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Autore: aurora giacomini    22/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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      Nove

 

 

Non ero pronta. Non lo ero affatto.

Era successo quando avevo la guardia completamente abbassata, preda del sollievo di aver risolto l’arcano di Nevrè e raccontato tutto alla Patrizia. Quello era un momento di calma assoluta, di pausa da tutto, era la Svizzera... eppure, la Svizzera era appena stata bombardata.

Nessuno mi aveva avvisata, ma la scatola era stata scoperchiata e tutti stavano guardando che ne fosse stato di quel gatto. Tutti tranne me, che non avevo il coraggio di sbirciare o di prestare l’orecchio per un eventuale miagolio.

Sentii mio padre e la Patrizia parlare, ma non ricordo assolutamente niente, nessuna loro parola; c’erano solo i miei pensieri alla rinfusa. Fra quei pensieri, ignoro il preciso perché - anche se posso intuirlo - c’era l’immagine di Federico e Mario, vestiti di nero che, tenendomi un ombrello sopra la testa, mi facevano le loro condoglianze. In fondo eravamo amici da sempre: una simile tragedia poteva, doveva appianare e scacciare ogni conflitto.

Mio padre mi afferrò per le spalle; la mia prima tentazione fu quella di spingerlo via, perché odiavo profondamente essere toccata quando ero a un passo dal perdere il controllo di me e delle mie emozioni.

«Vieni con me, Andrea? Andiamo dalla mamma?»

Lo trovai disgustoso, mi dispiace dirlo, ma fu così: come poteva avere il desiderio di avere a che fare col cadavere di una persona cara?

No, col cavolo che avrei trasformato, inquinato l’ultima immagine della mamma; l’ultima immagine era quella di lei che sale in macchina, qui, nel nostro cortile, che mi sorride e mi fa ciao con la mano. Un’immagine così bella e rassicurante.

Non ci saranno altre immagini, dopo questa. Se mi chiederanno di darle l’ultimo saluto, con la bara aperta, rifiuterò. Frega niente. Ci devo convivere io, con la mia mente, mica gli altri.

Non sto piangendo... Perché non sto piangendo? Ho voglia di farlo, ma non ci sto riuscendo. E’ la conferma di tutto: sono sempre stata una pessima figlia... Sfido io che mi abbia lasciata...

«Resto io con Andrea», disse la Patrizia, interrompendo i miei pensieri. «Portati Lilla.»

Ma sono impazziti, ‘sti due? Ho sempre avuto a che fare con dei sadici? Una bambina davanti il cadavere di quella che lei chiamava zia?!

«La porto qui. Lo avvisi tu Pietro?»

«Ci penso io, non preoccuparti, tesoro. Vai.»

Non possono essere seri. Non possono essere le persone con cui ho condiviso la vita!

Poi si confonde di nuovo tutto. Ricordo solo di aver piantato lo sguardo negli occhi della Patrizia, che mi si era inginocchiata davanti.

 

«Tra poco potrai rivedere la tua mamma, Andrea», mi sorrise a un certo punto.

«Io non lo voglio vedere, un cadavere!», esplosi. «Non m’interessa quali strane-»

«Tesoro», m’interruppe, «cosa stai dicendo? Lucrezia sta bene, Andrea. Non hai sentito? Tuo papà e Lilla la stanno andando a prendere, in commissariato.»

E lì, in quel preciso istante, scoprii di non aver perso l’abilità di piangere.

 

Mi rendo perfettamente conto che avrei potuto omettere tutta questa parte, soprattutto quella delle mie assurde riflessioni, dal momento che sono tutto fuorché lusinghiere o appartenenti a una persona apposto; ma ho sempre raccontato esattamente le cose per come sono andate, sempre, per tutto il testo, non vedo dunque ragione per smettere ora.

Comunque, dopo aver capito che mia madre stava bene, mi sono lasciata travolgere da tutto: sollievo, rabbia, paura... così, in loop.

Ho sfogato tutto sul petto della Patrizia, che mi ha tenuta stretta e salda per tutto il tempo.

 

Quando la Patrizia è scesa per andare a chiamare Pietro, mi sono chiusa in camera, a chiave.

Non volevo saperne, almeno per un po’.

Nel mio petto si stava svolgendo una guerra, in cui a esplodere erano palloncini d’argento.

Avevo bisogno di calma, di riordinare le idee, di tornare padrona del mio interiore.

