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Autore: _Lightning_    22/09/2023    2 recensioni
Napoli, 1933.
Il dottor Modo, come suo solito, non si cura di nascondere l'astio verso il regime e viene arrestato dai fascisti, in attesa di essere mandato al confino – o peggio.
Il commissario Ricciardi, recluso nella sua solitudine volontaria dacché vede i morti, si rende conto di non poter tollerare di perderlo – né tanto meno di vederlo unirsi alle schiere di spettri che già popolano il suo mondo.
~~~
Ricciardi sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso).
Sono spaventose, le persone, i sentimenti; quelle stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

[Angst // Hurt&Comfort // Ricciardi/Modo // Ricciardi&Livia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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          DEV'ESSERE questo, il sole.

È un pensiero in punta di piedi, il suo, indolente e piacevole come una carezza distratta.

Il sole è stare in silenzio, con le teste che si sfiorano, respirando la stessa aria. Sono le dita di Bruno posate sulle sue nocche in una stretta impalpabile, è la naturalezza con cui Ricciardi si è adagiato contro di lui, costato contro costato, in un rimbombo asincrono. Il sole è come conoscersi di nuovo per la prima volta, ed è anche come se non ci fosse mai stato alcun altro modo di stare insieme.

Non sa neanche da quanto tempo se ne stanno seduti lì sul divano, né chi dei due l’abbia deciso per primo, tirando con sé l’altro (ma lo sa, che è stato Bruno). È ovvio, è Bruno che sa sempre cosa fare e come e quando, è lui che ha il coraggio di mettersi e metterlo di fronte alle scelte scomode. È Bruno che vive e fa vivere davvero anche lui (altrimenti, perché mai si sarebbe innamorato del sole?). Ancora gli incute timore, pensarci in questi termini, lui che si è privato di ogni affetto per così tanto tempo da essersi scordato com’è averne uno (forse non ce l’ha nemmeno mai avuto, non così), tanto da non sapere che parole usare per descriverlo.

Ha sempre pensato che fossero complessi, i sentimenti, quelli che rimbalzano contro lo sterno ingabbiati; e lo sono, fanno rumore, si intrecciano tra loro in nodi gordiani, stringono e mollano in ritmi imprevedibili. Però, almeno in alcuni istanti, quel contorno evapora, diventa labile e trasparente. O forse si oscura soltanto, ed è come riuscire finalmente a guardare il sole oltre un vetro affumicato, senza rimanerne accecati.

E allora diventa semplice, come respirare e ridere. Per il tempo di una carezza, di un sorriso, di un bacio (quelle cose a cui non ha mai pensato, mai; erano superflue, erano ciò che non avrebbe mai potuto chiedere né avere, e che ora gli riempiono il petto fino a straripare).

Ci rimane incastrato, in quei momenti. In quel bacio rapido, vero, in piena luce, che ha premuto sulle labbra di Bruno, una frazione di secondo impalpabile (ed era una domanda, un tentativo, un’incertezza).
Non ha quasi fatto in tempo a ritrarsi, ancora in apnea, ancora con la vista sfocata di chi ha chiuso gli occhi troppo forte, che Bruno l’ha cercato di nuovo, più a lungo (ed era una risposta, un azzardo, una conferma).

Ricciardi si sente ancora le labbra sensibili, l’orma delle mani calde di Bruno che gli racchiudono il viso, la scia lieve di tabacco e cognac nelle narici quando l’ha baciato una terza volta, con l’impeto che gli si aggrappava alle costole e le scuoteva come sbarre. E poi la penombra, quando ha premuto il viso contro la sua spalla per non sa nemmeno quanto tempo, con le dita finalmente libere di affondare tra i suoi ricci e stringerli.

Vorrebbe farlo anche adesso. Vorrebbe fare mille cose, guardarlo come non ha mai potuto, compiere tutti gesti che si è rigirato in testa per mesi, baciarlo di nuovo fino a non avere più fiato. No, non le ha mai pensate, quelle cose, e sorprendersi a farlo ora gli invia una scossa di angoscia lungo le ossa. Come se, indulgendo troppo in quei desideri, rischiasse di rompere un equilibrio invisibile, di sconfinare in un mondo ignoto (è irreale stare così accanto a Bruno, è irreale tutto ciò che è accaduto nelle ultime ore).

