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Autore: A_Typing_Heart    07/10/2023    1 recensioni
- La Spada di Dio parte 3 - «Servire la Spada di Dio è il compito più alto che un Caduto possa vedersi affidato nella sua vita, e tu hai già snaturato il tuo ruolo sfruttando la Spada per una tua vendetta. Ora intendi lasciare che commetta un peccato mortale a causa di quello che hai scelto di non fare?»
Genere: Drammatico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Crowley Eusford, Ferid Bathory, Guren Ichinose, Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'La spada di Dio'
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Mika aveva le mani sporche di sangue. Aveva sangue sugli avambracci, l’aveva sui vestiti, e sotto le unghie. Guardandosi nello specchio vide che ne aveva anche sul viso.

Emise un singhiozzo strozzato e rovesciò il bicchiere degli spazzolini per la foga di prendere il sapone. Iniziò a strofinarselo addosso con furia, come se il sangue fosse un acido che gli mangiava le carni.

Non seppe quanto tempo ci mise per togliersi tutte quelle macchie dal corpo, ma era incastrato tra l’armadietto e il wc, con il fiatone come dopo una maratona estiva, quando Gunter aprì la porta del bagno.

«Stai bene, Misha?»

«Non sto bene.»

«Sentimi: la callottola è passata attraverso, va bene? Non arrivava qui vivo se gli bucava qualcosa di importante. Tu froda di me, sì?»

«Froda… se mi fido di te? Neanche so chi sei» replicò Mika, passandosi l’asciugamano in faccia. «Mi ha detto lui di portarlo da te…»

Gunter non si offese, anzi: gli sembrò più cortese e comprensivo che mai.

«Tu mi hai visto. Eri là con me, assistente, no? Non sembro un bravo doktor

Mika strinse gli occhi. Starsene lì a tenere fermo Yuu quando il dolore lo faceva muovere mentre Gunter apriva e ricuciva era stato orribile, ma aveva notato la mano ferma e l’agilità con cui eseguiva le operazioni necessarie.

«Vieni. Tu devi mangiare. Devi tenere te in forze.»

Gunter lo portò in cucina e lo fece sedere al tavolo. Gli diede da bere e gli preparò un panino grigliato, mentre Mika non faceva che fissare la porta della camera da letto.

«Lui… lui sta bene, adesso?»

«Ti assicuro, lui vive, se non si fa sporare prima di mattina» fece lui, e ridacchiò. «Mangia ora.»

L’ultima cosa che aveva voglia di fare era mangiare. Guardò il panino e scosse la testa.

«Non ce la faccio.»

«Tu devi. Il tuo corpo ha preso forte shock, capisci? Ed è stanco. Tu devi mangiare e poi riposare» insistette Gunter, delicato e gentile nel tono e nei modi. «Da’ me braccio, controllo il foro.»

Mika gli lasciò prendere il braccio e controllargli il foro dell’ago. Gli tolse il cotone per mettergli un cerotto bianco, di quelli usati in ospedale.

«Sei sicuro vero che tu e lui siete di stesso gruppo?»

«Non siamo dello stesso gruppo… ma io… posso donarglielo. Lui non può darlo a me, ma io posso, a lui» mormorò Mika, quasi confidasse un segreto. «Ma gli basterà? Dovevo dargliene di più…»

«Stephan ha sangue che gli serve» insistette lui battendogli sulla spalla. «E ha buon amico. Ha tutto quello che serve per guarire. Ora tu mangia: se devi dare ancora tu devi avere sangue anche per te. Devi riclerare

Mika guardò il panino e l’aprì, scoprendo che c’era dentro un po’ di tutto: dai peperoni al formaggio, della carne rossa e del pollo, un uovo sodo tagliato a metà e dei funghi. Ma non se la sentiva, aveva troppo peso sul cuore per sperare di inghiottire qualcosa.

«Dove hai imparato a fare quelle cose?»

«Io dico mia storia solo se tu mangia.»