Ero felice, ma ero anche terribilmente incazzata.

Avevo dei sensi di colpa, in particolare per il fatto che fossi così arrabbiata con mia madre. Non lo doveva fare, mi dicevo. Poi mi facevo pessima, cattiva, e pensavo che a quel punto non doveva neppure prendersi il disturbo di ricomparire. Non erano cose che pensavo davvero, ma un po’ sì. Erano pensieri intrusivi su cui avevo e non avevo potere. Non saprei neppure io.

 

Un paio di ore dopo, quando sentii tornare la macchina del papà, il palloncino diventò enorme e dovette adattarsi alla forma del mio tronco; in contemporanea, si scatenò una tromba d’aria.

Avevo la sensazione di svenire, perché il cuore minacciava di esplodere e mi sembrava che l’aria fosse stata risucchiata via dalla stanza.

La cosa si fece quasi intollerabile quando bussarono alla porta. Non so chi fosse, non me lo ricordo, so solo che urlai di voler essere lasciata in pace.

Mi gettai sul letto e, presi su cellulare e cuffie, feci partire i Lordi a palla; così forte, che non riuscii neppure a sentire i miei pensieri: perfetto.

 

Ma, a un certo punto, i pensieri riuscirono a sovrastare perfino la poderosa voce del cantate finlandese; la corteccia rivestita di muschio - la sua voce - fu sostituita e rimpiazzata da due linee, una rossa e una blu: la mia voce interiore.

L’abbiamo punita a vonde.

Chi? La mamma? Non la sto punendo...

Sì, invece, e lo sappiamo benissimo.

Anche se fosse? Col brutto tiro che m’ha tirato, meriterebbe di peggio!

Tipo di essere davvero morta.

Ehi! No! Non è quello che intendevo! Sto solo dicendo che bisogna farle capire che non è che può fare come le pare. Non può scomparire e riapparire a suo piacimento, non dopo più di una settimana! Cosa sono io, un hotel?

Avremo potuto impedire che lo facesse, se ci fossimo dimostrate delle figlie migliori. O, sai cosa? Ricevere una sua chiamata, in cui ci diceva che voleva del tempo per sé, ma che intanto ci chiamava perché si fidava di noi. Non ha potuto fidarsi di noi, perché siamo state delle figlie terribili.

La smetti di fare Gollum?

Sei sempre te, che parli, ricordatelo.

 

Il dialogo/monologo interiore andò avanti per molto tempo, forse un paio d’ore, forse più. Fatto sta che alla fine avevo capito quello che dovevo capire e, soprattutto, mi ero calmata. 

Ero finalmente giunta alla pace e sapevo esattamente cosa fare. Inoltre, dovevo andare in bagno, dunque i cancelli del mio fortino dovevano aprirsi in ogni caso.

 

Aprendo la porta, il fatto di trovarmela davanti, seduta sul pavimento, fallì di sorprendermi.

Era vestita nel mio modo preferito: camicia bianca e jeans neri. Le avevo sempre detto che, quando vestiva così, mi ricordava l’eroina di una della mie storie preferite: una vampira mossa dalla sete di vendetta che, però, poi scopre di... be’, di aver sbagliato quasi tutto, in buona sostanza. Però trova l’amore e tutto...

La trovai perfino più magra del solito, ma non come avevo temuto.

«Ciao...» gracchiò mamma. Doveva aver versato qualche composta lacrima, non molto di più; ma la sua gola doveva essere ancora impiastrata di muco e le sue corde vocali, di conseguenza, vibrarono male.

Mi stava fissando i jeans, all’altezza del ginocchio, senza trovare il coraggio di portarli neppure un poco più in alto.

Io, dal canto mio, le stavo guardando la piccola cicatrice bianca, di lato alla riga dei capelli: da piccola - poco più che neonata - le avevo tirato addosso un vaso. Ero fra le sue braccia, stando al suo ricordo, e cercavo di afferrare tutto ciò che vedevo... su una mensola trovai il grosso oggetto di cristallo e feci in modo di fargli conoscere il cranio di mamma.

«Devo fare pipì», dissi, infrangendo il denso, grigio silenzio. «’spettami in camera, così parliamo.»

Lei annuì e si alzò; io andai verso il bagno.

 

Mi misi seduta sulla tazza e, espletato il mio bisogno, presi della carta igienica. Rimasi lì per un po’, a guardare il pallido rosa della materia che mi sarebbe servita per detergermi, senza decidermi ad alzarmi e usarla.

