedile e ne accendo un’altra.

-Ciminiera- commenta Gio’ sedendosi al volante.

 

 

Mentre mette in moto mi guardo riflesso nello specchietto laterale e poi sbircio Gio’, quasi confrontandoci. Non c’è storia. Lui con la sua faccia da angelo bastardo e i boccoli di un biondo chiarissimo (presente quel tipo di capello che non è riccio ma nemmeno mosso, insomma roba da dipinto di Raffaello, che può vantare solo l’un per cento della popolazione? Ecco quello.), apparentemente impermeabili all’umidità che mi ha trasformato nella controfigura di Simba, è capace di far venire un complesso di inferiorità a chiunque non appartenga alla sua stessa specie. Faccio un tiro nervoso e cerco di far uscire il fumo dallo spiraglio del finestrino aperto.

 

 

-Scusa, ma non devi avvertire i tuoi?- Chiede mentre ingrana la marcia maltrattando il cambio.

-Ah, sì- mugugno distrattamente mentre comincio a mandare l’SMS; chissà perché ho sempre l’impressione che a mia madre faccia piacere non avermi troppo intorno… -ok, fatto- poi passo ad una cosa più urgente –Takeaway di Mac’Donald o del cinese?-

-Hm. Bella domanda…- fa concentrandosi e tamburellando le dita sul volante –Pizza e crocchette?- propone poi, memore dell’ultima volta che abbiamo mangiato cinese.

-Mica male… vada per la pizza- rispondo pensando ad una margherita filante di mozzarella.

 

 

Torno a scrutare il mio riflesso nello specchietto. Vedo un diciottenne con una massa di capelli selvaggi tra il castano e il nero che circondano un viso dai lineamenti un po’ troppo duri e marcati per essere propriamente bello. Ho gli occhi grandi ma leggermente sporgenti di un comune marrone chiaro, nulla di eccezionale; secondo mia sorella (che ha invece un bel viso ovale, ma i miei stessi capelli e può sbizzarrirsi, tuttavia, con decine di prodotti per capelli senza sentirsi una deficiente) sono quel che si definisce un “tipo di bellezza particolare”, secondo me cerca semplicemente di essere gentile.

 

 

Gio’ fa un sorpasso un po’ azzardato mentre accelera improvvisamente, il che mi fa smettere di pensare alla mia faccia costringendomi a prestare attenzione alla sua guida da pazzo.

 

 

-Piano, va piano…!- lo supplico, cominciando a preoccuparmi, reggendomi alla maniglia della portiera con tutta la mia forza

-Non è colpa mia se quel cretino ci mette due ore per fare tre metri!- sbraita facendo un gestaccio all’altro conducente che si è, in risposta, attaccato al clacson.

-Sì ma tu va piano lo stesso non siamo mica sulla pista di Monza!- ribatto sentendomi schiacciare contro lo schienale per via della brusca accelerazione.

Penso che, grazie al cielo, casa di Gio’ è a soli venti minuti di macchina e non dovrò sottostare alla sua guida folle ancora a lungo.

 

 

 

Venti minuti e dieci anni di vita in meno dopo, tra sorpassi al limite dell’illegale e frenate da farti finire nel parabrezza (continuo a credere che l’esaminatore della la prova pratica per la patente fosse mezzo ubriaco quel giorno, o col cavolo che gli lasciavano guidare una macchina che non fosse una di quelle delle giostre di autoscontri, ed anche lì ho i miei dubbi!) arriviamo a destinazione, le pizze prese a metà strada spandono un aroma tanto meraviglioso che il mio stomaco comincia a ruggire d’aspettativa. 

 

 

-Senti ma…-  mi fa ammiccante Giovanni arraffando una scatola di pizza –poi con Letizia? Ci hai combinato o no?- chiede nel suo tipico tono da maniaco .

-Dritto al punto tu, eh!?- Gli dico un po’ imbarazzato, forse perché non ho di che vantarmi, cercando anche di prendere tempo per inventarmi qualcosa che mi eviti di fare la solita figura dell’imbranato con le ragazze.

-Eddai su, che voglio i particolari!- sghignazza mentre mi butta il braccio libero intorno al collo quasi strangolandomi. Mentre gli intimo di aprire il portone e farla finita con quell’atteggiamento da scemo, ripenso con fastidio allo scorso fine settimana.