Sospirò e studiò il panino come se fosse uno strano animale morto a lezione di scienze, ma alla fine riuscì a fare uno sforzo e prenderne un piccolo morso. Gunter fu soddisfatto.

«Bene! Successo è che: io, Gunter Blum, sono stato studente di medicina. Ah, anni prima, anni prima. Ma posso ancora opirare cose piccole, e Stephan lo sa. Ti piace Gunter special?»

Una volta dato il primo morso Mika aveva ricominciato a sentire la fame e la stanchezza: non aveva mai mangiato con tanto appetito dai tempi dell’orfanotrofio. Si limitò ad annuire mentre masticava un insieme di sapori troppo confusi per distinguerli.

«Bene, bene! Ora, Doktor Gunter ti distruisce su cosa fare per Stephan. Mi ascolti?»

Mika annuì di nuovo.

«Ora io vado a casa. Tu stai con Stephan fino a mattina. Se il respiro cala, se è freddo, se è bianco, se ha brividi tu chiami me subito, e io porto altro sangue che è giusto per lui. Se domani mattina Stephan è okay, tu cucina per lui bella bistecca cotta poco, patate che fa nutrienti, e dai un bel bicchiere di vino rosso. Poi voi due chiamate me e io passo e controllo. Chiaro?»

«Sì… io… grazie, Gunter…»

Gunter gli fece un sorriso che aveva un che di paterno e si alzò dal tavolo.

«Voglio chiedere io una cosa, Misha.»

Mika lo guardò mentre raccoglieva la sua valigetta.

«Tu e Stephan… da quanto vi conoscete? Perché so che tu non sei amico di suo amico, e tu non sei in funga da America.»

Mika esitò torcendo il tovagliolo, ma il suo tentennamento era già una parziale ammissione.

«Da… sempre, possiamo dire. Avevo nove anni quando l’ho incontrato… e… per un periodo… siamo stati inseparabili. Non siamo stati lontani un solo giorno per tanto tempo…»

Sentì salirgli le lacrime e avrebbe voluto avere ancora l’asciugamano per nasconderle.

«Io… Gunter, il ragazzo in quella stanza è… la persona più importante della mia vita. Ti sono grato per averla salvata.»

L’uomo gli strinse la spalla.

«Ora tu va’ di là, con tua persona importante… e se siete così gemellati, smettete di farvi dispetti. Io ho visto il vostro gioco. Un gioco molto scocco

Gunter scrisse di nuovo il suo numero e quello di casa sua sul blocchetto attaccato al frigorifero e se ne andò. Mika finì di mangiare il panino guardando la sua auto allontanarsi in strada, mentre era profondamente immerso in pensieri.

Era sempre stato consapevole che Yuu fosse la persona più importante? Lo sapeva anche quando era a Bluefields? Anche quando l’aveva lasciato per rincorrere sogni diversi, e un altro uomo? Gli era sembrato di non pensare quasi mai a lui mentre viveva la movida di Miami o se la spassava con Dyonté a Los Angeles. Anche in Kentucky, alla fattoria, gli sembrava che il pensiero di Yuu si limitasse a riaffiorare solo di tanto in tanto, quando trovava sulla sua strada qualcosa che non poteva non ricordarglielo.

Andò nella camera da letto dove Yuu riposava. Lo guardò a lungo dalla porta, ipnotizzato dal suo ventre che si alzava e si abbassava col respiro.

La persona più importante…

Eppure era certo che se costretto a rispondere a quella domanda, sicuro che la sua risposta non sarebbe stata sentita da nessuno tranne Dio, avrebbe detto che Yuu era quella persona. Una persona unica, che gli aveva impedito di sprofondare nel dolore quando era un bambino, che gli aveva mostrato che al mondo c’erano cose belle e persone buone, e anche viceversa. La prima volta che erano scappati dall’orfanotrofio erano andati alla caffetteria di un’anziana signora di colore, dal pesante accento francese, che gli aveva dato il tè e una fetta di clafoutis alle ciliegie. “Ci sono anche cose buone e persone belle, come te”, gli aveva detto allora Yuu con la bocca piena.

