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Autore: Parmandil    07/10/2023    1 recensioni
Le porte del Multiverso sono aperte! Per tre anni gli avventurieri della Destiny hanno vagato tra le realtà, cercando di ritrovare la propria. Ma tutto ciò non era che il preambolo del vero conflitto.
Catapultati in un sistema stellare costruito artificialmente, assemblando pianeti ghermiti dal Multiverso, i nostri eroi iniziano a comprendere il diabolico piano degli Undine. Divisi dopo una fallita infiltrazione, dovranno scegliere tra la filosofia federale – il bene dei molti conta più di quello di uno – e la propria – tutti per uno e uno per tutti. Riusciranno i naufraghi a sopravvivere sul pianeta Arena, dove i più formidabili guerrieri del Multiverso si affrontano in lotte all’ultimo sangue? Quali segreti si nascondono sulla stazione a forma d’icosaedro? Chi è realmente il Viaggiatore? E soprattutto, di chi ci si può fidare? Tra stargate e monoliti, tra gli Aracnidi di Klendathu e i Vermi di Dune, le differenti realtà si contaminano come non mai. La posta in gioco è più alta, i nemici più agguerriti e le lealtà personali saranno messe alla prova come non mai. Anche radunando i campioni del Multiverso, c’è una sola certezza: stavolta non tutti i nostri eroi si ritroveranno sani e salvi.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Il Viaggiatore, Nuovo Personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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-Capitolo 4: Presagi nel deserto
 
   Fu la luce del sole, così violenta che attraversava le sue palpebre chiuse, a svegliare Talyn. Il giovane si agitò borbottando e poi si girò su un fianco, stropicciandosi gli occhi. Infine li aprì, del tutto sveglio. Si accorse d’essere sdraiato su un suolo roccioso, coperto da un sottile strato di sabbia. Ne sputacchiò un po’ che gli era finita in bocca e se ne levò altra che gli imbrattava i capelli. Cercò d’alzarsi, ma fu impacciato dalle cinghie dello zaino, il cui paracadute era disteso al suolo. Allora l’El-Auriano si fermò un attimo. Memorie degli ultimi eventi gli attraversarono in un lampo la mente. Era stato catturato dagli Undine e liberato dai compagni, per poi naufragare su Arena. Mentre precipitavano era stato sbalzato fuori dalla navicella... era decisamente fortunato a essere sopravvissuto. Sempre che essere disperso su un pianeta desertico, senz’acqua né cibo, fosse fortuna. Sempre che essere disarmato su un pianeta di gladiatori fosse fortuna. Sempre che non avere modo di contattare gli altri per fargli sapere che era vivo fosse fortuna. Ripensandoci, forse sarebbe stato più fortunato a sfracellarsi.
   Per prima cosa Talyn si slacciò le cinghie dello zaino. Poi, con un grugnito dovuto all’indolenzimento, si alzò in piedi. Infine si guardò attorno... e vide solo il deserto roccioso. No, si corresse, non c’erano solo rocce. Qua e là c’erano anche relitti di navicelle raccolte dai quattro angoli del Multiverso. Se ne stavano ad arroventarsi sotto il sole. Forse frugandoli avrebbe trovato qualcosa di utile. Al limite gli avrebbero offerto un po’ d’ombra... anche se non osava immaginare quanto facesse caldo lì dentro. Magari se avesse trovato i resti di un’astronave più grande, vi avrebbe trovato refrigerio. E nel migliore dei casi, qualche scorta. Doveva mettersi in  marcia. Già, ma in che direzione?
   Guardandosi attorno, l’El-Auriano vide una bassa linea di montagne all’orizzonte. Doveva provare a raggiungerle, nella speranza che gli offrissero acqua e riparo. Inoltre se i compagni erano sopravvissuti al naufragio di certo si sarebbero diretti lì per gli stessi motivi. Dovevano ritrovarsi e resistere finché la Destiny fosse giunta a salvarli. «Beh, gambe in spalla» si disse il giovane. Strappò parte del paracadute, facendosi una copertura per la testa e il collo, come facevano i nomadi dei deserti. E si mise in marcia verso le alture lontane.
 
   Il sole era a picco e Talyn cominciava a soffrire la sete quando notò che si stava avvicinando a uno dei relitti. Affrettò il passo, con l’idea di riposarsi all’ombra durante le ore più calde e riprendere la marcia al crepuscolo. Quando fu vicino osservò il relitto con attenzione.
