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Autore: Parmandil    07/10/2023    1 recensioni
Le porte del Multiverso sono aperte! Per tre anni gli avventurieri della Destiny hanno vagato tra le realtà, cercando di ritrovare la propria. Ma tutto ciò non era che il preambolo del vero conflitto.
Catapultati in un sistema stellare costruito artificialmente, assemblando pianeti ghermiti dal Multiverso, i nostri eroi iniziano a comprendere il diabolico piano degli Undine. Divisi dopo una fallita infiltrazione, dovranno scegliere tra la filosofia federale – il bene dei molti conta più di quello di uno – e la propria – tutti per uno e uno per tutti. Riusciranno i naufraghi a sopravvivere sul pianeta Arena, dove i più formidabili guerrieri del Multiverso si affrontano in lotte all’ultimo sangue? Quali segreti si nascondono sulla stazione a forma d’icosaedro? Chi è realmente il Viaggiatore? E soprattutto, di chi ci si può fidare? Tra stargate e monoliti, tra gli Aracnidi di Klendathu e i Vermi di Dune, le differenti realtà si contaminano come non mai. La posta in gioco è più alta, i nemici più agguerriti e le lealtà personali saranno messe alla prova come non mai. Anche radunando i campioni del Multiverso, c’è una sola certezza: stavolta non tutti i nostri eroi si ritroveranno sani e salvi.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Il Viaggiatore, Nuovo Personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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-Capitolo 3: Arena
 
   Il sole si levava sul deserto piatto, di un biancore accecante, per via del sottile strato di sale che lo ricopriva. Era l’unico residuo dell’antico oceano, ormai prosciugato, che un tempo copriva metà del pianeta. Un solo tratto interrompeva quella bianca monotonia: una sottile linea rossa, come una ferita nel suolo. Era la scia provocata dalla navicella, durante il suo atterraggio d’emergenza. Lo scafo aveva grattato lo strato salino superficiale, rivelando i depositi ossidati sottostanti. Al termine di quella scia, lunga centinaia di metri, i resti deformati della bionave sfrigolavano per il calore della caduta. La Scorpion era irrecuperabile, con la prua deformata dall’impatto, lo squarcio sulla fiancata e gli aculei posteriori – facenti parte del propulsore – tutti spezzati. Nemmeno la bio-materia Undine, infatti, poteva rigenerare danni così gravi. La navicella sarebbe rimasta lì ad arroventarsi sotto il sole, un relitto fra i tanti che costellavano Arena.
   Ma c’era ancora vita al suo interno. Una figura umana si affacciò dallo squarcio, schermandosi gli occhi dal riverbero accecante del deserto. «Caramba, c’è mancato poco. Io sono illeso, e tu?» chiese il Capitano Rivera. Si tolse i resti della tuta occultante, che aveva attutito l’impatto salvandogli la vita, ma ormai era infranta e fuori uso.
   «Sono tutto d’un pezzo» rispose Naskeel, venendogli accanto. Anche lui si disfece della tuta, conservando solo il cinturone che emetteva l’aderente campo di forza da cui dipendeva la sua vita.
   «Bene, è... un buon punto di partenza» commentò il Capitano. Rivolse un’occhiata al deserto, che si era preso la giovane vita di Talyn. Avrebbe voluto piangere... ma non poteva sprecare acqua nemmeno per quello. Impostosi l’autocontrollo, si premette il comunicatore. «Rivera a Destiny, mi sentite?» chiese, senza ottenere risposta.
   «Se l’Harvester continua a disturbare le comunicazioni, non possono captarci» avvertì Naskeel.
   «Ma verranno comunque a prenderci. Vedranno dove siamo caduti e ci recupereranno» disse Rivera, fiducioso.
   «Non ci conterei. Per salvarci dovrebbero abbassare gli scudi e rendersi visibili, il che permetterebbe agli Undine di distruggerli» obiettò il Tholiano. «È più probabile che si siano ritirati a distanza di sicurezza».
   «Uhm, non credo che Losira lo farà...» mormorò Rivera, con una fitta di rimpianto. La Risiana li avrebbe cercati soprattutto per salvare Talyn. Come le avrebbe detto che era morto?
   «Sempre che Losira sia ancora al comando» commentò Naskeel.
   «Come? Perché non dovrebbe?!» fremette Rivera.
   «Perché adesso sulla Destiny c’è Dualla, che potrebbe reclamare l’autorità, approfittando dell’emergenza e del vuoto di potere» spiegò il Tholiano.
   «Ma no, gli altri non glielo permetterebbero... credo» borbottò l’Umano, ma mentre lo diceva non si sentì così sicuro. Non conosceva Dualla e non sapeva quali strumenti di pressione potesse avere.
   «Indipendentemente da chi è al comando, venire a salvarci metterebbe a rischio la nave» proseguì Naskeel. «Ora che i nostri colleghi hanno le coordinate quantiche di rientro, la mossa più logica è tornare alla Federazione e chiedere rinforzi».
   «Uhm, sì, potrebbero aver preso quella strada» ammise il Capitano a malincuore. «Se le cose stanno così, dobbiamo concentrarci sulla sopravvivenza, almeno per qualche giorno». Guardò il cielo senza nuvole, schermandosi gli occhi dal sole accecante. Era mattina presto e lui era già in un bagno di sudore. Che temperature si raggiungevano durante il pomeriggio? «Il rischio è che ci trovino prima gli Undine. Non mi piace la nostra posizione, è troppo scoperta. Dobbiamo lasciare questo relitto e trovare un altro rifugio. Magari laggiù» disse, indicando una linea di basse montagne all’orizzonte.
   «Sono più lontane di quanto sembra» avvertì Naskeel. «Serviranno giorni per raggiungerle. Comunque in quella direzione il suolo è più frastagliato e potrebbe già offrirci qualche riparo».
   «Prima ci mettiamo in cammino, prima arriviamo. Vediamo un po’ come stiamo a provviste» disse Rivera. Fortunatamente quando avevano adattato la Scorpion alle loro esigenze avevano anche installato un armadietto con borracce, razioni d’emergenza e kit medico. Il Capitano prese tutto, riempiendo lo zainetto. Poi cercò di calcolare quanti giorni di sopravvivenza gli garantiva. «Vediamo... a te non servono queste scorte, vero?» chiese a Naskeel.
   «Noi Tholiani ci nutriamo di composti solforosi. Se necessario, posso sopravvivere fino a sei mesi senza» rispose l’Ufficiale Tattico.
   «Non credevo che ti avrei invidiato» borbottò Rivera, osservando le scorte. Le razioni proteiche lo avrebbero tenuto in vita a lungo, ma era l’acqua a preoccuparlo. Con quel caldo ne avrebbe consumata molta. Per quanto la razionasse, non credeva che sarebbe durata più di una settimana; forse anche meno. «Prendiamo i tricorder. Se la nostra permanenza dovesse prolungarsi più di qualche giorno, avrò bisogno di trovare acqua» ammise.
   «Lei non è l’unico ad avere i giorni contati, Capitano» avvertì Naskeel. «Io dipendo dal campo di forza per la sopravvivenza. Senza di quello, il freddo mi ucciderà».
   Il Capitano rimase interdetto. Dopo tre anni passati a lavorare fianco a fianco con Naskeel, aveva quasi scordato che il Tholiano doveva costantemente proteggersi col campo di forza. E dalla sua prospettiva umana, faticava a considerare quel deserto rovente come un luogo in cui si poteva morire di freddo. Ma Naskeel aveva ragione, naturalmente. I Tholiani necessitavano di una temperatura superiore ai 200º C per sopravvivere. Lì ce n’erano 45 al massimo, ed era probabile che di notte la temperatura crollasse sottozero, com’è tipico dei deserti. «Quanto tempo hai?» chiese.
   «Con queste» disse Naskeel, prendendo delle unità energetiche dall’armadietto, «dieci giorni al massimo».
   «Capisco» mormorò il Capitano, colpito da quel rovesciamento. Lui forse avrebbe trovato dell’acqua, ma era difficile che Naskeel trovasse delle ricariche energetiche, anche se avessero esplorato i relitti che costellavano il deserto. «Vedrai che i nostri compagni faranno i conti, e torneranno prima d’allora» cercò d’incoraggiarlo.
   «Questo dipende da molti fattori, tutti fuori dal nostro controllo» ribatté Naskeel. «Inoltre la nostra sopravvivenza non è minacciata solo dall’esaurimento delle scorte». Così dicendo imbracciò il fucile polaronico, la sua arma preferita.
   «Già, gli Undine» convenne Rivera, armandosi con phaser e frusta neurale.
   «Non solo» puntualizzò il Tholiano. «Su questo pianeta ci sono combattenti radunati dal Multiverso, impegnati in scontri senza fine. È probabile che li incontreremo per primi».
   «Dovremo stare in guardia» convenne il Capitano, sempre più cupo. La vita su Arena sarebbe stata una continua battaglia.
   «Non potremo rispettare la Prima Direttiva, se incontrassimo specie pre-curvatura» concluse Naskeel, squadrandolo con gli occhi sulfurei, come se lo sfidasse a dire il contrario.
   «Al diavolo la Prima Direttiva» convenne Rivera. «Non spareremo per primi, ma se qualcuno ci attacca, troverà pane per i suoi denti» disse, munendosi anche di una vibro-lama per gli scontri ravvicinati. Era un’arma da taglio la cui lama, di lunghezza regolabile, si dispiegava dall’impugnatura. Se l’era procurata nello Specchio, dove armi di quel genere erano assai diffuse.
   Così equipaggiati, l’Umano e il Tholiano abbandonarono i resti sempre più arroventati della bionave. E si tuffarono nel deserto bianco, diretti verso le lontane montagne all’orizzonte.
 
   Qualche ora di marcia portò i naufraghi al limitare di una zona più frastagliata, un labirinto di rocce in cui era facile nascondersi. «Ombra, finalmente» mormorò il Capitano, levandosi il sudore dalla fronte.
   «Attenzione, questo terreno è adatto a tendere agguati» disse Naskeel, guardandosi sospettosamente intorno. «Se ci sono altri esuli, è probabile che si nascondano qui».
   «Già, stiamo all’erta» convenne Rivera, chiedendosi cosa avesse in serbo il Multiverso per loro. Non dovette attendere a lungo per scoprirlo.
   I due avevano fatto pochi passi nel labirinto roccioso quando udirono uno scalpiccio sulla sinistra. Si girarono con le armi spianate e videro un uomo alto e magro, pallido nonostante il solleone. I suoi capelli erano neri, e d’un nero intenso era anche l’abito dalle linee retrò. Si avvicinò agli avventurieri senza mostrare alcuna meraviglia per l’aspetto del Tholiano, e neppure timore per le loro armi. «Avete visto la Torre Nera?» chiese, con l’aria di chi ha molta fretta.
   «Come?» fece Rivera, preso in contropiede.
   «La Torre Nera, il fulcro di tutti gli Universi... l’avete vista?!» lo pressò l’uomo in nero. Si guardò brevemente alle spalle, come se temesse d’essere inseguito.
   «No, mi spiace, siamo nuovi di qui» rispose il Capitano.
   A quelle parole lo sconosciuto fece un gesto di stizza e li oltrepassò, sempre con quella strana fretta, borbottando parole incomprensibili.
