Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: drisinil    19/09/2023    3 recensioni
Dietro ogni impresa bellica si nasconde un crimine senza tribunale, coperto di allori, messo in versi, piegato alla morale che più piace ai vincitori.
La storia del crimine la conoscono tutti, quella dei criminali, una volta svestiti dei loro eroismi, non interessa a nessuno.
Eppure è la storia di un criminale l'unica che posso raccontare, e posso raccontarla solo io.

***
Questa è una fanfiction canonverse nell'ambientazione del manga Attack On Titan, incentrata sulla storia di Levi Ackerman e sulla sua relazione con Erwin Smith. La timeline segue quella dell'opera canonica.
Contiene spoiler di tutte le stagioni, compreso il finale non ancora animato.
MI SCUSO FIN DA ORA PER LA LENTEZZA DEGLI AGGIORNAMENTI, LA CUI CADENZA NON SARA' REGOLARE PERCHE' LA STORIA E' IN CORSO DI STESURA E L'AUTRICE E' RINOMATAMENTE INAFFIDABILE.
***
Prendiamo
il sentiero paludoso
per arrivare alle nuvole.
(Matsuo Basho)
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
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PROLOGO - UN COLORE CHE NON ESISTE
 

Non sono il tipo che scrive storie. Per tirare fuori un rapporto decente ho impiegato mesi, in cui lui mi ha costretto a scriverne a dozzine, inutili, insulsi, su qualsiasi fottuto argomento di nessuna importanza, dalle pulci nei materassi altrui alla puzza dei loro stivali, dai culi dei cavalli all'incompetenza dei furieri, dalle taglie delle uniformi alle ore di utilizzo dei camini.

Ora so scrivere un rapporto, anche se saranno quindici anni che non ho nulla da riportare a nessuno. Storie, invece, non so scriverne, né dovrei farlo.

Eppure me l'hanno chiesto più volte. E' chiaro, no? Il soldato più forte dell'umanità si prende il disturbo di restare vivo dopo la battaglia fra terra e cielo e addirittura gli restano due braccia e due mani, non importa con quante dita in meno, potrà ben stringere una penna al posto di una spada. Sembra che scrivere memorie sia l'unica attività che mi compete, inchiodato a questa sedia, a questa parete bianca, a questa finestra con il suo panorama di tetti, a questa carne morta sulle cosce, a un cervello annacquato di ricordi che affondano pian piano, insieme al tempo che passa e diluisce tutto.

Dieci righe e finisco a scrivere del senso della vita, come ne avesse uno.

La morte, è ovvio, ha molto più senso e dignità. Un senso chiaro, inappellabile, definitivo, sia per chi la subisce che per chi la infligge, ancora di più per chi resta a guardarla e se la porta dentro come l'ennesima cicatrice rappezzata alla meglio.

Ma tu hai quattro anni e di queste cose non sai nulla, né forse te ne importerà qualcosa quando avrai l'età per capirle.

La morte, del resto, è una faccenda che non ammette ignoranza, come la legge in questo paese straniero. Non ammette un'età minima, non ammette scuse o giustificazioni. E' autoportante, come le mura di Paradis appoggiate alle spalle dei giganti, che crollarono dandoci la libertà nel momento stesso in cui fu condannato il resto del mondo. La morte definisce se stessa e il mondo intorno, anche per i vivi.

Ma tu sei inconsapevole e la morte non ti ha mai sfiorato, se non come una parola torbida e aliena, la forma intricata delle radici di un grande albero scuro e la lucida rotondità delle lacrime di tua madre, che osservi mentre ti scivolano lungo le dita grassocce. Le segui con gli occhi, come fossero formiche o insetti, con una curiosità senza domande.

Hai ancora sotto le palpebre solo gli occhi del presente, il dono infantile di lasciarsi scorrere addosso il tempo senza farsi toccare: fra i capelli, fra le dita, sotto le unghie bianche delle mani e dei piedi. Così, indisturbato e pigro, il sole compie il suo giro sul tuo viso, sgranando giorni simili fra loro e ancora amorfi, ancora morbidi e tiepidi come le coltri del letto dove dormi e il seno che ti nutre.

Quando sei nato, temevo che da quel seno avresti succhiato più dolore che latte, ma non è accaduto. Crudele di ciò che non sai, come è l'infanzia, hai sputato via il dolore e hai ingoiato il latte, ruttando la tua soddisfazione come è concesso ai neonati e ai vecchi infermi. Siamo gente fortunata, no?

Fortunato tu lo sei davvero, in tanti modi che non riuscirai neppure a comprendere, il che è parte integrante della tua fortuna.

