Serie TV > Star Trek
Segui la storia  |       
Autore: Parmandil    07/10/2023    1 recensioni
Le porte del Multiverso sono aperte! Per tre anni gli avventurieri della Destiny hanno vagato tra le realtà, cercando di ritrovare la propria. Ma tutto ciò non era che il preambolo del vero conflitto.
Catapultati in un sistema stellare costruito artificialmente, assemblando pianeti ghermiti dal Multiverso, i nostri eroi iniziano a comprendere il diabolico piano degli Undine. Divisi dopo una fallita infiltrazione, dovranno scegliere tra la filosofia federale – il bene dei molti conta più di quello di uno – e la propria – tutti per uno e uno per tutti. Riusciranno i naufraghi a sopravvivere sul pianeta Arena, dove i più formidabili guerrieri del Multiverso si affrontano in lotte all’ultimo sangue? Quali segreti si nascondono sulla stazione a forma d’icosaedro? Chi è realmente il Viaggiatore? E soprattutto, di chi ci si può fidare? Tra stargate e monoliti, tra gli Aracnidi di Klendathu e i Vermi di Dune, le differenti realtà si contaminano come non mai. La posta in gioco è più alta, i nemici più agguerriti e le lealtà personali saranno messe alla prova come non mai. Anche radunando i campioni del Multiverso, c’è una sola certezza: stavolta non tutti i nostri eroi si ritroveranno sani e salvi.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Il Viaggiatore, Nuovo Personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
-Capitolo 2: Infiltrazione
 
   Per la prima volta in otto anni, il Capitano Dualla respirò. La Deltana ansimò e tossì, cercando di liberarsi le vie respiratorie. Spalancò gli occhi, ma vide solo macchie indistinte di colore. Allora si tastò attorno, accorgendosi d’essere accasciata sul pavimento di un’alcova. Si alzò a tentoni, lottando contro l’irrigidimento e la spossatezza. Il disorientamento la riempì d’angoscia. Dove si trovava, che le era successo?! Si sforzò di ricordare gli ultimi eventi: l’incontro con l’Ammiraglio Hod, il ricevimento nel quale aveva conosciuto gli ambasciatori, il varo della Destiny. Rammentò l’emozione con cui avevano lasciato la Stazione Jupiter e si erano avventurati nello Spazio Fluido. Cos’era successo dopo? Che ne era stato dell’astronave, dell’equipaggio...?
   «Bentornata tra noi, Capitano Dualla» disse una voce cavernosa, stranamente familiare. «Ha fatto bei sogni? Glielo chiedo con sincero interesse. Vede, noi Undine non facciamo sogni, perché non dormiamo mai».
   A quelle parole, la Deltana fu assalita dai ricordi traumatici. Avevano preso contatto con gli Undine, che dapprima si erano finti amichevoli, e ne avevano invitati un paio a bordo per negoziare. Come si chiamava il loro emissario? Il Supervisore, ecco! Quella voce cavernosa era sua. Ma si era trattato di una trappola. In realtà gli Undine avevano rilasciato un patogeno nell’aria, mettendo fuori combattimento l’equipaggio. Poi avevano catturato o ucciso i pochi immuni, impadronendosi della Destiny. Dualla ricordò confusamente d’essersi risvegliata in una prigione Undine. Quei mostri l’avevano interrogata... torturata... per giorni e giorni, coi loro poteri telepatici, strappandole informazioni riservate sulla Flotta Stellare. Infine l’avevano messa in stasi. Quanto tempo era passato?!
   Il Capitano si sfregò gli occhi arrossati, sforzandosi di mettere a fuoco la visione. Quando tornò a guardare, riconobbe il Supervisore che incombeva su di lei. Era impossibile confonderlo con gli altri Undine, data la corporatura massiccia e i quattro occhi, tutti malignamente fissi su di lei. «Quanto... tempo...» rantolò Dualla. Erano le sue prime parole, dopo la lunga ibernazione.
   «Otto dei vostri anni. Per noi è un tempo molto breve, ma forse voi lo definireste lungo» rispose il Supervisore. «Quando ordinai di metterla in stasi, non sapevo se sarebbe mai valsa la pena di risvegliarla. Si consideri fortunata che ora le circostanze lo richiedano».
   «Quali circostanze? Cos’è successo?!» mormorò Dualla, appoggiandosi al fondo dell’alcova per non cadere. Era ancora debolissima, con la vista che andava e veniva. Ma le condizioni fisiche erano l’ultima delle sue preoccupazioni. «Che ne avete fatto della Destiny, dell’equipaggio?!».
   «Il suo equipaggio è morto» rispose brutalmente il Supervisore. «Alcuni sono periti nella biosfera, affrontando i nostri soldati; altri nel mondo Arena, battendosi coi campioni del Multiverso. Lei è l’unica superstite» disse, nascondendole che ce n’era un’altra, la dottoressa Giely.
   A queste parole, Dualla si accasciò nuovamente sul fondo dell’alcova. Qualunque speranza di fuggire da lì era vana, se non aveva più un equipaggio a cui riunirsi. Settecento vite sotto la sua responsabilità... e lei li aveva delusi. Il suo ingenuo ottimismo li aveva condannati a morte. «Siete dei barbari» mormorò. «Tutto questo non era necessario. Avremmo trovato un accordo...».
   «Abbiamo già tutto quel che c’interessa, perché dovremmo rinunciare a qualcosa?» ribatté il Supervisore. «C’è un solo dettaglio che mi scontenta, ed è il motivo per cui l’ho risvegliata. Vede, tre anni fa rimandai la Destiny nel vostro Universo, programmandola perché tornasse qui se un altro equipaggio l’avesse abbordata. In tal modo speravo d’ottenere nuovi prigionieri, dato che i vostri ormai li avevamo consumati. Sulle prime il piano funzionò, perché la Destiny fece ritorno con un equipaggio d’avventurieri e mercenari».
   «Avventurieri? Mercenari?» fece Dualla, ancora confusa per i postumi della stasi. Di che stava parlando quel mostro?
   «Proprio così. Contavamo di metterli alla prova come gli altri. Fu allora che le cose iniziarono ad andare... storte» ringhiò il Supervisore. «Quelle canaglie ripresero il controllo della Destiny, distrussero la biosfera e fuggirono. Uccisero persino il mio braccio destro, l’Esaminatore. Ma prima di morire, lui riuscì a cancellare le coordinate quantiche dal computer della nave. Così li costrinse a vagare nel Multiverso, senza alcuna speranza di tornare a casa. In tal modo pensavamo d’esserci sbarazzati di loro».
   «E non è stato così?» chiese Dualla, faticando a digerire tutte quelle informazioni.
   «Sfortunatamente no» ammise il Supervisore. «Adesso quei miserabili hanno osato sfidarci nel cuore del nostro dominio. Ricorda il vivaio di mondi che le mostrai durante l’interrogatorio? È qui che ci troviamo, sulla mia stazione di controllo. Ed è qui che gli avventurieri sono venuti a spiarci, forse a sabotarci. In effetti credo che abbiano in animo d’attaccare questa stazione, prima che la usiamo per prelevare uno dei vostri mondi. Sono da qualche parte là fuori, nascosti sulla Destiny occultata!» ringhiò, facendo un ampio gesto per alludere allo spazio.
   «Mi ha risvegliata per questo? Si aspetta che io l’aiuti a trovare e distruggere la mia stessa nave?!» fece Dualla, incredula.
   «Quella non è più la sua nave. L’ha persa otto anni fa, per la sua incompetenza» ribatté il Supervisore. «Persino quelle canaglie sono riuscite a fare meglio di lei. Ma nella loro irresponsabilità, non sanno cosa rischiano di scatenare. Vede, io ho grande potere tra la mia gente, ma sono pur sempre soggetto all’autorità del nostro sommo Imperatore». Così dicendo si rattrappì, come se il solo nominarlo lo spaventasse. «Ed egli non tollera intrusioni nel nostro dominio. Se quegli sconsiderati continuano a spiarci, a sabotarci, o peggio ancora se facessero venire altri intrusi... l’Imperatore scatenerà una rappresaglia contro la Federazione. I nostri Distruttori Planetari sbricioleranno i vostri mondi. Se invece mi aiuta a eliminare quei folli, non accadrà nulla del genere» promise.
   «Ma rapirete comunque un mondo federale, per aggiungerlo alla vostra collezione?» chiese Dualla.
   «Uno solo, e non lo distruggeremo» sostenne il Supervisore. «Sempre meglio della guerra totale. Allora, Dualla? Io e lei siamo gli unici che possono impedire il disastro, sempre che lei lo voglia. Come dite voi federali? Il bene dei molti conta più di quello dei pochi. Perciò le chiedo di sacrificare un pugno di fuorilegge per salvare la Federazione. Non lo trova ragionevole? Non è in linea coi vostri principi?».
   Dualla esitò. Detto così, il discorso del Supervisore aveva senso. Ma la Deltana non poteva scordare che era stato lui a condannare il suo equipaggio a una morte atroce, in quegli scontri senza fine. Come poteva fidarsi della sua parola? E poi, prima di acconsentire, avrebbe voluto sentire la versione degli avventurieri. «E se... se gli deste semplicemente le coordinate di ritorno?» mormorò. «Se sono dei fuorilegge dispersi, si accontenteranno di tornare a casa e non vi daranno più fastidio» argomentò.
   «Suvvia, mi crede così ingenuo?» fece il Supervisore, storcendo il volto in uno strano ghigno. «Quei mercenari sanno troppe cose su di noi. Potrebbero vendere le loro informazioni alla Flotta Stellare, e a chissà chi altri. No, sono un rischio inaccettabile per la nostra sicurezza. Quindi dobbiamo eliminarli. Se collabora con noi, le prometto che avrà salva la vita. Altrimenti subirà la stessa sorte del suo equipaggio. Sa, alcuni dei suoi ufficiali sono sopravvissuti per anni, ma lei... penso che non durerà nemmeno un mese».
