Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: FiloRosso    10/08/2023    0 recensioni
Cosa si prova ad essere perseguitati da qualcosa che non si conosce, che non si può vedere, di cui non si ha neppure la certezza che esista?
Senti quella presenza che vagabonda dentro casa tua e quel posto che dovrebbe essere il tuo rifugio si trasforma in una trappola.
E' così che Jules ha vissuto per un intero anno: barricata in casa, in preda ai deliri, sicura di non essere sola.
Adesso però deve tornare alla sua vita da liceale, le visioni sono sparite e le giornate sono tornate ad essere quiete, almeno finché non incontrerà Kael. In breve tempo, Jules si ritrova preda del suo nuovo misterioso compagno. Cosa nasconde e perché è così ossessionato da lei?
Genere: Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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1.


Coldwater, Maine.

Oggi.

 

Centinaia di occhi vorticavano attorno a me. Mi stavano guardando tutti o me lo stavo immaginando? Mi strinsi nelle spalle infilando le mani nelle tasche del giubbotto; testa bassa per non incrociare nessuno sguardo. Il senso di disagio che stavo provando era un crescendo di sensazioni che riusciva a farmi contorcere lo stomaco.

Parlano di me.

Di cosa ho fatto. 

Mi sembrava di avere migliaia di cicale attorno tanto fastidiose da volermi tappare le orecchie con i palmi delle mani.
Per fortuna, il brusio infernale scemò in un istante interrotto dal suono della campanella.

Un capannello di studenti si accalcò verso l’ingresso dell’istituto. Poco dopo, ero davanti all’aula di biologia.

Quando entrai rimasi a bocca aperta.

Attaccati non si sa come alla lavagna, c’erano Barbie e Ken. Le braccia erano state sistemate in modo che le mani si toccassero, ed erano nudi, a parte dei piccoli ritagli di fogli piazzati nei punti strategici. Sopra le loro teste, scritto con un gessetto celeste, si leggeva: benvenuti a riproduzione sessuale.

«Ecco perché a scuola vietano l’utilizzo dei cellulari. Una foto così sul gazzettino dello studente basterebbe a convincere il ministero dell’istruzione a bandire il corso di biologia.»

Una voce femminile mi raggiunse da dietro le spalle.

La ragazza che aveva appena commentato la Barbie e il Ken in versione “come mamma ci ha fatto” con tanto di smorfia di disapprovazione, era alta poco meno di me. Occhi castani e capelli mossi di un biondo sin troppo scuro per il suo incarnato pallido.

L’avevo già vista in classe l’anno precedente ma ora, sinceramente, non ricordavo neppure come si chiamasse né di dove fosse.

Mi guardò ed io fui costretta a ricambiare quell’occhiata che sapeva di “sto aspettando un tuo commento”, con una risatina che doveva darle l’impressione che la pensassi esattamente come lei.

Il suono che emisi non sembrava affatto una risata, ma parve averla convinta.

«Sono Brownie», disse tendendomi la mano.

Guardai le dita affusolate e poi risalii il braccio fino ad incrociare nuovamente il suo sguardo.

Ci volle un istante prima di convincermi a ricambiare quella stretta.

Impacciata spostai la pila di libri da un braccio all’altro e allungai la mano verso la sua.

«Jules.»

Brownie mi sorrise e questa volta lo fece in maniera molto più cordiale.

«Nuova?». Ci avviammo verso i banchi.

«Non proprio.», diedi una rapida occhiata ai posti a sedere. Erano quasi tutti occupati e quando provai a raggiungerne uno, una mia ex compagna di corso allungò la mano sulla superficie del banco facendomi capire all’istante che -no, lì non mi sarei seduta.

Mi inumidii il labbro inferiore, anzi no, lo mordicchiai per l’imbarazzo e mi allontanai in fretta. Sapevo che tornare a presenziare alle lezioni non sarebbe stato affatto facile, ma sicuramente non mi aspettavo certi trattamenti. Probabilmente a Portland, dalla periferia alla costa, le voci avevano fatto il giro molto più velocemente di come pensassi.

«Jules, di qua!».

Mi voltai alle spalle. La mano di Brownie sventolata in aria mi avvertiva che la ragazza aveva trovato posto per entrambe. Senza pensarci due volte la raggiunsi.

«Certo che sono veramente sgarbate le persone di Portland.», commentò la bionda, abbandonando la sua borsa a tracolla accanto al piede del banco.

Scivolò a sedere e io la imitai.

«Non sei di queste parti?».

Brownie mi scrutò sorridendo calorosamente «No, sono di Palm Springs.»