   Gli avventurieri avevano fatto pochi passi che un altro individuo si parò davanti a loro. Questo sembrava un pistolero del Far West, con abiti senza età tutti impolverati. Aveva il viso vissuto, su cui spiccavano gli occhi chiari e penetranti. Ciò che più attirò l’attenzione di Rivera, comunque, furono le due enormi pistole a canna lunga che impugnava con consumata esperienza.
   «Avete visto Walter Padick?» chiese il pistolero, anche lui con una fretta indiavolata.
   «Chi?».
   «L’uomo in nero, lo avete visto?!» lo pressò il pistolero. Si guardò attorno, in cerca di tracce sul terreno.
   Il Capitano non sapeva cosa ci fosse in corso fra quei due, chi fosse nel giusto e chi nel torto, per cui esitò a dargli la giusta indicazione. Ma Naskeel, al suo fianco, allungò il lungo braccio cristallino, indicando la direzione in cui era andato il primo uomo.
   «Grazie! Vi devo un favore, parola di Roland Deschain» disse il pistolero. Vide il suo avversario, qualche centinaio di metri in avanti, e scattò di nuovo all’inseguimento.
   L’uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì. In breve scomparvero entrambi alla vista, perduti nella distesa rovente.
   «Perché gli hai dato la traccia? Non sappiamo chi siano quei due» fece Rivera.
   «Ho ritenuto che non fosse opportuno scoprirlo» rispose Naskeel. «Avrei fatto meglio a disintegrarli?».
   «No, è meglio così, senza... disintegrazione» sospirò il Capitano. Riprese la marcia, seguito dall’Ufficiale Tattico. Cominciava a rendersi conto che quello era solo il primo di una lunga serie di bizzarri incontri.
 
   Era pomeriggio inoltrato quando il silenzio del deserto fu rotto da grida e spari. Gli avventurieri tornarono a impugnare le armi, cercando di capire da dove venisse il frastuono. Non era facile stabilirlo, in quel labirinto di rocce piene d’echi.
   «Di là» disse a un tratto Naskeel, girandosi verso destra.
   Rivera lo imitò, pronto a una sparatoria.
   Passarono i secondi. Le grida erano sempre più vicine; ora si udiva anche il calpestio degli stivali militari sul suolo roccioso. E c’era un altro suono, più indefinibile, ma dal timbro metallico.
   A un tratto una donna in tenuta militare sbucò da una fenditura tra le rocce. Era Umana, o almeno ne aveva l’aspetto, con capelli biondi lunghi fino alle spalle. Vestiva una tenuta militare con pantaloni verdi, ma s’era tolta la giaccia per il caldo, restando in canottiera; sul braccio sinistro aveva tatuata un’ala. Impugnava un’arma da fuoco, una sorta di fucile a ripetizione. Quando vide Rivera gli corse incontro. «Attento, è dietro di me! Ehi, ma...!». Vedendo Naskeel si bloccò e rivolse il fucile contro di lui.
   «Ferma, non sparare! Lui è con me!» gridò il Capitano, cercando d’evitare l’irreparabile.
   La donna esitò, ma in quella il suo inseguitore sbucò dalla fenditura. Allora tutti concentrarono l’attenzione su di lui. Era un robot da combattimento, come Rivera non ne aveva mai visti. Umanoide nelle linee generali, aveva una corporatura massiccia e correva agilmente. Il suo rivestimento argenteo aveva linee aggressive; recava i segni di proiettili che non erano riusciti a perforarlo. Il casco ricordava vagamente l’elmo di un centurione romano; un bagliore rosso cupo balenava nella visiera. Vedendo gli avventurieri, il robot lasciò perdere la donna e puntò le braccia contro di loro, estendendo le armi da fuoco integrate negli avambracci.
   Rivera e Naskeel reagirono istintivamente, aprendo il fuoco. Il raggio phaser e quello polaronico centrarono l’avversario, squarciandone la corazza in una cascata di scintille. Il robot cadde all’indietro, fumando dagli squarci. Qualcosa nelle sue armi integrate si muoveva ancora e la maligna luce rossa indugiava nella visiera. Allora Naskeel sparò di nuovo, col raggio a piena potenza, disintegrando il corpo meccanico. La testa rotolò lontano, col bagliore rosso finalmente estinto.
   «Grazie, ottima mira» ansimò la bionda. Era così esausta che dovette appoggiarsi ad alcune rocce per non accasciarsi. «Ma quello cos’è?!» chiese, accennando al Tholiano. Aveva ancora il fucile in pugno, come se non si fidasse.
   «È il mio Ufficiale Tattico, il Tenente Naskeel. Io sono il Capitano Rivera della Destiny» si presentò l’Umano, sperando d’evitare altre sparatorie.
   «Lavori con un alieno? Ne ho viste d’assurdità, ma questa le batte tutte. Senti un po’, sei davvero... umano? Non sei uno di quei tostapane?» chiese la donna, sempre sospettosa, accennando al robot mezzo disintegrato.
   «Che razza di domanda! Certo che sono umano... ti sembro simile a quell’arnese?!» protestò Rivera, ferito nell’amor proprio.
   «Non si può mai dire... adesso i Cylon ci imitano alla perfezione» si giustificò la bionda. «Dovresti vedere quelli di tipo 6, che razza di baldracche... ma lasciamo perdere».
   «Sì, lasciamo perdere. Senti, che ne dici se al tre deponiamo tutti le armi?» suggerì Rivera.
   «Mi sta bene» fece la donna.
   «Capitano...» obiettò Naskeel.
   «È un ordine, Tenente. Uno... due... tre».
   Finalmente le armi furono riposte. Allora la sconosciuta sedette su un macigno e aprì un taschino dei pantaloni, cavando una sigaretta. Fu sul punto d’offrirne un’altra a Rivera, ma si trattenne, notando che ne restavano poche. Accese la sigaretta, con un accendino sempre cavato di tasca, e prese a fumare di gusto. «Comunque io sono Kara Thrace. Il Capitano Thrace, se vogliamo essere formali. Potete chiamarmi Scorpion» disse, sbuffando una nuvoletta.
   «Scorpion? La mia navetta si chiamava così. Ci siamo schiantati poco fa» disse Rivera. «Senti, non è che hai una navicella funzionante, da qualche parte?».
   «Macché, è andato tutto in malora. Fottuti Cylon! Hanno abbattuto il mio Viper e da allora non riesco a contattare la squadriglia. Ah, che darei per un goccetto di whisky! Non ne hai per caso? Pago in sigarette, non aspettarti altro» fece Scorpion, parlando in uno strano slang. Ogni tanto faceva domande, ma poi non aspettava le risposte. «Da dove hai detto che vieni? Io sono di Caprica. Ero sul Battlestar Galactica, col resto della Flotta Coloniale. Sei bravo a sparare, ma il tuo equipaggiamento non è quello solito dei marine. Allora, da che colonia provieni?».
   «Da nessuna, io vengo dalla Terra» rispose Rivera, disorientato.
   «La Terra?! Vuoi dire che avete trovato la Tredicesima Colonia?!» esclamò Scorpion, sgranando gli occhi. Si tirò in piedi, improvvisamente interessata.
   «Ma quale colonia! Ti ho detto che vengo dalla Terra» ripeté il Capitano, sempre più confuso.
   «Appunto! La Terra è l’ultima colonia di Kobol».
   «Davvero? Non lo sapevo» fece Rivera. Da che razza di Universo proveniva quella donna? Si rese conto che forse non era il caso di spiegarle dove si trovavano. C’era il rischio che non gli credesse, magari che lo prendesse per pazzo.
   «Non lo sai, eh? Okay, amico. Mi sa che hai battuto forte la testa, quando sei naufragato. Forse è meglio se prendiamo strade separate» disse Scorpion. Riprese il fucile, pur senza puntarlo, e indietreggiò di qualche passo.
   «Nei sei certa? Siamo in un deserto, pieno di... come li hai chiamati? Pieno di Cylon e altre minacce. Non abbiamo grandi scorte d’acqua, né un modo per andarcene. Forse è meglio se stiamo uniti e ci guardiamo le spalle» consigliò il Capitano.
   «Forse» esitò Scorpion, indecisa. «Ma quello viene con noi?» chiese, indicando Naskeel.
   «Certo, non rinuncio al mio Tenente» disse Rivera con decisione.
   «Allora non fa per me» disse la donna, indietreggiando sempre più. «Credo sia meglio se ci separiamo, per adesso».
   «Se ci dividiamo, sarà difficile ritrovarci» avvertì il Capitano, ma capì che non le avrebbe fatto cambiare idea. «Dimmi solo una cosa, Scorpion: hai trovato fonti d’acqua in giro?».
   «Sì, presso le montagne ci sono caverne con delle sorgenti. Vi aiuteranno a sopravvivere in questo cesso di mondo. Addio, buona fortuna». Ciò detto il Capitano Thrace si dileguò.
   «L’ultima colonia di Kobol?» commentò Naskeel quando furono soli.
   «Non so che intendesse. Non ho mai sentito di un pianeta con quel nome. Né di Caprica e delle... Dodici Colonie. Per quanto ne so, la Terra non è mai stata colonizzata da altri mondi» disse Rivera, grattandosi il capo. «Evidentemente quella donna veniva da un altro Universo, uno di quelli sconosciuti alla Flotta. Prepariamoci ad altri incontri del genere».
 
   Rivera consumò una mezza razione e bevve un sorso d’acqua, dopo di che riprese la marcia assieme a Naskeel. Procedevano in silenzio, perché il Tholiano non era loquace e l’Umano aveva difficoltà ad attaccare bottone con lui. Del resto era fin troppo preoccupato per aver voglia di parlare, e con quel caldo preferiva tenere la bocca chiusa, per risparmiare umidità.
   Al calar del sole, il Capitano decise che era ora di fermarsi. «Basta così, sostiamo per la notte» disse. «Cerchiamo un posto riparato, nel caso di visite indesiderate». Si accorse che l’aria aveva già preso a rinfrescare. Al momento questo gli era di sollievo, ma... quanto raffreddava durante la notte? Ricordò che Talyn, analizzando il pianeta, aveva parlato di temperature sottozero nell’emisfero notturno, senza dare una cifra esatta. Lui aveva una coperta termica nello zainetto, ma sarebbe bastata? In alternativa poteva addossarsi a Naskeel, che era una stufa ambulante, ma chissà perché l’idea non lo attraeva.
   «Qui sembra adatto» disse il Tholiano, indicando un anfratto fra le rocce, che li avrebbe protetti su tre lati. Il fondo era una pietraia sassosa.
   «Uh, povera la mia schiena» borbottò l’Umano. Si levò lo zaino, s’inginocchiò e cercò di predisporre il giaciglio, levando i sassi più grossi e puntuti. Alzando una pietra piatta, vi trovò al di sotto un grosso insetto, simile a uno scarafaggio dalla lucida corazza nera. Era il primo animale che trovava su Arena, ma era nativo del pianeta o importato assieme a navi ed equipaggi? «Oh guarda, un bacherozzo» commentò distrattamente.
   «Bacherozzo?» chiese Naskeel.
   «Sì, un insetto, un artropode zampettante» spiegò Rivera, e lo spazzò via con una manata. Ripensandoci, sperò che il Tholiano non si sentisse parte della definizione. «Uff... dopo questa giornata, dormirò otto ore buone. Tu che fai, dormi?».