   «Che Capitano è uno che non condivide la sorte del suo equipaggio?» mormorò Dualla, cercando di prepararsi al peggio. Non sapeva che genere di persone avessero occupato la Destiny, ma sospettava che non fossero affatto dei fuorilegge, come sosteneva l’alieno. Se avevano fatto tanto, le pareva più probabile che fossero dei professionisti della Flotta Stellare. In ogni caso, non voleva aiutare gli Undine a dargli la caccia.
   «Lei è una sciocca sentimentale. Non capisce che, eliminando la Destiny, potremmo scongiurare un conflitto assai più esteso» ribatté il Supervisore. «Lei era al comando di quella nave, quindi ne conoscerà i punti deboli. Ci basta localizzarla, poi penseranno le mie bionavi a distruggerla. Allora, come la troviamo?!».
   Così dicendo il Supervisore si avventò su Dualla, afferrandole la testa glabra e strattonandola in avanti. Erano faccia a faccia, gli occhi nocciola di Dualla a pochi centimetri da quelli gialli dell’Undine. La Deltana sapeva che, volendo, l’alieno poteva schiacciarle la testa con facilità; ma non l’aveva afferrata per quello. Vide le sue pupille cruciformi che si stringevano per la concentrazione e avvertì un ronzio sempre più forte. L’alieno stava invadendo i suoi pensieri.
   «Come la troviamo?».
   «Come la troviamo?!».
   «COME LA TROVIAMO?!».
   La sua voce le risuonò nella mente, moltiplicata in mille toni e intensità diverse, sebbene la bocca non si muovesse. Una volontà d’acciaio la pressava, cercando di sfondare le sue difese, già minate dalla debolezza e dalla disperazione. Ma la Deltana aveva un asso nella manica: non sapeva davvero come localizzare la Destiny. Quella nave aveva l’occultamento più perfetto che la Flotta Stellare avesse mai messo a punto: non c’era la minima perdita di particelle. Se il nuovo equipaggio l’aveva tenuto in efficienza, allora era al sicuro. Con questo lieve conforto, Dualla si abbandonò nella stretta dell’aguzzino, lasciando che la sua mente fosse come una canna al vento, che si piegava senza spezzarsi.
 
   Tornato sulla Destiny con la sua squadra, il Capitano Rivera entrò come un turbine in plancia. «Era una trappola, tanto per cambiare» annunciò a Losira, che gli veniva incontro. «Gli Undine hanno preso Talyn e l’hanno portato sull’Harvester con quel dannato portale. Non so perché siano tanto interessati a lui, ma temo abbia a che fare con le sue facoltà percettive. Non c’è un minuto da perdere. Timoniere, rotta verso l’Harvester. Quanto a voi» si rivolse alla squadra che l’aveva seguito, «gli ingegneri possono restare sulla Destiny. Gli altri verranno con me».
   «Verremo dove?» chiese Naskeel.
   «Sull’Harvester, che domande. Dobbiamo liberare Talyn. Si tratterà di un’infiltrazione, condotta con la Scorpion» disse il Capitano, riferendosi alla bionave catturata anni prima. «Abbiamo visto che c’è un continuo traffico di bionavi tra il pianeta frantumato e l’Harvester, quindi ci mischieremo a quelle. Una volta dentro, useremo le tute occultanti per non farci rilevare. Liberato Talyn, ce ne andremo allo stesso modo. A quel punto è probabile che c’inseguano, quindi la Destiny dovrà essere pronta a teletrasportarci...».
   «Basta così» disse il Tholiano.
   «Come?!» fece Rivera, preso in contropiede.
   «Lei sta proponendo una missione di soccorso le cui probabilità di successo sono prossime allo zero» spiegò Naskeel. «Invece di salvare l’ostaggio, otterremo solo di farci massacrare. Questo è del tutto illogico. La vita di un solo individuo, per quanto utile alla nave, non può essere anteposta alle nostre. Il bene dei molti conta più di quello di uno».
   Calò un silenzio teso. Il Capitano e l’Ufficiale Tattico si erano già scontrati più volte, ma mai in modo così radicale e in circostanze così drammatiche. Gli astanti indietreggiarono, temendo che i due impugnassero le armi per risolvere definitivamente la contesa.
   «Sono ben consapevole dei rischi» disse Rivera in tono controllato. «Neanche a me piace l’idea d’entrare nella tana del lupo. Ma poco fa Talyn mi ha salvato la vita. Se non mi avesse protetto da quel vortice, sarei morto. Devo ricambiare il favore, o almeno devo provarci» dichiarò.
   «Questa è una decisione emotiva, pertanto irrazionale» ribatté Naskeel. «Se si sente così in debito, vada da solo. Non condanni noialtri per il suo sentimentalismo».
   Il Capitano si morse il labbro, accorgendosi che le argomentazioni del Tholiano potevano trovare consensi nella sua squadra. Ma lui era deciso a non mollare. «Lei è l’Ufficiale Tattico di questa nave. È tenuto a obbedire ai miei ordini, anche se non li condivide» disse.
   «Infatti finora ho obbedito, ma quali sono i risultati? L’ultima volta che lei ha guidato un’operazione del genere, dieci agenti della mia squadra sono morti» ricordò Naskeel. «E adesso propone un’infiltrazione ancor più rischiosa. Si aspetta davvero che qualcuno di noi sopravviva?».
   Rivera si trovò a corto di argomentazioni. La cosa più terribile di quell’arringa era che Naskeel aveva ragione: infiltrarsi nell’Harvester era davvero un suicidio. Il Capitano si aggrappò all’ultima pagliuzza: «Mentre saremo lì, potremo scaricare i dati del computer e ottenere finalmente le coordinate di casa».
   «Irrilevante, se nessuno di noi sopravvivrà per comunicarle all’equipaggio» ribatté il Tholiano.
   «Ehi, uccellaccio del malaugurio, non darci per spacciati!» intervenne Shati. «Ci siamo già trovati nel dren e ne siamo sempre venuti fuori. Non tutti, è vero, ma... io sono pronta a correre il rischio. Sono con te, Capitano» dichiarò, affiancando l’Umano.
   Rivera guardò Irvik, sperando anche nel suo sostegno, ma questi si fece piccolo. «Io... ehm... potrei esservi più utile qui, pronto a teletrasportarvi...» mormorò il Voth, fissando il pavimento, con le scaglie imporporate di vergogna. Il Capitano non se la sentì di biasimarlo. L’Ingegnere Capo lo aveva seguito nell’ultima missione, sulla Terra dello Specchio, dove l’avevano scampata per miracolo. Non c’era da stupirsi che non se la sentisse di fare il bis.
   «Verrò io» disse inaspettatamente un altro ingegnere, un Dopteriano di nome Gort. «Ho studiato a fondo la tecnologia degli Undine. Se arriviamo sull’Harvester, cercherò le coordinate di casa nel computer. È la nostra ultima possibilità, non possiamo rinunciare». Anche lui affiancò il Capitano, sull’altro lato rispetto a Shati.
   «Il fatto che la vostra irrazionalità sia condivisa non la rende meno irrazionale» argomentò Naskeel.
   «Non è questione d’essere razionali o meno» disse Rivera, provando a spostare la diatriba sul piano etico. «Ormai siamo più di una banda di tizi a caso che s’è ritrovata su un’astronave. Abbiamo vissuto insieme, combattuto insieme, vinto o perso insieme. Così, se uno di noi è in pericolo, gli altri sono pronti a tutto pur di salvarlo. Tu mi dici che il bene dei molti conta più di quello di uno. Ma io ti dico: tutti per uno, uno per tutti!».
   «E questo cosa sarebbe?» chiese Naskeel, perplesso quanto poteva esserlo un Tholiano.
   «È il motto dei Trombettieri!» rispose Shati, ispirata.
   «Moschettieri, erano i moschettieri» la corresse il Capitano. «Beh, non importa chi fossero. Importa solo che è vero. Talyn ha salvato non solo me, ma tutti noi. Ricordate quella volta che la Destiny si frantumò in sei piani d’esistenza, con tutti noi ammattiti? Chi fu a ricomporre la nave e a restituirci la sanità mentale? Talyn! Questo è l’uno per tutti. Così, adesso che lui è in mano al nemico, dobbiamo andare a salvarlo. Tutti per uno».
   «Anch’io vi ho salvati, nella Battaglia di Dytallix. Se al posto di Talyn ci fossi io in ostaggio, verreste ugualmente a salvarmi?» inquisì Naskeel.
   Questo fu un colpo basso per Rivera, che esitò prima di rispondere. «Dimostri d’essere davvero uno di noi, di rischiare per chi è in pericolo, e le saremo altrettanto leali» sostenne.
   Il Tholiano rimuginò per un tempo insolitamente lungo. Rivera non riusciva a capire se tutti quei discorsi avessero un senso per lui. «Verrò con voi» disse infine Naskeel. E prese a organizzare la squadra come se la discussione non ci fosse stata.
 
   Di lì a poco gli avventurieri erano nell’hangar 2, pronti a salire sulla Scorpion. Vista da fuori, la navicella Undine era indistinguibile dalle altre. Il suo scafo giallo-arancio aveva una simmetria tripartita, con diversi aculei. Solo all’interno erano visibili gli interventi con cui l’avevano resa controllabile. Mentre Naskeel e i suoi caricavano armi e altri strumenti, Rivera si appartò con Giely, per salutarla. «Tornerò presto, querida» le disse.
   «Sigh... sarà sempre così, tra noi?» sospirò la Vorta. «Partirai sempre per missioni rischiose, e io resterò a chiedermi se tornerai? L’ultima volta siamo rimasti divisi per un anno!» si lamentò.
   «Stavolta me la sbrigherò prima» promise l’Umano.
   «Sai, gli altri Capitani di solito restano sull’astronave, e mandano in missione i loro ufficiali» gli ricordò Giely. «Potresti farlo anche tu, una buona volta».