«Wow, ti sei fatta un bel viaggetto.»

Rise «Già.»

Il coach McHanzie afferrò il fischietto che gli penzolava dal collo e ci soffiò dentro.

«Squadra, ai posti!».

Il coach considerava l’insegnamento della biologia un’attività marginale rispetto al suo impiego come allenatore della squadra di basket dell’università, e lo sapevamo tutti.

«Voi ragazzi potreste non aver notato che il sesso non è più di un giretto di un quarto d’ora sul sedile posteriore di un auto, in effetti è scienza. E che cos’è la scienza?».

«Una noia.», gridò qualcuno dalle ultime file.

«L’unica materia in cui faccio schifo.», disse qualcun altro.

Gli occhi del coach passarono in rassegna l’intera classe e si fermarono sulle prime file. Su di me.

«Ci siamo già visti?» aggrottò la fronte.

«Si, all’inizio dello scorso anno.»proferii timidamente.

Lui restò a fissarmi per un lungo istante fino a che non parve tornargli alla mente persino il mio nome.

«Jules.»disse con un sorrisetto vittorioso, «Sono contento di riaverti alle mie lezioni.»

Ricambiai il sorriso, seppure, in quel preciso istante, avrei preferito sotterrarmi da qualche parte.

Preferivo di gran lunga non farmi notare. Sapevo che le voci su di me circolavano a briglia sciolta, non c’era bisogno di creare situazioni in cui domande come: “cosa ti è successo?”, “perché sei sparita ad inizio corso?”, mi avrebbero messo contro un muro costringendomi a raccontare la verità. Bastavano i quotidiani di quel periodo a ricordare a tutti che Jules Fisher aveva tentato di togliersi la vita nel bagno di casa sua.

«Dunque, Jules? Cos’è la scienza?», incalzò lui.

«Lo studio di qualcosa.» risposi.

Si avvicinò e piantò l'indice sul mio banco.

«Che altro?».

«La conoscenza acquisita attraverso la sperimentazione e l’osservazione.»

Perfetto. Sembrava stessi facendo un provino per l’audiolibro del nostro testo scolastico.

«Dillo con parole tue.»

Arricciai un labbro e cercai un’alternativa.

«La scienza è indagine.»

«La scienza è indagine», ripetè il coach, sfregandosi le mani, «La scienza ci obbliga a trasformarci in spie.»

Detta così, sembrava quasi divertente, ma io avevo trascorso abbastanza tempo sui libri di biologia, durante i semestri precedenti al mio incidente, per non illudermi.

«Una buona indagine richiede pratica» continuò.

«Anche il sesso.», commentò qualcuno dal fondo. Ci furono delle risatine, ma isolate perché l’allenatore aveva già puntato l’indice ammonitore contro il colpevole.

«Quello non farà parte dei compiti a casa di oggi.» disse il coach prima di rivolgere lo sguardo nuovamente alle prime file.

«Non ci avete mai fatto caso, ma in quest’aula non c’è una ragazza che sia seduta di banco con un ragazzo.» Ci guardammo attorno tutti quanti. Effettivamente McHanzie aveva ragione.

«Scommetto che in realtà ognuno di voi sa ben poco dell’altro sesso, anzi, sono pronto a scommettere - osservando le vostre facce - che oltre alle nozioni marginali sul corpo umano, non sapreste andare oltre il vostro naso se vi chiedessi di interagire con l’altro sesso.»

Più parlava, più un terribile presentimento si faceva largo nella mia consapevolezza.

«Ad esempio, Ros.», indicò un ragazzo al centro dell’aula. «Cosa sai di Clemens?».

I miei occhi rimbalzarono da Ros alla ragazza dal caschetto ciliegia seduta a qualche banco di distanza da lui.

Ros scrollò le spalle «Nulla. Non è il mio tipo, perché dovrei rivolgerle parola?»

Fu impossibile non mostrare un’espressione di disappunto per me.

«Da quando si rivolge parola ad una ragazza solo se è il tuo tipo?», commentò Brownie evidentemente innervosita.

«Da quando lo dico io.», ribattè impettito lui. Il leggero chiacchiericcio di qualche ragazza si mischiò ai commenti poco gradevoli dei ragazzi e in breve tempo divenne rumore.

«Calmi, calmi.» Il coach passò fra i banchi, le braccia sollevate a mezz’aria. «Non c’è bisogno di alzare i toni.».

Per un momento la classe sembrò tornare calma.