Si sedette sul bordo del letto. La ferita era coperta da una medicazione ben incerottata, ma lui stava guardando il tatuaggio di cui non sapeva niente finché Gunter non gli aveva tagliato via la maglietta per operare: una rondine in volo, proprio accanto al cuore. Voleva chiedergli quando e perché avesse fatto quel tatuaggio, e svariate altre cose del tutto casuali, ma avrebbe dovuto aspettare il suo risveglio.

Si sdraiò accanto a Yuu, dal lato del suo fianco sano, e appoggiò la testa sul suo torace. Voleva essere vicino abbastanza da sentire sempre il suo respiro e contare il suo battito rallentato dal sonno, al costo di restare sveglio tutta la notte per monitorarlo.

 

***

 

Quando aprì gli occhi si accorse dalla luce del mattino che si era addormentato per diverse ore. Il petto di Yuu era sotto la sua testa, ma non mandava alcun suono, non si muoveva… ed era freddo. Terrorizzato si alzò di scatto, chiamando il suo nome. Yuu era pallido e non rispondeva a nulla, neanche agli scossoni che gli dava.

Aprì di nuovo gli occhi, con il fiato corto e il terrore che gli strisciava addosso. Era addormentato sul fianco con la fronte appoggiata contro la cassetta del pronto soccorso sul bordo del comodino, e guardarla gli riportò in mente il sogno che aveva fatto.

«Yuu!»

Si girò sull’altro lato e trovò Yuu dov’era sdraiato da quella notte, con la mano appoggiata su un addome che si sollevava e si abbassava a ritmo lento. Mika emise un sospiro tremulo rendendosi conto che respirava come un bambino in un sonno sereno.

«Oh, Dio, grazie» mormorò in un sospiro.

Si appoggiò contro il suo petto ascoltando il suo battito regolare come fosse la più sublime musica al mondo e, ripensando all’orribile incubo che aveva avuto, delle lacrime sgorgarono dagli occhi.

Nonostante non avesse fatto un solo singhiozzo Yuu si svegliò con un mugugno e la sua mano andò al suo viso, quasi avesse visto le lacrime anche al buio. Le sue dita si bagnarono.

«Perché stai piangendo, Mika?»

«N-non è niente» rispose Mika, con la voce arrochita quanto la sua. «Ho… fatto un brutto sogno. Sono felice che sei vivo.»

Nel modo in cui strinse la sua spalla Mika riuscì a sentire la tenerezza e il genuino affetto di Yuu quando era ragazzo. Era la prima volta da quando si erano rivisti che aveva l’impressione di essere in presenza della stessa persona a cui aveva dato il primo bacio.

«Sono felice anch’io… adesso.»

Yuu si girò con circospezione sul fianco e gli baciò il viso, stringendolo in un abbraccio che era tutto l’opposto dei modi violenti con cui aveva cercato di prenderlo solo tre sere prima. Era tornato tra le braccia che lo avevano confortato da quando era un bambino, dopo tanti anni.

«Mika… ah, Mika…»

Yuu lo baciò sulla fronte e lasciò uscire un sospiro.

«Se solo potessi sentire quanto ti amo ancora…»

Avrebbe voluto stringerlo, ma non osava farlo. Per paura di toccargli le ferite, ma anche di quello che sarebbe potuto accadere.

«Io lo sento.»

«Ho lasciato che la gelosia me lo facesse dimenticare… ma io ti amo, Mika. Io morirei per te…»

«Stupido, io non voglio che tu muoia.»

Dalla finestra filtrava più luce, abbastanza da poter distinguere che Yuu sorrideva con occhi tristi.

«Non sono più quello che conoscevi… anche se me ne andassi non sarebbe che perdere una fotografia sfocata di quello che ero…»

Mika si sentì libero dalle catene psicologiche che gli impedivano di muoversi. Passò il braccio dietro il collo di Yuu, dove non rischiava di toccare delle ferite, e lo strinse finché non sentì il viso contro il suo.