 

 

Letizia (-Chiamami pure Titti!- si era presentata così) è una nostra comune conoscenza, l’abbiamo incontrata la prima volta un paio di mesi fa al solito bar dove ci infiliamo il sabato sera da tre anni a questa parte. Ricordo che quando l’aveva vista per la prima volta, Gio’aveva tirato fuori il suo sorriso lubrico e l’aveva  indicata con eloquenti cenni del capo: quando avevo guardato nella direzione che mi indicava entusiasticamente avevo scorto in mezzo ad uno stuolo (o forse stormo e il termine più adatto) di ragazze una che non era particolarmente bella ma che aveva un gran bel paio di… occhi e un… sorriso da perdere la testa. Il fatto che quella sera (ma ore che ci penso è una sua piacevole abitudine) indossasse una mini talmente corta da sembrare quella di una Barbie, che non lasciava nulla all’immaginazione, non c’entra per niente col nostro, quasi esageratamente, positivo giudizio di adolescenti, schiavi dei nostri ormoni.

 

 

Inutile dire che Titti aveva puntato il mio amico da subito, lui con i sui boccoli biondi e gli occhi verdi, facendomi sentire al solito la spalla sfigata: un po’ come Batman e Robin.

Eppure il mio personale Bruce Wayne non le aveva prestato attenzione nonostante l’ammirata occhiata iniziale (condita da una serie di commenti degni della peggiore delle osterie) e aveva dichiarato che se volevo provarci con Letizia avevo campo libero. 

 

 

Non era una novità il suo atteggiamento: tutte le volte che una ragazza ci prova con lui non mostra il minimo interesse per lei anche se in un primo momento sembrava che volesse saltarle addosso. Quando cerco di capire il perché e gli chiedo spiegazioni per quell’atteggiamento, a mio parere un po’ schizofrenico, mi guarda con un sorriso da sfinge e mi dice –Tu non ti preoccupare che mi tengo impegnato…- come a dire che aveva già fatto conquiste di chissà che livello.

 

 

Tornando a quel sabato: ero arrivato lì tutto tronfio come il peggiore dei galletti di periferia, chiuso nel mio giubbotto di pelle nero e con la sigaretta accesa in bocca, contavo su un’entrata trionfale, ma lei ancora non c’era e avevo dovuto rinunciarci, oltretutto avrei dovuto aspettare quasi quaranta minuti lì, in piedi, come uno scemo, a morire di freddo, era pur sempre Gennaio, a maledirmi per la mia fissa per le giacche di pelle (pensavo con malinconia al piumino chiuso nell’armadio) e a dare nervosamente fondo al pacchetto di Marlboro. Quando poi era arrivata, tutta in tiro strizzata in una giacchetta di denim rosa col cappuccio un pelliccia sintetica e due dita di cerone, che non avevo mai notato con le luci soffuse ad arte del bar, ero talmente fuori di me che non l’avevo praticamente salutata, facendo anche la figura del maleducato ed offendendola anche. Anche se, obiettivamente, dopo che uno è stato a congelarsi per quaranta minuti e si vede arrivare la figlia segreta di Moira Orfei (odio le ragazze che si truccano troppo, mi sembra di girare con un clown) che esordisce sorridendo ebete e tranquilla con un –Eh, scusa mi sa che sono un po’ in ritardo!-  potrà anche irritarsi leggermente…O no?

 

 

-Eh ma sei permaloso forte!- commenta Gio’ guardandomi di sbieco dopo che ho rinunciato a inventare balle e ho iniziato a raccontare della serata.

-No dico solo che poteva pure poteva evitare farmi rimanere lì a morire di freddo…!- esclamo sostenendo la mia posizione a oltranza

-Senti Leo è una cosa perfettamente normale che una ragazza ci metta una vita ad arrivare e poi tieni presente che si muove con i mezzi pubblici, e tu sai perfettamente che la sera è un incubo girare con l’autobus- mi fa notare lui cercando di farmi essere obiettivo –E poi non è colpa sua se tu sei un idiota che in pieno Gennaio continua a girare con la giacca di pelle!- ridacchia indicando la giacca incriminata buttata su una delle poltrone ultramoderne con cui la madre di Gio’ ha riarredato recentemente l’ampio salone.