«E’ proprio per questo che ho posto questa domanda a Ros, perché so che la maggior parte di voi a quest’età ragiona seguendo l’impulso ormonale che di fatti è biologico.» fece una breve pausa «L’attrazione fisica è il risultato di quanti più impulsi biologici e chimici può creare il nostro corpo come ben sapete, ma c’è anche un lato in ognuno di noi che rifugge dal seguire certi impulsi costringendoci ad una zona confort chiamata-» si avvicinò alla lavagna e con un gessetto scrisse la parola consuetudine. «Consuetudine. Siamo al sicuro quando sappiamo cosa c’è attorno a noi, con chi siamo, a chi raccontiamo i nostri segreti, a chi mostriamo le nostre vulnerabilità.»

Il coach fece scivolare lo sguardo verso me.

Ebbi l’impressione che volesse dirmi qualcosa, ma non avevo la minima idea di cosa.

«Purtroppo però i migliori detective rifuggono dalla consuetudine. Essa impigrisce l’istinto investigativo e come abbiamo detto la scienza è investigazione. Ecco perché, oggi, cambieremo i posti a sedere.»

Aprii la bocca, forse volevo protestare ma in fondo io non conoscevo nemmeno Brownie e chiunque si fosse seduto al suo posto sarebbe stato identificato come “irrilevante”. 

«Che senso ha? Siamo ad Aprile, manca poco alla fine del semestre. Non può farci una cosa simile proprio adesso.» Alla fine fu proprio caschetto ciliegia a battermi sul tempo, schizzando in piedi furiosa. Le guance imporporate e una piccola venuzza a farle capolino sulla tempia.

McHanzie accennò un sorriso «Io posso fare una cosa simile anche l’ultimo giorno del semestre. E se non superi il mio corso, l’anno prossimo ti ritroverai di nuovo qui, dove cose simili accadranno ancora e ancora, e ancora.»

Clemens gli lanciò un’occhiataccia così tagliente da poterla quasi sentire sibilare.

Apparentemente immune dallo sguardo omicida della mia compagna, il coach ci spiegò cosa aveva in mente.

«Tutti quelli seduti in fondo all’aula avanzino di un posto. Quelle sedute in prima fila, sì, anche tu Clemens, si spostino verso l’ultima.»

Rivolsi a Brownie un cenno di saluto, mentre lei sbatteva il quaderno nella borsa a tracolla e chiudeva di scatto la zip. Poi mi voltai lentamente, ispezionando la stanza. Conoscevo i nomi di tutti i miei compagni tranne uno. Quello che si era trasferito. Durante la lezione il coach aveva interagito con tutti tranne che con lui che d’altro canto sembrava aver apprezzato la poca considerazione.

Sedeva pigramente nel banco davanti al mio. Per un attimo faticai a credere che fosse stato seduto per tutta la lezione davanti a me, fissando il vuoto. Di sicuro stava pensando qualcosa, ma l’istinto mi diceva che non avrei voluto sapere cosa .

Posò il suo libro di biologia sul banco vuoto e scivolò su quella che fino ad un attimo prima era stata la sedia di Brownie.

Sorrisi. «Ciao, io sono Jules.» Lo psicologo mi aveva fortemente consigliato di tornare a socializzare con le persone. Un anno passato chiusa in casa in preda alle allucinazioni aveva fatto sì che il mio rapporto con il resto dell’umanità si riducesse a sguardi schivi e silenzi incolmabili.

Perciò eccomi lì a tentare di tornare alla normalità, salutando uno sconosciuto mentre la mia bocca lentamente e con molta difficoltà disegnava una curva sulle labbra molto simile a un sorriso sbieco.

Il suo sguardo mi passò da parte a parte e avvertii gli angoli delle mie labbra incurvarsi verso una riga piatta.

Una leggera fitta allo stomaco mi fece irrigidire. E in quella pausa, una sensazione di tristezza, come un’ombra fredda, mi scivolò addosso. L’istante dopo la sensazione era sparita, mentre io stavo osservando un piccolo sorrisetto, affatto amichevole, natoli sulla bocca.

Era un ghigno che prometteva guai.

Deglutii in preda all’imbarazzo e tornai a concentrarmi sulla lavagna. Barbie e Ken ricambiarono il mio sguardo stranamente amichevoli.

«La riproduzione umana può essere un argomento spinoso…» proseguì McHanzie.

«Specie quando non si amano le cerette» ridacchiò Ros.

Il coach aggrottò la fronte «Richiede maturità. E come per tutte le scienze, il metodo migliore è quello investigativo. Durante il resto dell’ora esercitate questa tecnica cercando di scoprire quanto più possibile sul vostro nuovo compagno di banco. Voglio una relazione sulla cattedra entro le nove di domani, non sono ammessi testi romanzati e non veritieri.» E nella frase c’era un implicito avvertimento a non azzardarsi a fare altrimenti.