«Resti il mio Yuu-chan… Sotto il dolore, sotto la durezza che ti ha dato l’addestramento e una copertura troppo lunga… sei ancora il mio Yuu. Io lo sento.»

Yuu non rispose a voce, ma stringendolo in un abbraccio saldo e dolce gli comunicò a pelle quanto conforto gli desse ricevere quel giudizio, quella sorta di marchio di approvazione e quanto bisogno aveva di sentire parole buone sull’uomo che era.

Mika non provò nemmeno l’ombra della repulsione di quando aveva cercato di prenderlo a forza e si lasciò stringere, con lo stesso senso di dolce abbandono. Non riuscì neanche a rimproverarlo quando si puntellò con le braccia e passò il ginocchio sopra di lui, con la goffaggine di un uomo con una ferita abbastanza seria da irrigidirgli i movimenti.

Mika alzò le mani e sfiorò i suoi fianchi con la punta delle dita, sentendo la medicazione con la mano destra. Provò una fitta di angoscia quando si scambiarono un bacio, ma fu così innocente, come quello che si diedero da ragazzini in un angolo del campo da basket, che quel fiacco senso di colpa svanì come mai esistito.

Restarono lì sul letto, stretti in un incastro che portava con sé la memoria degli amanti che erano stati ma nessuna traccia di quel desiderio. Mika non si era mai reso davvero conto di quanto forte fosse l’amore che li legava, di quanto fosse indipendente da dettagli come il frequentarsi, il vivere insieme, le relazioni intime e persino il parlarsi.

La luce del mattino rischiarava tutta la stanza e il cielo fuori iniziava a diventare rosa quando Yuu si mosse, alzando la testa.

«Devo fare pipì.»

Mika, ricordando una volta in cui gli disse la stessa cosa con lo stesso tono mentre cercava di accendergli il desiderio, scoppiò in una risata spontanea e tolse le mani dalla sua schiena.

«Oh, sì… sei proprio il mio Yuu-chan.»

Con Yuu carponi su di lui guardò quel verde stupefacente del suo sguardo, che era stato magnetico fin dal loro primo incontro. Ricatturati da quel campo si fissarono, senza parlare e senza imbarazzo per un lungo lasso di tempo, prima che Yuu si abbassasse a baciarlo di nuovo sulle labbra. Come prima, fu un bacio senza alcuna spinta di malizia.

«Mika… siamo ancora un’ottima combinazione. Tu sei ancora, dentro, l’agente che si è addestrato pensando di puntare al Bureau… Possiamo farcela, noi due.»

La sua bocca si storse in una smorfia che non riuscì a mascherare quando il fianco gli diede una fitta mentre si raddrizzava.

«Andiamo a prendere Crowley e torniamo a casa.»

Mika si mise seduto e annuì.

«Come facciamo a farlo?»

Yuu emise una specie di grugnito mentre si issava in piedi tenendosi il fianco.

«Dopo che piscio te lo dico» borbottò lui, teso in una posa innaturale. «Butta sul fuoco qualcosa da mangiare, sto morendo di fame.»

Lo Yuu che si faceva chiamare Stephan era diventato rude nel parlare e nell’agire, e non si era ancora abituato a sentire quel suo accento tedesco, ma dopo il terrore di vederlo morire ogni suo dettaglio fisico e di atteggiamento era una gioia in cui crogiolarsi. Divertito Mika saltò fuori dal letto e gli si accostò.

«Okay~»

Gli soffiò nell’orecchio e schizzò via, prima che il suo ringhio infastidito diventasse un tentativo di assestargli una sberla: nonostante i sette anni e un addestramento speciale il soffio lo faceva ancora impazzire come un gatto permaloso.

«Tier!»

Mika non aveva idea di cosa significasse, ma di certo non suonava come una parola tenera.