   «E chi dovrei mandare? Losira? È brava a mandare avanti la nave, ma non ha fatto l’Accademia e non se la caverebbe in una missione del genere. Shati? È così ansiosa per Ferasa da essere ancora meno lucida del solito. Naskeel? Dopo la predica sul tutti per uno e uno per tutti, non posso mandare lui e starmene indietro io. No, devo proprio andare» concluse tristemente Rivera.
   «E sia! Ma sta’ attento, ti prego» raccomandò Giely, abbracciandolo. «Non fare l’eroe a tutti i costi. Non devi dimostrare niente, anzi, hai già rischiato fin troppo. Recupera Talyn e torna qui da me. Ti aspetto!».
   Si baciarono con passione, ma anche col terrore – provato fin troppe volte – che fosse un addio. Poi Rivera si sciolse dall’abbraccio e si affrettò verso la bionave, dove la sua squadra si era già imbarcata.
 
   Vista dall’interno, la Scorpion somigliava spiacevolmente a una gabbia toracica, con le costole in evidenza. Tutto era composto di tessuti organici, alcuni più rigidi e ossificati, altri assai più elastici. C’erano un sistema circolatorio, uno linfatico e persino uno nervoso, proprio come in una creatura vivente. A quanto gli avventurieri avevano capito, le bionavi così piccole erano progettate per un solo pilota. La sua postazione era nella parte anteriore del vano principale. La sedia aveva una conformazione stranissima, adatta alla struttura tripode degli Undine. Da lì il pilota poteva connettersi psichicamente alla navicella, manovrandola come un’estensione del suo corpo. Per questo motivo non c’erano finestrini, né schermi visori: le letture dei sensori affluivano direttamente al cervello del pilota.
   Per consentire a individui non telepatici di manovrare la bionave, gli avventurieri avevano dovuto apportare estese modifiche, che avevano richiesto anni di sforzi ed esperimenti. Avevano collegato un computer federale ai centri nervosi della navicella, usando le gelatine bio-neurali come ponte fra i due processori. Dopo di che avevano installato delle consolle tradizionali: timone, sensori e comunicazioni, armi, ingegneria. Per sopperire alla mancanza di schermo, si erano ispirati al Dominio: l’equipaggio indossava dei Visori che trasmettevano le rilevazioni dei sensori.
   «Ragazzi, dovremo rinunciare alla missione: non ci vedo una cippa!» si lamentò Shati quando fu seduta al timone, col Visore calato sugli occhi.
   «Prova ad accenderlo» suggerì Gort, premendo il tasto d’attivazione su un lato del Visore.
   «Ah, molto meglio, grazie!» fece la Caitiana. «Signori, allacciate le cinture e assicuratevi che i tavolinetti siano sollevati» raccomandò, iniziando la sequenza di decollo.
   «Non ci sono cinture né tavolini. Dai, partiamo e basta!» la esortò il Capitano. Anche lui e gli altri indossarono i Visori, per essere più consapevoli della situazione.
   «Okay, capo. Ah, vi avverto che il viaggio potrebbe essere un po’ movimentato. In caso di necessità, i sacchetti per il vomito sono in quell’angolo. Fatemi il favore di usarli» raccomandò Shati, calata nel ruolo di hostess. L’attimo dopo si concentrò sui comandi, attivando i motori a impulso della bionave.
   La Scorpion si levò in volo e uscì dall’hangar, diretta alla più ardita missione mai tentata dagli avventurieri. Per un po’ le stelle vorticarono, finché Shati riuscì a stabilizzare l’assetto. «Wow, questo sì che è volare!» gongolò la timoniera, apprezzando la velocità e la maneggevolezza della navicella.
   «Ricorda che non siamo in gita di piacere» ammonì Rivera, chiudendo il sacchetto per il vomito, che si era dimostrato assai utile. «Dirigi verso il mondo frantumato. Dobbiamo mischiarci alle navette minerarie e da lì dirigerci verso l’Harvester».
   «Naaa, pensavo d’andare direttamente alla stazione, sparando a tutto spiano... okay, vada per il mondo frantumato» si corresse Shati, temendo d’essersi spinta troppo oltre.
 
   La Scorpion diresse verso il pianeta colpito, nella parte più interna del sistema. Lì decine di bionavi scandagliavano il nucleo messo a nudo, usando raggi traenti per estrarre minerali utili, che immagazzinavano nel comparto posteriore. Era il momento più critico, perché se qualche altra navicella gli avesse richiesto a che squadra appartenevano o altre informazioni, gli avventurieri non erano pronti a rispondere. Fortunatamente nessuno li contattò. Gli Undine erano concentrati sul loro compito, e così anche gli avventurieri si mischiarono a loro, fingendosi indaffarati. Per risultare convincenti cercarono anche d’estrarre un po’ di minerali, stivandoli nel comparto posteriore, ma l’operazione si rivelò più difficile del previsto.
   «Basta, così rischiamo d’attirare l’attenzione» disse Rivera, interrompendo i goffi tentativi d’imitare gli efficienti Undine. «Andiamo all’Harvester. Se ci contattano, diremo che abbiamo un guasto a bordo e non abbiamo potuto completare la nostra quota».
   «Bene... del resto fare il minatore non era la mia vocazione» disse Shati, allontanandosi dalla pericolosa orbita, intasata di rocce strappate alla crosta.
   La Scorpion si unì a un gruppetto di bionavi che tornavano all’Harvester, tenendosi prudentemente in coda. Dopo un breve viaggio senza incidenti, la stazione divenne visibile sui Visori. Vista così da vicino sembrava ancora più inquietante, con la selva d’antenne affilate che costellavano le sue molte sfaccettature. E all’interno era peggio, piena com’era di alieni quasi invulnerabili, capaci di farli a pezzi con le mani. Rivera si trovò a pensare che appena il giorno prima non sapevano nemmeno cosa ci fosse dall’altra parte dell’interfase, e adesso stavano cercando d’infiltrarsi nel centro di comando nemico. Come cambiavano in fretta le cose...
   Giunti nei pressi dell’Harvester, gli avventurieri videro che le bionavi dirigevano verso un ingresso posto su una delle facce triangolari. Shati le seguì, sempre tenendosi in coda. Al posto di un campo di forza per trattenere l’atmosfera, c’era una membrana organica, simile a una traslucida bolla di sapone. Le bionavi l’attraversarono senza infrangerla e così fece la Scorpion.
   Invece di sbucare in un hangar, come si aspettavano, gli avventurieri si trovarono in una sorta di pozzo che sprofondava per chilometri nella struttura dell’Harvester. Continuarono a seguire le bionavi, che ora procedevano a velocità ridotta, chiedendosi dove sarebbero sbucati.
   «Due chilometri... due e mezzo...» contò Shati. «Frell, siamo nelle budella di questa cosa vivente!».
   «Mantieni la concentrazione. Resta un po’ distanziata dalle bionavi, ma non far vedere che lo fai apposta» raccomandò Rivera, temendo che gli Undine notassero le modifiche alla Scorpion.
   «E come dovrei fare?!» protestò la pilota.
   «Boh? Tu vola disinvolta».
   Giunti a oltre tre chilometri di profondità, il pozzo – ora più simile a un tunnel – terminò. Ma non c’era un hangar nel quale atterrare. Piuttosto le bionavi attraccavano alle postazioni inserite direttamente nelle pareti. A un tratto la Scorpion tremò.
   «Frell, ci hanno agganciati con un raggio traente! Lo sapevo, è finita!» esclamò Shati, cercando di liberare la navicella.
   «Ferma» la bloccò Naskeel. «Credo che sia la procedura standard. Ci hanno assegnato un molo d’attracco e ora ci stanno guidando. Se cerchi di liberarti, li avvertirai che non siamo dei loro».
   Ascoltando l’ammonimento, la Caitiana smise di fare resistenza e lasciò che il raggio traente li guidasse all’attracco. Lì una morsa d’aggancio afferrò la bionave, bloccandola saldamente in posizione. «Uhm, non mi piace. Avremo difficoltà a sganciarci per fuggire» avvertì Shati.
   «Un problema alla volta» disse il Capitano. «Pronti all’infiltrazione». Avevano già indossato tutti le tute occultanti, che li avrebbero resi invisibili. Persino Naskeel ne aveva una, che Irvik aveva costruito nei mesi precedenti, adattandola alla sua forma aliena. Non restava che dispiegare il casco, ora ripiegato nel colletto, e attivare l’occultamento.
   «Ci chiamano da una sala controllo!» avvertì l’ingegnere Gort, leggendo il messaggio tradotto sulla sua consolle. «Ci chiedono perché abbiamo la stiva semivuota».
   «Rispondi che la navicella ha un guasto al raggio traente e serve qualche ora per rigenerarlo» ordinò il Capitano, ricordando che le bionavi tendevano a ripararsi da sole.
   «Se non se la bevono, siamo fregati» borbottò Gort, mentre digitava la risposta, che poi sarebbe stata trasmessa. Di lì a poco giunse un nuovo messaggio. «Chiedono se serve l’aiuto di un Formatore» riferì l’ingegnere. «Suppongo sia una specie di tecnico riparatore».
   «No! Digli che puoi cavartela da solo» ordinò Rivera, dato che qualunque ispezione avrebbe messo in luce le modifiche apportate alla bionave. «Serve solo un po’ di tempo per rigenerare il guasto».
   «Ci hanno dato... uhm... due ore» disse Gort, leggendo la traduzione sulla consolle. «A giudicare dal tono, credo sia il tempo per una rigenerazione standard. Se per allora non saremo operativi, manderanno quel Formatore, e allora saremo smascherati».
   «Sentito? Abbiamo un’ora per raggiungere Talyn e un’altra per tornare. Mettiamoci in marcia!» ordinò il Capitano.
