Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: drisinil    04/10/2023    2 recensioni
Dietro ogni impresa bellica si nasconde un crimine senza tribunale, coperto di allori, messo in versi, piegato alla morale che più piace ai vincitori.
La storia del crimine la conoscono tutti, quella dei criminali, una volta svestiti dei loro eroismi, non interessa a nessuno.
Eppure è la storia di un criminale l'unica che posso raccontare, e posso raccontarla solo io.

***
Questa è una fanfiction canonverse nell'ambientazione del manga Attack On Titan, incentrata sulla storia di Levi Ackerman e sulla sua relazione con Erwin Smith. La timeline segue quella dell'opera canonica.
Contiene spoiler di tutte le stagioni, compreso il finale non ancora animato.
MI SCUSO FIN DA ORA PER LA LENTEZZA DEGLI AGGIORNAMENTI, LA CUI CADENZA NON SARA' REGOLARE PERCHE' LA STORIA E' IN CORSO DI STESURA E L'AUTRICE E' RINOMATAMENTE INAFFIDABILE.
***
Prendiamo
il sentiero paludoso
per arrivare alle nuvole.
(Matsuo Basho)
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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1 - MORTE NUMERO ZERO


Ogni paradiso definisce un inferno e questa è una verità incontrovertibile.

La nostra Paradis non fa eccezione: il suo inferno sotterraneo brulica di dannati e di demoni, anche se non si è mai visto un gigante.

Piano per l'evacuazione, lo avevano chiamato le brillanti menti politiche, e consisteva in un buco scavato per terra dentro cui scaraventare miserabili e disperati di ogni sorta, nonché qualsiasi profugo fosse riuscito a infilarsi, insieme alla proprie vane speranze, oltre le porte del Wall Sina. Era quella la risposta del governo al potenziale crollo delle mura difensive più esterne: un'enorme cripta sotterranea, sotto le eleganti vie lastricate di Mitras, in cui seppellire viva tutta l'umanità indesiderata e buttare via la chiave.

Ma gli umani hanno questo brutto vizio, di adattarsi e sopravvivere anche nelle peggiori condizioni immaginabili. Malati, malandati, reietti, gli abitanti dei bassifondi restavano (e restano) tenacemente aggrappati alla vita.

Sono uno di loro; quando nacqui, nell'inferno di Paradis, le uniche cose che mi appartenessero erano un nome di appena due sillabe e le braccia accoglienti di mia madre, che condividevo con innumerevoli sconosciuti, di giorno e di notte, perché la differenza fra l'uno e l'altra nei bassifondi ha poco valore, e fra le quattro mura di un bordello proprio nessuno.

Ricordo, di quei tempi, meno e più di quel che vorrei: reminescenze fragili di una vita non vissuta frammiste a fantasie, ovattate, irreali, per lo più fatte di impressioni sensoriali, come l'odore dolciastro e penetrante di fiori marcescenti che ci avvolgeva tutti, sussurrando la sua vana pretesa di chiudere fuori la realtà e coprirne il fetore. Una perenne, opprimente sfioritura che emanava dalle mura di quel posto e da chiunque lo abitasse, dalle tappezzerie, dall'olio dei lumi, dal vino nei bicchieri e dall'acqua nei bacili, dalla mia pelle e da quella di mia madre, per quanto vigorosamente si ostinasse a strofinarci entrambi con un ruvido sapone fatto in casa che puzzava più di noi.

La memoria è così: parziale, malevola, sfuggente. Della donna che mi mise al mondo ho smarrito la voce e il sorriso, eppure porto ancora scolpita nei nervi la sensazione tattile del suo corpo, dei suoi capelli lunghi arrotolati fra le dita, sottili e lucidi come fili di seta passati nell'inchiostro. Dormivamo insieme un sonno discontinuo, io rannicchiato contro il suo corpo fra le coperte calde, con l'orecchio appoggiato al suo cuore, la ritmica conferma della mia realtà, misera ma sufficiente, perché l'infanzia riesce a saziarsi di briciole.

Ci divoravano le cimici, il cibo mancava spesso, gli uomini avevano le mani e l'alito sempre troppo pesanti e nessun pietoso riguardo per chi provvedeva piaceri di poche ore. 

Eppure i giorni si sgranavano senza dolore; mi credevo fortunato e forse in qualche momento lo ero.

Lo ero quando mi addormentavo fra le carezze di mia madre, o camminavo per strada aggrappato alla sua mano. Oppure quando ridevamo insieme sottovoce, schizzando acqua dalla saponata del bucato, proiettando sui muri crepati ombre di animali con le dita, sussurrando i testi storpiati di vecchie canzoni che ho dimenticato, ripetendo all'infinito favole di notti stellate e tramonti d'oro, piazze folli di luci, bianche fontane, altissime, solide mura e, fuori, giganti mostruosi alti come palazzi e soldati valorosi pronti a combatterli.