 

***

 

Le prescrizioni di Gunter furono rispettate alla lettera: Mika preparò per Yuu bistecca al sangue, patate sabbiate con carote e toast con confettura di fragola, e gli diede anche il vino rosso nonostante fosse mattina presto. Il mezzo medico venne verso le nove a controllare le ferite, lasciò degli antidolorifici per Yuu e gli ordinò di non andare al lavoro, né da altre parti, per almeno tre giorni. Con un certo sorriso complice, disse al suo “angelo custode” di restare anche lui a casa per vegliare.

In televisione i telegiornali parlavano dell’accaduto in città, anche se ciò che gli traduceva Yuu non sembrava la stessa storia che avevano visto loro da protagonisti: non si faceva menzione di un furto o un’effrazione in una villetta di quella strada, né di vittime e si attribuiva la causa del trambusto a una gang di stranieri legata al controllo dello spaccio.

«Sapevo che i Figli di Prometeo erano potenti» commentò Yuu serioso. «Però stavolta han fatto le cose in grande. Hanno fatto sparire i corpi e chiuso la bocca a poliziotti e testimoni. Nessuno saprà che Kotka ha esposto la lista… Tch, non mi sorprenderei se il vecchio l’avesse sparata grossa dicendo che non teneva il registro nella cassaforte del soggiorno.»

Sdraiato su un paio di cuscini dal lato della testiera e con gli occhi fissi sullo schermo con molte scritte in sovrimpressione, allungò la mano alla cieca per massaggiare il piede di Mika, che era seduto sul letto nell’altro verso.

«E pensi ci crederanno?»

«Dipende quanto è stimato dentro l’organizzazione. Io non affiderei a uno come Kotka neanche una busta con scritto il mio gusto di gelato preferito.»

«Menta con le scagliette di cioccolato?»

«Ecco perché l’ho confidato a te e non a lui» fece lui, come se mettesse il punto a un ragionamento inattaccabile. «Come procede, lì?»

Mika sospirò e passò la penna nella mano sinistra per riposare l’altro polso.

«Ormai ho imparato a memoria il Playfair che ha usato e i nomi si ripetono, quindi procedo abbastanza velocemente. I dettagli sono in tedesco, dovrai tradurli tu quando finisco…»

«Ah, mein schlaues Kätzchen Misha

«Che accidenti hai appena detto?»

Yuu rise di gusto. Non sapeva se era per merito degli antidolorifici ma era senza dubbio vivace per uno che aveva rischiato di morire dissanguato meno di dodici ore prima.

«Che sei il mio gattino intelligente… Non so perché, ma Katze continua a chiamarti “gattino”. Forse perché sei flessuoso.»

«Forse perché pensa che sono tenero e innocuo.»

«Forse perché fai le fusa se qualcuno ti accarezza il punto giusto» buttò lì allusivo.

«O forse perché mi piace il pesce.»

«Ah, questa volta te lo sei detto da solo.»

Indignato, Mika gli lanciò il quadernino in cui stava riscrivendo il registro decodificato, mancandolo volutamente di una spanna.

«Non in quel senso, che cavolo!»

Rideva tanto che anche con la dose di analgesici sentì una fitta al fianco.

«Non dovresti ridere, non dovresti far niente in quelle condizioni!»

«Quali condizioni? Sto benissimo, io.»

Yuu raccolse il quadernetto sparnazzato dall’impatto, e si accigliò. Sfogliò diverse pagine all’indietro, con uno sguardo sempre più serio.

«Che succede? Che cosa hai letto?»

«Un nome… questo. Qui in basso» fece, indicandolo sulla pagina. «C’è scritto che questi non si sono presentati. Non si presenta mai nessuno a nome di questa famiglia, e mi sa che so il perché.»

«Quale?»

«Trobiano» lesse, e alzò gli occhi per incrociare i suoi. «Non ti è familiare? Non è il nome del primo marito di Ferid?»

Mika scorse le foto del registro che aveva già decodificato e, ormai allenato al Playfair, lesse senza difficoltà il nome nella parte bassa di ogni verbale. Non aveva capito che la scritta sopra, in tedesco, indicava che quei nominativi non erano presenti all’asta del giorno.