 
   Dopo essersi tolti i Visori, gli avventurieri dispiegarono i caschi delle tute e attivarono l’occultamento. Era inteso che restassero il più possibile in silenzio, per non essere intercettati dagli Undine. Almeno potevano vedersi a vicenda, dato che i caschi erano sintonizzati sulla frequenza d’occultamento.
   Così equipaggiati, Rivera e i suoi lasciarono la Scorpion, accedendo a un passaggio del molo d’attracco. Ben presto furono nei corridoi della stazione. Il Capitano era in testa al gruppo e cercava i segni vitali di Talyn, mentre Naskeel stava in retroguardia. Rivera si chiese che avrebbe fatto, se non fosse riuscito a rilevare il giovane amico. Poteva significare che gli Undine l’avevano ucciso? Eppure parevano interessati a prenderlo vivo... ma chissà che passava in quei cervelli alieni.
   Fatta poca strada, il tricorder integrato nel bracciale della tuta ebbe un riscontro. I dati furono proiettati all’interno del casco. Sì, c’era un segno vitale El-Auriano! E non era nemmeno distante, per fortuna. Sulle prime il tricorder aveva avuto difficoltà a isolarlo, perché era circondato da altri segni vitali umanoidi. Altri prigionieri? Forse il giovane era chiuso in un blocco detentivo.
   Il Capitano si fermò e s’indicò il bracciale, facendo segno che avevano una traccia. Poi ripartì di buon passo, quasi di corsa, guidando la squadra nei meandri della stazione. Era proprio come la ricordava dalla sua precedente, breve visita: le paratie arancioni sfumavano l’una nell’altra senza angoli, con linee curve più simili alla conformazione di un essere vivente. Ogni tanto c’erano dei quadri comandi, o il loro equivalente organico, ma gli avventurieri non si fermarono. Sapevano d’avere i minuti contati, prima che gli Undine scoprissero la loro presenza.
   Quanto agli Undine stessi, erano pochissimi. Gli avventurieri ne incrociarono solo un paio, riuscendo sempre a rifugiarsi in qualche corridoio laterale per lasciarli passare. Rivera ricordò che anche sulla biosfera gli Undine erano in pochi. Evidentemente la loro tecnologia organica auto-rigenerante, unita al fatto che non dormivano mai, comportava che bastasse un equipaggio ridotto. A che scopo avere tre o persino quattro turni, se gli stessi individui erano instancabili? Ora però questa organizzazione si ritorceva contro di loro. E così, appena mezz’ora dopo lo sbarco, gli avventurieri giunsero alle prigioni.
 
   C’era una vasta sala di guardia circolare, con le celle simili ad alcove disposte lungo tutta la circonferenza. Da un lato dell’ingresso, sulla parete, vi era una complessa consolle organica. Probabilmente era da lì che si aprivano le alcove, dai gusci trasparenti. Gli avventurieri notarono che erano quasi tutte piene di un liquido giallo assai viscoso. I prigionieri, appartenenti a specie umanoidi quasi tutte sconosciute, vi galleggiavano come insetti nell’ambra. Dovevano essere in stasi, come indicavano i loro segni vitali, così rallentati da essere quasi illeggibili.
   «Astuto, tenere i prigionieri in stasi» ragionò il Capitano. «Non c’è il rischio che evadano».
   Un paio d’alcove, tuttavia, erano sgombre dal liquido. I prigionieri al loro interno sedevano addossati alle pareti ed erano coscienti. Uno era un’umanoide calvo, che indossava un’uniforme. L’altro era Talyn, nella cella adiacente. Sembrava illeso, pur essendo comprensibilmente sconfortato. Non appena gli avventurieri entrarono nella sala di guardia, il giovane alzò la testa e guardò verso di loro. «C’è nessuno?!» chiese, sebbene non potesse vederli, dato che erano ancora occultati.
   Questo era il momento più critico dell’operazione. Potevano liberare Talyn, ma non avevano un’altra tuta occultante da dargli, dato che le tute si attivavano solo una volta indossate, e quindi non avevano potuto portarne una extra. Ciò significava che, nel momento in cui aprivano la cella, era quasi certo che gli Undine si avvedessero dell’evasione. A quel punto non restava che tornare di corsa alla Scorpion e fuggire dall’Harvester.
   «Puoi aprire l’alcova?» chiese Rivera a Gort, interrompendo il silenzio nelle comunicazioni. In caso contrario era pronto a farlo col phaser integrato nella tuta, sempre che tagliasse il resistentissimo guscio.
   «Credo di sì» rispose l’ingegnere. «Ma prima di far scattare gli allarmi, voglio cercare le coordinate quantiche di casa».
   Il Capitano annuì e lo lasciò fare. Mentre Gort era all’opera, Rivera si accostò alle alcove, osservando i prigionieri in stasi mentre percorreva la circonferenza del salone. Quasi tutti appartenevano a specie sconosciute. Avrebbe voluto salvare anche loro, ma non sapeva quanto sarebbe servito per rianimarli. No, non poteva permettersi di perdere altro tempo. L’unico che poteva salvare era Talyn... e al limite l’altro prigioniero cosciente, nella cella accanto.
   Superate le alcove di stasi, il Capitano passò davanti a quella di Talyn, che era ancora in piedi e osservava la sala di guardia, cercando di capire se c’era qualcuno. Rivera non si mostrò; non era ancora il momento. «Resisti, ragazzo. Tra un momento sarai fuori di lì» si disse. Passò avanti, per osservare l’altro prigioniero e stabilire se era il caso di liberarlo. E si fermò di botto.
   Quella davanti a lui era una donna sulla cinquantina, completamente calva, eccezion fatta per le sopracciglia. Doveva essere una Deltana. Indossava un’uniforme della Flotta Stellare, coi gradi da Capitano. La riconobbe, avendola già vista sul database: era Dualla, l’originale Capitano dell’USS Destiny! Poche ore prima aveva visto il suo alter-ego dello Specchio, tra i cadaveri ammassati sulla CSS Destiny. Ma questa Dualla era viva e vegeta. Anche lei si era alzata e si guardava attorno, avendo udito dei passi.
   «C’è qualcuno? Rispondete, per favore!» disse la Deltana, osservando la sala apparentemente deserta. Batté il pugno sul guscio trasparente dell’alcova, senza sapere che aveva già attirato l’attenzione.
   Rivera indietreggiò, tornando rapidamente dal resto della squadra. «È proprio Dualla. Dovremo liberarla, se non altro per sapere se gli Undine le hanno estorto informazioni» disse. Si chiese cosa sarebbe accaduto se, tornati sulla Destiny, la Deltana gli avesse disputato il comando. Ma non c’era tempo di rifletterci, finché erano sul suolo nemico. «Qui come va?» chiese.
   «Ce l’ho fatta!» esclamò Gort, concentrato sui comandi. «Sono nel loro database. Sto scaricando tutte le coordinate quantiche in memoria!».
   «Trasmettile anche a me!» fece Shati, impaziente. Più erano ad averle, più era probabile che almeno uno di loro sopravvivesse al ritorno.
   L’ingegnere scaricò le informazioni nel tricorder integrato nella sua tuta. Fece lo stesso con Shati e sarebbe andato avanti con gli altri, se Rivera non l’avesse fermato. «Non possiamo attardarci, forse gli Undine hanno già rilevato l’intrusione. Apri quelle due celle e andiamo!» ordinò.
   «Okay» fece Gort, trafficando con i comandi. Gli servì qualche altro minuto, ma infine riuscì ad aprire le alcove: prima quella di Talyn, poi quella di Dualla.
   «Allora, ci siete?!» chiese l’El-Auriano, precipitandosi fuori dalla cella soffocante non appena il guscio si aprì.
   «Eccoci» disse Rivera, disattivando l’occultamento. Il resto della squadra lo imitò. Ora che le alcove erano aperte, non si poteva più contare sulla segretezza.
   «Siete venuti a salvarmi...» mormorò Talyn, ancora incredulo. Una parte di lui avrebbe voluto dire che erano stati dei pazzi, ma un’altra era semplicemente grata che non lo avessero abbandonato.
   «Certo... sennò chi la sente Losira?» fece il Capitano, abbozzando un sorriso.
   «Chi siete voi?!» chiese Dualla, uscendo dalla propria cella. Il suo sguardo spaziò sull’eterogeneo gruppo, soffermandosi su Naskeel. «Non siete della Flotta, vero?» indovinò.
   «Il Capitano Dualla, suppongo» si presentò Rivera, ignorando le domande.
   «Capitano della Destiny, sì. E lei?» chiese la Deltana, squadrandolo perplessa.
   «Capitano Rivera... della Destiny» rispose l’Umano. «Sono successe molte cose, mentre lei faceva la bella statuina. Non c’è tempo per le spiegazioni, quindi ci segua. Se ne usciamo vivi, l’aggiorneremo».
   «Se? Non avete un piano d’estrazione?!» chiese Dualla, affrettandosi dietro di lui.
   «Di solito ci estraiamo da soli» tagliò corto Rivera.
   Erano davanti all’uscita della sala di guardia. Gort era innanzi a tutti, impaziente di tornare alla Destiny con le coordinate che aveva trovato. Ma quando il portone gli si aprì davanti, l’ingegnere si trovò faccia a faccia con un Undine. Prima che potesse fare alcunché, l’alieno gli afferrò la testa e gliela strappò dal corpo. Con la testa venne via anche la spina dorsale sanguinolenta, mentre il corpo si afflosciò come un pesce senza lisca. L’Undine sollevò il macabro trofeo, prima d’essere crivellato di colpi. Gli avventurieri concentrarono il fuoco su di lui, gridando come forsennati per l’orrore e la rabbia. Quando l’Undine fu indebolito, Naskeel lo afferrò e lo scaraventò dalla parte opposta della sala di guardia, liberando l’uscita.