   «Io mi incisto» rispose Naskeel, e si ripiegò fino a diventare simile a un macigno. Non fosse stato per il colore arancione, e per alcuni dettagli del corpo articolato, si sarebbe confuso tra i pietroni.
   «Buenas noches, allora» fece il Capitano. Mangiò un’altra mezza razione e bevve un sorso d’acqua, ristorando la gola riarsa. Infine si avvolse nella coperta termica, le cui chiusure la rendevano a tutti gli effetti un sacco a pelo, e cercò di prendere sonno. Ma per quanto fosse stanco, c’era ancora troppa luce per addormentarsi. Sperò che Naskeel non russasse... ma no, era un pensiero assurdo...
   «Capitano» fece l’Ufficiale Tattico.
   «Uh? Che c’è?» farfugliò Rivera, già mezzo addormentato.
   «Capitano, c’è un bacherozzo» disse Naskeel.
   L’Umano si chiese se stava sognando. «E tu schiaccialo» consigliò, tenendo gli occhi ostinatamente chiusi.
   «Impossibile, Capitano. È più grosso di me... e sembra considerarla commestibile» spiegò il Tholiano.
   A quelle parole Rivera aprì gli occhi e si alzò a sedere, pregando che fosse uno scherzo di cattivo gusto. Ma Naskeel non scherzava mai.
   Davanti a loro c’era l’essere più mostruoso che il Capitano avesse mai visto. Era un enorme aracnide alieno, alto tre metri e lungo almeno cinque. Aveva una forma scheletrica, tutta spigoli e aculei, rivestita da una corazza chitinosa nera e gialla. Si muoveva principalmente su quattro arti, lunghi e sottili. Dal cefalotorace ne protendevano altri due più corti, ripiegati come quelli di una mantide. Tutti erano affilati come rasoi e potevano essere usati ora per trafiggere, ora per smembrare con un’ampia falciata. Sulle prime la creatura si limitò a saggiare l’estremità del sacco a pelo, come per stabilire se l’occupante era vivo. Appena lo vide muoversi si avventò su di lui, con un verso a metà fra ruggito e ticchettio, cercando d’impalarlo al suolo.
   «Boia d’un mondo!». Rivera si rotolò di lato, sfuggendo al colpo. Aprì il lato del sacco a pelo e ne rotolò fuori, già col phaser in pugno. Il mostro era su di lui, pronto a colpire, così l’Umano aprì il fuoco, facendogli saltare via una zampa. L’attimo dopo anche Naskeel sparò, tranciandone un’altra. L’aracnide si rovesciò su un fianco, dibattendosi freneticamente. Al tempo stesso emise un prolungato fischio spaccatimpani, forse un richiamo per i suoi simili.
   Il Capitano balzò in piedi e indietreggiò, ponendosi accanto all’Ufficiale Tattico. «Grazie per l’avvertimento, eh!» commentò.
   «Prego» fece Naskeel, senza cogliere l’ironia.
   Sotto i loro occhi, l’aracnide riuscì sorprendentemente a rialzarsi e tornò all’attacco. Dovettero colpirlo al cefalotorace, coi raggi a piena potenza, per ucciderlo. Allora la creatura esplose, schizzando ovunque un disgustoso sangue verde e colloso. Rivera ne ebbe uno schizzo dritto in faccia. «Frell, che schifo!» imprecò, cercando di pulirsi.
   «Fossi in lei aspetterei a gettare quel fluido» disse Naskeel, che aveva impugnato il tricorder e lo stava analizzando. «È per il 90% acqua, con l’aggiunta di proteine e zuccheri. Altamente energetico. Le consiglio di nutrirsene».
   «Io non leccherò mai questa merdaccia verde!» protestò il Capitano, con lo stomaco scombussolato. «Piuttosto leviamoci di torno, prima che arrivino altre bestiacce. Quel richiamo di prima non m’è piaciuto per niente».
   Aveva appena parlato che apparve un secondo aracnide, ancora più grosso del primo. Caricò Naskeel così rapidamente che stavolta questi non fece in tempo a sparare. E lo colpì con uno degli arti anteriori simili a falci. Un essere umano sarebbe stato tagliato in due, ma il Tholiano resistette al colpo. Tuttavia fu scagliato contro una parete rocciosa e da lì cadde a terra. Prima che potesse rialzarsi, una frana lo seppellì.
   «Oh, no» pensò Rivera, trovandosi solo contro quella furia di un altro mondo. Fino ad allora non si era reso conto di quanto la presenza di Naskeel gli desse sicurezza. Vedendo che l’aracnide gli si volgeva contro, l’Umano sparò, facendogli saltare via una zampa. Il mostro caricò, a malapena rallentato, e Rivera comprese che non poteva fermarlo in tempo. Quelle falci protese lo avrebbero fatto a pezzi.
   Fu allora che un militare con equipaggiamento pesante si unì allo scontro. Aveva una corazza grigia, con tanto d’elmetto. Impugnava un immenso mitragliatore, con cui crivellò l’aracnide, avendo cura di colpirlo in certi punti. I proiettili erano meno potenti di un raggio phaser, ma la loro quantità smodata fece a pezzi la creatura, riducendola a un ammasso sanguinolento. «Muori, bestiaccia! MUORI!» gridò il militare, lasciando che il sangue verde gl’imbrattasse il volto. Solo quando fu certo che la creatura era morta smise di sparare, e anche allora si tenne a distanza. «Tutto bene, cittadino?!» chiese, rivolgendosi a Rivera.
   «Sì, ti ringrazio» fece questi, vagamente divertito dal fatto che entrambi fossero coperti dal disgustoso sangue verde. «Comunque sono il Capitano Rivera, della Destiny» si presentò.
   «Scusi, signore» fece l’altro, mettendosi sull’attenti. «Sono il Tenente Rico, dei Leoni della Fanteria Mobile» disse, facendo il saluto militare.
   Rivera lo imitò, per cercare di accattivarselo. Ora che gli era più vicino, notò che il Tenente era molto giovane: poteva avere l’età di Talyn. Il suo sguardo, però, era indurito dalla guerra e dai lutti.
   «Allora Capitano, può contattare la sua nave, o almeno un mezzo da sbarco?» chiese Rico.
   «Ci ho provato, ma... qualcuno ostacola le trasmissioni» spiegò Rivera, incerto se parlargli degli Undine. «Sono naufragato con una navicella, che purtroppo è irrecuperabile. Stavo cercando di raggiungere le montagne, per trovare acqua e riparo» aggiunse.
   «Sì, anche a me è capitato lo stesso» disse Rico. «È meglio se restiamo assieme, Capitano. Questo è un pianeta brutto, un pianeta pieno d’insetti!» disse, e sputò sulla carcassa dell’aracnide.
   «Sembra che lei li conosca bene, Tenente» commentò Rivera, sperando di farsi dire di più.
   «Certo. Sono un veterano dell’assalto a Klendathu e della bonifica del pianeta P» confermò Rico. «Ero lì quando catturammo il primo Brain Bug. A proposito, signore, posso darle un consiglio?».
   «Naturalmente».
   «La prossima volta, non perda tempo a staccargli le zampe. Un Warrior Bug come questo può perdere una zampa e conservare l’85% delle capacità offensive. Se vuole spacciarlo in fretta, gli colpisca i centri nervosi» suggerì, indicando una zona del cefalotorace, quella che lui aveva crivellato di proiettili.
   «Lo terrò a mente» promise Rivera. «Allora, lei è qui per...?» chiese, sperando di capire com’era arrivato.
   «Per fare la mia parte, signore!» disse Rico, nel suo tono militaresco, fraintendendo la domanda. «Sa, sono di Buenos Aires» aggiunse.
   «Che combinazione! Lo sono anch’io» disse Rivera. Era lieto d’incontrare un compatriota, anche se era quasi certo che venisse da un Universo parallelo.
   «Condoglianze, signore. Ha perso molti cari?» chiese il Tenente, adombrandosi.
   «Perché condoglianze? Chi dovrei aver perso?!» si stupì il Capitano, ma si pentì subito d’averlo chiesto.
   «Beh, ma... l’asteroide, naturalmente!» fece Rico, ancora più sorpreso. «Quei dannati Aracnidi ce l’hanno lanciato da Klendathu. Io ho perso i miei genitori... da allora non faccio che combattere» disse corrucciato.
   «Ah, certo. Condoglianze, Tenente. Anch’io ho perso i miei» disse Rivera, correndo ai ripari. Non rivelò che erano morti in tutt’altre circostanze. «Frell! La prima volta che trovo un compatriota... scopro che da dove viene lui la nostra città è distrutta!».
   «Posso parlare liberamente, Capitano? Lei ha uno strano accento, una strana uniforme, e sembra ignorare molte cose sulla Guerra» disse Rico, squadrandolo con sospetto. «Ha detto la verità? È davvero al servizio della Federazione?» inquisì. La sua mano destra si accostò al grilletto del mitra, un gesto che non sfuggì all’altro.
   «Certo, Tenente! Osa dubitare della mia parola? Sono nato a Buenos Aires, ho fatto l’Accademia, e ora sono Capitano di vascello, al servizio della Federazione Unita dei Pianeti!» proclamò Rivera, mentendo solo sul terzo punto. In realtà era al servizio di se stesso, ma erano quisquilie.
   «Come sarebbe, Federazione Unita dei Pianeti?! Io parlo della Federazione Terrestre! Quella grazie a cui gli Umani, non gli Aracnidi, saranno i padroni della Galassia!» proclamò il Tenente.
   Rivera capì di aver fatto un passo falso. Stava ancora cercando d’inquadrare quel Rico. Gli sembrava un ragazzone volenteroso, e gli era grato per averlo salvato dall’Aracnide. Ma qualcosa gli puzzava nel suo atteggiamento, in quel militarismo esasperato. Se non era fascista, ci andava maledettamente vicino. Capì che doveva stare molto attento, perché bastava un nonnulla a farlo scattare con la stessa furia assassina che aveva riversato sull’Aracnide.
   «La Federazione Terrestre, già... io che ho detto? Ci serve spazio vitale, quindi... prima gli Umani!» ridacchiò il Capitano, cercando di sdrammatizzare. Ma si accorse che l’altro lo guardava con crescente sospetto.
 
   In quella si udì rumore di rocce che venivano smosse. Allora Rivera si ricordò di Naskeel, che era stato sepolto dal crollo, prima che Rico entrasse in scena. Vedendo che il cumulo di pietre era smosso da sotto, gli si avvicinò, per aiutarlo a emergere. Quasi certamente il Tholiano era illeso, in virtù del suo corpo cristallino... ma come avrebbe reagito il Leone della Fanteria Mobile al suo apparire?
   «E quello cos’è? Stia indietro, può essere un altro Aracnide!» avvertì Rico.
   «No, questo è il mio Tenente. È stato sepolto dalla frana, ma sono certo che sta bene» fece Rivera, cominciando a disseppellirlo.
   «Scherza? Avrà le ossa ridotte a segatura!».