   Si trattava di una navicella lunga e stretta. Il giovane valutò che misurasse una ventina di metri in lunghezza, per cinque o sei in larghezza. A vederla sembrava molto primitiva. Non c’era traccia di gondole di curvatura, né d’altri propulsori iper-luce; solo degli antidiluviani razzi a propellente chimico. A prua vi era una piccola cabina, di forma ovoidale. Il grosso della navicella non era altro che un lungo traliccio, al quale potevano agganciarsi moduli di varia forma, in base alle necessità della missione.
   «E questa da che museo è sbucata?» si chiese Talyn. In effetti sembrava antica: la sabbia aveva eroso qualunque vernice, lasciando uno scafo graffiato e arrugginito. Poteva benissimo avere cinque, seicento anni. Passata la sorpresa, l’El-Auriano decise di salire a bordo. Si accostò alla cabina e vide un portello socchiuso, posto sul lato del traliccio, così da accedere all’eventuale modulo posteriore. Saltò sulle travi deformate e raggiunse il portello. Era così arrugginito che stentò ad aprirlo. Dopo molti sforzi, riuscì a schiuderlo quel poco che bastava per infilarsi nel varco.
   Come sospettava, anche l’interno rifletteva una tecnologia sorpassata da molti secoli. Invece di oloschermi e interfacce tattili c’erano leve, interruttori e pulsanti. Aveva visto qualcosa del genere solo nella Nave a Razzo di Capitan Proton. Quello però non era un gioco: qualcuno aveva davvero affrontato lo spazio su quel fragile vascello. E ne aveva pagato le conseguenze.
   Il pilota era ancora seduto sulla poltroncina, dov’era morto, forse già in seguito all’atterraggio d’emergenza. Il suo corpo era stato preservato dall’estrema aridità del clima, che ne aveva fatto una mummia naturale. Indossava una tuta spaziale arancione, senza il casco, che era posato a terra. Dopo una breve esitazione, Talyn si accostò per osservare la mostrina cucita sulla spalla. Mostrava la Luna terrestre, con la scritta Moonbase Alpha, Base Lunare Alfa. Il nome della navicella era impresso su una paratia: Eagle 1, Aquila 1.
   Per un folle attimo, Talyn si chiese se non poteva rimettere in funzione la navicella e usarla, se non per raggiungere la Destiny, almeno per un breve volo atmosferico fino alle montagne. Ma capì subito che era impraticabile. L’Aquila era troppo vecchia e danneggiata per volare di nuovo. Uscito dall’abitacolo, il giovane ispezionò i motori, verificando che i serbatoi si erano lesionati nell’atterraggio e il carburante era fuoriuscito. No, l’Aquila non si sarebbe più mossa.
   Non restava che seguire la prima idea. Poiché l’abitacolo era troppo surriscaldato per sostarvi a lungo, Talyn non vi rientrò. Sedette invece all’esterno, sul lato in ombra, con la schiena poggiata alla paratia. Lì attese pazientemente che il sole calasse e la temperatura si facesse sopportabile. Stanco com’era, riuscì a sonnecchiare per qualche ora.
   Venne infine il tramonto e Talyn sentì una brezza più fresca. Allora si tirò su, pronto a riprendere il viaggio. Prima d’incamminarsi tornò nell’abitacolo, per controllare se c’era qualcosa di utile. Trovò una borraccia, ovviamente vuota dopo secoli d’abbandono. La prese comunque, nella speranza di trovare acqua più avanti. Osservando il pilota, inoltre, notò che aveva un’arma a raggi agganciata in cintura.
   «Scusa, amico, ma questa serve più a me che a te» disse il giovane, estraendo l’arma. Se la rigirò tra le mani, osservandola da tutte le angolazioni per capirci qualcosa. Sembrava un phaser molto primitivo, con solo due settaggi: stordimento e uccisione. La forma era inconsueta, ricordava più che altro una maniglia. Talyn pensò che ben difficilmente quell’arma era ancora carica, ma la prese, contando sul potere di deterrenza.
   Una borraccia vuota e un phaser scarico erano un ben misero equipaggiamento, ma era tutto ciò che poteva trarre dal relitto. Tornato all’aperto, Talyn vide che il sole era ormai tramontato, ma la luce soffusa dello Spazio Fluido bastava a rischiarargli il cammino. E così riprese la sua marcia solitaria, nel silenzio del deserto.