-Poteva avvertire!- controbatto senza sentire ragioni

Gio’ alza gli occhi chiari al cielo e azzanna un altro pezzo della sua quattro formaggi innaffiandolo poi di birra chiara. Ingoia il boccone e dopo essersi schiarito la voce cerca ancora di farmi ragionare.

-Ma se ti dava tanto fastidio perché sei rimasto lì?- poi annuisce guardandomi e riprende prima che possa rispondergli –Perché sei cocciuto come un mulo, ecco perché…-

Ferma le mie proteste mi chiede di andare avanti con il resoconto.

Borbotto che non c’è molto altro da dire. –Abbiamo finito il drink e poi è schizzata via dicendo che non dovevo disturbarmi a richiamarla…- concludo sotto il suo sguardo allucinato.

-Dimmi che le sei corso dietro e poi vi siete appartati a fare del sesso selvaggio su una panchina- mi chiede non so se scherzando o se seriamente. La butto sullo scherzo.

-Sì con un barbone che faceva il tifo- gli dico mentre afferro un pezzo di margherita e lo faccio sparire in due morsi.

 

 

Giovanni sospira e si siede più vicino a me sul tappeto dove ci siamo accampati, ignorando bellamente il grosso tavolo di vetro che fa sfoggio di sé al centro del salone, appoggia la testa sulla mia spalla ed anche se non lo vedo so, sento, che sta sghignazzando malevolo. –Il mio grizzly…- mi dice con un tono che vorrebbe suonare intenerito ma puzza di sarcasmo lontano un chilometro –Non è neanche capace di lasciar correre una sciocchezza per uno scopo nobile…- continua aggrappandosi con una mano alla spalla su cui è appoggiato. Io lo guardo di traverso e gli chiedo di cosa stia parlando. –Ma di un po’ di sano sesso a buon mercato, no?- risponde con il tono che in genere si usa con i bambini stupidi.

Me lo scrollo di dosso infastidito sibilandogli un –Porco- e prendo l’ultimo pezzo della pizza guardandolo male, lui continua a ghignare divertito e mi da del bigotto e continua a mangiare anche lui sempre al mio fianco come un’immobile folletto maligno –E comunque piantala di stare lì con quell’aria da guru del sesso, cosa credi che non sappia come funzionano le cose?- borbotto irritato dalla sua aria compiaciuta, ma ovviamente lui deve avere l’ultima parola ad ogni costo –Se tu ti dessi da fare ed evitassi di mandare all’aria tutte le occasioni che ti si presentano…- ribatte mentre attacca il supplì e lo finisce in tre morsi rapidi. –Ok, Gio’, mettiamola così: non mi viene da farlo con una come chiamami-pure-Titti -  gli dico sottolineando con disgusto le ultime tre parole. Lui mi guarda senza dire niente e fa una smorfia cercando di trattenersi dal dire qualcosa, poi non regge –Ho capito Leona’ ma ultimamente non ti viene da farlo con nessuna!- poi fa il suo solito sogghigno da bimbo pestifero –Non è che niente niente tu sei un po’…- fa insinuante e  io lo guardo allibito: ha parlato quello che non si fa vedere con una ragazza da secoli. Glielo faccio notare ma anziché fare il solito sorriso da sfinge che mette su quando gli chiedono perché non esce con nessuna, lui mi guarda (ed è la prima volta che vedo nei suoi occhi uno sguardo del genere: uno sguardo cupo e incredibilmente stanco) e prende fiato come se volesse iniziare un discorso piuttosto lungo e mi guarda per una frazione di secondo, poi fa riapparire il solito sorriso e prende una lunga sorsata di birra, cambiando idea.

 

 

Quell’atteggiamento non mi piace –Stai bene?- annuisce –Sicuro, mi era sembrato volessi dire qualcosa…- gli dico ma lui ignora il mio tono preoccupato, anche se si irrigidisce appena, e sostiene che non voleva dirmi nulla.

Io non insisto anche se vorrei fargli sputare il discorso che si è ingoiato e chiedergli dell’espressione che aveva pochi secondi fa a costo di tirargli fuori le parole con le tenaglie, però lo conosco e so che cocciuto com’è non riuscirei a cavargli nulla di bocca, anzi, riuscirei solo a farlo arrabbiare e a farmi dare della “mamma orsa”.