Non ero sicuro che il mondo delle fiabe esistesse, ma sapevo per certo che non era il mio posto, che la cancellata sorvegliata a vista dai gendarmi, dietro la quale iniziavano le ripide rampe verso la superficie, per noi non si sarebbe mai aperta.

Eppure vivevamo e, di nascosto, ridevamo. Di nascosto, perché nei bassifondi le risate sono merce di lusso, che genera invidia e risentimento. Di nascosto, perché le emozioni colorano, forgiano, mettono in evidenza e invece era importante, lì dentro, che un moccioso senza padre e senza nome restasse invisibile.

Questa era la mia esistenza a quel tempo, nettamente divisa fra un dentro e un fuori che la porta di legno della nostra stanza marcava. Smettevo di esistere dal corridoio in poi e prendevo vita oltre l'uscio, mi accendevo nei pochi metri fra il letto sgangherato e la porta, fra il comodino zoppo e il focolare, fra l'orcio, i sacchi di provviste sempre vuoti e la finestra.

Lì, in quella stanza buia, nell'unico luogo al mondo in cui ero stato vivo, morii per la prima volta quando mia madre smise di respirare. Crepai a sei anni, di solitudine e di silenzio, con gli occhi asciutti, addossato alla parete, consapevole che il corpo freddo accanto a cui dormivo non avrebbe mai più avuto abbracci da offrirmi. Anche le briciole erano finite.

Ho impiegato molto tempo a capire che nello spazio di una vita umana si incontra più volte la propria morte. Chi pensa di sfuggirla, solo perché non coglie l'attimo in cui si ferma il cuore e lo spirito si spezza, è uno stupido o un illuso.

Ancora più tempo mi ci è voluto per afferrare a pieno la disturbante verità, che da queste morti nessuno rinasce da solo.

Fu lui a dirmelo, e ricordo il luogo e il momento con disturbante esattezza, il timbro della sua voce, lo scatto della maniglia, un baluginio di ottone, il cigolio metallico del predellino sollecitato dal suo peso. Il modo in cui si volta, sorride senza sorridere, ottiene senza chiedere, vede perfettamente i miei contorni anche se lui è in piena luce e io ancora al sicuro, avviluppato nel buio della carrozza, ad aspettare un ordine che non arriva.

«Vorresti venire con me?»

Purtroppo, non è un ordine. E' una proposta, ambigua e pericolosa come solo lui sa essere; una tagliola aguzza in bella vista, perché so già di volere, per natura, per istinto e per umana debolezza, tutto quello che lui vuole.

«E' una faccenda privata. Forse dovresti startene da solo...»

Scuote la testa, lascia vagare gli occhi, spandendo azzurro oltremondano.

«Nessuno si salva da solo, Levi. Da soli si muore soltanto.»

«Hai bisogno di qualcuno che ti salvi per fare quattro passi in un giardino?»

«Forse sì, visto il giardino. E tu? Non hai bisogno di salvare qualcuno?»

Te.  Sempre e solo te. «Alla prossima cazzata filosofica ti salvo a calci.»

«Significa che vieni?»

«Vengo. Muoviamoci.»

 

Non era una cazzata filosofica, ma la pura verità.  Quando morii a sei anni, e poi rinacqui, la ignoravo. 

Da stecchito che ero, mi ritrovai vivo all'improvviso, a prendere fiato e alzare gli occhi dal dosso appuntito delle mie rotule, tratto in salvo da uno sconosciuto con la faccia lunga e occhi senza pace, che mettevano paura.

Conosceva il nome di mia madre.

Portava un cappello sgualcito.

Le parlava, come se lei potesse udirlo.

«E' morta.» 

Dovetti spiegarglielo, perché pareva che lo capissi solo io che sotto le lenzuola c'era un cadavere già rigido. Sembrava che solo per me fosse, quel trapasso, una spaventosa evidenza, e per tutti gli altri solo un dettaglio, una stanza chiusa, un nome cancellato su un registro. Vivi o morti, eravamo irrilevanti, e forse era quella l'unica spaventosa evidenza.

«E tu? Sei vivo?»

Lo ero? Dovevo pensarci.

«Ohi, non parlare troppo, dammi tregua! Che c'è, sei sordo? Mi senti?»

Sentivo. Sentivo il suo pesante respirare, l'odore che si portava addosso, di sangue e di fumo, senza strascichi fioriti, la vibrazione dei suoi passi pesanti sull'impiantito e del sarcasmo nella sua voce. Sentivo paura, freddo, dolore, sete, fame, tutte insieme.