   «Niente ossa. Vede, il mio Tenente non è propriamente... Umano» disse il Capitano, cercando di prepararlo allo shock. Decise di passare a un tono più familiare. «Figliolo, da quando sei su questo mondo avrai visto molte cose inspiegabili. Relitti di vascelli sconosciuti, specie aliene mai viste prima. Devi capire che non tutti qui veniamo dalla tua Federazione. C’è ben altro, là fuori. Così tante specie che non ne hai un’idea. Alcune purtroppo sono ostili. Con altre, per fortuna, si può ragionare. E così può capitare che un Umano come me abbia nel proprio equipaggio un Tholiano, come lui».
   Così dicendo Rivera scalzò un ultimo pietrone, permettendo a Naskeel di levarsi sulle sei zampe, scuotendosi per liberarsi dai detriti più fini. Per il Capitano l’aspetto del Tholiano era una vista abituale, tanto che non ci faceva più caso. Ma per il Tenente doveva sembrare un demone che emergeva dall’Inferno.
   «Che diavolo è quella cosa?! Dovrei credere che lavorate assieme?!» esclamò Rico, imbracciando di nuovo il mitragliatore. Una sventagliata non avrebbe ferito Naskeel, protetto dallo scudo e dal corpo cristallino; ma avrebbe certamente ucciso Rivera.
   «Sei fortunato che lavoriamo assieme, o non sarei così paziente» ammonì Naskeel, imbracciando a sua volta il fucile polaronico. «Ora deponi quell’arma, piccolo bipede».
   «Te lo scordi! Cribbio, ma quante zampe hai?! Due, quattro... sei. Troppo simile a un insetto per i miei gusti!» fece Rico, mirando al petto del Tholiano.
   «Insomma, datevi una calmata! È assurdo scannarci tra noi! Piuttosto cerchiamo di collaborare per andarcene da qui!» gridò Rivera, ma nessuno lo ascoltò. Non gli rimase che levarsi dalla linea di tiro.
   «Sei una creatura primitiva, con armi primitive e intelletto primitivo. Arrenditi o sarai distrutto» minacciò Naskeel, rivolto al Tenente.
   «I Leoni della Fanteria Mobile non si arrendono agli insetti!» ringhiò questi. «Sono Johnny Rico, di Buenos Aires, e dico: sterminiamoli tutti!». Sparò alcuni colpi, che rimbalzarono sul petto del Tholiano. L’attimo dopo l’alieno fece fuoco, colpendolo in pieno. Rico cadde a terra inanimato, il mitragliatore ancora stretto in pugno.
   «L’hai accoppato?!» esclamò Rivera, correndo al suo capezzale.
   «Negativo, è solo stordito» lo rassicurò Naskeel. «La sua corazza lascia scoperto il collo, una debolezza che mi ha permesso di sopraffarlo. Come vuole che ne disponga?».
   «In nessun modo, ora ce ne andiamo» disse il Capitano. Si assicurò che l’altro Umano avesse ancora respiro e battito cardiaco. «Spero solo che nel frattempo non arrivino altri di quei mostri. Uhm, ripensandoci, forse dovremmo fare la guardia. Dopo averlo disarmato, s’intende».
   «Si preoccupa della sua salute? Lui ci avrebbe uccisi» notò Naskeel.
   «Era confuso e spaventato. E pochi minuti fa mi ha salvato la vita. Non me la sento di abbandonarlo qui, a fare da cibo agli Aracnidi» si giustificò Rivera.
   A quel punto il Tholiano si erse in tutta la sua statura e fronteggiò il Capitano. «Prima di proseguire, dobbiamo risolvere alcune cose» disse.
   «Sempre pronto» fece Rivera. Intuì che stava arrivando il momento critico, quello che aveva atteso per tre anni: il momento in cui Naskeel lo avrebbe apertamente contestato. Poteva finire malissimo, specialmente ora che erano isolati dalla Destiny.
   «In primo luogo, mi dica cosa sta cercando di fare. Questi non sono forse ostacoli che dobbiamo rimuovere?» chiese il Tholiano, accennando sia ai resti degli Aracnidi che al Tenente svenuto.
   «Gli Aracnidi sì, ma... gli Umani no» puntualizzò Rivera.
   «Perché? Forse perché lei è Umano? Eppure credo che un Brain Bug sia più intelligente di questo primate» disse Naskeel, sempre alludendo a Rico.
   Messo di fronte all’evidenza, il Capitano cercò di prenderla da un’altra angolazione. «Provaci tu a trattare con gli Aracnidi! Io stavo riuscendo a trattare con quest’uomo, prima che giocaste al Far West. Lo capisci che non possiamo sparare a vista a tutti quelli che incontriamo?! Prima o poi dovremo farci degli alleati, o non dureremo a lungo su Arena».
   «È questo il suo piano? Prendere contatto coi killer più spietati del Multiverso e farceli amici? Lei è un ingenuo idealista, Capitano. Come lo è stato a guidarci nell’Harvester, condannando una squadra per salvare un solo individuo» accusò il Tholiano.
   «Allora è questo il problema. Ce l’hai con me per la missione di salvataggio» comprese Rivera.
   «Quella missione era illogica, come le ho detto prima di partire, ma lei mi ha ignorato. Alla mia argomentazione razionale sul bene dei molti ha risposto con un appello sentimentale allo spirito di squadra. E qual è il risultato? Abbiamo perso altri compagni, caduti in azione, e siamo condannati a morire qui, senza per questo aver salvato Talyn. Il suo stile di comando s’è rivelato fallimentare, Capitano» incalzò Naskeel, con gli occhi più ardenti del solito. Si stava davvero scaldando per la collera?!
   «Adesso sta rasentando l’insubordinazione, Tenente» fece Rivera, pensando a una risposta che suonasse convincente. Ma non ne ebbe il tempo.
   «Non rasentando, “signore”. La sto realizzando in pieno» disse il Tholiano, sfrigolante. Il suo braccio cristallino si tese fulmineo: afferrò l’Umano per la gola e lo sollevò da terra. Con l’altra mano gli strappò il phaser, prima che potesse usarlo, e lo gettò lontano.
   Sollevato per il collo, il Capitano boccheggiò e afferrò le dita dell’aggressore, ma non poteva liberarsi da quella stretta salda come la roccia. Poté solo cercare di reggersi al suo braccio, per non restare impiccato. Ma non era solo questione di pendere per il collo: l’alieno infatti prese a serrare la stretta. Il viso di Rivera si congestionò, gli occhi si fecero vitrei. Cercò di parlare, ma dalla sua bocca uscirono solo rantoli smozzicati e schizzi di saliva.
   «Sa, Capitano, non ho scordato le modalità del mio reclutamento» gracchiò Naskeel. «Tre anni fa abbordai la Destiny alla deriva con la mia squadra, per reclamarla in nome dell’Annessione Tholiana. Lei e la sua banda di ricercati ci accoglieste coi phaser. Uccideste i miei soldati e mi catturaste, minacciando di uccidermi se non vi avessi obbedito. E io l’ho fatto, perché ormai eravamo dispersi nel Multiverso e non vedevo alternativa. Aiutarvi era necessario per massimizzare le mie probabilità di sopravvivenza.
   Per tre anni sono stato ai suoi ordini, ho combattuto per lei, l’ho salvata ogni volta che s’è messo nei guai. Ho usato la mia logica e le mie abilità per salvarvi tutti, più volte di quante meritaste. L’ho fatto nella remota speranza che infine saremmo tornati nel nostro Universo, e che lei mi avrebbe consentito di tornare a Tholia. Ora però le circostanze sono cambiate. Ormai è chiaro che moriremo qui, perciò posso dirle finalmente cosa penso di lei. E sa cosa penso? Che lei sia un fallito, un piccolo fuorilegge che si atteggia a Capitano solo perché il caso gli ha procurato una grande astronave. Ma non la meritava allora, e non la merita nemmeno adesso». La sua presa si serrò ulteriormente, in procinto di spezzargli il collo.
   Ridotto allo stremo, Rivera annaspò in avanti, riuscendo a toccare il cinturone di Naskeel. Afferrò il generatore del campo di forza e lo strappò dal suo alloggiamento. Subito il campo si disattivò, esponendo il Tholiano ai 30º C scarsi della sera. L’effetto fu immediato e devastante. Il suo corpo cristallino cominciò a scurirsi e a irrigidirsi per il freddo. Le forze lo abbandonarono, tanto che perse la presa su Rivera, lasciandolo cadere al suolo. Anche le zampe gli cedettero, così che l’alieno si accasciò a terra e si rattrappì, mentre dal suo becco aquilino usciva uno stridio di sofferenza.
   Caduto a terra, il Capitano boccheggiò, sputacchiando saliva mista a sangue. Stavolta c’era mancato davvero poco. E non era ancora finita, perché Naskeel si tendeva verso di lui, cercando di riafferrare il generatore di campo. L’Umano dovette rotolarsi a terra e poi arrancare sulle braccia, per mettere più distanza possibile tra loro. Intanto faceva grossi respiri, per ridare ossigeno al suo corpo provato. Il sangue gli pulsava nelle orecchie e il collo illividito gli doleva ancora.
   Sentendo tornare le forze, Rivera recuperò il phaser e si rimise in piedi, barcollando un poco prima di riacquistare stabilità. Il suo respiro era ancora ansante e gli occhi gli lacrimavano, tanto che dovette asciugarseli col braccio. Ma era vittorioso: aveva il phaser in una mano e il generatore nell’altra.
   Davanti a lui, Naskeel era in condizioni pietose. Il Tholiano arrancava al suolo, stridendo sempre più debolmente, mentre sottili crepe si ramificavano sul suo esoscheletro. Ancora un po’ e sarebbe andato in pezzi.
   «Ma guardalo, l’eroe dell’Annessione Tholiana! Non serve poi molto a sconfiggerti» commentò il Capitano, interrompendosi per tossire. «Rivuoi il generatore, prima di diventare ghiaia?».
   «Sì... la prego...» stridette Naskeel.
   «Allora giura sul tuo onore, sul tuo popolo, su tutto ciò che conta per te, che non mi attaccherai mai più. Non mi farai del male né direttamente, né in modo indiretto».
   «Lo giuro».
   «Giura che non colpirai il mio equipaggio e non saboterai la mia nave».
   «Lo giuro».
   «Giura che non comprometterai i nostri interessi e le nostre missioni».
   «Giuro anche questo... ora la prego...» fece il Tholiano. Le crepe sul suo esoscheletro erano sempre più ampie e ramificate; mancava poco alla frantumazione.
   «Su, prendi!» sbottò Rivera, gettandogli il congegno.
   Naskeel lo afferrò al volo e si affrettò a reinserirlo nell’alloggiamento del cinturone. Il campo di forza sfrigolò attorno a lui, riattivandosi. Subito il suo corpo cristallino riprese la naturale tinta arancione, sebbene per guarire le crepe sarebbero occorsi giorni. Il Tholiano si rialzò, ancora un po’ tremante, e si trovò di fronte l’Umano col phaser spianato.
   «Non così in fretta, gringo. Prima dobbiamo chiarire due cosette» disse il Capitano, tenendolo sotto tiro. «Primo: neanche a me ha fatto particolarmente piacere averti a bordo. Ci hai attaccati con la tua squadra sebbene avessimo trovato la Destiny per primi, e se foste stati voi a prevalere, non credo proprio che mi avreste risparmiato. Di certo non mi avreste dato un incarico sulla nave. Potevo giustiziarti, o abbandonarti su un pianeta, o chiuderti in cella per il resto del viaggio. Invece mi sono fidato al punto da nominarti capo della Sicurezza, affidandoti le nostre vite. Ce l’ho messa tutta per farti sentire parte dell’equipaggio, anche se spesso i tuoi modi spocchiosi mi facevano venir voglia di buttarti nello spazio. E la cosa peggiore è che dopo tre anni m’ero quasi convinto che significassimo qualcosa per te. Ma grazie alla tua piccola scenata di poco fa, non ripeterò l’errore.
