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Autore: Shadow writer    14/09/2023    2 recensioni
«Dai, ti do un passaggio, va bene?»
«Non sei costretto».
Lui sorrise. «Non mi sentirei a posto con la mia coscienza lasciandoti qui».
In un diario dell’anno successivo, annotai che, se avessi saputo come sarebbe andata a finire, non avrei accettato quel passaggio. Se avessi potuto avere un’anteprima dei mesi successivi, avrei scosso il capo a Sam, nel momento in cui mi avrebbe allungato una mano per alzarmi dal panettone. Non sarei salita sulla moto, aggrappata al suo busto con l’aria che mi soffiava sul viso e il petto premuto contro la sua schiena. Gli avrei scosso il capo e avrei aspettato il primo pullman del mattino per tornare a casa.
Ma quella sera ero ubriaca e triste e quando Sam era comparso davanti a me, su quella moto mi era sembrato un principe azzurro con il suo cavallo bianco. In quel momento mi ricordava solo il ragazzino di due anni più grande che al campo estivo mi aveva portata in braccio quando mi ero sbucciata il ginocchio e aveva corso sul terreno scosceso tenendomi sotto le cosce, mentre io guardavo il rivolo di sangue che scendeva verso la caviglia. Quella sera era ancora il mio salvatore.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Nell’estate della maturità, per la prima volta, iniziai un nuovo diario senza aver finito il precedente. Quello nuovo lo avevo comprato in gita, a Roma, e non aveva nulla di particolarmente speciale. Era un piccolo quaderno rilegato in cartoncino nero con un disegno abbozzato del Colosseo. 
La prima pagina iniziava subito dopo l’orale di maturità, e ne parlavo come di un momento decisivo, di svolta nella mia vita. Sentivo che un grande capitolo della mia esistenza si era chiuso e, simbolicamente, avevo deciso di iniziare un nuovo diario. I primi avvenimenti raccontati sono poco degni di nota: le riunioni per educatori al campo estivo, una giornata al lago con Erika, una serata trascorsa ad ascoltare Ginny mentre ripeteva per l’orale, fino a che parlo della festa al Movida. Mi ero ubriacata in modo vergognoso insieme ad altri ragazzi che, come me, avevano appena finito la maturità e poi ero crollata su un panettone a bordo della strada, senza ricordarmi come ci fossi arrivata. Sapevo di essermi allontanata dalla festa che si stava tenendo in spiaggia e che ero arrabbiata perché Marco mi aveva chiamata ancora. 
«Meg» avevo sentito e avevo alzato gli occhi dall’asfalto. Davanti a me stava Sam, a cavallo della sua moto. Non l’avevo neanche sentito avvicinarsi. Si era tolto il casco e lo aveva appoggiato dietro di sé. Teneva i capelli chiari tirati indietro da una fascetta elastica ed erano tutti spettinati, a tratti schiacciati sulla testa. 
«Cosa ci fai qui?» mi chiese.
«Sto andando a casa».
Si voltò a guardare un punto imprecisato nel monte alle sue spalle. «Pensi di riuscirci?»
Lo guardai senza dire nulla. Ero parecchio alticcia e solo riuscire a mantenermi dritta su quel panettone mi costava uno sforzo enorme.
«Dai, ti do un passaggio, va bene?»
«Non sei costretto».
Lui sorrise. «Non mi sentirei a posto con la mia coscienza lasciandoti qui.»
In un diario del gennaio dell’anno successivo, annotai che, se avessi saputo come sarebbe andata a finire, non avrei mai accettato quel passaggio. Se avessi potuto avere un’anteprima dei mesi successivi, avrei scosso il capo a Sam, nel momento in cui mi avrebbe allungato una mano per alzarmi dal panettone. Non sarei salita sulla sua moto, aggrappata al suo busto con l’aria che mi soffiava sul viso e il petto premuto contro la sua schiena. Gli avrei scosso il capo e avrei aspettato il primo pullman del mattino per tornare a casa. Ma quella sera ero ubriaca e triste e quando Sam era comparso davanti a me, su quella moto mi era sembrato un principe azzurro con il suo cavallo bianco. In un attimo dimenticai quanto lo trovassi pieno di sé, quanto lo avevo criticato ogni volta che Ginevra era corsa da me a piangere, quanto avessi commentato con Erika che era troppo distaccato e altezzoso per i nostri gusti. In quel momento mi ricordava solo il ragazzino di due anni più grande che al campo estivo mi aveva portata in braccio quando mi ero sbucciata il ginocchio e aveva corso sul terreno scosceso tenendomi sotto le cosce, mentre io guardavo il rivolo di sangue che scendeva verso la mia caviglia. Quella sera era di nuovo il mio salvatore.
Viaggiammo in silenzio per le strade deserte e buie, fino a che mi sentii improvvisamente debole e per paura di cadere dalla moto gli chiesi di fermarsi, battendo sul suo braccio.
Sam accostò poco prima di una curva, a fianco di un santuario dedicato alla Madonna. La statuina era illuminata da una luce sempre accesa che ne rendeva leggibile la dedica sul piedistallo. 