«Non posso credere di non averci pensato… Quanto… quante probabilità ci sono che siano gli stessi Trobiano?»

«Beh, dimmelo tu. Che cosa sai di suo marito?»

Si mordicchiò le labbra, cercando di fare mente locale tra le memorie spezzettate che gli aveva raccontato Ferid negli anni e ciò che Crowley si lasciò sfuggire all’epoca delle prime indagini.

«Sono originari dell’Italia, i Trobiano, ma il padre di Claude era francese… Non so se nato in Francia o cresciuto, però. Poi sono andati in America… vediamo…» esitò, strizzandosi le meningi. «I Trobiano hanno una tomba di famiglia a Silver Waters, nel West End…»

«Non aveva dei figli?»

«No… cioè, sì. Ferid mi ha detto che ne aveva due, ma sono morti. Uno molto giovane, l’altro anni dopo, in carcere. Ricordi? Crowley lo ha cercato per sapere se era coinvolto col Vampiro.»

«Forse è per questo che non partecipano più. Non ci sono più eredi… però…»

Mika cercò di raggranellare le informazioni sporadiche che Yuu gli aveva dato in quei giorni; non molte, in verità.

«Le famiglie dei firmatari della Carta di Fondazione hanno un diritto di sangue… mi hai detto una cosa del genere. È a questo che pensi?»

«Sì, ma come con i nobili, possono essere aggiunti altri rami se fanno un matrimonio con una delle famiglie originarie… e penso che ci sia qualche modo per aggiungere anche delle nuove famiglie. I Figli di Prometeo sono molto più numerosi di quelli della prima lista, e non possono essere tutti imparentati…»

Yuu allungò il quaderno verso di lui, con il dito sopra un trattino orizzontale che precedeva l’acronimo o abbreviazione RIF.

«Guarda. Ruhe in Frieden, “riposa in pace”. La famiglia Salinger non ha più eredi diretti.»

«Però non ho trovato questa dicitura vicino ai Trobiano!»

«Certo che non l’hai trovata. Se sono gli stessi Trobiano, non sono finiti… Claude Trobiano aveva un marito. E se ricordo bene quello che hai detto, ha due figli biologici, quel suo marito.»

Mika si trovò a bocca aperta davanti a quello scenario improbabile.

«Vuoi dire che per loro Ferid è l’erede dei Trobiano, con un posto nella cerchia dei Figli di Prometeo?»

«Ho raccolto un bel po’ di storie su di loro, anche se niente con delle prove di attività criminale. Si vantano di essere un club esclusivo, uno per eredità di sangue, e so che alcuni sono intrecciati con loro perché sono le vedove o i vedovi di un membro» spiegò con enfasi. «Se non ci sono dei figli, lo stato di sangue passa al coniuge o alla persona citata come erede universale del testamento. Lo so, è assurdo, ma è così che mantengono la loro nomea di esclusività senza estinguersi quando i membri muoiono senza figli.»

L’eccitazione della scoperta, accesa come una fiammata al magnesio, si spense rapidamente. Mika capì solo guardandolo negli occhi che Yuu aveva il suo stesso problema.

«È… la nostra migliore occasione, vero…?»

«Sì. Senza dubbio lo sarebbe, poter usare Ferid per infiltrarci. Uno che non dobbiamo imbrogliare o costringere. Uno che ha tutti i diritti, secondo quelli, di andare a ricomprarsi il marito.»

«E… lui… ha anche il diritto di esserci… giusto? Voglio dire… per noi.»

«È suo marito. Tu non ti saresti già precipitato qui, se avessero preso il tuo di marito?»

Indeciso su cosa dire e come dirlo abbassò lo sguardo sulle dita dei piedi, che mosse distrattamente in un tamburellare frenetico.

«Però…»

Yuu esitò, battendosi l’angolo del quaderno contro la tempia.