E’ il momento.

Lo so.

Siamo pronte?

Chi può dirlo? Penso di sì, dai...

Questa volta non dimenticheremo il discorso che abbiamo scritto nella nostra mente.

Non trovi sia un po’ calcolata, come cosa, un po’ fredda?

Nah! Ci serve per non commettere errori. E poi, sono cose sincere che pensiamo davvero, no?

Sì, hai ragione.

 

Mi fermai sulla soglia della mia stanza.

Mamma si era seduta sul bordo più corto letto. Aveva appoggiato gli avambracci sulle cosce e congiunto le mani, intrecciando le dita. Teneva la testa china e la folta chioma nera le ricadeva tristemente giù. I suoi occhi stavano studiando i ghirigori del mio tappeto; o forse no, non guardavano nulla di esterno alla sua mente. Chissà.

La vidi guardarmi negli occhi, alzarsi e venirmi incontro, stringermi e dirmi che mi voleva bene, che non mi avrebbe mai lasciata.

Lo vidi solo con gli occhi della mente, perché quelli non erano atteggiamenti da mia madre. 

Sembrò accorgersi di me, perché la sua testa ebbe un piccolo scatto: forse, per istinto, stava per sollevare il capo. Non lo fece. Rimase in quella posizione, in attesa.

Entrai e mi chiusi la porta alle spalle, anche se odiavo intrappolarmi col mostro nero e le due malefiche gemelle.

Mi misi seduta alla scrivania e presi a fissarla. Questa volta mi concentrai sulle mani, scure, magre e piene di vene gonfie. Mi erano sempre piaciute, le sue mani. Da bambina, me lo ricordo bene, non facevo che chiederle se anche le mie sarebbero state così.

Seguendo quel pensiero, mi guardai il dorso delle estremità: Sì, dai cominciano ad assomigliarci.

Il discorso...

Ci sto arrivando...

«Sono incazzata nera con te...» mormorai, tenendo lo sguardo fisso dov’era prima.

«Lo capisco», replicò. «An-»

«No, Andrea niente», la intruppi. «Ora parlo io. Parlerò facendo finta che tu non sia qui, altrimenti non mi uscirà mezza cosa, so già. Okay?»

Silenzio.

«Grazie», approvai. 

Mi presi poi un secondo. Giusto uno.

«Dicevo», ripresi. «Sono incazzata nera con te, mamma. Sono incazzata, perché mi sono sentita tradita e abbandonata. Sono incazzata, perché ho creduto che te ne fossi andata via per sempre, senza neppure dirmi addio. Senza neppure ricordarmi che mi volevi bene... sempre ammesso che tu me ne voglia davvero, certo...»

«Certo che te ne voglio, sciocchina!», guaì. «E’ stato solo... un...»

Mi vidi costretta a interromperla ancora:

«Sta parlando Lucrezia o sta parlando Andrea?»

Con la visione periferica, intuii che stava annuendo.

«Mi risultava inaccettabile il pensiero che m’avessi fatto una cosa del genere, mamma. Non potevi aver fatto una cosa del genere, né a me né al Pietro... e, un po’, neppure alla Lilla, che ti considera come zia. Il papà... bon... per lui sei ancora la sua migliore amica, ma è un’altra roba.»

«Ha detto così?»

Decisi di non arrabbiarmi; l’assecondai:

«Sì, ha detto così. Ieri notte mi ha raccontato di quando eravate ragazzini e tutto. Bon. Posso andare avanti, ora?» 

Non fiatò.

«E non ero solo arrabbiata, ero soprattutto triste e ferita. Come avrebbe potuto essere diversamente, no? Zio bon, sei mia madre!»

«Andreana...»

«Non è una bestemmia, solo licenza poetica furlana, forse anche veneta! E non sta a usare il mio nome intero: non è a me che va la predica, Lucrezia! E non interrompermi più, o giuro che ti mollo qui!», sbottai. «Zio bon», ribadii, perché sì.

La sentii sospirare piano, ma non aggiunse nulla.

«Hai una vaga idea di cosa succede, nella mente di una ragazza, quando pensa al cadavere della propria genitrice? Non rispondere: era una domanda retorica. Sono del parere che ognuno abbia il diritto di vivere e morire come più aggrada loro, ma santo Giuda, ci saran dei limiti, no? Anche questa era retorica.»