«Ce l'hai un nome?»

Delle due cose che avevo posseduto, era l'unica che mi restava.

«Levi.» Ackerman.

Il tuo cognome non dirlo mai, Levi. Mai. A nessuno, anche se ti fanno paura, soprattutto se ti fanno paura, tu non dirlo. Capito? E' un segreto. Il segreto speciale della mamma e di Levi. Va bene? Prometti?

«Solo Levi» aggiunsi: avevo promesso.

Eccomi lì, pronto a rinascere dalla mia morte con il tonfo della borsa scivolata via dalla sua mano, il fruscio del cappotto macchiato contro il muro, il fango incrostato sotto la suola delle sue scarpe enormi, la voce ruvida rivolta al carcame lì accanto. «Sai, Kuchel, hai ragione: non vale proprio un cazzo questo nome.»

 

«Ehi tu!»

«Sì?»

«E' Ackerman.»

Una breve mareggiata color ambra nel suo bicchiere, un sorriso di trionfo che il giocatore d'azzardo vorrebbe tenere nascosto, ma il bastardo manipolatore lascia trapelare.

«Cosa?»

Sta fingendo, perché ha capito. Sa. Forse già sapeva dal principio, forse sa tutto, sempre, e si diverte come un matto a prendermi per il culo, a giocare ad addomesticarmi come un fottuto randagio.

«Ackerman. Levi Ackerman.»

Il guaio è che ci sta riuscendo.

«Perché?»

«Hah?»

«Perché lo dici a me? Perché me lo dici adesso?»

«Hai riportato indietro il mio culo tutto intero. Il mio e molti altri. E, cazzo, non era scontato per niente.»

«Sono lusingato, ma è stato il Comandante Shades a guidare la spedizione.»

«Cazzate.»

«Cazzate?»

«Cazzate. Caz-za-te. Ne dici parecchie: meglio se impari la parola. Shades è uno stupido, tu non lo sei. Lo sai benissimo chi ha riportato indietro i nostri culi.»

«Lieto che tu la veda così.»

«Vedo quello che c'è da vedere.»

«Vuoi sederti?»

«Al prezioso tavolo della preziosa mensa ufficiali?»

«Ti sto invitando.»

«No, grazie» Il  raffinato fanculo me lo ricaccio in gola, chissà perché.

«Non mi sembravi il tipo che si fa intimidire dalle gerarchie.»

«Sono più il tipo che non si siede con i pantaloni bianchi su una panca lercia, se può evitarlo.»

«Sei schizzinoso.»

«Civile.»

«Qual è la differenza?»

«Che i tuoi calzoni , e quelli di mezzo esercito, dovrebbero finire su un rogo.»

Ridacchia, espirando dal naso. E io non lo guardo negli occhi, perché ho già imparato che è un grosso errore.

«Perché tieni la tazza in quel modo?»

«Sei invadente.»

«Curioso.»

«Qual è la differenza?»

«La pazienza che uno ha. L'importanza che dà alle cose. E alle persone.»

Lo guardo negli occhi e non è un grosso errore, è  enorme.

 

 

«Sono Kenny. Solo Kenny. Conoscevo Kuckel, un tempo.»

Anch'io conoscevo Kuchel. Ed era tutto quello che avevamo in comune: nomi di due sillabe, caratteri di merda e una donna morta.  

Scoprii che bastava per riempirmi la bocca di tutto il pane che riuscivo a infilarci dentro. Lo trangugiavo quasi senza masticare, ingoiando a fatica bocconi troppo grossi che mi facevano dolere il petto quando li mandavo giù. 

L'ingordigia di quel giorno fu la stessa il successivo e quello dopo ancora, per mesi e per anni. Che sapore avesse, il pane di Kenny, non lo saprò mai, ma lo strappavo dalle sue mani con avidità e me lo infilavo in gola più in fretta possibile. M'immaginavo che si espandesse nella mia pancia come una spugna, che diventasse subito massa, ossa e muscoli che non avevo, che mi allungasse e mi allargasse, mi riempisse e mi mangiasse il cuore fino a farlo smettere di tremare, fino a che non fossi diventato alto come Kenny, e ancora più affilato, più reticente, più forte, più pericoloso.

Ero vivo, dopotutto. Ostile, rancoroso, orfano, vorace. Non lo sapevo, ma avevo già iniziato a cercare di placare un'altra fame ostinata, silenziosa e viscerale; una fame diversa e sconosciuta, che avrei saziato solo molti anni dopo, morendo un'altra volta.

 

   
 
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