Ieri però ti ho visto. Ho visto, mentre giocavate, come hai disarmato il piccolo Grice, con un gesto semplicissimo, che però non aveva nulla della goffaggine dei tuoi anni. Era netto, efficace, istintivo e al contempo consapevole. Molto più rapido della percezione del tuo ingenuo avversario, che si guardava perplesso le mani vuote.

E quando ti sei trovato in mano il manico di quel pugnale giocattolo, l'hai guardato con due piccoli occhi affilati e bramosi e hai, lentamente, inconsciamente, cambiato l'impugnatura. Dopo, non sapevi cosa farne e hai aperto la mano, per lasciarlo cadere, come se volessi controllare che non avesse nulla di magico, che cadesse dritto al suolo come qualsiasi altro oggetto e non ti restasse incastrato fra le dita.

E' caduto e tu subito lo hai recuperato, possessivo e predace, e sei corso verso di me, per offrirmelo. So che ti piace vedere i coltelli ruotare nella mia mano buona, ma non ti ho dato questa soddisfazione ieri; quel giocattolo l'ho semplicemente messo via, requisito, allontanato dalle tue mani avide, con il sadico privilegio degli adulti sui bambini, di strappar loro ogni cosa senza motivo.

Tua madre è preoccupata. Ti preferirebbe imbelle, quieto, sazio di favole e dolciumi. Vuole che tu non sappia nulla, che ti aggrappi al cognome di tuo padre, come se bastasse qualche sillaba per sfuggire al proprio sangue.

Lui, tuo padre, non esprime un'opinione: gli basta vederti ridere, spalancando quella bocca rosa troppo larga per la tua faccia e s'illude che non crescerai, che non soffrirai, che ti terranno al sicuro una casa di mattoni, una tavola imbandita, una scuola, una madre triste e devota. Vuole credere che la sicurezza e il benessere coincidano con la felicità e ovviamente, visto che è rimasto sotto sotto un moccioso con le idee poco chiare, si sbaglia di grosso.

Quindi, questa storia è per te, che tu la legga o meno. Non ha lo scopo o la presunzione di insegnarti qualcosa e non so cosa mai potresti imparare da uno come me. Non ha lo scopo di dirti chi sei, perché ci definiscono i casi della vita e le scelte che facciamo assai più delle parole, o degli specchi.

Non ha alcuno scopo, forse, questa storia, se non fornire a me un pretesto per ricordare, prima che la memoria mi coli giù nella zuppa mentre infilo in bocca il cucchiaio senza pensare a nulla, se non alla fame che non sento, agli appetiti, tutti quanti, che mi si scrostano di dosso, come l'intonaco chiaro di una vita che talvolta ho il dubbio di aver vissuto veramente.

Eppure, tutti vogliono insegnarmi a vivere, come se ne avessi bisogno.

Come se la vita che sto vivendo adesso, bloccato fra quattro mura a guardar scorrere il tempo degli altri, non somigli in modo significativo a quella di quando sono venuto al mondo, nelle stanze di un bordello, chiuso in qualche armadietto traforato, a giocare al buio su un sottofondo di amplessi mal pagati, oppure seduto dietro la porta chiusa, ad ascoltare quei gemiti e quei sospiri cercando di misurare il tempo che restava da ingannare, prima che mi restituissero ai sorrisi faticosi di mia madre. Per tenermi buono, a quel tempo, mi davano pane e latte.

Oggi mi portano liquori, tè pregiati, libri, illustrazioni di battaglie e di giganti (!), persino un mio ritratto, una volta. Mi mettono in mano quei doni e poi restano a guardarmi come sono adesso, una gamba di legno e una molle come gelatina, un corpo manipolato da mani gentili come quello di una bambola, un cuore a due tempi che batte insieme il passato e il futuro, senza mai trovare spazio per un presente che non esiste. Vengono qui, sudati di compassione (sento la puzza da chilometri), e mi chiedono com'era combattere, com'era volare. Se mi manca.

Rispondo quasi sempre che non ho rimpianti.

Ed è vero. Più di quel che sembra o che si possa pensare. E' una risposta onesta, ancorché molto evasiva.

Non ho rimpianti, ma respiro le mie preziose perdite, contandole una a una, più e più volte, amandole di una passione carnale e segreta. Le falangi, i lembi di pelle, le ossa, l'indipendenza, la giovinezza, le ali, la luce, la speranza, l'amicizia, il desiderio, l'amore.

Mi scompongo così, un grammo alla volta, senza fretta, aggrappato alla mia solitudine, e quello che mi resta è un cervello mediocre e pigro, un cuore ancora troppo morbido e che continua a dolere, mentre va a fondo. In superficie, la gratitudine per quelli che sperano e desiderano al mio posto, per quelli che continuano a cercarmi, quelli che lavano il mio corpo e lo spostano dalla sedia al letto, dal letto alla sedia, e si preoccupano che svuoti i miei piatti e i miei intestini con regolarità, come fa la gente per bene.