   «Fuori, presto!» gridò Rivera. Ripiegò il casco nella tuta, per avere la vista libera; infatti gli schizzi di sangue glielo avevano imbrattato. Non si soffermò presso il corpo di Gort, dato che anche Shati aveva in memoria le preziose coordinate.
   Gli avventurieri imboccarono il corridoio, correndo veloci. «Aspettate!» fece Talyn, indicando dietro di sé. Allora gli altri si accorsero che Dualla, indebolita dalla prigionia, non riusciva a stargli dietro.
   «La Deltana ci rallenterà. Vuole che la uccida, Capitano?» chiese Naskeel, prendendola di mira.
   «Sarebbe contrario allo spirito del salvataggio» sospirò Rivera, per quanto lo sfiorasse la tentazione di abbandonarla.
   «Non vi conviene farlo» ansimò Dualla, avvicinandosi al gruppo. Era curva in avanti e si premeva un fianco per la fatica della corsa. «Conosco i piani degli Undine. Si preparano ad aggiungere l’ennesimo pianeta alla collezione, usando questa struttura per aprire un’interfase. Il prossimo mondo sarà Ferasa, del nostro Universo. Se volete fermarli avrete bisogno di me».
   A quelle parole Shati sentì rizzarsi il pelo per l’apprensione. Rivera si accorse che la conferma dei suoi timori l’aveva destabilizzata; ma non c’era tempo di occuparsene. La cosa più urgente era uscire da lì con Dualla, per farsi raccontare tutto ciò che sapeva. «Naskeel, prendila su!» ordinò.
   Il Tholiano lo fissò brevemente con gli occhi sulfurei, ma non volle perdere altro tempo in discussioni. Così afferrò rudemente la Deltana e se la buttò in spalla, come un sacco di patate. La squadra riprese a correre, con Naskeel che non pareva affatto rallentato dal carico.
   «Ehm... tu ricordi che strada abbiamo fatto, vero?» sussurrò il Capitano, accostandosi all’Ufficiale Tattico. «A me questi corridoi sembrano tutti uguali». Senza il casco della tuta a fargli da navigatore, aveva difficoltà a orientarsi.
   «Mi segua» fece Naskeel, che aveva memorizzato ogni svolta.
   «Dilettanti!» fece Dualla, dalla sua posizione non particolarmente dignitosa.
   «Lei non è nella posizione di rivendicare maggior successo!» fece Rivera, infastidito. In effetti il Tholiano la stava ancora portando in spalla.
   Gli avventurieri incontrarono ancora un paio di Undine nei corridoi, ma riuscirono sempre a tenerli a distanza, crivellandoli di colpi per poi oltrepassarli. Dietro di loro, però, sentivano che ce n’erano molti di più all’inseguimento. Se li avessero raggiunti, sarebbe stata la fine.
 
   «Un ultimo sforzo!» gridò il Capitano, riconoscendo la zona d’attracco. Ormai anche lui si sentiva scoppiare la milza, ma non potevano fermarsi né rallentare proprio ora, con gli alieni alle costole.
   Trovarono la Scorpion dove l’avevano lasciata. Entrarono di corsa: prima Shati che si fiondò al timone, poi Naskeel che depose Dualla e andò al tattico. Seguirono Talyn, che prese la postazione sensori e comunicazioni orfana di Gort, e le altre guardie. Ultimo fu Rivera, che prima di chiudere la porta a diaframma vide sbucare gli inseguitori Undine, pazzi di collera. Fece appena in tempo a chiudere il diaframma, prima che i loro artigli vi si conficcassero.
   «Via di qui!» gridò il Capitano, ansante per la corsa.
   Shati stava già cercando di partire, ma incontrava delle difficoltà. La bionave tremava, spinta dai propulsori, senza tuttavia prendere il volo. «È come temevo, non riesco a sganciarci dalle morse d’attracco!» avvertì la Caitiana.
   «Altre bionavi si avvicinano. Vogliono intrappolarci!» avvertì Talyn.
   «Non lasciate che ci prendano. Non avranno pietà, come non ne ebbero per il mio equipaggio» avvertì Dualla.
   «Sì, abbiamo visto che ne è stato di loro» disse Rivera, memore della prima avventura nello Spazio Fluido. Non rivelò che aveva dovuto uccidere uno degli ultimi superstiti, impazzito dopo cinque anni nella biosfera. Aveva la sensazione che Dualla non l’avrebbe presa bene.
   «Ci penso io» disse Naskeel, e aprì il fuoco col cannone antiprotonico anteriore. Il potentissimo raggio colpì il molo, pochi metri avanti a loro, e lo disintegrò con gli Undine che vi si erano radunati. L’esplosione si propagò alle strutture d’attracco, che si deformarono e in parte cedettero. La bionave stessa fu avvolta dalla fiammata e sussultò per il contraccolpo.
   «Ah ah, ora non fate più i gradassi!» esclamò Shati, osservando i resti degli Undine e delle loro strutture. «E adesso... hear me roar!». Così dicendo dette piena potenza ai propulsori.
   Ci fu uno schianto e la Scorpion si liberò dalle morse d’attracco. O per meglio dire, strappò le morse dal loro alloggiamento, così che queste rimasero agganciate allo scafo. In ogni caso, la bionave era libera. Shati la girò rapidamente, puntando verso l’uscita del tunnel, e schizzò in avanti. Altre bionavi cercarono di fermarli, ostruendo il passaggio, ma la timoniera sgusciò agilmente fra loro. Gli Undine non osavano sparare, per timore di danneggiare gravemente l’Harvester in cui si trovavano. I fuggiaschi, dal canto loro, non avevano questi scrupoli.
   Scansionando il percorso antistante, in cerca d’ostacoli, Talyn si avvide che gli alieni avevano serrato il portellone esterno a diaframma, nel tentativo d’imprigionarli. «Il tunnel è chiuso!» avvertì, accorgendosi che mancavano pochi secondi all’impatto.
   Naskeel aprì immediatamente il fuoco, disintegrando il portello con un altro raggio antiprotonico. Sbuffi di fuoco e frammenti di bio-corazza furono espulsi nello spazio. «Adesso è aperto» puntualizzò.
   «Yu-huuu, tenetevi forte!» raccomandò Shati. La Scorpion eruppe in mezzo ai detriti dell’esplosione, sbucando nello spazio aperto. Una decina d’altre bionavi la seguì, uscendo dall’Harvester. Ancora di più convergevano da fuori, richiamate da tutto il sistema. Adesso che erano all’aperto, gli Undine non avevano più remore a sparare. Lo spazio attorno alla Scorpion divenne una gragnola di raggi antiprotonici.
   «Così non va, ci chiudono tutte le vie d’uscita!» avvertì Shati, destreggiandosi tra le raffiche. Un raggio sfiorò la bionave, tranciando uno degli aculei posteriori.
   «Dirigi verso Arena, proveremo a seminarle con l’effetto fionda» ordinò Rivera. Era una tattica collaudata dalla Flotta Stellare, che prevedeva di calare nell’atmosfera di un pianeta e poi risalire bruscamente, come un sassolino che rimbalza sull’acqua di uno stagno. Naturalmente solo un pilota esperto poteva azzeccare l’angolo d’ingresso, evitando di precipitare come una stella cadente.
   «Dov’è la Destiny? Credevo che ci stesse aspettando!» fece Dualla.
   «Infatti dovrebbe essere nei dintorni» rispose Rivera. Attraverso il Visore, vide che Arena era sempre più vicino. Vide altresì i raggi antiprotonici che balenavano attorno a loro. Un solo colpo a segno poteva essere fatale.
   «Ci chiamano dalla Destiny» disse Talyn, inserendo il viva voce.
   «Destiny a Scorpion, abbiamo difficoltà ad agganciarvi. L’Harvester sta emettendo fasci di gravitoni sempre più forti, che interferiscono col teletrasporto» avvertì Losira. «Possiamo prendervi solo due per volta, restringendo il campo di confinamento».
   Rivera intuì che voleva sapere da chi cominciare. «Oltre a Talyn abbiamo liberato Dualla. Cominciate con lei, che ha notizie sugli Undine, e con Shati, che ha le coordinate quantiche di casa» ordinò.
   «Ma...» protestò la Caitiana.
   «È un ordine!» fece l’Umano, costringendola a lasciare il timone e prendendo il suo posto. «Poi prendete Talyn e le guardie. Io sarò l’ultimo» stabilì.
   A malincuore, quelli della Destiny obbedirono. Mentre Rivera s’ingegnava a eseguire la manovra atmosferica, il bagliore del teletrasporto avvolse Dualla e Shati. Il trasferimento fu assai più lungo del normale, con le loro sagome che sfarfallavano, segno che le interferenze erano gravi. Rivera si chiese se, invece di favorirle, avesse messo in pericolo le loro vite. Emissioni gravitoniche troppo intense potevano bloccare il teletrasporto, con gravissimo rischio per chi era a metà del processo. Infine le due svanirono del tutto.
   «Destiny a Scorpion, abbiamo Dualla e Shati» giunse la voce di Losira. «Ma le emissioni gravitoniche si sono appena decuplicate. Non ci azzardiamo a trasferire nessun altro di voi. Adesso usciamo dall’occultamento per darvi una mano!».
   «Negativo. Se tutte quelle bionavi vi prendono di mira, siete spacciati» avvertì Rivera, ricordando come avessero sopraffatto la CSS Destiny. «Restate in attesa, cerco di seminarle con questa manovra».
   I fuggiaschi erano ormai nell’atmosfera di Arena e si lasciavano dietro una scia di plasma incandescente. Fu allora che un raggio antiprotonico colpì la Scorpion, squarciando la fiancata.