Restai seduta immobile. La palla era nella metà campo sbagliata: quella del mio nuovo compagno.

Sorridergli non si era rivelata una buona mossa. Arricciai il naso cercando di capire cosa mi ricordasse il suo odore. Non sigarette. Qualcosa di più intenso e nauseante. 

Fissai le lancette dell’orologio agganciato in cima alla lavagna: per ogni minuto in più mi sembrò di averne quattro in regalo. Il tempo stava passando in fretta. Grandioso. A quella velocità non sarei riuscita a scoprire un bel niente. 

Sospirai, con il gomito puntato sul banco e il mento premuto sul pugno.

Tenevo gli occhi fissi davanti a me, però potevo sentire il fruscio della sua penna. Stava scrivendo, e io volevo sapere cosa. Dieci minuti di convivenza sullo stesso banco non lo autorizzavano a ipotizzare un bel niente sul mio conto. Con la coda dell’occhio, vidi parecchie frasi sul suo foglio, e la lista si allungava.

«Che cosa stai scrivendo?» chiesi.

«Niente che ti riguardi.» disse mentre scriveva ancora una frase, ogni movimento fluido della mano era pigro al tempo stesso.

Mi avvicinai il più possibile tentando di leggere, ma lui piegò il foglio a metà coprendo la lista.

«Posso sapere cosa hai scritto?» ripetei.

Inaspettatamente allungò la mano verso il mio foglio bianco e lo fece scivolare verso sé, quindi lo appallottolò e, prima ancora che riuscissi a protestare, lo lanciò nel cestino dei rifiuti dietro la cattedra. Canestro, e non aveva nemmeno alzato gli occhi dal banco.

Rimasi un attimo a fissare il cestino, metà allibita e metà arrabbiata.

Poi aprii di scatto il quaderno sulla prima pagina bianca a disposizione e, matita alla mano, chiesi: «Come ti chiami?»; sperando che il tono della mia voce non risultasse esitante.

«Chiamami Kael. Dico sul serio. Chiamami.» Lo disse ammiccando, così mi convinsi che volesse prendermi in giro.

Aggrottai la fronte «Cosa fai nel tempo libero?»

«Non ho tempo libero.» Incredibile!

Socchiusi le palpebre appena quel poco che bastò per far si che si disegnasse sul mio viso un’espressione esasperata«Senti, suppongo che prenderemo un voto per questo compito, perciò che ti piaccia o no devi farmi il favore di-»

«Che tipo di favore?» Si appoggiò alla spalliera della sedia, un braccio penzoloni e metà busto rivolto verso me.

Ero sicura che quella domanda fosse un'allusione, quindi cercai disperatamente qualcosa a cui appigliarmi per cambiare discorso.

Sospirò «Tempo libero…» picchiettò il cappuccio della penna sul banco, pensieroso «Mi piace osservare.».

Scrissi sul foglio osservatore.

«Non ho finito» disse «Mi piace osservare e lo faccio di continuo, l’ho fatto anche con te proprio mentre eri alle prese con quel Ken e quella Barbie. Piuttosto, perché li fissavi così disperatamente? Bah, lasciamo stare. Ad ogni modo, vuoi sapere cosa ho capito guardandoti?».

Non mi piaceva affatto il suo modo di porsi, né il tono altezzoso con cui mi si stava rivolgendo «Sentiamo.»

«Sei una di quelle che crede che sia giusto mangiare bio, scrivi poesie in gran segreto e rabbrividisci all’idea di dover scegliere tra Yale, Stanford e… quale è quell’altra grossa università che inizia per H?»

Lo fissai per un momento scioccata.

«Alla fine non andrai a nessuna delle tre.»

«Ah, no?»

Agganciò la parte inferiore della mia sedia e mi trascinò con uno scatto verso sé, sporgendosi verso il lobo del mio orecchio.

«Anche se otterresti il massimo dei risultati in tutte e tre le facoltà, le snobbi perché le consideri lo stereotipo del successo. Sputi sentenze e questa è la terza verità su di te.»

Restai immobile anche se sarei voluta saltare per aria.

«E la seconda?»

«Non ti fidi di nessuno. Anzi, mi spiego meglio, ti fidi solo di te stessa, ma ultimamente potremmo dire il contrario.»

Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Come ci era riuscito? Ci aveva preso in pieno ed ero certa di non averlo mai incontrato prima di allora.