Bruno, in quel momento, sospira; e lo avverte con tutto il corpo, dalla testa alla punta delle dita, dal fruscio che gli risuona nell’orecchio al refolo d’aria che gli sfiora i capelli. Poi si scosta un poco, voltando il capo per guardarlo in viso.

«Guarda che ora puoi baciarmi quando ti pare,» dice, e sono le prime parole che pronuncia, come sempre dritte al punto, un brillio malizioso nelle iridi scure. «Qui mica è vietato.»

Ricciardi si limita a uno sbuffo nervoso dal naso, la mano che scappa dalla sua e corre a riassestarsi i capelli (a coprire in parte il volto, gli occhi). E capisce che gli sguardi che gli ha rivolto di sottecchi non sono passati inosservati (mai, neanche tutti quelli che gli ha lanciato finora, forse per anni). Ma non lo bacia.

È un mondo irreale, quello in cui si trova sospeso, un mondo in cui due uomini che stanno insieme non è malattia e dove gli spettri non ci sono e stanno nel loro, di mondo. Si chiede come faccia a esistere quell’altro mondo in cui ha sempre vissuto, con l’amore che è malattia e gli spettri che lo fissano e finestre aperte su soli fasulli e calci e pugni che fanno a pezzi le idee.

Non gli sembra possibile vivere in entrambi e non uscirne pazzo.

Bruno, a quella reazione, sorride sotto i baffi con quel suo fare impertinente, di chi il coraggio di fare scelte e vivere con le conseguenze ce l’ha sempre avuto e, anzi, trova quasi divertente sfidare la sorte. Gli prende il mento tra le dita e gli volta la testa, premendo le labbra all’angolo delle sue (non è nemmeno un bacio, è l’anelito elettrico che lo precede, l’istante in cui si prende fiato prima di immergersi), e lo fa con una naturalezza che sembra dettata da anni di quotidianità.

Si ritrae quasi subito e torna a poggiarsi contro di lui come prima, lasciandolo lì con tutti quei mondi che gli collidono in testa, divenendo un unico cosmo. Quello in cui lui vede i morti e ama Bruno (se questo è davvero amare come l’ha capito finora), in cui l’amore può essere malattia e le idee vengono spezzate a suon di botte, e tutti quei pensieri assurdi e pericolosi vanno chiusi nella mente e nel cuore, lontano dagli occhi.

Ricciardi si riassesta contro la sua spalla, la fronte premuta sul suo collo, un
’alcova tiepida. E Bruno allunga un braccio a cingerlo, senza più muoversi né parlare, né chiedere o dare di più di quello. Come se sapesse con esattezza ciò che gli sta passando per la testa, la fatica che sta esercitando per fondere due mondi così distanti, antitetici. Come se stesse facendo pure lui quella stessa fatica, in fondo, anche se non lo dà a vedere. Ricciardi sa che è così. Lo evince dai suoi silenzi protratti, dal modo delicato, quasi cauto in cui si muove, in cui lo tocca, dai suoi occhi più intensi, concentrati.

La consapevolezza di quel tumulto condiviso gli instilla calma, in modo paradossale. È la prima volta, da mesi (forse da una vita) in cui prova un senso di calma così profondo. È il respiro pacato di Bruno, è la sua razionalità medica e analitica che va sempre a complementare la sua logica ferrea e istinto investigativo.

Non è molto diverso da ciò che fanno di solito, se sceglie di vedere tutto in quella prospettiva rassicurante: non è altro che avanzare a tentoni sulle piste oscure di un nuovo caso, aiutandosi a vicenda mentre si cerca di non imboccare vicoli ciechi, riuscendo pure a ridere, a esorcizzare i terrori di quel mondo che vorrebbe schiacciare tutto e tutti (a far brillare il sole, in qualche modo, anche quando non c’è).

«Bruno?» lo chiama, a voce così bassa che a malapena si sente lui stesso.

Lo sente muoversi, in ascolto, e Ricciardi svicola dalla sua stretta per girarsi del tutto verso di lui (anche se era bello anche solo stare così, in silenzio, col peso del suo braccio sulle spalle). Allunga una mano sulla schienale, arrestandola vicino a Bruno, e potrebbe sfiorargli la guancia allungando appena le dita. Non lo fa, anche se il guizzo dei suoi occhi lo tradisce.