   Secondo: a te potrà sembrare che finora il nostro viaggio sia un fallimento, dato che non siamo ancora tornati a casa. Io invece lo considero un successo. Prima abbiamo distrutto la biosfera, ostacolando i piani degli Undine. Poi abbiamo esplorato il Multiverso, riuscendo pure a farci qualche alleato. Infine, nello Specchio, abbiamo salvato la Terra dall’annientamento e abbiamo guidato i ribelli alla vittoria, restituendo la democrazia all’intera Confederazione. A conti fatti, sono imprese notevoli. E bada che niente di tutto questo si sarebbe verificato, se non ci fossimo smarriti! Ora dobbiamo solo sforzarci di tornare sulla Destiny e finalmente potremo tornare a casa».
   «A casa, già» fece Naskeel, in tono insolitamente sarcastico. «Poniamo di riuscire davvero a tornare nel nostro Universo. A quel punto ci divideremo. Lei e il grosso dell’equipaggio cercherete di ottenere l’amnistia dalla Federazione. Irvik tornerà dai Voth, nel Quadrante Delta. E anch’io vorrei tornare dalla mia gente, su Tholia. Ma lei me lo lascerà fare? O penserà che non sia saggio lasciar andare un Tholiano esperto d’armamenti federali? Dica la verità, Capitano: ha mai pensato d’eliminarmi, per proteggere la Federazione?» chiese.
   Questo fu un colpo basso per Rivera, che in quegli anni ci aveva pensato eccome. Si era persino accordato con Losira e altri ufficiali, per eliminare Naskeel non appena fossero tornati alla Federazione.
   «Bene, siamo arrivati al nocciolo del problema» sospirò il Capitano. «Non negherò di averci riflettuto. Ammetto che mi spaventa l’idea di lasciarti andare con tutte le conoscenze tattiche sul nostro conto. Se la tua gente ne facesse cattivo uso, le conseguenze sarebbero catastrofiche. Ma dopo tutto quel che hai fatto per noi, avevo deciso di lasciarti andare. Diamine, sono ancora deciso a lasciarti andare, se arriveremo a quel punto».
   «È disposto a giurarlo? Come io ho giurato di non attentare più a lei?» chiese il Tholiano.
   Rivera non avrebbe voluto prendere un impegno su una questione tanto cruciale. Ma comprese che era arrivato il momento di decidere. Del resto come poteva pretendere che Naskeel gli fosse leale e gli obbedisse, se l’unica ricompensa alla fine sarebbe stata la morte?
   «Sì, giuro che quando torneremo alla Federazione ti lascerò tornare dal tuo popolo» disse l’Umano. Queste parole ebbero un effetto inaspettatamente liberatorio su di lui. Di colpo si sentì come se un fardello, portato per tre anni, gli venisse tolto. Riuscì persino a pensare con più chiarezza al futuro.
   «Voglio crederle, Capitano» disse Naskeel. «Ma capirò se non vorrà più affidarmi un’arma, dopo quel che è accaduto».
   Ecco un’altra decisione cruciale, si disse Rivera. «Se fossimo sulla Destiny, non lo farei» ammise. «Ma sfortuna vuole che siamo bloccati in un’arena mortale. Non posso guardarmi sempre le spalle, men che meno guardarle anche a te. E viceversa. Dobbiamo affidarci l’uno all’altro per sopravvivere. Sei un essere pragmatico, dovresti capirlo. Quindi tieni» disse, calciando il fucile polaronico in direzione di Naskeel.
   Per un attimo il Tholiano restò immobile, come se non credesse ai suoi occhi. Poi si chinò lentamente, afferrò l’arma e la mise a tracolla. «Grazie» disse.
   «Non ringraziarmi. Non lo faccio per generosità o per simpatia, ma per... come dicevi... “massimizzare le mie probabilità di sopravvivenza”» ribatté il Capitano. «A me servono acqua e cibo per sopravvivere. A te servono ricariche energetiche per il campo di forza. Se restiamo uniti, può darsi che troveremo queste cose. Andiamo, adesso. È meglio non essere qui, quando l’amigo si risveglia» disse accennando a Johnny Rico. Il militare si era mosso leggermente, segno che gli effetti dello stordimento cominciavano già a svanire.
   Raccolte le loro cose, l’Umano e il Tholiano si allontanarono di buon passo. Il sole era ormai tramontato, ma nel cielo indugiava una tenue luminosità diffusa, dovuta al fatto che l’intero sistema stellare si trovava nello Spazio Fluido. Era come un eterno crepuscolo, che permetteva di camminare tra le rocce senza mettere i piedi in fallo. Con quel vantaggio, i due si allontanarono dal Leone della Fanteria Mobile prima che questi si risvegliasse.
 
   Camminarono ancora per un’ora, finché Rivera fu vinto dalla stanchezza e dovette fermarsi. «Bene, è il momento di mettere alla prova il tuo impegno. Ora dovrò dormire, quindi ti affido la mia vita» disse a Naskeel, pregando di non pentirsene. Scelto un anfratto roccioso, tornò a stendervi il sacco a pelo.
   «Si riposi, io farò la guardia» disse il Tholiano, imbracciando il fucile polaronico.
   Il Capitano ebbe il batticuore, pensando che l’alieno avrebbe avuto tutta la notte per rimuginare sull’accaduto ed eventualmente rimangiarsi la promessa. Naskeel poteva ucciderlo nel sonno, con un colpo in testa, e lui non avrebbe mai saputo d’essere stato tradito. Ma che ci poteva fare? Era un rischio che avrebbe corso ogni notte, anzi, ogni volta che gli voltava le spalle. Tanto valeva correrlo subito. Così, se fosse sopravvissuto, si sarebbe sentito più tranquillo per l’avvenire. Con quel pensiero Rivera si distese nel sacco a pelo, raggomitolandosi per conservare il calore corporeo. Era così esausto che, malgrado le gravi preoccupazioni, si addormentò quasi all’istante.
 
   Fu il sole già alto a svegliarlo, il mattino dopo. «Sono vivo» fu il suo primo pensiero. Già questa era una buona notizia. Si stiracchiò, aprì gli occhi e constatò di non essere nemmeno legato. Di bene in meglio. Naskeel era poco più avanti, col fucile a tracolla, nella stessa identica posizione in cui l’aveva visto prima d’addormentarsi, otto ore prima. Udendo il Capitano che si rialzava, si girò verso di lui. «Buongiorno» disse.
   «’giorno» sbadigliò l’Umano. «Allora, notte tranquilla?».
   «Abbastanza. Ho solo dovuto abbattere quelli» disse il Tholiano, indicando due esseri obbrobriosi poco più avanti. Somigliavano agli Aracnidi del giorno prima, ma erano più simili a enormi libellule alate. A giudicare dalle ferite, Naskeel li aveva abbattuti mentre erano in volo, facendoli sfracellare sulle rocce.
   «Li hai centrati al buio? Complimenti» fece Rivera.
   «Non era del tutto buio, e comunque la mia vista è a raggi infrarossi» puntualizzò il Tholiano.
   «Beh, grazie comunque per la vigilanza». Il Capitano pensò che doveva aver dormito come un sasso per non sentire uno scontro del genere. «Ti do solo un consiglio, per la prossima volta. Quando un Aracnide ti attacca, non cercare di mutilarlo, perché anche se gli stacchi un arto quello conserva l’85% delle capacità offensive. Piuttosto cerca di colpire i centri nervosi, proprio qui» disse, indicando un punto del cefalotorace.
   Naskeel si chinò, verificando che in quella zona c’erano davvero i gangli nervosi. «E lei come fa a saperlo?» chiese.
   «Sono il Capitano; devo sapere tutto» rispose Rivera, ridendo sotto i baffi. Tornò verso il suo giaciglio, mentre il Tholiano si scervellava per capire dove avesse tratto le informazioni.
   L’Umano consumò una razione proteica, bevve un po’ d’acqua, ripiegò la coperta e la ripose nello zaino. Prima di quando avrebbe voluto, non gli restò che pianificare la giornata.
   «Ebbene, come intende procedere?» chiese Naskeel.
   «Ricordi cos’ho detto ieri, che dobbiamo unire le forze per uscire vivi da qui? Non mi riferivo solo a noi due» spiegò il Capitano. «Su questo pianeta ci sono molti combattenti, ciascuno dei quali può fornire armi e talenti unici. Se solo riuscissimo a trovare un’intesa...».
   «Vuole formare una squadra di campioni per fuggire da Arena?».
   «Perché no? Finché rifiutano d’accordarsi, anche i più grandi guerrieri del Multiverso non sono altro che gladiatori, costretti a combattere insensatamente fra loro, a tutto vantaggio degli Undine» notò Rivera. «Dovrebbero essere contenti di far parte d’una squadra, che gli permetta di dormire sonni tranquilli e indirizzi i loro sforzi verso la fuga».
   «Può darsi» ammise il Tholiano. «Ma molti di questi guerrieri vengono da culture primitive. Non accetteranno facilmente d’aggregarsi, e anche se lo facessero, non ci saranno molto utili».
   «Certamente non convinceremo tutti» convenne l’Umano. «Ma più ne raduniamo, più indurremo altri ad aggregarsi. E quanto all’utilità, non sottovaluterei chi viene da culture meno progredite. Ciascuno offre una prospettiva unica e potrebbe vedere soluzioni che agli altri sfuggono. Conosci la storiella dei ciechi e dell’elefante?».
   «No, Capitano. Ma avendo ascoltato le sue precedenti frasi idiomatiche, mi sono informato su cos’è un elefante» rispose Naskeel.
   «Bene, questa è una fiaba terrestre che lessi da bambino. Un gruppetto di ciechi aveva sentito che uno strano animale, chiamato elefante, era stato portato in città, ma nessuno di loro conosceva la sua forma esatta. Incuriositi, decisero d’andare tutti insieme a ispezionarlo per conoscerlo al tocco. Così lo cercarono e, quando lo trovarono, provarono a capire cosa fosse. Il primo cieco, che gli aveva toccato la proboscide, disse: “Questo essere è come un grosso serpente”. A un altro, la cui mano raggiungeva l’orecchio, sembrava invece un grande ventaglio. Un’altra persona, che gli abbracciava una gamba, pensò che l’elefante somigliasse a un pilastro o a un tronco d’albero. Il cieco che gli tastò il fianco disse che l’elefante era come un muro. Un altro che gli stava toccando la coda lo descrisse come una corda. L’ultimo gli toccò la zanna e concluse che l’elefante era duro e acuminato come una lancia. Ora, dimmi un po’... chi di loro aveva ragione?».
   Il Tholiano rimuginò prima di rispondere: «Tutti e nessuno. Ciascuno di loro comprendeva approssimativamente la parte, ma ignorava il tutto».