Sospirò ancora, probabilmente nel trattenersi dal dirmi che, sì, aveva capito di non dover rispondere.

Ora la parte più difficile...

«Oltre a tutto questo, mamma, ho capito di esserti grata...»

Mi bloccai, perché qualcosa si agitò sotto il diaframma: mica facile, mostrare emozioni ‘‘positive’’, eh...

«Per il tuo colpo di testa, o il cacchio che t’è preso, ho conosciuto una ragazza...» Esitai qualche momento; poi presi coraggio e dissi, tutto d’uno fiato: «Bon già che ci siamo mi piacciono le ragazze mi sono sempre piaciute!»

«Lo so, Andrea.»

Non era la reazione che mi sarei aspettata, ma neppure quella che non mi aspettavo: non ero mai riuscita a figurarmela. Ma forse rimasi un po’ delusa: mi aspettavo un po’ di drammaticità... o qualcosa del genere, insomma. Bon, meglio così, eh...

«Davvero...?»

«Sei mia figlia.»

«Quando ti fa comodo», sibilai, velenosa. Mi pentii subito: «Scusa. Questa potevo risparmiarmela...»

«Non preoccuparti. Lo capisco: sei arrabbiata, me l’hai appena detto... Per quanto riguarda l’altra cosa: voglio che tu sappia che-»

«Dopo», la bloccai. «Dopo parliamo delle mie preferenze e, se ci sarà tempo, anche del genere umano in generale. Ora ho altre robe da dire.»

Riordinai un momento le idee.

«Bon. Ho conosciuto questa ragazza - poi vedrò anche di raccontarti l’assurda vicenda in cui sono capitata e tutti i malintesi - ed è lei che devi ringraziare, se ora ti sto parlando. Lei ha un modo di intendere la vita che un po’ mi ricorda quello della Patrizia: molto zen. Le ho fatto quasi di tutto, l’ho offesa in ogni modo e sono stata di una stupidità e di un’infantilità da farmi schifo da sola... Ma lei vuol ancora essere mia amica.

«Pomeriggio mi ha detto una roba, delle parole che, sul colpo, non hanno fatto molto... ma prima, mentre pensavo - oh, adesso le voci nella mia testa sono due, giusto per dirti - mi sono tornate e mi hanno fatto capire che sono vere anche per me: la vita è tanto breve, perché sprecarla a essere arrabbiati? Io non voglio più essere arrabbiata con te, mamma, perché metti che ci succede qualcosa, un qualsiasi incidente e non ci rivediamo mai più... Non voglio che muori e non voglio morire senza essere in pace con te. Non voglio mai più sentirmi come mi sono sentita in questi ultimi giorni. Mai più, cascasse il mondo!»

Alzai gli occhi su di lei, che teneva ancora i suoi sul tappeto... dove, notai, c’erano dei cerchietti scuri.

«Non volevo farti piangere...» mormorai, sentendomi improvvisamente miserabile e perduta. Tutta la rabbia del mondo, non avrebbe mai potuto oscurare l’amore che avevo per lei: vederla soffrire mi spezzava il cuore... meglio, vederglielo palesare, lo faceva.

Tirò sul col naso e mi mostrò il palmo della mano, mentre con l’altra cercava di asciugarsi gli occhi.

«Va tutto bene, Andrea... Hai ragione tu...»

«Per aver ragione, so d’aver ragione... ma mica volevo farti piangere... Mica facile, farti piangere, dico io, cazzuta e cattiva come sei...»

Ridacchiò. Una risata leggera, infantile, bagnata di lacrime. Un suono bellissimo e rassicurante, seppur, in qualche modo, sbagliato...

Lottai contro ogni forma d’imbarazzo e mi misi seduta accanto a lei.

Il lato destro del mio corpo assorbì e accolse immediatamente il caro calore. Faceva un caldo bestia, in quella stanza, ma provai il desiderio di starle ancora più vicino, perché quello era il calore della mia mamma; il calore che mi aveva circondata da sempre, da quando neppure avevo una coscienza mia. Per nove mesi, i nostri calori sono stati uno; e poi hanno continuato a cercarsi, ancora e ancora, quasi come fosse un tornare a casa o l’unire due metà.

Mi mise la mano sulla coscia e strinse un po’. Non disse nulla: era ancora impegnata a cacciar via le lacrime.