Mi restano poche cose dentro a un cassetto che non apro mai.

I fiori bianchi che mi porta tua madre ogni settimana, e io piazzo sul comodino.

Restano le risate tue, e del piccolo Grice e di quello a cui hanno dato il suo nome e per adesso se lo ficca in bocca gorgogliando, ridotto a due vocali acute, tenute insieme da tutta la bava appiccicosa che mi rovescia addosso finché glielo lascio fare.

Resta un cielo che non ha mai la sfumatura giusta, sempre troppo azzurro o troppo limpido. Qualche rara mattina di primavera, dopo le gelate, quando apro gli occhi mi pare che il colore sia esattamente quello e per un attimo fa bruciare tutte insieme le cicatrici e le illusioni, in un'unica vampa di fuoco vivo.

Eppure lo so, che quel colore non esiste.

Una volta glielo dissi e lui rise, ribattendo che per il solo fatto che se lo portava negli occhi, quel colore doveva esistere. Parole distratte, perché come al solito aveva un foglio in una mano e una tazza nell'altra, la cravatta allentata, la bocca storta di disappunto, e alto com'era si ostinava ad appollaiarsi su quel divanetto troppo stretto, macchiato e bricioloso che dopo un anno riuscii a far migrare dalla stanza da letto all'ufficio, nello sforzo inane di tenere almeno uno dei due ambienti in una passabile condizione igienica.

Ma a quel tempo il divanetto era ancora in camera, insieme a noi, con la sua copertura stinta e le sue molle appuntite che prima o poi speravo di fare fuori.

Cosa ci faccio qui? mi arrovellavo. Cosa gli serve? Cosa posso dargli?

Lo guardavo e mi sembrava uno scherzo del destino particolarmente perverso che mi trovassi lì con lui, nella sua stanza, a dividere un momento privato. L'aggettivo privato, riferito a noi due, era ancora di incerta definizione nel mio vocabolario, un grumo di inquieta meraviglia che mi pulsava nello stomaco.

Lo guardavo senza battere gli occhi per interi minuti, apettando il momento in cui all'improvviso sarei stato rispedito al mio posto, nella camerata di sotto, in mezzo al russio compatto e all'odore penetrante di umanità poco lavata, scalciato via con violenza come tentava di fare a ogni occasione il fottuto ronzino baio che mi avevano assegnato e che mi odiava. Il giorno che riuscì a disarcionarmi mi salvò la vita e perse la sua.

Ma quella sera il ronzino era vivo e vegeto nelle stalle, il tè nella mia tazza era troppo caldo, il tempo scorreva al giusto ritmo, e io sedevo scalzo sul letto del mio comandante, che mi leggeva stralci di un rapporto di Nile Dawk, riuscendo a stupirsi della sua idiozia anche se lo conosceva da una vita.

Posso vederlo come fosse adesso, il bastardo gentiluomo, gli occhi inchiodati al foglio, che mi chiede se lo sto ascoltando. Come se potessi non ascoltarlo.

Bevo l'ultimo sorso e gli rispondo che no, non lo sto ascoltando. Falso. Che di Nile Dawk non me ne sbatte niente. Vero. Che me ne sbatte pochissimo anche di Erwin Smith. Falsissimo. E che comunque dovrebbe andare a dormire. Vero. E lo prenderò a calci un'altra volta se non lo farà. Falso, ovviamente, sappiamo entrambi che non lo farò mai più.

Gli dico che dovrebbe raccogliere i suoi cenci da terra e glielo dico mentre inizio a farlo io. Gli dico che sto per andarmene, il che è vero, perché sta diventando tutto troppo. Troppo per me. Troppo per crederci senza essere punito, per non cadere ancora più in basso. Troppo per non perdere completamente il senso della misura.

Troppo e basta, per un figlio di puttana dei bassifondi.

Alla fine glielo dico, che è troppo. Lui alza lo sguardo, perplesso. E io in quel momento mi convinco oltre ogni dubbio che al mondo quel colore non esiste.

Non so bene perché ho tirato fuori proprio questo ricordo, fra i tanti, forse per dire che c'è ben poca epica nella mia storia. Morti casuali, lampante stupidità, passioni prosaiche, ideali distorti, catene arrugginite, ubriacature di illusioni, nessun poema che incanti una folla, solo frantumi di verità che prendono la forma della mia memoria, scontano il peso delle mie parole.

Dietro ogni impresa bellica si nasconde un crimine senza tribunale, coperto di allori, messo in versi, piegato alla morale che più piace ai vincitori. 

La storia del crimine la conoscono tutti, quella dei criminali, una volta svestiti dei loro eroismi, non interessa a nessuno.

Eppure è la storia di un criminale l'unica che posso raccontare, e posso raccontarla solo io.

 

   
 
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