 
   All’alba le montagne non sembravano sensibilmente più vicine. Talyn cominciò seriamente a dubitare che le avrebbe raggiunte. La sua fisiologia El-Auriana lo rendeva più resistente alla disidratazione rispetto a un Umano, ma anche lui aveva dei limiti, e li stava raggiungendo in fretta. Si sentiva la gola riarsa, le labbra screpolate. Si guardò intorno nel tentativo di distrarsi e non pensare alle sue precarie condizioni.
   Aveva raggiunto una strana regione, disseminata dai resti di giganteschi robot da combattimento. Le loro fogge erano più o meno umanoidi, con gli ingranaggi a vista. Alcuni dovevano essere stati piuttosto colorati, ma anche qui la sabbia aveva raschiato quasi tutta la vernice. I robottoni sembravano fatti in modo da potersi ripiegare e cambiar forma, trasformandosi in qualcos’altro. Forse in veicoli, a giudicare da certi componenti, come ruote o cingoli. Chissà cosa li aveva distrutti: si erano combattuti fra loro o era stato qualcos’altro? Aveva importanza, su un pianeta che era un’immensa arena?
   A un tratto, fra i cumuli di rottami, Talyn intravide un muretto circolare, fatto con pietre sgrossate. Sembrava quasi... un pozzo! Sopra di esso c’erano persino le travi, due di sostegno e una orizzontale, per consentire di calarvi un secchio. Il giovane si sfregò gli occhi: stava forse sognando? Tornò a guardare: il pozzo era ancora lì, più invitante che mai.
   «Calmo... forse è secco» si disse Talyn, preparandosi al peggio. Ma naturalmente doveva appurarlo prima di proseguire. Si guardò attorno, cercando di capire se era una trappola, ma non vide nessuno appostato. C’erano solo i robottoni fracassati, dagli occhi spenti. Allora il giovane si avvicinò al pozzo, con la pistola a raggi in mano. Vi guardò giù, senza vederne il fondo, che era in ombra per via del sole basso e radente. Ma avvertì una corrente d’aria fresca e leggermente umida. Subito prese a girare la manovella, per richiamare la corda e con essa il secchio. Scoprì con disappunto che non c’era alcun secchio: forse si era staccato, perdendosi in fondo al pozzo. La corda però era umida, segno che c’era davvero dell’acqua laggiù. Talyn se la passò sulla fronte sudata e già così avvertì un gran beneficio. Poi estrasse la borraccia che aveva rinvenuto nell’Aquila, vi legò attorno la corda e la calò, usandola come secchio improvvisato.
   Quando la tirò su, la borraccia gocciolava d’acqua preziosa. L’El-Auriano la prese e bevve a piccoli sorsi, inumidendosi prima le labbra e il palato. Un sorsetto alla volta, la svuotò. Allora tornò a calarla, ripetendo più volte l’operazione, fino a sentirsi ristorato. A quel punto sedette con la schiena contro il muretto del pozzo, guardandosi attorno. Dopo aver marciato per tutta la notte, si sentiva stanco. Forse gli conveniva riposare all’ombra, come aveva fatto il giorno prima, e continuare a quel modo fino alle montagne. Almeno lì l’ombra non mancava, con tutti quei robottoni fracassati.
   «Chissà che è successo, per ridurli così» mormorò Talyn fra sé, sperando che al momento non ci fosse pericolo.
   «Un’antica battaglia fra gli Autobot e i Decepticons del pianeta Cybertron» rispose una voce sconosciuta alle sue spalle. «Ma non temere, è acqua passata. Nessuno di questi rottami può nuocerci».
   A quelle parole Talyn balzò in piedi, col cuore martellante e la vecchia pistola a raggi in pugno. Non si era reso conto d’essere in compagnia... il suo sesto senso aveva fatto cilecca. Beh, chiunque si fosse trovato davanti, lui era pronto a vendere cara la pelle! «Chi sei? Fatti vedere!» intimò il giovane, aggirando rapidamente il pozzo.