«E la prima?»

A quel punto sfiorò quasi il lobo del mio orecchio con le labbra. «Sto parlando della te di un anno fa, giusto?».

Persi un battito.

«Adesso le cose sono cambiate, tu sei cambiata.»

Sentii gli occhi pizzicarmi, la gola serrarsi.

«Chi ti ha detto queste cose?»

Kael si raddrizzò sulla sedia, l’espressione trionfale e pericolosa al tempo stesso.

Fece spallucce e tornò a guardare l’orologio sulla parete.

Mi si rizzarono i peli dietro la nuca e la temperatura nella stanza sembrò precipitare. In circostanze normali, mi sarei alzata, sarei andata da McHanzie e avrei protestato per cambiare di posto. In quella circostanza, però, non riuscii a muovermi. Come sapeva quelle cose? Io non lo conoscevo affatto e l’idea che uno sconosciuto fosse in grado di toccare tasti tanto delicati beandosi fra l’altro, mi faceva impazzire.

Provai un bisogno irrazionale di difendermi e decisi, in quel preciso momento, di non dargliela vinta.

«Dormi nuda?» chiese all’improvviso.

La bocca minacciò di spalancarsi, ma riuscii a rallentare la caduta della mascella.

«Sei l’ultima persona al quale lo direi.»

«Mai stata da uno strizzacervelli?»

«No», mentii. Dopo aver tentato il suicidio ero finita in cura da uno psichiatra, il dottor Kevin Lewis. Era anche psicologo e lavorava nella nostra scuola, perciò frequentavo sedute extra anche dopo le lezioni.

«Mai fatto niente di illegale?»

«No.» Superare la velocità consentita era una delle poche imprudenze di gioventù che mi ero concessa, comunque non ne avrei fatto menzione con lui.

«Perché non mi fai domande normali? Tipo… che musica ascolti?»

«Non chiedo cose che posso indovinare facilmente.»

«Tu non sai che genere di musica potrei ascoltare.»

Piegò la testa da un lato e mimò un’espressione esauriente.

«Indie o come diavolo si chiama… Ti fa sentire libera, probabilmente hai bisogno di ricordare a te stessa che puoi smettere di indossare la tua maschera da miss ho tutto sotto controllo, ogni tanto. »

Lo disse come se l’idea gli fosse venuta in mente solo in quel momento.

«Sbagliato.», altra bugia.

Chi era quel ragazzo? Che altro sapeva? Che fossero stati i chiacchiericci dei miei compagni di classe ad autorizzare tutti quei dettagli sul mio conto?

«Quello cos’è?», mi punzecchiò il polso con la penna.

«Una bruciatura.»

«Sembra una voglia, te la sei procurata tu?».

«No.»

Kael continuò a fissarmi le braccia per un po’, nonostante le avessi nascoste sotto le maniche della felpa.

Non disse nulla, ma quasi potevo immaginare la direzione dei suoi pensieri in quel momento.

«Hai tentato il suicidio, Jules?».

Trattenni il respiro.

«Perché mi chiedi cose che sanno tutti?»

I suoi occhi rimbalzarono su di me. Ebbi l’impressione di scorgere un bagliore fluorescente nelle sue iridi scure ma non seppi dare un nome all’espressione che gli si era piazzata sul viso.

«Mi dispiace», mormorò appena.

Scossi il capo. Ero sul punto di piangere ma non lo avrei permesso a me stessa.

Spostai lo sguardo gonfio di lacrime altrove.

Ci fu un momento di silenzio.

«So cosa hai passato.»

Mi voltai di scatto. Lui non sapeva proprio un bel cazzo di niente, non poteva sapere cosa aveva significato per me avere le allucinazioni, sentirsi perseguitata, vedere cose che, in realtà, non erano mai esistite. Ero pronta a gridargli in faccia, quando, la campanella suonò. Kael si alzò dalla sedia e mirò alla porta.

«Tu non sai proprio un cazzo!», strillai.

I pochi che erano rimasti in aula si voltarono all’unisono verso di noi.

In un battito di ciglia, avevo di nuovo tutti gli occhi puntati addosso. Quelli di Kael compresi.

Si mosse. Stava tornando verso di me.

Per un momento avvertii l’irrefrenabile desiderio di farmi indietro.

Ancora una volta non mi mossi.

Kael afferrò il palmo della mia mano e sfilò un pennarello dalla tasca esterna dello zaino.

«Dammi modo di sapere la verità, allora.», fu tutto ciò che disse successivamente, fissandomi dritta in faccia.


 

   
 
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