«Però Ferid è un civile. Noi siamo federali. E l’unico motivo per cui tu sei qui è quella maledetta, stupida, inutile Acqua di Cristo» commentò invelenito. «Se non avessi insistito per tenerla d’occhio tu saresti ancora a far marmellata nella tua cucina.»

«Ah! Che sfacciataggine, dopo che mi hai mandato a strusciarmi su quello schifoso!»

«Che posso farci io se questi pazzi hanno la fissa per la razza ariana? Sarei andato io se gli fossero piaciuti i mori con gli occhi verdi! Guarda che non mi piace pensare che gli uomini ti guardino e ti tocchino, non mi piace per niente.»

Mika scosse la testa come a scacciare le mosche, anche se cercava solo di sfuggire a un’altra discussione scomoda.

«Oh, Yuu, non ricominciare…»

«Non posso farci niente… non sei più mio da tanto, ma non mi puoi chiedere di far finta che non lo sei mai stato. Anche se hai un marito.»

Le sue dita scorsero leggere sulla sua gamba, fermandosi sul ginocchio.

«A te non dà neanche un po’ fastidio pensare agli amanti che ho? O alle donne che ho?»

«Ma se non so neanche chi siano o quanti come mi può dar fastidio, scusa?»

«Ah… vediamo…»

«Non era un invito a snocciolare i dettagli» aggiunse subito Mika.

«L’ultima è stata una donna» continuò imperterrito Yuu, con l’aria di divertirsi. «Ero un tantino sbronzo, ma mi ricordo il suo seno. Un gran bel seno. Aveva un tatuaggio di un quadrifoglio.»

La protesta che stava per uscirgli di bocca si smontò mentre guardava la rondine sul petto di Yuu.

«La rondine… quando te la sei fatta?»

Negli occhi verdi passò uno stupore smodato, quasi Mika avesse visto qualcosa di segreto, come i messaggi che si mandavano all’orfanotrofio con le penne che si leggevano solo con la luce blu. Si toccò il petto, quasi accarezzandola.

«Quattro anni fa, quando ho accettato questa missione in Germania.»

«E cosa significa?»

Yuu tese un sorriso storto, ma con una profonda dolcezza nello sguardo che lanciò al disegno sulla sua pelle.

«Sei tu» gli rispose spiazzandolo. «La mia rondine che è partita verso sud, e non è più tornata… e sapevo che in Germania non mi avresti più trovato. Eri perso e cercavo un modo per portarti con me… Buffo, visto che ero comunque accecato dalla rabbia sapendo con chi stavi.»

Mika deglutì a vuoto, interdetto. Si era aspettato, alla menzione dei quattro anni, un senso relativo al suo addestramento, o fine alla sua copertura, ma non che servisse a incidersi un suo ricordo nella pelle. Vicino al cuore.

«Ora però non sono più arrabbiato… Avevi ragione, sai? Ho guardato solo il mio obiettivo in polizia dando per scontato che se ti avevo per me saresti rimasto mio qualsiasi cosa fosse successa… e quando hai deciso di andare via, ti ho lasciato fare senza dirti quanto ti volevo con me.»

Yuu si diede il quadernetto sulla fronte, ma Mika ebbe l’impressione che servisse a nascondergli lo sguardo.

«E mi sono messo a fare qualche altra delle mie cose aspettando che tu tornassi… senza neanche provare a chiamarti. Tu sei sempre stato sensibile al romanticismo. Forse se ti fossi venuto a prendere… se fossi venuto fin lì a pregarti di tornare con me a casa…»

La sua voce si incrinò appena e smise di parlare per non svelare il suo momento di fragilità.

Mika si trascinò pian piano dalla sua parte del letto e abbassò il quaderno con la punta delle dita. I suoi occhi verdi erano lucidi.

«Yuu… non capisci che siamo esattamente dove dovevamo essere? Se tu mi fossi corso dietro, se fossimo tornati a New Oakheart a fare gli agenti di polizia, o se tu avessi assecondato i miei capricci e fossimo stati ovunque tranne che tu qui e io con l’Acqua di Cristo nello sgabuzzino, ora chi lo saprebbe dove si trova Crowley? Chi riuscirebbe a salvarlo?»