Scendemmo entrambi dalla moto e lui si voltò a guardarmi, preoccupato. «Stai bene?»
«Ho bisogno di… aria» maneggiai disperatamente con il casco nel tentativo di togliermelo, ma la presa mi scivolava continuamente. 
«Aspetta, lascia fare a me».
Con un gesto esperto, Sam fece scattare la chiusura e aprì il casco, poi mi aiutò a sfilarlo. Respirai l’aria con avidità, lasciando che mi invadesse la bocca impastata dall’alcol. Sentivo le gambe instabili, molli.
«Ehi». Sam mi stava fissando. «Sei fatta?»
«Ho solo bevuto. Marco mi sta facendo uscire di testa».
«È successo qualcosa?»
Boccheggiai. «Continua a chiamarmi e a cercare di parlarmi ogni volta che mi vede. Non pensavo fosse così impegnativo lasciare una persona. Già mi sento una merda, potrebbe almeno avere la cortesia di lasciarmi in pace».
Un’auto passò sulla strada accanto a noi, ci ignorò e sparì dopo la curva.
«Già» disse Sam, mentre si toglieva l’elastico della testa e si passava una mano tra i capelli. «Ti capisco».
Strinsi gli occhi, poco convinta. «Come puoi capirmi? Stai con Ginevra da tre anni e mezzo».
Ricordavo alla perfezione il momento in cui la mia migliore amica mi aveva detto che lei e Samuele Landi stavano insieme ufficialmente. Era il Capodanno della nostra seconda superiore e lo stavamo festeggiando all’ultimo piano dell’albergo di Ginevra, quando a un certo punto lei era sparita sul terrazzo e, quando era rientrata, avevo notato che si teneva mano nella mano con Sam. Poco più tardi mi aveva convocata nel bagno e mi aveva spiegato tutto quello che era successo e come sarebbe proseguita la serata nella camera matrimoniale adiacente.
Erano stati insieme da allora. Assistere alla loro relazione dall’esterno era ciò che mi aveva spinto a rimanere single il più a lungo possibile. Agli occhi degli altri, erano la coppia perfetta che sarebbe durata per la vita, ai miei occhi quella era una relazione di crisi di pianto e fasi di mutismo a cadenza periodica. Erano entrambi belli, ricchi e di buona famiglia, abbastanza beneducati da affascinare chiunque incontrassero e abbastanza eleganti da far capire che nessun altro poteva aspirare a rimpiazzare uno dei due. Si facevano vedere ai tavoli dei ristoranti migliori: Ginevra con qualche gonna corta e dei tacchi che slanciassero la sua figura minuta, Sam con una camicia chiara e dei pantaloni di sartoria che vestivano le sue gambe muscolose. Erano socievoli e non c’era festa a cui non fossero invitati. Ma dietro l’apparente scintillio delle loro vite perfette, erano due persone testarde, sicure di sé e restie al compromesso. I loro litigi erano violenti e raramente si risolvevano con scuse e patteggiamenti, anzi, più di frequente le motivazioni della lite perdevano di vigore, poco alla volta i due dimenticavano ciò che li aveva fatti discutere e diventava troppo forte il richiamo alla loro vita da principe e principessa. Messe da parte le scenate, indossavano nuovamente i loro abiti firmati e tornavano a calcare le passerelle della scena sociale, tra ristoranti costosi, passeggiate sul lago e serate a ballare.
Avevo accettato di mettermi con Marco due anni più tardi, quando la solitudine stava cominciando a farsi pesante e avevo capito di non poter rifiutare tutti all’infinito. Marco era più grande, mi era sembrato una persona matura, intelligente e totalmente estranea alle dinamiche sociali che coinvolgevano i miei amici. E, in più, mi adorava. Lo capivo dal modo in cui pendeva dalle mie labbra ogni volta che parlavo o da come assecondasse una mia richiesta. Ma non potevo comandare al mio cuore di amare qualcuno solo perché mi trattava bene. 
Sam mi fissò in silenzio per qualche secondo. «Ho detto a Ginny che è finita quasi due settimane fa».
Pensai di non aver sentito bene. «Come?»
«Non ti ha detto nulla?»
Scossi il capo. «Mi stai prendendo per il culo?»
«No, ma non mi stupisce. Lei continua a comportarsi come una delle solite liti. Non ha capito che questa volta è finita davvero».
Lo guardai e per la prima volta mi resi conto di quanto fossero stanchi i suoi occhi, arrossati e contornati da occhiaie scure.
«È successo qualcosa?» gli chiesi. 
Sam fece cenno di no. «Semplicemente non sono più innamorato di lei. Da un po’ ormai».
Le parole gli parevano provocare una certa afflizione, quasi avesse faticato a tirarle fuori. 
«Cazzo» replicai, poi assunsi un tono più comprensivo. «Lo capisco».
Lui guardò il santuario con la madonnina. «Ti va se rimaniamo un attimo a prendere aria? Dovrebbe farti stare meglio».