 
   La violenta decompressione risucchiò le guardie, che furono espulse dall’abitacolo. Anche Talyn fu attirato all’indietro, coi timpani che quasi gli scoppiavano. Si afferrò disperatamente alla consolle, ma il risucchio fu così forte da fargli perdere la presa. L’El-Auriano scivolò lungo il pavimento e giunse presso la breccia. Stava per essere espulso a sua volta, ma con un ultimo sforzo si aggrappò a uno dei costoloni dello scafo, messo a nudo. Più avanti, Naskeel e Rivera furono gli unici in grado di reggersi alle proprie consolle senza essere risucchiati. Il Tholiano era avvantaggiato dalla sua presa d’acciaio, mentre l’Umano dispiegò il casco della tuta, proteggendosi dalla decompressione; in tal modo ebbe la forza di restare aggrappato.
   Erano passati pochi secondi dall’apertura della falla e finalmente la pressione si equilibrò, ponendo fine al risucchio dell’aria. Il Capitano e l’Ufficiale Tattico erano ancora al sicuro nella cabina. Ma Talyn era precariamente aggrappato al costolone, per metà fuori dall’abitacolo. Le sue braccia doloranti potevano cedere in qualunque momento, facendolo precipitare verso la morte, diecimila metri più in basso. «AIUTO!» gridò il giovane, sentendo che stava per perdere la presa.
   «Resisti, arrivo!» disse Rivera, pur non sapendo come aiutarlo. La Scorpion era in caduta libera, il che provocava una temporanea assenza di gravità a bordo. Se avesse lasciato i comandi, si sarebbe trovato a fluttuare nell’abitacolo, impossibilitato ad aiutare l’amico.
   «No Capitano, resti ai comandi. Ci penso io» disse Naskeel.
   Rivera dovette seguire il consiglio: cercò di tenere la navicella in assetto, evitando che si avvitasse. Intanto il Tholiano strisciava lungo la parete, reggendosi dove poteva, nel tentativo di accostarsi a Talyn. Passo dopo passo, gli arrivò vicino e gli tese la mano. Mancava poco, ma ancora non riusciva ad afferrarlo. E non poteva avvicinarsi di più, o anche lui avrebbe perso la presa. «Afferra la mia mano» disse con calma invidiabile.
   Il giovane deglutì e guardò verso il basso, al suolo sempre più vicino. Allora staccò una mano dall’appiglio e con enorme sforzo la tese verso Naskeel. Le loro dita quasi si toccavano.
   In quella la Scorpion attraversò una turbolenza atmosferica e sussultò. Fu un piccolo scossone, ma bastò a far perdere la presa a Talyn, già stremato dalla fatica. Le sue dita esangui scivolarono dal costolone ed egli cadde nel vuoto, trascinato indietro dall’aria. Il suo grido si perse nel frastuono della caduta.
 
   «NOOO!» gridò il Capitano, che si era guardato indietro appena in tempo per assistere alla tragedia. Anche dopo che gli Undine lo avevano rapito, s’era rifiutato di dare Talyn per spacciato. Ma adesso doveva farlo per forza. Non si sopravvive a una caduta da migliaia di metri, specialmente se al di sotto c’è un deserto roccioso. «Perché gli hai fatto staccare la mano? Ti ha dato di volta il cervello?!» gridò Rivera, con la vista appannata dalle lacrime. Talyn era stato più di un amico per lui; era quasi un fratello minore.
   «Il Guardiamarina avrebbe perso la presa in ogni caso» ribatté Naskeel, tornando verso di lui. «Io non potevo avvicinarmi ulteriormente. Ciò che ho fatto era l’unica azione logica per massimizzare le sue probabilità di sopravvivere. Se non fosse stato per quella turbolenza atmosferica, sarei riuscito a trarlo in salvo».
   Aveva ragione, si disse il Capitano, anche se non riuscì ad ammetterlo a voce alta. La colpa non era di Naskeel che aveva provato a salvarlo, ma degli Undine che li avevano messi in quella situazione. Ora però non era il momento di piangere Talyn: stavano ancora precipitando. Rivera ricacciò indietro le lacrime e si concentrò sui comandi.
   Ormai era chiaro che non potevano risalire nello spazio con quello squarcio nello scafo. Le tute li avrebbero protetti per un po’, ma la Scorpion era troppo danneggiata per volare. Il meglio in cui potevano sperare era un atterraggio d’emergenza. Almeno le altre bionavi erano rimaste indietro, notò Rivera, consultando i dati sulla consolle. Anzi, invece d’inseguirli stavano riprendendo quota, tornando in orbita. Il tiro al bersaglio era finito, ma non c’era molto da rallegrarsi. Gli Undine avevano ottenuto ciò che volevano: li avevano bloccati sul loro mondo.
   «Può farci atterrare?» chiese Naskeel, tornando ad accostarsi.
   «Ci sto provando!» disse il Capitano, lottando coi comandi. In pochi minuti di caduta libera erano già scesi di cinquemila metri. Ne restavano altrettanti prima di sfracellarsi al suolo. Almeno il terreno sotto di loro era pianeggiante: un deserto bianco, forse di sale. «Beh, è già qualcosa non dover schivare le montagne» pensò Rivera. Si sforzò di rimettere la bionave in assetto, attingendo alle ultime riserve d’energia. Poco alla volta ci riuscì. La caduta rallentò, pur senza fermarsi, e la gravità tornò a farsi sentire. L’Umano poté rimettere i piedi a terra e anche il Tholiano accanto a lui tornò a posare le sei zampe. Siccome le poltroncine erano state risucchiate fuori dall’abitacolo, dovettero restare in piedi.
   «Siamo a mille metri. Così non va... siamo ancora troppo veloci!» mugugnò Rivera. Era così teso che nemmeno l’essiccatore della tuta poteva impedirgli di sudare. Sentì le goccioline scendergli lungo la fronte e scosse la testa, perché non gli finissero negli occhi. Continuò a rallentare, cercando di far sì che la Scorpion atterrasse di pancia, per poi scivolare sul deserto sino a fermarsi. «Ci siamo quasi... sarà un atterraggio di fortuna» avvertì, vedendo che l’impatto era imminente.
   «La fortuna non esiste» ribatté Naskeel.
   «Deve esistere, perché di scalogna ne abbiamo avuta fin troppa» borbottò Rivera, pensando all’amico perduto. L’attimo dopo la bionave impattò col suolo.
   Crash.
 
   Talyn stava precipitando. La Scorpion era perduta in lontananza, ne intravedeva solo la scia, e il suolo desertico gli veniva incontro a velocità spaventosa. In base a come il giovane si rigirava cadendo, il deserto sembrava a volte sotto di lui, a volte sopra. Era disorientante. Per non parlare del freddo che lo intorpidiva e della carenza d’ossigeno che rischiava di farlo svenire.
   Sulle prime l’El-Auriano si augurò di perdere i sensi prima di sfracellarsi al suolo. Poi il suo sguardo fu attirato da qualcosa che cadeva sotto di lui. Era una sezione di scafo della Scorpion, tranciata dal resto della navicella. Cos’era quella macchia argentea sul lato interno?
   Con un tuffo al cuore, Talyn riconobbe uno degli armadietti che avevano fissato a bordo, quando avevano adattato la bionave alle loro esigenze. Nello specifico, l’armadietto dei paracadute. Non poteva ingannarsi, era proprio quello; ed era ancora chiuso. Se fosse riuscito a raggiungerlo e a prenderne il contenuto...
   Non c’era un istante da perdere. Il frammento di scafo cadeva più rapidamente di lui, quindi Talyn cambiò posizione. Anziché cadere di pancia, frenando l’aria, si raddrizzò in modo da cadere a freccia. Adesso aveva le braccia protese verso il basso, il corpo dritto come un palo e i piedi uniti in alto. Avvertì subito che stava prendendo velocità. Era sempre più vicino al frammento di scafo, che pareva venirgli incontro. Se lo avesse mancato, sarebbe stata la fine. Doveva afferrarlo al momento esatto: non un attimo prima, non uno dopo. Aspetta... aspetta... non ancora...
   «Ora!». L’istinto gli disse che era il momento giusto. L’El-Auriano afferrò l’armadietto mentre gli passava accanto, praticamente abbracciandolo. Adesso cadeva unito al frammento di scafo, ma doveva staccarsene al più presto. Con le dita intorpidite dal freddo e dalla fatica, aprì un’anta dell’armadietto e afferrò uno zainetto-paracadute, prima che il risucchio dell’aria lo facesse volare via. Assicuratosi di stringere saldamente la cinghia, si spinse via dal pezzo di scafo, facendo leva coi piedi. In pochi secondi fu a grande distanza. Vide gli altri paracadute che fuoriuscivano dall’armadietto aperto, disperdendosi. Quello che stringeva ora era la sua unica speranza.
   Per prima cosa Talyn indossò lo zainetto, rigirandosi più volte nella caduta, finché entrambe le braccia furono entro le cinghie. Poi serrò le chiusure di sicurezza sul davanti, accertandosi che fossero scattate. A quel punto tornò a rigirarsi, finché il cielo fu in alto e il deserto – sempre più vicino – in basso. Ora che s’era stabilizzato nella giusta posizione, doveva sapere a che altezza si trovava. Premette un sensore inserito nella chiusura anteriore e subito udì l’allarme di prossimità che lo avvertiva di aprire il paracadute. Il giovane lo fece immediatamente.
   Lo zainetto si aprì in sommità e il paracadute si dispiegò in un istante, rallentando così bruscamente la caduta che Talyn rimase senza fiato. Il cuore gli sussultò in petto e per un attimo la vista gli si oscurò. Appena si fu ripreso, il giovane guardò sotto di sé. Stava scendendo verso un suolo roccioso, senza particolari punti di riferimento. Solo all’orizzonte si levavano delle montagne. Non riusciva a dirigere la caduta come avrebbe fatto un paracadutista più esperto, ma fortunatamente non ne aveva bisogno, perché non c’era nulla che potesse infilzarlo. Certo che atterrare sulla dura roccia non sarebbe stata una passeggiata. Doveva stare attento a non infortunarsi. Essere sperduto in un deserto alieno era già abbastanza brutto. Essere sperduto nel deserto con le gambe rotte sarebbe stato fatale.