Posai il palmo sul suo dorso e, con l’estremità dei polpastrelli, sfiorai l’anellino d’acciaio che le avevo regalato qualche anno prima: una piccola lamina opaca che avevo raccolto da un torrente, che chissà per quando e da dove l’aveva trascinato. Non se l’era mai tolto; non l’avevo mai vista senza. L’aveva promesso, dopotutto, che non l’avrebbe mai fatto. Era una promessa differente da quella che aveva fatto al papà: della schiavetta e della fede non c’era neppure più la traccia più chiara. Ma un marito è un marito, una figlia è un’altra roba. 

Del suo colore non parlerò, perché è una cosa che vedo solo io, che non so come si chiama e son gelosa.

 

«Cosa hai fatto per tutto questo tempo?», le chiesi dopo un po’, quando il suo respiro fu tornato normale e i suoi occhi smisero di lacrimare. «Vorrei la verità. E non sta a indorarmi la supposta - non la pillola, la supposta, proprio - eh, perché non sono più una bambina. Puoi, anzi, devi dirmi le robe per come stanno... che tanto, immagini più brutte di quelle proposte dalla mia testa, non ne puoi cavar fuori, parola mia», aggiunsi poi.

«Lo so, Andrea, lo so che non sei più una bambina», disse, senza ancora trovare il coraggio di guardarmi in faccia, vergognosa come si sentiva. «Non mi aspettavo quel discorso... meglio: la prima parte, sì, ma anche peggio, con la seconda... mi hai sorpresa e commossa.»

«Sì, bon... eran robe che bisognava dire...» borbottai, imbarazzata.

«Sono d’accordo», annuì. «E voglio impegnarmi affinché non rimangano solo parole.»

«Pure io», assentii. «Altrimenti non le avrei dette. Ora dimmi che è successo...»

 

Mi disse di non ricordare precisamente il momento: sapeva che stava tornando indietro dal supermercato - da cui, però, alla fine non aveva comprato nulla - e di essersi sentita poco bene; ‘‘un cerchio strettissimo attorno alla testa’’, lo definì, accompagnato da pensieri sconnessi. Per non rischiare un incidente, aveva accostato lì dello spiazzo, dove poi han trovato la sua macchina.

Disse di aver cominciato ad avere pensieri sempre più brutti, di essersi sentita sempre più inutile, perfino nociva per chi aveva intorno.

Era scesa dalla vettura, con l’intenzione di farsi tirare sotto da qualcuno... Però, le ingiurie e le pivettate che le tirava la gente al volante, evitandola, non facevano che incrementare il mal di testa e spaventarla. Così si era messa a camminare sul ciglio della strada, senza una reale meta. Senza più ricordare perché lo stesse facendo. Andava e basta, un piede davanti l’altro.

Sapeva di aver dormito nei rifugi, nei boschi e perfino sotto un ponticello, il cui torrente, al disotto, s’era estinto una ventina d’anni prima

Aveva avuto il momento di rinsavimento, suppone, due o tre giorni dopo, in una mensa della Caritas, o roba simile. 

Il suo primo istinto era stato quello di chiamare casa o di dire al personale d’accoglienza chi fosse, dato che probabilmente qualcuno la stava cercando - in realtà no, non ancora. Ma poi non l’aveva fatto, perché si vergognava, perché si sentiva di peso e troppo malata per essere salvata.

In una di quelle mense aveva fatto amicizia con un signore, uno che si faceva chiamare Brizio il Tizio. Brizio le aveva detto che, se non sapeva dove andare, lui aveva una casetta, seppur in malora, ma che era sua e aveva ancora il tetto.

Seppur restia, alla fine aveva accettato, perché sentiva di potersi fidare di quell’uomo disgraziato quanto gentile. Infatti la trattò bene, sempre con gentilezza e premura. Le ha anche raccontato la sua storia; di come fosse passato da imprenditore a senzatetto. Fu una scelta, le aveva garantito, e mia madre non aveva obbiettato né trovato ragioni per non crederlo vero, visto come va il mondo.

 

«Le gentilezze, i doni te li fanno sempre quelli che hanno di meno», commentò. «Non è una frase fatta, credimi. Brizio non aveva neppure i soldi per vestirsi decentemente, ma quel poco che aveva l’ha diviso equamente con me.»

«Te l’ho sempre fatto notare che davanti i discount ci sono più che altro macchinoni... forse è perché son così tirchi e attenti ai soldi, che son, se non ricchi, benestanti», commentai, cercando di concertarmi su quello e non sulla prima parte della sua storia. «Bon, che è successo poi?»