 

 

Vuoto la mi bottiglia di birra e tiro fuori le sigarette per accendermene una, Gio’ che continua a essere più strano del solito mi allunga un posacenere finendo la sua pizza con aria meditabonda. Tiro la prima boccata e con il braccio sinistro me lo stringo addosso spinto dall’impulso irrefrenabile di proteggerlo fisicamente da qualsiasi problema abbia, anche se un po’ rigidino si lascia andare contro il mio fianco.

 

 

Giovanni è una delle due persone che senta veramente vicine. Lui e mia sorella. Punto. Io e Gio’ ci conosciamo dalla prima media quando io giocavo a fare il piccolo teppista e lui lo studente modello. Secondo il copione lui avrebbe dovuto essere la mia nemesi e io avrei dovuto essere il suo tormento, eppure nonostante la storia sembrasse dall’esterno null’altro che la classica lotta tra il bravo bambino giudizioso e il delinquente in erba le cose non erano neanche lontanamente così. Gio’ era tutt’altro che un bravo bambino giudizioso, anzi era, forse allora più di adesso, uno spiritello malvagio e combinaguai: quasi tutte le mie malefatte erano realizzate in coppia col piccolo demonio dai boccoli biondi, io mettevo l’idea e lui la realizzava in modo strabiliante. Solo che lui era più bravo di me a mentire e a non farsi beccare con le mani nel sacco.

Col tempo però gli adulti avevano mangiato la foglia e il mio malefico amico era stato libero di dare sfogo alla sua natura distruttiva senza dover più impersonare l’angelico studente perfetto, anche se tutt’ora rimpiange la libertà d’azione che viene dall’essere insospettabili agli occhi altrui.

 

 

Passati gli anni delle medie siamo entrati in questa fossa di leoni che è il liceo. Il nostro piccolo mondo era impazzito e mutato sotto l’azione micidiale degli ormoni che scorrevano frenetici nel nostro sangue. E non solo quello, anche dal punto di vista fisico stavamo cambiando: non mi ero reso conto di quanto fosse bello il mio amico finché non avevo visto tutte le nostre compagne rivolgergli attenzioni e cure che non riservavano ad altri, chi lo invitava a pranzo chi a uscire, bionde, more, rosse tutte addosso a lui. Io, mentre lui diventava sempre più richiesto dal gentil sesso, mi limitavo a diventare sempre più alto: nel giro di un paio d’anni avevo dovuto ricomprate quasi tutti i miei vestiti. Pantaloni, magliette non mi stava più nulla.

Alla fine non sembravamo più solo due ragazzini pestiferi, ma il divo e il suo bodyguard, Batman e Robin, l’eroe e la spalla fedele. Non ci ho mai fatto troppo caso in realtà, le cose mi sono state sempre bene così come sono, anche se secondo la mia amabile sorella (oh Becca!, un giorno dovrai spiegarmi come funziona quel buco nero che è la tua testa…) il giorno in cui mi libererò del mio imponente (nonché presunto, aggiungo io) complesso di inferiorità nei suoi confronti l’equilibrio precario in cui io e Gio’ viviamo andrà a farsi benedire.

 

 

Me lo stringo più forte e cerco di comunicargli fisicamente quello che non riesco a dire (e che lui non riesce ad ascoltare) a parole cioè che può dirmi qualsiasi cosa e che se ha un problema allora potremmo risolverlo insieme.

Anche la fisicità spontanea che c’è fra noi non mi è mai appartenuta con altre persone, Becca compresa, ma con lui sono me stesso e posso concedermi di essere il sentimentale che sono in realtà sotto la scorza.

Alla fine lui si lascia andare contro di me completamente per poi avvinghiarsi al mio petto.

 

 

In quel momento, come tutte le volte che siamo così vicini, sono assolutamente sicuro che nulla potrà mai dividerci o incrinare il nostro rapporto.

 

 

Eppure dovrei saperlo che Giovanni è un terremoto ambulante e che con lui il mondo cambia come plastilina nelle mani di un bambino capriccioso. Perché con un frase riesce a sconvolgere il nostro mondo scuotendolo nelle fin fondamenta.

 

 

-Leo, non esco con nessuna ragazza perché sto con un uomo…- sospira e mi guarda –Hai capito ora qual è il problema?-

 

 

Ho capito, ma non posso impedire a tutta l’aria che ho nei polmoni di bloccarsi nella mia gola e  di rimanere lì.

Perché con uno schianto profondo sono crollate tutte le mie convinzioni e non mi sono mai sentito tanto istupidito.

 

  
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