   «Eccomi... non che sia chissà che» rispose lo sconosciuto, con un sorriso sornione. Era un uomo d’età indefinibile, con lunghi capelli neri e una barbetta incolta. Il viso era lungo e stretto; sulla carnagione abbronzata spiccavano gli occhi chiari e penetranti. La sua tenuta da deserto era grigia e logora, gli stivali impolverati. Se ne stava stravaccato con la schiena contro il muretto, simile a un mucchio di vecchi stracci. Guardò Talyn di sotto in su, senza mostrare timore per la sua arma. «Oh, da quanto non vedevo una di quelle! Ma sarebbe più efficace se fosse carica, giovanotto» commentò.
   L’El-Auriano sparò in terra, giusto per accertarsi che fosse vero. Effettivamente non accadde nulla. «Siamo in un mondo pericoloso. Fingersi armati è sempre meglio che mostrare di non esserlo. Sai, non tutti sono perspicaci come te» disse. Quello straniero non gli sembrava minaccioso, ma il giovane aveva imparato a non fidarsi delle apparenze. Dopotutto gli Undine avevano radunato su quel pianeta gli esseri più tremendi del Multiverso. Chissà cosa si nascondeva, sotto quelle sembianze innocue.
   «È vero, siamo in un mondo pericoloso» convenne lo sconosciuto. «Pochi ne sono mai usciti vivi; nessuno immutato. Chi ha creato tutto questo fa buona guardia» disse accennando all’Harvester, visibile come una funesta stella del mattino.
   «Conosci gli Undine? Pensi che ci stiano osservando anche adesso?» chiese Talyn, sospettoso.
   «Gli architetti di questo luogo vedono molte cose, ma non sono onnipresenti» rispose l’uomo, enigmatico. I suoi occhi vividi tornarono a posarsi su Talyn. «Ho sete. Mi daresti dell’acqua?» chiese, ancora sdraiato al suolo.
   «Va proprio male, eh?» fece il giovane, un po’ beffardo.
   «Come?».
   «A vederti sei qui da molto più tempo di me, quindi dovresti sapere quant’è profondo il pozzo. Però non hai nulla per attingervi. Devi chiedere a me, che sono appena naufragato» notò l’El-Auriano.
   «Hai ragione, avrei dovuto dire: mi daresti dell’acqua, per favore?» si corresse lo sconosciuto, tendendo la mano.
   «Perché no?» fece Talyn, allungandogli la borraccia.
   L’uomo la prese con gratitudine e bevve, anche lui a piccoli sorsi. Ma doveva essere assetato, perché un sorso alla volta arrivò a vuotarla. «Ah, ci voleva. Grazie, mio giovane amico» disse, restituendola.
   «Figurati, se non ci si aiuta fra noi...» disse Talyn. Si stava ancora chiedendo se l’altro era in procinto d’estrarre un’arma e sparargli, o trasformarsi in un mostro e mangiarlo, o qualcosa del genere. Forse voleva l’acqua solo come aperitivo. Per il momento, comunque, il giovane rimase lì. Legò di nuovo la borraccia e tornò a calarla nel pozzo, riempiendola ancora, in previsione del viaggio. «Peccato che fra poco avremo di nuovo sete» si lamentò, issandola di nuovo.
   «Sì, l’acqua dura poco in questo luogo» convenne lo sconosciuto. «Ma ogni tanto s’incontra un vero e buon amico, e quello è un tesoro che non si prosciuga».
   Talyn chiuse la borraccia e se l’agganciò in cintura, poi tornò a guardarlo. «Non ci siamo ancora presentati» notò. «Tu chi sei?».
   «Chi credi che io sia?» lo provocò l’altro.
   «Preferisco non fare congetture. E comunque, se mi sei amico, rispondi alla domanda» si accigliò il giovane.
   «Io ho molti nomi, in base al luogo in cui mi trovo e alle persone che incontro» rispose l’uomo, accennando un sorriso. «Tu puoi chiamarmi Klaatu. Allora, con chi ho il piacere di parlare?».
   «Mi chiamo... Talyn» rispose il giovane. Era stato tentato di dargli un nome falso, perché non gli andava di spifferare il suo a tutti quelli che incontrava. Ma qualcosa, in quel tipo, gli suggeriva che non c’era bisogno d’inganni.
   «Lieto di conoscerti, Talyn» disse Klaatu. Si tirò finalmente in piedi, dandosi manate sugli abiti consunti per levarsi un po’ di polvere. Aveva uno zaino da viaggio, tutto liso. Quando gli parve d’essere presentabile, tese la mano al giovane, che dopo una breve esitazione gliela strinse.