L’oscurità della notte mi pareva più invitante che risalire sulla moto, così rimanemmo lì, sul ciglio della strada. La luna in cielo era piena e illuminava le sagome striminzite degli alberi già secchi, nonostante l’estate fosse appena iniziata. 
«Posso dirti una cosa?» disse Sam d’un tratto, «senza offesa». 
Gli dissi di continuare.
«Non ti ho mai vista bene con Marco, è come se… come se brillaste di due luci diverse. Non capivo perché tu volessi stare con lui».
Mi strinsi nelle spalle. Le uscite a quattro che avevamo fatto gli anni precedenti non erano mai state le mie serate preferite, quando io e Ginny passavamo la serata a chiacchierare tra di noi e i due ragazzi cercavano di cavarsela con qualche battuta di cortesia. Sam era socievole, ma lui e Marco avevano sempre fatto fatica a trovarsi del tutto.
«Era meglio che stare da sola» mormorai.
«A volte la solitudine è una liberazione».
Risi a gran voce. «Parli tu. Non dirmi che non ti faceva paura la solitudine».
Sam stava ancora cercando di domare i suoi capelli, ma si arrese presto e rimise la fascetta, poi prese posto sulla vecchia panchina davanti al santuario. «Credo che mi facesse più paura cambiare la mia vita. Non era la solitudine il problema, ma rinunciare a tutto quello che ho sempre avuto. La domenica mattina a casa di Ginny, le estati in barca, le giornate all’albergo, la sua famiglia, la mia famiglia, gli amici… tutto, tutto diverso». 
Annuii. Per quanto la mia relazione con Marco non avesse mai funzionato davvero, sapevo quanto l’abitudine fosse un vestito difficile da levare. 
Sam aveva un’espressione rigida, con i denti serrati e la mascella in tensione. Teneva le mani appoggiate sulle cosce, strette in pugni nervosi. Mi avvicinai e gli toccai una spalla, di riflesso lui alzò gli occhi per guardarmi.
«Passerà, e sarai anche più felice di prima».
Fece un cenno di assenso, quasi volesse cercare di convincere se stesso, ma i suoi pugni erano ancora chiusi. Mi sedetti al suo fianco.
«Lo so cosa pensi di me» disse lui senza guardarmi. Teneva gli occhi fissi sulla punta delle sue scarpe impolverate. «Ginny mi ripeteva che ero uno stronzo ogni volta che litigavamo. Un insensibile, che non sapeva amare. Immagino non sia stata tanto più gentile nel parlarti di me».
Non risposi, pensando che una conferma implicita potesse risultare meno dolorosa.         
«Il fatto è che…» riprese Sam «all’inizio io ero innamorato di lei, o almeno lo credevo. Ma non è sempre facile capire cosa significa essere innamorati, insomma… servono degli esempi, io…»
Si interruppe e mi guardò. Aveva le guance arrossate e gli occhi vividi, ma qualcosa lo trattenne, perché scosse il capo. 
«Stai meglio? Te la senti di ripartire?» chiese. Il suo tono accaldato era completamente sparito, lasciando spazio ad una disinvoltura che voleva mascherare tutto ciò che aveva preferito tenersi dentro. Si alzò in piedi e mi tese una mano, che accettai di buon grado. Era calda e ruvida, ma forte quando mi aiutò a sollevarmi. Mi sentivo ancora la testa leggera, ma non stavo più male come poco prima.
«Possiamo ripartire» gli dissi e feci per tornare verso la moto, ma inciampai in un gradino. Da dietro, Sam mi afferrò al volo prendendomi per un braccio. Sentii un dolore alla spalla, strattonata, mentre lui mi aiutava a raddrizzarmi.
«Sei sicura di farcela?» chiese. Era così vicino che sentivo il profumo che si era spruzzato sui vestiti quella sera. 
Trattenni il respiro e annuii. «Sì, andiamo».
Risalimmo sulla moto senza parlare. Sam mi disse di aggrapparmi bene a lui, poi riprese a salire i tornanti. Le mie braccia ora lo stringevano con più vigore e mi sentivo salda sopra alla sella. Pochi minuti più tardi si fermò di fronte a casa mia, appena illuminata dai faretti posti sui gradini che conducevano alla porta d’ingresso. Era una vecchia casa a tre piani costruita su un terreno in pendenza, e dai balconi sulla facciata principale si intravedeva il lago. Sulla sinistra erano stati costruiti dei terrazzamenti dove coltivavamo frutta e verdura, mentre nella parte più alta del giardino c’era una piscinetta di un metro che veniva montata ogni estate. 
Sam si fermò sullo spiazzo davanti al cancello che portava al garage e mi aiutò a scendere.
Gli restituii il casco. «Grazie per il passaggio».
Lo vidi sorridere mentre prendeva il casco e se lo infilava. Rimasero fuori solo gli occhi. 
«Figurati» replicò. «Goditi l’estate ora che hai finito gli esami».
Lo ringraziai e feci qualche passo indietro per consentirgli di girare la moto, poi Sam mi salutò sventolando la mano e lo guardai sparire oltre la curva che riscendeva verso il lago. 
   
 
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