   Il sensore dello zainetto lo informò che mancavano pochi secondi all’impatto. L’El-Auriano piegò le ginocchia per assorbire l’urto, preparandosi a lasciarsi cadere su un fianco. Meno tre... due... uno...
   Thud.
 
   Dalla plancia della Destiny, Losira assistette impotente all’epilogo dell’inseguimento. Vide la Scorpion, colpita su un fianco, che precipitava come una stella cadente nell’atmosfera di Arena. Le sembrava impossibile che gli occupanti potessero sopravvivere all’impatto. «Avviciniamoci, agganciamoli con un raggio traente!» ordinò, sperando di fare in tempo.
   «No!» esclamò Dualla, appena giunta dalla sala teletrasporto. Con lei c’era Shati, che andò subito al timone, sostituendo il collega. «Le bionavi sono refrattarie al raggio traente. Per avere qualche effetto dovremmo calarci nell’atmosfera e questo ci renderebbe visibili» spiegò Dualla. «Inoltre col teletrasporto disturbato non potremmo imbarcare la squadra. Resteremmo a fare da bersaglio agli Undine, che ci distruggerebbero in pochi colpi. Conosce la potenza di fuoco delle bionavi, sa che è la verità».
   Davanti a quell’arringa, Losira s’indispettì. «Lei è Dualla, giusto? Come si permette di venir qui a dettar legge?!».
   «Sono il Capitano Dualla, e questa è la mia nave» rivendicò la Deltana, fronteggiandola. «Tutti voi ve ne siete impadroniti illegalmente. Ma sorvolerò sulla cosa, dato che mi occorre un equipaggio».
   «Le occorre un equipaggio perché ha lasciato massacrare quello che le era stato affidato!» rimbeccò Losira. «Ora il Capitano Rivera l’ha salvata, e lei in cambio vuole lasciarlo morire, così da soppiantarlo? Non accadrà! Fate come ho detto!» ordinò agli ufficiali.
   «Ordine annullato» disse Dualla in tono gelido. «Ascoltatemi bene, qui c’è in ballo ben altro che il comando di questa nave, o le nostre misere vite. Gli Undine stanno rubando interi pianeti. Sequestrano gli abitanti, li costringono a combattere, e se si ribellano sono capaci di distruggere il loro mondo, come avrete notato. Noi siamo gli unici che possano avvertire la Flotta Stellare del pericolo; ma non se ci lasciamo distruggere nel tentativo di salvare poche vite. Abbiamo il dovere di sopravvivere per dare l’allarme, così che i prossimi pianeti siano salvati. Il bene dei molti conta più di quello dei pochi!».
   «Quella è la filosofia della Flotta Stellare» disse Losira, con una smorfia. «Ma noi non siamo della Flotta. Siamo dei figli di buona donna e facciamo quello che ci pare. Anzi, sa che le dico? La nostra filosofia è: uno per tutti, tutti per uno! E adesso portaci nell’atmosfera, Shati!».
   La Comandante aveva parlato con sicurezza, certa che sarebbe stata obbedita. Dopotutto la Caitiana era profondamente leale al Capitano Rivera. Perciò fu con enorme stupore e delusione che Losira la vide alzare le mani dalla consolle.
   «Mi spiace, Comandante» mormorò Shati, con le orecchie basse. «Giuro che darei la vita per il Capitano e gli altri. Il fatto è che... loro la darebbero per salvare Ferasa e gli altri mondi in pericolo. E comunque non credo che siano spacciati. Vedrai che faranno un atterraggio d’emergenza e se la caveranno, finché torneremo a recuperarli».
   «Non puoi saperlo! Ci sono gli Undine che gli danno la caccia! Loro... insomma, chi sta con me?!» chiese Losira, guardandosi attorno in cerca di sostenitori.
   Giely scattò prontamente al suo fianco, fissando Dualla con aria torva. Fra tutti loro, la dottoressa era l’unica presente sulla Destiny fin dal varo e quindi l’unica che fosse stata ai suoi ordini. Ma ora la guardava come se avesse voluto strozzarla. Il suo esempio, però, non fu seguito. Tutti gli altri ufficiali infatti si schierarono con la Deltana, che fosse per opportunismo o perché effettivamente convinti. Il più combattuto fu Irvik, che infine si rivolse alla Comandante.
   «Abbandonare i nostri compagni è terribile, ma... gli ostacoli sono insormontabili» mormorò il Voth, le scaglie arrossate dall’imbarazzo. «L’Harvester continua a disturbare il teletrasporto. Se ci tuffiamo nell’atmosfera per agganciarli col raggio traente, diventeremo visibili e saremo in una posizione così vulnerabile che le bionavi ci distruggeranno all’istante. Considera che abbiamo perso una squadra per salvare un solo individuo; ora non possiamo perdere l’intera nave per salvare la squadra. Io... preferisco credere che i nostri amici se la caveranno, finché torneremo a prenderli coi rinforzi» disse.
   «Stai commettendo un errore... lo state commettendo tutti!» proruppe Giely, guardandosi attorno incredula. «Dopo tutto quel che ha fatto il Capitano per voi, come potete voltargli le spalle?!».
   «Abbiamo combattuto una guerra per lui» disse Shati, riferendosi all’anno trascorso nello Specchio. «Credo che questo basti a dimostrare la nostra lealtà. Ma cerca di capire... qui c’è il mio pianeta in gioco, e forse parecchi altri. Credo che lui sarebbe d’accordo».
   In quella l’addetto ai sensori, un Ferengi di nome Lum, si schiarì la voce. «Ehm... la Scorpion ha effettuato l’atterraggio d’emergenza» disse.
   «Ci sono superstiti?!» chiese Losira.
   «Chi lo sa, le emissioni dell’Harvester sono così forti da accecare i sensori. Non riesco nemmeno a rilevare gli altri abitanti, che sappiamo per certo essere laggiù» spiegò il Ferengi.
   Cadde un silenzio pesantissimo. Mai prima d’allora il comando della nave, e il senso del loro viaggio, erano stati messi così in discussione. Il ritorno di Dualla aveva ricordato a tutti che erano pur sempre dei fuorilegge, impadronitisi della Destiny, e che necessitavano di un patrono nella Flotta Stellare per sperare nel perdono. La Deltana poteva essere ciò di cui avevano bisogno.
   «Mi spiace che le cose siano andate in questo modo» disse Dualla, fronteggiando Losira. «Le potrà sembrare di aver perso molto, ma le ricordo che io ho perso assai di più, a causa degli Undine. Ed è proprio per questo che non voglio vanificare questi sacrifici! Ora finalmente possiamo tornare nella Federazione e avvertirla del pericolo. Le informazioni che avete raccolto saranno d’inestimabile valore per organizzare la controffensiva. E naturalmente metterò una buona parola per voi col Comando di Flotta. Dopo tutto ciò che avete fatto, è giusto che otteniate l’amnistia!» disse ad alta voce, in modo che tutti la udissero.
   Ciò detto, Dualla sedette con naturalezza sulla poltrona del Capitano. Dopo qualche momento, gli avventurieri tornarono alle loro postazioni, accettando il cambio di comando. Solo Losira e Giely restarono in piedi accanto alla Deltana, fissandola con aria accusatoria.
   «Timoniera, allontaniamoci da qui. Rotta per i margini del sistema, dov’è più difficile che gli Undine ci rilevino» ordinò Dualla.
   «Sì... Capitano» mormorò Shati, allontanando la Destiny da Arena. Il pianeta scomparve in lontananza, come anche l’Harvester. In plancia tornò un surrogato di normalità, anche se gli avventurieri parlavano poco e a bassa voce.
   Giely però non voleva arrendersi, ragion per cui si rivolse a Dualla. «Vi siete comprata facilmente la lealtà dell’equipaggio» constatò. «Sono bastate poche parole: uno spauracchio di qua, una promessa di là. Il Capitano, invece, s’era meritato la lealtà con le sue azioni».
   «Lei chi è, signorina? Perché è l’unica a indossare l’uniforme di Flotta?» chiese la Deltana, degnandola finalmente della sua attenzione.
   «Perché sono l’unico ufficiale di Flotta, oltre a lei!» rispose la Vorta con un riso amaro. «Dottoressa Giely, specialista in tossicologia. Facevo parte dell’equipaggio al momento del varo. Non mi stupisce che non si ricordi di me... non ero così importante, infatti non ci siamo mai presentate. Ma negli ultimi tre anni sono stata Medico Capo su questa nave».
   «Capisco» disse Dualla, rialzandosi per fronteggiarla. «Devono essere state gravi responsabilità per le sue giovani spalle. Sorvolerò sul fatto che poco fa lei abbia contestato i miei ordini. La sua professione medica certo la sprona ad aiutare sempre tutti. Ma deve comprendere che, così facendo, noi proteggiamo l’intera Federazione. Una volta tornati, sono certa che lei potrà riprendere regolare servizio. Non so se potrà mantenere il grado di Medico Capo che ha ricoperto per mancanza di personale qualificato, ma di certo sarà encomiata per i suoi sforzi».
   «È strano, sa? Quand’ero agli ordini di un fuorilegge, mi sentivo parte della Flotta Stellare. E ora che sono ai suoi, mi sembra d’essere una fuorilegge» disse Giely. «Sarà perché il Capitano s’era guadagnato la mia fiducia. Quando restai dispersa nello Specchio, lui tornò a salvarmi. Ora che le parti sono invertite, non dovrei essere da meno».
   «Sono spiacente di non aver potuto conoscere bene Rivera. A giudicare dalle sue parole, non stento a credere che fosse un brav’uomo» disse Dualla. «Tuttavia non deve farsi illusioni, dottoressa. Non torneremo su Arena solo per lui. In effetti è probabile che a quest’ora sia già morto».
   A queste parole, Giely la schiaffeggiò sonoramente davanti a tutti. Il gesto fu così inaspettato e violento che Dualla rimase a fissarla ammutolita, massaggiandosi la guancia offesa.