   «Esatto! E in mancanza di un vedente che potesse descrivere il tutto, erano prigionieri della loro limitatezza individuale» confermò Rivera. «Ci sono molte versioni della storia. Alcune finiscono così, coi ciechi che bisticciano senza riuscire ad accordarsi. In altre versioni riescono a confrontare i diversi punti di vista, facendosi un’immagine approssimativa della creatura nel suo complesso.
   Il senso della storia è che io, te, tutti siamo come quei ciechi. Ciascuno è limitato, ciascuno percepisce le cose dalla propria angolazione, e quindi ciascuno comprende solo una minima parte della complessità che ci circonda. E quindi, se vogliamo farci un’idea più vicina al vero, dobbiamo accettare il contributo di tutti. Ecco perché una squadra eclettica ha più probabilità di funzionare rispetto a una omogenea. Diamine, il nostro equipaggio non è forse così?! E allora facciamo lo stesso su questo dannato pianeta. Uniamo i talenti per trovare il modo d’andarcene!».
   «Potrebbe funzionare» ammise Naskeel. «In effetti credo che anche gli Undine avvertano la propria limitatezza. Se hanno radunato tanti campioni su Arena, è proprio per osservarli e imparare da loro. Sebbene...» s’interruppe.
   «Sebbene?».
   Il Tholiano si chiese come facevano gli Undine a osservare i combattimenti in modo ravvicinato. Non sembravano aver inviato droni d’osservazione per riprendere gli scontri. Eppure in qualche modo erano consci di ciò che accadeva. D’un tratto Naskeel ricordò che gli Undine, o almeno alcuni di loro, avevano capacità mutaforma. Questo aveva enormi implicazioni... ma per il momento non volle discuterne col Capitano, già gravato dalle preoccupazioni. «Niente, signore, stavo solo ragionando» disse. «Credo che ora sia opportuno muoverci. Proseguiamo verso le montagne?».
   «Sì, proseguiamo» disse Rivera, un po’ inquietato da quella frase lasciata a metà. Non capitava mai che Naskeel s’interrompesse a quel modo. Ma c’era troppo da fare, così l’Umano accantonò il problema. Mise lo zaino in spalla e s’incamminò, affiancato dal Tholiano.
 
   Servirono altri tre giorni per raggiungere le montagne. Tre giorni di marcia sotto un sole cocente, intervallata da sporadici scontri con creature mostruose, nessuna delle quali sembrava capace di fermarsi a discutere. Per il momento gli avventurieri avevano incontrato più animali che persone. Potevano solo sperare che le cose cambiassero. Il terzo giorno dovettero interrompere la marcia. Avevano raggiunto le pendici delle montagne, che in quella zona scendevano a strapiombo, formando una parete rocciosa piena d’anfratti e forse di caverne.
   «Beh, eccoci qui» commentò il Capitano. Trasse la borraccia e bevve un sorso, accorgendosi che era quasi vuota. Presto sarebbe diventato un problema serio, anzi il più serio di tutti. «Ora cerchiamo dell’acqua. Torrenti stagionali, pozzi, cose del genere. Se ci sono caverne, dovremo esplorarle» ragionò.
   «Qualcuno potrebbe già essersi rifugiato lì dentro» notò Naskeel.
   «In effetti speravo di trovarci qualche altro naufrago» convenne Rivera.
   «Intendevo gli Aracnidi» precisò il Tholiano.
   «Uhm, speriamo di no. Comunque mi stavo chiedendo una cosa...» mormorò l’Umano, ispezionando gli anfratti rocciosi col tricorder.
   «Sì?».
   «Al nostro arrivo, i sensori della Destiny captarono migliaia di persone su questo pianeta. È lecito supporre che alcune di loro siano qui da tempo. Ma se il territorio è così desertico, come fanno gli abitanti a sopravvivere? Quegli Aracnidi, ad esempio, cosa mangiano?».
   «Un interrogativo legittimo. Lei cosa pensa?».
   «Penso che forse gli Undine li riforniscono di provviste, come animali in uno zoo. Dopotutto i gladiatori devono essere in forze per combattere. Sarebbe assurdo darsi tanta pena per allestire l’arena, e poi lasciare che tutti muoiano di stenti» ragionò il Capitano. «Forse ci sono dei depositi, qua e là, che vengono periodicamente riforniti. Depositi d’acqua, cibo... forse anche armi e munizioni, se lo scopo è costringere la gente a combattere».
   «In tal caso, può darsi che il movente degli scontri sia proprio il controllo e lo sfruttamento di questi depositi» suggerì Naskeel.
   «Sì, è probabile. Speriamo di trovarne uno anche noi» disse Rivera. Si fermò davanti all’ingresso di una galleria tortuosa. «Ci siamo, rilevo dell’acqua all’interno. Credo ci sia anche un segno vitale, molto debole... non riesco a capire se è umanoide. Frell, quel dannato Harvester continua a interferire coi sensori!» disse alzando gli occhi al cielo, dove la stazione Undine era un punto luminoso. Si promise che, se mai fosse tornato sulla Destiny, l’avrebbe disintegrato.
   «Beh, non resta che andare a controllare» concluse il Capitano, riponendo il tricorder. Indossò il Visore, regolandolo sugli infrarossi, ed entrò nella galleria col phaser in pugno. Dopo tanti scontri aveva il batticuore al pensiero di cos’altro potevano trovare su quel mondo infernale. Almeno Naskeel era dalla sua, e lo seguiva imbracciando il fucile polaronico, senza bisogno di visori per vedere nell’oscurità.
   Camminarono per un centinaio di metri lungo il percorso accidentato e leggermente in discesa. Procedevano in silenzio e col passo leggero, nel tentativo di non allertare il padrone di casa. Infine sbucarono in una vasta grotta, rischiarata da luci artificiali. Era il primo rifugio in cui s’imbattevano, dacché erano naufragati.
 
   Il Capitano si levò il Visore e avanzò adagio, guardandosi attorno con crescente stupore. Quel posto sembrava una via di mezzo fra un laboratorio e un deposito d’armi. C’era tecnologia ovunque, sotto forma di strani macchinari. Tutto era vecchio, pesante, ingombrante, polveroso e corroso dalla ruggine. C’erano luci artificiali ma anche candele, poste accanto a un leggio su cui giaceva un pesante volume rilegato, simile a un codice miniato medievale. Lungo una parete erano deposte strane armi per il combattimento ravvicinato, dall’aspetto retro-futuristico: asce, pugnali, persino un’improbabile spada-motosega. Alcune erano ancora macchiate di sangue raggrumato. E c’erano altri strumenti di guerra anacronistici come mitragliatori, lanciafiamme e maschere antigas, ammucchiati alla rinfusa.
   «Dove diavolo siamo capitati?» mormorò Rivera, guardandosi attorno disorientato. Cercò degli emblemi e ne trovò fin troppi: erano impressi sui macchinari, sulle armi, persino su veri e propri stendardi. Ce n’erano almeno due tipi. Il primo simbolo era un’aquila a due teste, una delle quali con l’occhio in evidenza, e con le ali spiegate. Il secondo era un teschio con un occhio artificiale. Questo emblema era spesso sovrimpresso ad altri: una ruota dentata, due ali spiegate, un pilastro intersecato da tre barre. Qua e là c’erano inoltre delle scritte, in uno strano latino maccheronico. Rivera riuscì a leggerne una: ADEPTUS MECHANICUS.
   A un tratto il Capitano colse un movimento con la coda dell’occhio. Si girò col phaser in pugno e si avvicinò cautamente. Una smorfia di disgusto gli apparve in volto. Davanti a lui c’era un teschio umano con un occhio artificiale rosso e maligno, che fluttuava a mezz’aria. Alla base del cranio, dove avrebbe dovuto esserci la spina dorsale, si dipanava invece un groviglio di tentacoli metallici terminanti in strumenti d’ogni genere: aghi, pinze, saldatori.
   «Vieni, servo-teschio, non infastidire gli ospiti» disse una voce rasposa. L’orrido strumento svolazzò verso il padrone che lo aveva richiamato, e che stava acquattato fra le ombre, nell’angolo più lontano e buio della grotta.
   «Chi sei? Fatti avanti!» ordinò Rivera, per quanto si sentisse accapponare la pelle.
   «Il mio nome non ha importanza. Sono un tecno-prete, servo dell’Imperium» rivelò l’essere, avanzando finché fu in piena luce. Era umanoide, più o meno, e vestiva una cappa rossa dal taglio monacale. Sotto l’ampio cappuccio, il viso era in ombra; s’intravedevano solo tre occhi meccanici verdastri. Numerosi tubicini scendevano dal mento, formando un orribile simulacro di barba. Anche le mani erano piene d’innesti cibernetici, uno per dito. Ma più agghiaccianti di tutto erano i quattro bracci meccanici articolati che gli fuoriuscivano dalla schiena, terminando in strumenti affilati.
   «E io sono il Capitano Rivera, della nave stellare Destiny» disse il Capitano, cercando di reprimere il disgusto. «Questo è Naskeel, il mio Ufficiale Tattico. Scusa la domanda, ma... sei Umano?».
   «Lo ero un tempo; ora sono ben di più» rispose il tecno-prete. «Da quando ho compreso la debolezza della mia carne, essa mi ha disgustato. Bramo la forza e la certezza del metallo. Aspiro alla purezza dello Spirito Macchina. Tu ti aggrappi alla tua carne, come se non dovesse corrompersi e tradirti. Un giorno la cruda biomassa che chiami “tempio” cederà, e mi pregherai di salvarti. Ma io sono già salvo, perché la Macchina è immortale... anche nella morte servo l’Omnissiah» proclamò, mentre la sua voce si faceva distante e ultraterrena, come se fosse già tutt’uno col suo Dio Macchina.
   «Io non sono fatto di carne, né di metallo, e non ti temo» disse però Naskeel, tenendolo sotto tiro. «Allora, da dove vieni?».
   «Da un altro luogo, un altro tempo. Ma non vi piacerebbe conoscere i dettagli. Poiché nella tetra oscurità del remoto futuro c’è solo la guerra» ammonì il tecno-prete, accennando alla collezione d’armi.
   Rivera avrebbe voluto approfondire l’argomento, ma temette che lo avrebbe condotto troppo lontano. Doveva rimanere concentrato sui problemi immediati. «Beh, non so se ultimamente hai messo il naso fuori da questo rifugio, ma anche qui c’è una lotta costante. Sai dove ci troviamo?».
   «Ahimè, sì. Da quando Cadia è stato inghiottito dall’Occhio del Terrore, gli xenos ci hanno esiliati su questo Mondo Arena, a combattere senza posa» rispose il tecno-prete, levando il lungo indice meccanico.
   «Uhm, più o meno» fece Rivera, intuendo che xenos significava genericamente “alieni”. «Dimmi, sei l’unico a vivere in questo rifugio? O ci sono anche soldati del tuo Impero?» chiese, dando un’occhiata all’uscita, nel timore d’essere preso alle spalle.
   «Con me c’erano alcuni Ultramarine del pianeta Macragge, inviati dal nobile Guilliman per combattere a Cadia» rispose il tecno-prete. «Erano votati al dovere. Anche in questo luogo d’esilio, non hanno smesso di lottare nel nome dell’Imperatore-Dio dell’Umanità. Ma ahimè, nel corso degli anni sempre meno sono tornati qui; e da mesi non vedo l’ultimo. Temo che ormai siano caduti tutti sotto le armate del Caos».