 
«Che cosa brutta devi chiedermi?» sogghigna Bruno, dopo averlo squadrato per qualche istante in volto.

Ricciardi si scherma dietro un sorriso sottile, perché riesce sempre a interpretare tutto ciò che fa con la stessa, professionale semplicità con cui stila un’autopsia approfondita.

«Eri serio, quando dicevi che è sotto gli occhi di tutti?»

Bruno non sembra affatto sorpreso dalla domanda. Che, in realtà, è solo un preludio a tutto il resto, al mondo che li attende fuori dalla porta.

«Sì e no,» risponde infine, con uno scatto delle sopracciglia verso l’alto. «La verità è che volevo indispettirti e farti reagire. Potrei aver gonfiato un po’ la cosa,» confessa, con un mezzo sorrisetto che gli guadagna un’occhiataccia. «Però è pure vero che qualche commento ambiguo m’è capitato di sentirlo.»

«Per esempio?» assottiglia gli occhi Ricciardi, con una lieve tensione che gli stringe i polsi.

«Tu non t’accorgi mai di niente, Riccia’, sei incredibile,» sbotta Bruno, alzando i palmi al cielo, stavolta nemmeno troppo scherzoso.

«Perché non mi è mai importato di quel che ha da dire la gente su di me.»

«Mo’ è diverso, però.»

Tra loro corre un battito di silenzio, rumoroso come il sibilo di un missile prima dell’impatto.

«Sì, è diverso,» concorda, piano, gli occhi che scattano dagli occhi, alle labbra, alle mani di Bruno in uno zigzagare indeciso. «Per questo vorrei sapere di cosa preoccuparmi.»

Bruno sospira a fondo, girandosi di fianco con una smorfia un po’ contratta, il gomito puntellato sullo schienale a sorreggere il capo. Ricciardi sposta appena la mano, posandola sul suo braccio, e lui stende le gambe fino a toccare le sue (come se entrambi, in quel momento, avessero bisogno di mantenere un contatto, fosse anche minimo).

«Per esempio, mi chiedi... ecco, “il tuo amico dottore”, per esempio,» recita infine Bruno, scandendo bene quell’espressione. «E non era manco successo niente, quando l’ho sentito; pensa cosa potrebbe saltar fuori adesso.»

Ricciardi alza appena gli occhi al cielo.

«Non pensavo di pubblicizzare la cosa, onestamente,» ribatte lui, senza trattenere un verso stizzito.

«E grazie, commissa’, ma ti ricordo che non sei un grande attore... al massimo una carriera di rivista, ma come soubrette non ti ci vedo,» sghignazza poi, rimediandosi una pacca ammonitrice sul gomito (e un sorriso mal soppresso, che gli storce le labbra per un istante).

Incassa comunque la frecciata in silenzio, sapendo che è fin troppo vero. Gli smuove però un ricordo, quella frase che ha pronunciato Bruno. Forse gliel’ha detta Garzo, forse Ponte, forse qualcun altro. Forse anche più di una persona, più volte (il tuo amico, pronunciato a denti stretti, con sguardo di riprovazione). Non ci ha mai nemmeno prestato attenzione, oppure l’ha attribuito al fatto che Bruno sia considerato un facinoroso, più che ad altri facili sottintesi ai quali, all’epoca, era cieco.

Bruno sospira di nuovo, improvvisamente grave, e lo fissa di sbieco, un ricciolo che gli scivola di fronte agli occhi a minare la gravità del suo sguardo.

«Riccia’, lo sappiamo tutti e due che non c’è una soluzione semplice, facile e pulita. O no?»

Lui scuote appena la testa in risposta, abbassando gli occhi, privo di una replica sensata. Pensa a Pivani e al suo amante, a quanto è facile essere colti in flagrante in modo sciocco (perché il sole acceca tutti, e si perde di vista tutto il resto). Al fatto che, se di fronte a quell’uscio spalancato fosse passato chiunque altri, adesso Pivani sarebbe rinchiuso in un manicomio, nel migliori dei casi, o sarebbe finito davanti alla corte marziale nel peggiore (o forse il contrario; forse, peggio di morire fucilati, c’è morire in una stanza bianca legati a un lettino).