   «Allora, da dove vieni?» chiese Klaatu, riferendosi con ogni evidenza al suo mondo d’origine e alle circostanze che l’avevano condotto lì.
   Talyn però dette deliberatamente una risposta letterale. «Da là» rispose, indicando la direzione da cui era giunto camminando.
   Klaatu tacque brevemente. Se la risposta lo aveva deluso, non lo diede a vedere. «Beh, non importa il percorso; l’importante è che ora sei qui. Dimmi, come conti di proseguire? Hai in mente una destinazione precisa?».
   Talyn sospirò, osservando le montagne lontane. «Sono naufragato qui con un paio d’amici, ma siamo stati divisi prima d’atterrare. Loro mi credono morto, quindi devo essere io a cercarli... purtroppo non so dove siano» rivelò. «Comunque devo sopravvivere al deserto, e spero che sia più facile se raggiungo quelle montagne laggiù. Spero che anche loro facciano lo stesso ragionamento, e che quindi li troverò là».
   «Può darsi» convenne Klaatu, schermandosi gli occhi con la mano per osservare le alture. «Ma quelle montagne distano molti giorni di marcia, e ci sono pericoli sulla strada. Se sei nuovo di qui, stai andando incontro a un rischio mortale. Ti andrebbe di viaggiare con me?» propose.
   Talyn lo squadrò, chiedendosi se Klaatu avesse avuto quest’idea fin dal principio. Forse persino la richiesta dell’acqua non era che un espediente per attaccare bottone. «Stai andando nella mia stessa direzione?» chiese, lasciando trapelare il sospetto.
   «Oh, io sono sempre in viaggio» rispose l’altro. «Quella direzione vale quanto un’altra. E viaggiare assieme è preferibile che farlo da soli. Così strada facendo potrò istruirti sui pericoli di questo mondo. Allora, ci stai?».
   «Prima dimmi una cosa, “amico”. Tu da dove vieni? Perché sei qui? Ci sei finito controvoglia... oppure di proposito?» inquisì Talyn. Lo osservò con tutta la sua attenzione di El-Auriano, cercando di capire se diceva la verità.
   Klaatu sospirò, lo sguardo perso in visioni remote. «Io vengo da un luogo migliore di questo, e forse un giorno ci tornerò» disse. «A differenza di te e degli altri esuli, sono qui per mia volontà. Vedi, io non cerco quelli che stanno bene, ma coloro che soffrono. Non cerco chi crede di sapere tutto, ma chi vuole apprendere. Scusa, non posso essere più chiaro di così. Ti dico solo che viaggiare assieme può essere un bene per entrambi».
   «E sia» disse Talyn. Trovava difficilissimo leggere quell’individuo, ma per il momento non avvertiva falsità o cattivi propositi in lui. E chissà che, passandoci del tempo assieme, non scoprisse di più sul suo conto. «Allora, qual è la lezione numero 1 di Arena?» chiese.
   «La prima lezione» disse solennemente Klaatu, battendo a terra con lo stivale, «è non fidarti nemmeno del suolo su cui cammini».
 
   Di lì a poco i due erano appostati su un affioramento roccioso e guardavano il deserto antistante. Era una distesa di dune arancioni, scolpite dal vento. Le più grandi parevano colline. «Finora abbiamo camminato sulla roccia, ma questo tratto di deserto è sabbioso. Ed è qui che si annida il pericolo, mio giovane amico» disse Klaatu.
   «Non mi hai ancora detto di che si tratta» notò Talyn.
   «Sarà molto più semplice mostrartelo» fece Klaatu. Si levò di schiena lo zaino, lo aprì e ne trasse un bastone telescopico, che allungò fino a circa un metro. Un’estremità dell’asta era appuntita, per essere infissa nella sabbia. All’altra estremità era fissato uno strano dispositivo cilindrico. Quando il proprietario lo attivò, due componenti interne presero a battere, creando una vibrazione ritmica. «Questo si chiama martellatore. Come vedi, i suoi battiti creano una vibrazione simile a quella dei passi» spiegò Klaatu.
   «E quindi?» fece Talyn.