   Cadde il silenzio. Rivera rimuginava tra sé, cercando di dare un senso ai discorsi del tecno-prete. Era abbastanza chiaro che quell’essere stava interpretando tutto in base alla sua oscura dottrina; ma a parte questo era affidabile?
   «Senti, fratacchione, parliamoci chiaro. A me servono acqua e cibo. Al mio collega serve energia. Se tu sei sopravvissuto per anni, significa che hai tutte queste cose. Quindi devo chiederti di spartirle. In cambio ti proteggeremo, come facevano i tuoi marines, e cercheremo un modo per andarcene da qui» promise il Capitano.
   «Fuggire da questo regno del Caos non è impresa facile; non so di nessuno che ci sia riuscito» avvertì il tecno-prete.
   «Sì, ma io ho un’astronave che si trova in questo sistema stellare. Mi basterebbe contattarla, superando le interferenze, e verrebbe a prenderci tutti» disse Rivera. In realtà non era certo che la Destiny fosse ancora lì, ma doveva pur aggrapparsi a qualche speranza.
   «Uhm, interessante...» fece l’essere, grattandosi la barba meccanica con le dita meccaniche.
   «Nel frattempo cercheremo d’allearci con alcuni dei campioni là fuori, per far fronte comune contro le creature più mostruose. Allora, ci stai?».
   «E sia!» decise il tecno-prete. «Per l’acqua c’è un pozzo che attinge alla falda sotterranea. Le scorte di cibo appaiono una volta al mese, per volontà di coloro che ci hanno esiliati...».
   «Teletrasporto, come immaginavo. Devono rifocillare i loro gladiatori».
   «E per quanto riguarda l’energia, vedrò cosa posso fare» concluse l’essere, accennando ai suoi strani macchinari.
   «Muy bien. Passeremo qui la notte e domattina andremo in esplorazione. Se troveremo altri Aracnidi, li elimineremo» disse il Capitano, occhieggiando l’armeria.
   «Dubito che tu possa brandire le armi destinate agli Ultramarine. Loro hanno una forza superiore» avvertì il tecno-prete. «Ma negli anni abbiamo collezionato anche parecchi strumenti degli xenos. Per noi servi del Trono d’Oro sarebbe un’eresia adoperarli, ma tu sei uno straniero. Forse troverai qualcosa di utile». Guidò il Capitano attraverso un passaggio nella roccia, fino a una sala adiacente.
   Lì c’era una gran quantità di cimeli alieni che Rivera non riuscì a identificare, tra cui strani caschi di foggia animalesca: alcuni a testa di sciacallo, altri a testa di cobra. C’erano vari tipi di lance a energia, ma l’Umano le trovò pesanti e ingombranti rispetto al suo phaser, tanto che preferì tenere quello.
   «Ho notato che sei disidratato; il deserto non perdona» disse il tecno-prete. «Ecco, prova questa: è la miglior tuta da deserto che abbia trovato. È opera dei Fremen del pianeta Arrakis, detto anche... Dune». Così dicendo raccolse la tuta, con una delle sue appendici meccaniche, e la porse al Capitano.
   Rivera la prese e la rigirò tra le mani, apprezzandone la funzionalità. Era una tuta integrale di colore scuro, completa di guanti e stivali. Arrivava fino al collo e comprendeva un sondino per recuperare il vapore acqueo perso espirando dal naso. La tuta in sé era percorsa da una fitta rete di canalicoli e tasche interne, certo per recuperare l’acqua persa con la traspirazione.
   «Si chiama tuta distillante, poiché assorbe e ricicla l’acqua persa dal corpo» confermò il tecno-prete. «Essenzialmente è un tessuto a microstrati, che fa da filtro ad alta efficienza e da scambiatore di calore. Lo strato a contatto con la pelle è poroso, per consentire la traspirazione. Gli strati superiori contengono i filamenti per lo scambio del calore e i precipitatori del sale, che viene anch’esso recuperato. I movimenti del corpo e la respirazione, oltre a un effetto osmotico, forniscono l’energia di pompaggio. L’acqua recuperata circola e finisce nelle tasche di raccolta, da cui puoi succhiarla grazie a questo tubicino fissato sul collo. Se userai anche il filtro per recuperare il vapore dell’espirazione, non perderai più di un ditale d’acqua al giorno, anche in pieno deserto».
   «Efficiente» riconobbe il Capitano. In effetti era degna delle migliori tute federali da deserto.
   «Somiglia alle tute dei nostri Death Korps di Krieg, che in aggiunta hanno maschere antigas; ma qui non dovresti averne bisogno» concluse il tecno-prete. Si ritirò, lasciando che Rivera potesse cambiarsi d’abito.
   Il Capitano si affrettò a farlo, ben felice di avere finalmente una tenuta da deserto. Solo al termine dell’operazione si trovò a pensare che probabilmente il Fremen a cui apparteneva non era stato lieto di farsela sottrarre. In effetti era probabile che non l’avesse ceduta... finché era stato vivo.
 
   La mattina dopo, Rivera e Naskeel si prepararono a uscire dal rifugio. Entrambi erano in condizioni migliori di quanto fossero dacché erano naufragati. L’Umano aveva potuto bere e mangiare, aveva fatto una lunga notte di sonno e aveva una tuta che l’avrebbe protetto dalla disidratazione. Il Tholiano era riuscito, con l’aiuto del tecno-prete, a ricaricare il suo generatore del campo di forza. Entrambi avevano un rifugio, con tanto d’armeria e laboratorio degli attrezzi. Non era male per dei dispersi. In quelle condizioni potevano resistere per mesi, forse persino anni; ma speravano d’andarsene assai prima.
   «Pronto?» chiese Rivera, impugnando il phaser.
   «Pronto» confermò Naskeel, imbracciando il fucile polaronico.
   I due percorsero all’inverso il tunnel che li aveva condotti nel rifugio. Vedendo la luce proveniente da fuori, e sentendo il flusso d’aria calda, il Capitano rallentò. Giunto all’uscita, spiò cautamente all’esterno. Non c’erano segni di vita.
   «Via libera» disse Rivera. Lui e Naskeel lasciarono l’anfratto e si diedero all’esplorazione. Camminarono a lungo, cercando tracce recenti d’altri naufraghi. A un certo punto il Capitano fece ancora un tentativo di contattare la Destiny, ma senza esito. Non osò insistere, temendo di attirare gli Undine.
   Di lì a poco gli avventurieri trovarono una caverna, dall’ingresso a volta assai più ampio dell’altro. Il Capitano vi si fermò davanti, leggendo i dati sul tricorder. «Mi sa che abbiamo trovato un altro deposito. Anche qui c’è acqua, oltre a diversi segni vitali che non riesco a isolare. Potrebbe essere qualunque cosa... non resta che controllare» concluse.
   «Vado io» si offrì Naskeel. «Ci vedo meglio al buio e sono meno commestibile di lei. Mi aspetti qui». E senza attendere la conferma entrò nella galleria scura.
   Al Capitano non restò che aspettare, col phaser in pugno. Non dovette farlo a lungo. Erano passati pochi minuti quando sentì un boato risuonare nella galleria. Seguì uno scalpiccio di molti – troppi – passi. O là dentro era assiepato un piccolo esercito... o c’erano creature con troppe zampe per i suoi gusti.
   «Mi senti, Naskeel? Esci da lì!» gridò Rivera. In risposta si vide arrivare contro uno sbuffo di fuoco. Fece appena in tempo a balzare di lato per non esserne investito. Sconcertato, vide che le fiamme continuavano ad ardere sul suolo roccioso, come se bruciasse del napalm. L’Umano arretrò precipitosamente, chiedendosi che nuova diavoleria ci fosse là dentro, e che ne era stato di Naskeel. A un tratto lo vide uscire dalla galleria, del tutto illeso. Ma certo, le fiamme non potevano nuocere ai Tholiani. Qualunque cosa lo inseguisse, però, forse poteva. «Allora?!» gridò il Capitano.
   «Ritengo che abbiamo trovato la loro tana» disse Naskeel, correndo a velocità sorprendente sulle sei zampe. Dietro di lui uscirono a frotte gli Aracnidi, nella variante dei Warrior Bug. Ma c’era dell’altro, qualcosa di più grosso. Un’enorme creatura uscì all’aperto, facendo tremare il suolo. Somigliava a un coleottero dalla spessa corazza nera, con sei zampe che trascinavano l’addome; ma era più grosso di un carro armato. Si muoveva maledettamente veloce per la sua stazza.
   «È un insetto lanciafiamme. Suggerisco la ritirata» disse Naskeel, mentre un’altra fiammata lo avvolgeva. L’insetto-armato sputava liquido incendiato dalle fauci, manco fosse un drago. A quella vista Rivera cominciò a correre lungo la parete rocciosa, verso l’antro del tecno-prete, il cui ingresso era troppo piccolo per il mostro. Ogni tanto si girava, sparando contro gli Aracnidi, e in tal modo riuscì a rallentarne parecchi. L’insetto-armato però continuava ad avanzare; la sua corazza era così resistente che nemmeno il phaser la perforava.
   «Dobbiamo inventarci qualcosa!» gridò Rivera, vedendo che il mostro guadagnava terreno. Presto sarebbe stato abbastanza vicino da incenerirlo col suo getto infuocato.
   «Ci penso io, resistete!» gridò una voce femminile, proveniente dall’alto. Per un attimo Rivera pensò che fosse di nuovo Kara Thrace; ma dovette ricredersi.
   Sopra di loro, su un costone roccioso, c’era una donna dai lunghi capelli neri e la carnagione olivastra. Doveva essere una militare, a giudicare dalla sua uniforme. La sua unica arma, tuttavia, era un ridicolo bastoncino metallico, non più lungo di trenta centimetri.
   «Ehi, che vuoi fare con quel bastoncino? Lo lanci e lui te lo riporta?! Vattene, sei troppo allo scoperto!» gridò il Capitano.
   «Tsk. Guarda e impara, dilettante!» rispose la militare. Toccò un comando sul bastone e questo s’allungò, fino a raggiungere i due metri abbondanti. Adesso somigliava alle lance da battaglia che Rivera aveva visto nel rifugio. La donna però non aprì immediatamente il fuoco. Aspettò che l’insetto-armato le fosse sotto; allora spiccò un salto e atterrò sul suo addome corazzato. Il mostro non sembrò accorgersene e continuò l’inseguimento.
   La militare si piegò in avanti, per mantenere l’equilibrio su quella strana cavalcatura. Aprì il fuoco con la sua lancia a energia, colpendo ripetutamente e a distanza ravvicinata il carapace. In tal modo riuscì a perforarlo, mettendo a nudo i tessuti molli sottostanti. Allora sì che l’insetto-armato si rese conto del pericolo e prese a girare su sé stesso, cercando di disarcionare l’avversaria. Ma questa tenne duro e continuò a sparare, aprendo una piaga profonda. Allora si staccò qualcosa dalla cintura e la ficcò nella ferita, calandovi tutto il braccio per spingerla a fondo. Rivera intuì che doveva trattarsi di una granata e continuò a correre, mettendo più distanza possibile.
   Fatto questo, la donna si rialzò e venne sull’orlo del carapace. Si bilanciò come una tuffatrice olimpionica e saltò giù. Fu un salto di parecchi metri, che avrebbe spezzato le gambe alla maggior parte degli esseri umani. Lei però atterrò a ginocchia semiflesse, senza alcuna difficoltà, e si allontanò di corsa, sempre col bastone sottomano. Correva talmente veloce che in breve raggiunse gli altri fuggitivi.