Da quell’immagine si irradia un freddo intenso, polare (quanti spettri potrebbero esserci, in una stanza simile?) e l’istinto di avvicinarsi a Bruno è incontrollabile, lo arpiona sotto le costole e lo sospinge verso di lui in una trazione invisibile (solo pochi centimetri, il poco che serve per avvertirne il calore).

«A me basta questo,» dice poi, stringendogli appena il braccio. «I nostri venerdì sera, le indagini insieme, le colazioni al Gambrinus...» ammutolisce, con le parole che fuggono via dalla sua voce come sempre, finché non le forza a uscire: «Mi è sempre bastato.»

C’è un guizzo di luce più intenso, negli occhi di Bruno, una piega più mite nel suo sorriso altrimenti sardonico, ma ciò che dice è aspro, privo di alcuna dolcezza:

«È bastato anche agli altri per farsi l’idea sbagliata.» Tace per un istante, con un piccolo scatto della testa. «O giusta, in questo caso.»

«E che suggerisci, scusa? Di ignorarci?» chiede, incredulo. «Poi come lo spiego a Garzo o a Maione che non ci sei più tu a farmi da consulente?»

Bruno agita una mano, a scacciare quella proposta come fosse un insetto molesto.

«Per carità, sarebbe un invito a nozze per Garzo, quello non vede l’ora di ficcare il naso dove non dovrebbe.» Si acciglia, come se gli fosse venuto in mente qualcosa. «E tu lo sai bene,» aggiunge, studiatamente.

«Pure troppo,» concorda Ricciardi, accigliandosi a sua volta, in leggero allarme, perché sa esattamente dove sta per andare a parare; e infatti Bruno non si smentisce:

«Ammettiamolo, ti stava facendo un favore, con tutta la faccenda di Livia,» riprende, con più grinta di prima, come sempre quando ritiene di aver avuto un’ottima idea.

«Bruno...»

«Tu ti devi accasare, Riccia’, non importa con chi,» sentenzia Bruno, tagliando l’aria col palmo in un gesto perentorio. «Se un buon partito, non avresti problemi.»

«E tu no?» lo rimbecca Ricciardi, cambiando posizione e accavallando le gambe con nervosismo (non può negare che il suo ragionamento abbia senso, ma neanche che gli causi un senso di nausea).

«Non c’è più bisogno di lusingarmi,» sorride malizioso lui, dandogli un colpetto sul tallone col piede. «Comunque, stiamo parlando di te. Nobile, trentenne, celibe, nessuna frequentazione... lo vedi il problema, sì?»

Ricciardi si sfrega una mano sulla fronte di riflesso, anche se per una volta l’emicrania lo sta graziando.

«Sai benissimo che non voglio figli,» dice infine, con voce forzata, perché quel tema per lui è una terra di nessuno in mezzo a due trincee, dove sente sibilare i proiettili vaganti. «Non è un buon biglietto da visita per sposarsi.»

Evita lo sguardo pungente di Bruno. Li vorrebbe anche, dei figli; solo non con la sua stessa maledizione (è forse anche per questo, che quegli inviti a pranzo da Lucia, a casa Maione, con più bambini chiassosi che adulti, non li accetta mai). Sul volto di Bruno aleggia la solita ombra di sospetto che emerge ogni volta che toccano l’argomento (lo sa, lui, che non è quella la verità, ma sa anche quando non insistere).

«Secondo me, vado a intuito, neanche Livia li vuole,» butta lì invece, con leggerezza provocatoria.

«Bru’, per favore,» sbotta Ricciardi, con una vibrazione irata che va a scuotergli la voce. «Livia è fuori questione. Non stavo scherzando, prima; è finita.»

E non gli dice che lei sa tutto, perché quello è un fatto tra lui e Livia, e Bruno non c’entra e non dovrebbe mai farlo. Lui sembra accettarlo, almeno per il momento, perché non indaga oltre:

«D’accordo, vedova Vezzi fuori dai giochi. Però non stupirti quando verrà a bussarti a casa qualche funzionario a chiederti se hai intenzione di figliare per la patria o continuare a mangiare a sbafo sulle sue italiche spalle. Devi farti furbo.»