   «Lui sarebbe tornato per salvarla! Non ha mai lasciato indietro nessuno, quali che fossero i rischi! Pensi che s’è infiltrato nell’Harvester per salvare Talyn. Se non l’avesse fatto, ora lei non sarebbe qui al suo posto!» gridò la Vorta. «Preghi che sia morto, perché altrimenti tornerà a reclamare questa nave, e le darà ciò che merita. E ora, se vuole scusarmi, vado a ritirare le mie cose dal nostro alloggio, prima che lei ne riprenda possesso. Sa, fino a stamattina io e lui eravamo conviventi!» rivelò. Dopo di che le voltò le spalle e abbandonò la plancia, seguita da Losira. Si lasciarono dietro i colleghi pieni di vergogna e una Dualla oltraggiata, ma troppo timorosa di un ammutinamento per reagire.
 
   «E così non c’è traccia della Destiny...» commentò telepaticamente il Supervisore, mentre giocherellava col teschio di Gort. Lo aveva ripulito accuratamente dai tessuti molli, conservando solo le ossa, per aggiungerlo alla sua collezione. Gli piaceva osservare i teschi degli umanoidi, anche se rimaneva sempre stupito dalla loro fragilità.
   «Le ricerche hanno dato esito negativo, signore» confermò l’Attendente al suo fianco. «I fuorilegge non hanno fatto alcun tentativo di salvare i loro compagni».
   «Questo è strano. Non combacia con il loro precedente comportamento. Dopotutto hanno osato infiltrarsi qui per salvare un solo compagno...» ragionò il Supervisore.
   «Forse hanno compreso che è una strategia fallimentare, mio signore. Avendo perso la squadra per un uomo, non hanno osato rischiare l’intera nave per la squadra» ragionò l’Attendente.
   «Può darsi... o forse è il segno di un cambio al comando» rifletté il Supervisore, palleggiando il teschio come se fosse una pallina da baseball. «Dopotutto Rivera è finito su Arena, mentre Dualla ha raggiunto la Destiny. Magari ha ripreso il comando della sua vecchia nave».
   «E gli avventurieri le avrebbero permesso di farlo?» fece l’Attendente, scettico.
   «Può averli convinti, se non con la logica, con promesse e minacce» insisté il Supervisore, sempre più convinto. «Ora dobbiamo capire esattamente quali informazioni hanno rubato dal nostro database. Se avessero recuperato le coordinate di ritorno, sarebbe una catastrofe. La nostra intera operazione sarebbe a rischio e dovrei conferire con l’Imperatore...» rimuginò, fissando corrucciato le orbite vuote del teschio. Forse lui stesso sarebbe diventato uno dei crani della collezione imperiale...
   «Negativo, signore» disse il Maestro Formatore, che era al lavoro sul computer. «L’unico database al quale gli intrusi sono riusciti ad accedere è quello dei mondi che abbiamo già raccolto. Ma siccome non abbiamo ancora preso la Ferasa federale, ecco che non hanno le coordinate per tornare alla Federazione».
   «Eccellente!» fece il Supervisore. Si alzò dallo scranno, lasciando il teschio posato sul bracciolo. «Ora quei fuorilegge hanno tre possibilità. Possono abbandonare il nostro spazio e riprendere l’esplorazione del Multiverso, avvalendosi della nuova lista di coordinate. Sarebbe la cosa più sensata, ma credo che siano troppo cocciuti per farlo. Possono cercare di salvare i compagni naufragati su Arena, nel qual caso saremo pronti a colpirli. E infine possono cercare d’infiltrarsi nuovamente qui... ma senza un’altra bionave sarebbe pura follia. In ogni caso, voglio che la sorveglianza sia raddoppiata».
   «Sarà fatto, mio signore» garantì l’Ufficiale Tattico. Era stato lui a rapire Talyn, poche ore prima, e infatti zoppicava ancora per le ferite dello scontro. «Comunque abbiamo localizzato i dispersi su Arena. Non vuole che li catturiamo o li eliminiamo?».
   «Non mi ha ascoltato? Preferisco usarli come esca» ribatté il Supervisore. «Per ora restiamo in osservazione. Mandi un Infiltratore fra i naufraghi, così saremo sempre aggiornati sulle loro mosse».
   «Ricevuto, manderò il più esperto» fece l’Ufficiale Tattico. «Vuole che chieda dei rinforzi dal Mondo Corallo, per proteggerci meglio?».
   «Negativo, abbiamo navi a sufficienza» rispose il Supervisore. In realtà non gli sarebbe affatto dispiaciuto avere quei rinforzi. Ma chiederli adesso sarebbe parsa un’ammissione di debolezza e d’incapacità. I suoi nemici a corte ne avrebbero approfittato, e forse l’Imperatore li avrebbe ascoltati, rimuovendolo dall’incarico. No, si disse, doveva farcela con le forze già a sua disposizione, senza mendicare aiuti.
   «Un’altra cosa: dobbiamo accelerare i tempi della raccolta. Iniziate i preparativi per aprire una nuova interfase» ordinò il Supervisore ai Formatori. «Ho intenzione di prendere Ferasa, prima che gli intrusi possano crearci nuovi fastidi».
 
   Radunati nel laboratorio di astrometria, gli ufficiali della Destiny ascoltarono il mesto rapporto di Irvik sui dati recuperati dall’Harvester.
   «Che cosa?!» strepitò Shati. «Sarebbe a dire che ancora non possiamo tornare a casa?!».
   «Purtroppo è così, il povero Gort dev’essersi confuso» confermò l’Ingegnere Capo. «Invece di prendere le coordinate di tutti gli Universi conosciuti, ha preso solo quelle dei mondi già rapiti dagli Undine. Fra questi c’è il Ferasa dello Specchio, ma non quello del nostro Universo. Quindi non possiamo tornare. Se ci fossi stato io, magari...» borbottò, ma poi tacque, ricordando che aveva rifiutato per paura.
   «Quindi è stato tutto inutile» commentò amaramente Losira, che aveva accettato di partecipare alla riunione, a differenza di Giely. «Abbiamo allertato gli Undine, abbiamo perso la squadra e non possiamo nemmeno chiamare rinforzi».
   «Beh, almeno abbiamo la nuova lista di coordinate» notò Irvik, indicando l’elenco che scorreva sull’oloschermo.
   «E quindi? Vorresti che riprendessimo l’esplorazione del Multiverso, infischiandocene di tutto e di tutti?!» accusò la Risiana.
   «No, intendevo dire che queste sono tutte realtà alle quali è stato strappato un pianeta. Devono esserci un bel po’ di potenze interstellari pronte a vendicarsi degli Undine, se solo insegnassimo loro come raggiungerli. Se le visitassimo tutte, ci faremmo parecchi alleati...» suggerì il Voth.
   «Negativo» disse Dualla, fissando lo schermo con aria assorta.
   «Perché no?! Così avremmo qualche speranza di fermare gli Undine!» protestò Irvik. «Da soli non possiamo distruggere l’Harvester, ma con una flotta ad aiutarci...».
   «Non è così semplice. Prima che mi liberaste, ho avuto una... chiacchierata col Supervisore» spiegò la Deltana. «Ha detto che, se avessimo richiamato qui altre forze, avrebbe attaccato in massa la Federazione. Non so se fosse un bluff, ma resta il fatto che non possiamo ignorarlo. Ora, se potessimo tornare, io informerei il Comando di Flotta e poi sarebbero loro a decidere il da farsi. Ma siccome il ritorno ci è precluso, e non possiamo nemmeno avvisare del pericolo, non me la sento di far scoppiare una guerra a cui la Federazione non è preparata».
   Gli avventurieri si accorsero che Dualla ragionava ancora come un Capitano di Flotta, che non osava prendere troppe iniziative personali. Non come loro, che erano abituati a non rendere conto a nessuno. «Quindi cos’ha intenzione di fare?» chiese Losira. «Se non possiamo attaccare da soli, e nemmeno cercare rinforzi, che ci resta?!».
   «Non ho detto che non faremo nulla. L’essenziale è non gettarci allo sbaraglio» puntualizzò Dualla. «Per il momento continueremo ad analizzare le forze nemiche, in cerca di punti deboli. Intendo anche riorganizzare l’equipaggio, rivedendo turni e mansioni, così da portare al massimo l’efficienza della nave» decise la Deltana.
   «Nel frattempo i dispersi su Arena potrebbero morire» notò Losira. «Non crede che dovremmo tornare a salvarli?».
   «E lei non pensa che gli Undine se lo aspettino, e ne approfittino per tenderci un’imboscata? No, non uscirò allo scoperto a due passi dalla loro stazione» insisté Dualla. «Già una volta ho esposto troppo questa nave, e ho perso l’equipaggio. Non lascerò che la storia si ripeta con voi».
   «E se intanto gli Undine si prendessero Ferasa?» chiese Shati, sempre in ansia per il suo mondo.
   «Raccogliere informazioni e aumentare l’efficienza della nave ci permetterà di reagire al meglio, se si arrivasse a quello scenario» insisté Dualla. «Sentite, mi rendo conto che vorreste fare grandi cose, e mal sopportate di aspettare» aggiunse, rivolta a tutti i presenti. «Ma un’azione affrettata può condurci alla catastrofe. Siamo l’unica nave federale nello Spazio Fluido, mentre gli Undine possono richiamare la loro intera flotta. Gettarsi a capofitto in battaglia può sembrare eroico, ma se il nemico è così forte, allora è solo stupido. Ci sono momenti in cui bisogna saper attendere e lasciare che sia l’altro a fare la prossima mossa. Questo è uno di quei momenti, e noi aspetteremo prima d’esporci, o d’esporre la Federazione a una rappresaglia. La riunione è aggiornata, potete andare». 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Star Trek / Vai alla pagina dell'autore: Parmandil