Mia madre sospirò piano. Era evidente che le dispiacesse mettere da parte quella parentesi che era, per lei, stata umana e accogliente.

«Mi sono lasciata convincere a tornare...»

«Da Brizio?»

Annuì.

«Ah... Se no, fammi capire, quanto l’avresti durata?»

«Non lo so, Andrea. Certo non per sempre», rispose. «Mi ha accompagnata davanti alla Caserma dei Carabinieri, a Cividale o provin-»

«Fin là, sei andata?!», strepitai. Eh, non ci potevo credere!

«Fin là, sì», annuì.

«Ma son tipo più di cinquanta chilometri!»

«Passando per Tarcento, sono una quarantina, a piedi.»

«Ah, beh», feci. «Cambia tutto!» Poi mi resi conto che, bon, non era quello il punto. «Che ti han detto?»

«Che dovevano dirmi? Hanno chiamato qua, a Gemona, e cercato di capire se stessi dicendo il vero e chi fossi in realtà. Da qui hanno avuto conferma che una donna, che corrispondeva alle generalità che ho fornito loro, era effettivamente data per dispersa. Sono stati molto gentili - o spaventati che potessi sparire di nuovo - e mi hanno accompagnata fin su. Da lì ho chiamato papà.»

«Adesso stai bene?», m’informai, rendendomi conto che non mi appariva così lucida da anni.

«Mai stata meglio, Andrea... Sai che penso ci sia qualcosa che non vada con le medicine? Perché sono senza da più di una settimana, esclusi alcuni ansiolitici, e mi sento benissimo.»

Un paio di settimane dopo, infatti, si scoprì che i nuovi antidepressivi non solo erano troppo forti, ma facevano pure macello con gli altri farmaci che prendeva - per le emicranie e per la gastrite.

Un leggerezza che mi stava per costare la madre... 

Il vecchio bacucco decrepito che era il suo medico, guarda caso, decise che era tempo di andare in pensione e godersi i soldi del duro lavoro in qualche calda località - forse parlò di qualche Tropico - proprio qualche giorno prima che partissero delle vere e proprie indagini, dato che mio padre aveva sporto denuncia; anche perché si sospettava che anche altre sue crisi fossero state scatenate da prescrizioni superficiali.

 

Mamma e io passammo tutta la notte a parlare e raccontarci tutte le nostre robe.

Verso le cinque e mezza, quando ormai stava albeggiando di brutto, le chiesi di dormire con me, come quando ero bambina, stretta stretta a lei.

«Ho chiesto anche alla Patrizia di abbracciarmi come stai facendo tu...» le confessai, sentendomi colpevole. «Però tu sei tu...» aggiunsi, quasi aggiustasse tutto.

«Voglio bene a Patrizia, ed è giusto che anche tu gliene voglia, perché è una brava persona e si è presa e si prenderà cura di te.»

Le avevo raccontato tutto anche di lei, alla mamma, mancava solo quella parte lì dell’abbraccio.

«Poi», soggiunse, «del fatto che la tua mamma sarò sempre io, non si discute!», esclamò, giocosa, stringendomi più forte e dandomi un bacio sulla guancia - un po’ troppo vicino all’orecchio: mi assordò un po’; ma non non mi lamentai.

 

Tutto era magnifico e si era risolto bene.

Quasi tutto, in realtà: mi svegliai attorno alle quattro del pomeriggio, ovvero sei ore dopo il momento in cui sarei dovuta essere da Nevrè... Ero convinta di aver messo una sveglia, ma forse mi ero sbagliata... o era stata spenta. 

Non ho mai scoperto la verità.

Anche precipitandomi a Ronchi - l’unico aeroporto del Friuli - non avrei mai fatto in tempo, perché il pomeriggio sarebbe mutato in sera, ovvero dopo quando mi aveva detto sarebbe partita... non ci sarebbe stata occasione per una scena da film... 

La Patrizia si offrì comunque di portarmi di corsa là, per vedere se all’ultimo ci fosse la possibilità di un saluto, ma - anche per consiglio di mamma - lasciai perdere.

Il giorno seguente, più per disperazione e infantilità che altro, tornai alla Cascata.

Attesi fino alle prime avvisaglie di buio, ma Nevrè, ovviamente, non venne mai.

  
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