   «Pronti al botto!» avvertì. L’attimo dopo la granata che aveva ficcato nelle viscere dell’insetto-armato scoppiò. L’esplosione disintegrò l’addome del coleottero, schizzando ovunque il suo sangue colloso. Questo era arancione, anziché verde, ma altrettanto disgustoso. Le fiamme dilagarono ovunque, impedendo ai Warrior Bug d’avanzare. Allora i fuggitivi rallentarono il passo.
   «Grazie dell’aiuto» disse Rivera, un po’ ansante.
   «Aspetta a ringraziarmi. Le fiamme non li tratterranno a lungo, e il mio rifugio è lontano. Tra l’altro ho appena usato la mia ultima granata. Non è che avete un nascondiglio a portata di mano?» chiese la militare. Toccò un comando sulla sua lancia, riducendola di nuovo alle dimensioni di un bastoncino.
   Il Capitano la studiò brevemente, cercando di capire se apparteneva a qualche specie da lui conosciuta. Il suo aspetto era umano, eccezion fatta per un particolare disturbante. Da ogni avambraccio le fuoriuscivano tre affilati speroni ossei, che attraversavano la manica. Rivera non aveva mai sentito di una specie umanoide con questa caratteristica. Forse veniva da un’area inesplorata della Via Lattea, ma era più probabile che fosse nativa di un Universo parallelo, come gli altri naufraghi incontrati finora. In ogni caso, decise di fidarsi; dopotutto lei lo aveva appena salvato. «Sì, il nostro rifugio è vicino. Seguimi» la invitò.
 
   In breve raggiunsero l’antro del tecno-prete. Rivera fece strada lungo la galleria e la militare lo seguì, mentre Naskeel chiudeva la fila.
   «Wow, è molto più spazioso del mio nascondiglio!» commentò la donna quando sbucarono nella grotta. Si guardò attorno con interesse, soffermandosi sulla collezione d’armi. «Pensate che io vivo nel relitto della mia navicella. Prima che me lo chiediate... sì, è un vero schifo».
   «Accomodati. Abbiamo dell’acqua, se ne hai bisogno. A proposito, non ci siamo ancora presentati» disse il Capitano. Provvide a farlo, specificando da dove venivano. Intanto Naskeel si recò nella sala adiacente, informando il tecno-prete dei loro progressi.
   «Federazione? Spiacente, non la conosco» disse la donna. «Io sono Erzsébeth Moghul, del Clan Drago-Kazov. Sono Comandante dell’Alta Guardia del Commonwealth; questa è la mia lancia d’ordinanza» spiegò, posando il bastone – d’aspetto così innocuo – su un tavolino.
   «Commonwealth? Sarebbe un’alleanza di pianeti?» s’interessò Rivera.
   «Sì, qualcosa del genere. Stesse leggi, stessa flotta, interscambio di tecnologie tra mondi e popoli diversi» spiegò sinteticamente Erzsébeth.
   «Interessante» fece il Capitano. Tra tutti gli incontri che aveva fatto su Arena, quello era il più promettente. Gli altri naufraghi appartenevano a società chiuse, che a torto o a ragione detestavano gli alieni. Quella donna invece era perfettamente a suo agio con l’idea di una società che abbracciava varie specie. Così Rivera si azzardò a proseguire la conversazione. «Ascolta, devo chiederti una cosa. Sei consapevole di dove ci troviamo in questo momento? Della natura di questo pianeta?» chiese, offrendole la borraccia.
   «A quanto ho capito, ci troviamo in una realtà parallela» annuì Erzsébeth, accettando di buon grado l’offerta. Bevve un sorso d’acqua e chiuse gli occhi, assaporando il sollievo. «Qualcuno ci ha portati qui e ci costringe a combattere per la sopravvivenza. Immagino che anche tu venga da un’altra realtà. Prima hai nominato la Federazione, di che si tratta?» chiese, restituendo la borraccia.
   «È un’alleanza di circa quattrocento mondi diversi, fondata 450 anni fa per la difesa, l’esplorazione e la condivisione scientifica» spiegò il Capitano.
   «Davvero? Il nostro Commonwealth esiste da 5.000 anni e comprende un milione di pianeti, distribuiti su tre galassie» disse Erzsébeth con nonchalance.
   Rivera restò di sasso. «Mi prendi in giro?» mormorò, fissandola sotto una nuova luce. Se aveva detto il vero, quella donna era molto più cosmopolita di lui.
   «Giuro che ho detto la verità!» fece la Comandante, mostrando il palmo della mano con un certo umorismo.
   «E la capitale è la Terra?».
   «Certo che no! La capitale è sempre stata Tarn-Vedra» spiegò Erzsébeth. Vedendo lo stupore dell’altro, si spiegò. «Millenni fa i Vedrani avevano un potente Impero, che colonizzò gran parte della Via Lattea. A forza d’espandersi, tuttavia, divennero una minoranza nel loro stesso Stato. Perciò dettero sempre più diritti alle altre popolazioni, fino alla completa eguaglianza. Così nacque il Commonwealth, una società democratica alla quale innumerevoli altri mondi aderirono per libera scelta, inclusa la Terra».
   «Quindi tu saresti umana... più o meno?» chiese il Capitano, accennando ai suoi sinistri speroni ossei. Mentre in precedenza puntavano verso l’esterno, adesso erano più radenti agli avambracci, segno che poteva sollevarli a comando.
   «Ah, li hai notati. Ti fanno paura?» chiese Erzsébeth, sfiorandoli con un sorriso agrodolce.
   «Sono solo un po’ interdetto. Allora, ti va di spiegare?» fece Rivera.
   «Volentieri. Dunque, io sono Umana... nel senso che i miei antenati erano Umani della Terra» spiegò la Comandante. «Però appartengo a un ramo dell’Umanità che ha deciso di migliorarsi con l’ingegneria genetica. Ci definiamo Nietzscheani, dal nostro ispiratore filosofico, Friedrich Nietzsche... c’era nel tuo Universo?» si affrettò a chiedere.
   «Sì, c’era. E sì, ho letto qualcosa di lui» annuì il Capitano, aggrottando lievemente la fronte. Ciò che non disse era che la sua filosofia non gli piaceva per niente, anche alla luce dei suoi legami con l’ideologia nazista.
   «Bene, allora sai di che parlo. Secoli fa un grande scienziato, Drago Museveni, decise di trasformare in realtà la visione dell’Oltreuomo, un’umanità libera da ogni vincolo etico e proiettata verso il costante progresso. Raccolto un gran numero di seguaci, potenziò geneticamente la loro stirpe. Il cambiamento fu così profondo da originare una nuova specie, l’Homo sapiens invictus. Noi siamo più forti, più veloci, più resistenti a ferite e malattie, e molto più longevi degli Umani vecchio stampo» si vantò la Nietzscheana.
   «Uhm, anche sulla mia Terra ci sono stati tentativi simili, ma sono sempre finiti male. Abbiamo avuto delle Guerre Eugenetiche per il tentativo dei Potenziati di prendere il potere, e da allora abbiamo severe limitazioni all’ingegneria genetica» rivelò il Capitano.
   «Davvero? Che peccato. Beh, noi Nietzscheani abbiamo avuto più criterio» sostenne Erzsébeth. «Ci sforziamo costantemente d’eccellere nella scienza, nell’arte, in tutte le opere dell’ingegno. Scegliamo accuratamente i nostri partner, per essere certi che ogni generazione superi la precedente. E siamo membri produttivi del Commonwealth» si vantò.
   «Finché lo troverete conveniente» commentò Rivera.
   «Come, scusa?».
   «Conosco la filosofia di Nietzsche, è molto... pragmatica. Quando qualcosa non serve più, la si butta» notò il Capitano. «Sbaglio a pensare che siete nel Commonwealth solo perché al momento vi è utile, e che se le circostanze mutassero...?» lasciò in sospeso.
   «Sì, può darsi» ammise la Nietzscheana, con una strana occhiata. «Ma è inutile discuterne, finché siamo bloccati su questo schifo di pianeta».
   «Tu hai un’idea per andartene?» chiese Rivera, per osservare la sua reazione.
   «No, purtroppo. La mia navicella è fuori uso e non ne ho trovate altre in grado di volare. A parte questo, siamo bloccati in un’altra realtà e non saprei proprio come uscirne! E tu, invece?» chiese Erzsébeth con una scintilla di speranza.
   Il Capitano decise di vuotare il sacco, contando sullo spirito pragmatico della Nietzscheana. Le rivelò di avere un’astronave che poteva prelevarli e persino riportarli nei loro Universi d’origine, se solo fossero riusciti a contattarla. Spiegò altresì la sua idea d’allearsi con alcuni dei campioni di Arena. «Potremmo condividere risorse, idee, talenti... un po’ come la Federazione o il Commonwealth, su scala ridotta» spiegò.
   «Uhm, sì, ha senso» ammise Erzsébeth. «Per la verità anch’io ho tentato qualcosa del genere, nei primi tempi, ma non avevo nulla di valore da condividere. Tu però hai un buon rifugio, e soprattutto hai un’astronave funzionante... una speranza di fuga. Potrebbe essere quell’obiettivo comune che ci permetterà di radunare un gruppo» ragionò.
   «Allora ci stai?».
   «Eccome. Qua la mano!». La Nietzscheana gli porse la destra e l’Umano gliela strinse, lieto di aver appena accolto il primo campione nella sua banda.
   «Devi ancora spiegarmi perché quegli speroni» notò Rivera.
   «Si chiamano rostri» spiegò Erzsébeth, tornando a carezzarli. «È che un Nietzscheano non deve mai essere disarmato, in nessuna circostanza. Ma non temere, Armando, non li userò su di te» aggiunse con un mezzo sorriso. «Posso chiamarti per nome?» aggiunse, temendo di aver ecceduto in familiarità.
   «Certo... Erzsébeth. Oh, ora capisco il tuo nome» fece il Capitano.
   «Già, noi Nietzscheani prendiamo nome dai grandi personaggi storici: inventori, condottieri, sovrani» confermò l’interessata. «Io appartengo al Clan Drago-Kazov, che discende da Drago Museveni in persona; ma al suo interno ci sono varie famiglie. Il mio cognome è Moghul, come i conquistatori dell’India; il mio nome è ungherese» spiegò, tacendone la precisa ispirazione.
   Rivera si chiese se non fosse in riferimento a Erzsébeth Báthory, la folle contessa del XVI secolo che faceva il bagno nel sangue delle fanciulle. D’un tratto ripensò all’amoralità della filosofia di Nietzsche e ai suoi legami col nazismo. E si rese conto che forse aveva fatto l’errore più grosso della sua vita ad accogliere quella donna nel loro rifugio. Ma che altro poteva fare? Da qualche parte doveva pur cominciare a radunare una banda. Erzsébeth gli aveva salvato la vita e poteva essere indispensabile per contattare altri campioni. Ma mentre brindavano all’alleanza, bevendo un altro sorso dalle borracce, il Capitano si promise che sarebbe stato sempre sul chi vive. La fiducia era un lusso che non poteva concedersi, finché si trovava su Arena. 
 
   
 
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