«Come te?» lo rimbecca Ricciardi, lieto che il fulcro dell’argomento si sia mosso, seppur di poco. «È per questo che vai al bordello?» gli scappa, prima di poterci pensare.

«No,» risponde secco Bruno, senza perdere un battito, impassibile, ma senza traccia di giocosità. «Vado al bordello perché stare da soli fa schifo e là dentro ci sono donne d’oro che mi sposerei pure volentieri; di certo più di quelle che stanno fuori.»

Ricciardi non sa come replicare, a quella confessione, che gli suona tutto meno che sensata.

«Non ti seguo,» ammette frustrato, a corto di risposte coerenti.

«Non devi seguirmi, Riccia’, sappi solo che non smetterò di andarci,» dice lui, d’un tratto sulla difensiva, come se avesse toccato uno dei pochi nervi sensibili che ha.
«Sarebbe da stupidi chiedertelo,» considera Ricciardi, passandosi una mano tra i capelli e decidendo di lasciar correre, per ora (la gelosia non ha mai fatto parte di lui e non è certo questo il momento di accoglierla). «Almeno tu una copertura di facciata ce l’hai.»

«Infatti,» sottolinea Bruno, calcando la parola con quella che suona come rabbia.

Poi libera un sospiro lento, il palmo che va a sfregarsi la barba in quel gesto impacciato di quando sa di aver detto qualcosa di troppo, o nel modo sbagliato.

«Questo,» riprende poi, e si sporge verso di lui, stringendogli con fermezza le braccia in un moto improvviso, «ce l’ho solo con te, punto. Ti va bene?» chiede infine, con veemenza, e forse non col tono che avrebbe voluto usare (c’è confusione, nel suo sguardo e, in fondo, un sentore di quella paura sopita che sembra seguirlo come un’ombra).

Ricciardi sorride ironico, ma con una punta di dolcezza che gli distende il viso (perché quella è la cosa più simile a una dichiarazione che può aspettarsi da Bruno, e va bene così).

«Mi deve andar bene per forza, non credi?»

Bruno scuote la testa, ora con amarezza manifesta, rassegnata. Perché il mondo, per quanto buio, sebbene un po’ più luminoso di prima, è comunque là fuori, e non potrà rimanerci per sempre.

«E pure tutto il resto.»

L’abbraccio spontaneo in cui Ricciardi lo avvolge subito dopo è tiepido e saldo, e Bruno ricambia con prontezza irruenta, aggrappandosi a lui come non ha mai fatto prima e inspirando a fondo, così a fondo che Ricciardi si chiede se gli stia girando la testa (come sta girando a lui, al pensiero di tutto quello che si sta delineando all’orizzonte). Lo sanno entrambi, che questa parentesi di intimità, di pace, di calore, è transitoria, destinata a sfumare non appena apriranno la porta per salutarsi (adesso, o tra un’ora, o domattina, ma comunque troppo presto).

Così lo stringe a sé, imprimendo nella memoria la sensazione delle sue ossa spigolose contro la pelle; il pizzicore della sua barba contro la mandibola; la nota più nascosta del suo vero profumo, oltre tabacco e colonia e creolina, quello della sua pelle e dei suoi capelli. Intuisce che lui sta facendo lo stesso, dal modo in cui respira piano, a fondo, lentamente, col viso premuto contro il suo collo. Fa scorrere un palmo lungo la sua schiena, dalla nuca, dove sfiora la cicatrice nascosta tra i capelli che solo lui sa trovare, fino alla base, seguendo l’andamento sobbalzante della spina dorsale, delle costole, il triangolo delle scapole; in punta di dita, con precisione anatomica, eppure calda, come raggi che filtrano dalla finestra e sfiorano timidamente la pelle.

D’un tratto, dopo non sa quanti minuti, Bruno bofonchia qualcosa di incomprensibile, ovattato dalla stoffa della sua camicia. Ricciardi lo scosta appena da sé e incontra i suoi occhi un po’ velati, a corredo di un sorriso ora sornione.

«Riccia’, io c’ho un sonno che mi si porta via,» annuncia, come se le sue palpebre a mezz’asta non fossero abbastanza eloquenti.