Yuu tirò su con il naso pur con gli occhi asciutti.

«Sette anni… te lo immagini, rodersi il fegato per sette anni e poi svegliarsi ancora innamorati?»

Mika appoggiò la testa sulle ginocchia, perso in quel verde sconfinato. Tante volte, quando Crowley aveva parlato di come l’Irlanda venisse chiamata “isola di smeraldo”, aveva pensato a Yuu a quelle parole.

«Te lo immagini, soffrire per sette anni e svegliarsi ogni mattina ancora innamorati?»

Non l’aveva detta come la pensava e nemmeno come voleva dirla ma lui capì comunque: ne ebbe la certezza nello stupore sulle sue labbra socchiuse, nella conferma che cercava con quegli occhi increduli.

Alzò la mano per accarezzarlo – tentato da quelle labbra aperte voleva sfiorarle – ma al suono del campanello quella volò sulla pistola sul comodino.

«Mettila giù, Mika, forse è Gunter.»

«Ha detto che andava al lavoro.»

«Beh, forse è la mia vicina, la vecchia pazza col cane pazzo… in quel caso sparale. Anche al cane. Prima al cane.»

«Basta cazzate, Yuu» lo redarguì mentre si avvicinava alla porta. «Nasconditi da qualche parte.»

«E dove? Vivo in un bilocale che starebbe dentro la tua cucina.»

Il campanello trillò di nuovo, un po’ più a lungo. Mika alzò l’arma contro la porta, indeciso se chiedere all’avventore chi fosse o fingere che non ci fosse nessuno.

«Herr Hirsch» chiamò allora l’ignoto visitatore, un uomo. «Ich muss Sie sprechen.»

Confuso Mika si voltò verso Yuu, che stava spostandosi sul bordo del letto per alzarsi. Tra labiale e gesti gli tradusse che qualcuno lo cercava per parlargli e gli indicò lo spioncino. Mika sussultò quando sentì battere sulla porta con un ritmo che era loro familiare: era il loro modo di bussare al loro vicino Crowley. Incollò l’occhio allo spioncino e quasi non credette a quello che vedeva. Passò l’arma nella mano sinistra e senza dare a Yuu alcuna spiegazione sbloccò il chiavistello e aprì la porta.

Ferid stava proprio lì, in piedi davanti alla porta di quell’appartamento di Berlino, alto e austero come non lo aveva mai visto prima. Indossava una semplice camicia di seta con una piccola spilla d’oro e rubini all’asola del collo, pantaloni scuri e scarpe alte che non credeva si fosse portato nella rurale Eanverness; portava l’orologio d’oro, la fede alla mano sinistra e l’anello con la pietra rossa dei Cosworth alla destra, e un sottile nastro rosso gli legava i capelli.

La sua apparenza lo spiazzava quanto la sua stessa presenza e restò fermo a fissarlo, muto, finché non fu lui a reagire.

«Non posso dire di essere sorpreso di trovarti qui» gli fece, con una pallida sfumatura d’accusa. «A questo punto…»

Yuu emerse dalla stanza con passi non proprio disinvolti e si limitò a fare un sorriso teso quando vide l’ospite, come se fosse apparso all’improvviso il test a trabocchetto nell’esame decisivo.

«Herr Hirsch, presumo» esordì Ferid trafiggendolo con uno sguardo. «Mi è stato detto che dovevo parlare con te per sapere dove trovare il pezzo raro che sto cercando.»

L’espressione di Yuu era tornata quel musetto arrogante che aveva tenuto per la maggior parte di quel periodo e con un gesto del braccio gli indicò il soggiorno.

«Komm doch rein, Herr Trobiano» gli fece Yuu, scalfendo la sua serietà con un accenno di stupore. «Abbiamo qualcosa da raccontarti.»

   
 
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