«E dormi, allora,» dice lui, inarcando un sopracciglio con ovvietà.

Bruno lo fissa per un istante, forse frastornato dalla banalità della sua risposta, forse rendendosi conto in ritardo, con un
’ingenuità insospettabile per luim, che non devono necessariamente separarsi per mettersi entrambi a dormire. Poi scoppia a ridere, una di quelle risate leggere, di gola, che regala di rado.

C’è pure una nota di mestizia, in quella risata, che Ricciardi comprende fin troppo bene. Come se dormire fosse uno spreco, quando il mondo là fuori li aspetta in agguato (e la notte e il buio, per una volta, sembrano compagni e complici).

Ricciardi posa una mano sulla guancia di Bruno, premendo la fronte contro la sua, gli occhi che affondano nei suoi per un istante, poi subito di nuovo bassi. Lui non si muove, se non per la pressione ormai familiare del suo palmo contro la nuca. Lo sente sorridere, un refolo tiepido, allegro, contro le sue labbra.

«Vabbè, al resto ci pensiamo domattina,» mormora Bruno.

Ricciardi annuisce contro di lui, col cuore che spicca finalmente il volo oltre le costole, libero di battere le ali.

«Ci pensiamo domattina.»

Per stanotte il sole, almeno quello là fuori, può pure aspettare.



 

“La poesia più bella del mondo
È un segreto tenuto nascosto
Freddie scende, lo bacia e gli dice
È fra le tue braccia che ho trovato il mio posto

 
Fuori in strada, che buio che c'è”
 

Note dell'Autrice:
Cari Lettori, eccoci alla fine di questa storia ♥
È stata una piccola (per i miei standard) follia estiva che è nata così, senza un perché. Anzi, semplicemente perché mi sono imbattuta in dei personaggi nuovi che, dopo tanto tempo, mi hanno messo addosso la voglia di scrivere di loro, nel modo più inaspettato. Alla fine, chi se lo aspettava di trovare ispirazione in una fiction Rai? Io no di certo, ma eccoci qua, 24.000 e rotte parole dopo.
E non ho finito di scrivere di loro, come accennavo. Avevo una mezza ideuzza di partenza per un caso, e volevo mantenere la base di questo what if. Con tutto ciò che ne consegue per lo sviluppo dei personaggi, ovviamente... quindi, questa relazione un tantino problematica nell’Italia fascista, Livia in atteggiamenti freddi ma meno agguerrita, Bruno che non s’è fatto la vacanza durante l’arresto ma ce le ha prese pesantemente e Ricciardi che qualche gioia se la concede, ma è in una situazione scomoda con Enrica e pure con Bruno in ambito lavorativo. Insomma, un bel casino.
Sarà tutto un po’ più complesso, storicamente accurato e meno all’acqua di rose... diciamocelo, questa storia era un regalo da me stessa per me dopo essere stata in blocco per nove mesi e ho seguito molto l’onda melensa perché mi era congeniale, e perché quando approccio personaggi nuovi parto con delle introspettive... ma qui ci vuole un ritorno alle origini e al pragmatismo plot-oriented!
Dopo 'sto papiro, ringrazio Miryel per essere stata la prima e più tenace sostenitrice di questa pazzia, al punto di arrivare alle minacce per convincermi a pubblicarla. Senza di te, 'sta storia stava ancora nel cassetto, io avevo ancora le pare e la premiata ship "Commissore"... "Brunardi"... "Ricciodo" CODESTA SHIP, INSOMMA (no, dai, trovatemelo voi un nome decente!) non sarebbe salpata. È tutta colpa tua, insomma :D
E un grazie enorme va anche a Duchessa712 per le recensioni assolutamente inaspettate, ma graditissime, che hanno scandito ogni capitolo. Grazie di cuore, sei stata uno sprone non indifferente per continuare a scrivere e ad aggiornare ♥ Ovviamente, grazie anche a voi, lettori silenziosi. Se i numeri non mentono, non siete nemmeno così pochi, e non può che rendermi felice ♥
E detto questo, sparisco e ci vediamo su questi schermi tra pochissimo, spero!

-Light-





 
 
   
 
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