   «E quindi ti mostrerò cosa accade a chi cammina sulla sabbia senza le dovute precauzioni. Tu aspetta qui, non seguirmi per alcun motivo». Klaatu lasciò l’affioramento roccioso, col martellatore in spalla, e si avventurò nel deserto. Talyn notò che si era fidato a lasciargli lo zaino con i suoi pochi averi. Restò a guardarlo, chiedendosi a dove portasse tutto questo.
   Giunto a qualche centinaio di metri, Klaatu piantò il martellatore nella sabbia. Come previsto v’infisse la punta, lasciando che il cilindro continuasse a battere, trasmettendo le vibrazioni nel sottosuolo. Dopo di che fece dietro-front e tornò indietro quasi correndo, sia pur con uno strano passo irregolare. Non rallentò finché non fu di nuovo accanto a Talyn. «Salvo!» mormorò. «Ora sta’ a guardare».
   L’El-Auriano era pieno di domande, ma decise di stare al gioco. Attese con Klaatu per circa mezz’ora, sdraiato sulla roccia. Cominciava a spazientirsi, quando udì un cupo brontolio e vide la sabbia incresparsi nella distanza. Era come se qualcosa d’enorme si muovesse a gran velocità subito sotto la superficie. E puntava decisamente verso il martellatore. «E quello che diavolo è?!» chiese, alzandosi.
   «Ammira il Verme delle Sabbie di Arrakis!» disse solennemente Klaatu. «I Fremen, che vivono a stretto contatto con lui e talvolta lo cavalcano, lo chiamano Shai-Hulud. Lo onorano coi titoli di Creatore e Vecchio Padre del Deserto. Guarda bene!».
   Sotto gli occhi sgranati di Talyn, la creatura emerse in superficie, sollevando una gran folata di sabbia. Aveva una struttura segmentata simile agli anellidi, ma l’epidermide era dura e scabra. Tutto culminava in un’immensa bocca tripartita, ricoperta da migliaia di denti cristallini, così duri da triturare la roccia. Con lo spirito d’osservazione El-Auriano, Talyn valutò che il Verme avesse un diametro di trenta metri e fosse lungo almeno dieci volte tanto. Era attratto dalle vibrazioni ritmiche, perché si gettò sul martellatore e lo inghiottì, per poi rituffarsi nella sabbia. Sia al momento dell’emersione che dell’immersione, alcuni piccoli fulmini gli scoccarono attorno, per l’elettricità statica provocata dallo sfregamento dei granelli di sabbia. Anche Talyn, infatti, sentì drizzarsi i capelli per l’accumulo statico. Il passaggio della creatura fu accompagnato da un immane boato e da uno scuotimento del terreno, persino delle rocce su cui erano appostati gli osservatori. Una volta passato, tuttavia, tutto tornò calmo, tanto che nessuno avrebbe potuto immaginare l’accaduto.
   «Quanti... ce ne sono, di quegli affari?» chiese Talyn, sconcertato.
   «Qui su Arena, non molti. Ma sul loro pianeta natio sono innumerevoli, e alcuni sono molto più grossi di questo» spiegò Klaatu. «Sono fondamentali per l’ecosistema, in molti modi».
   «E hai detto che i nativi li... cavalcano?!».
   «Non è facile nemmeno per loro. Ma tranquillo, non voglio spingerti a farlo... per ora. Volevo solo farti capire perché dobbiamo muoverci con prudenza» spiegò Klaatu. «Cercheremo d’aggirare l’area sabbiosa, e comunque adotteremo il passo irregolare dei Fremen per non attirare i Vermi».
   «Uhm, il percorso si allunga. L’acqua basterà?» chiese il giovane.
   «Ci sono altri pozzi; li visiteremo tutti» promise il mentore. «Ora però riposiamo. Durante le ore più calde dormiremo all’ombra, riservandoci la fresca notte per il viaggio».
 
   Dormirono all’ombra dei robottoni distrutti, senza che nessuno li disturbasse. Talyn tuttavia ebbe un sonno agitato. I ricordi traumatici degli ultimi giorni – gli Undine, il naufragio – si mischiavano a strane visioni di Vermi delle Sabbie, di sacerdotesse nerovestite e di un popolo dagli occhi blu, forse i Fremen.
   «Sveglia, giovane amico. Il sole è tramontato, è ora d’andare» disse Klaatu, destandolo da quelle visioni angosciose.
   «Groan... sì, è meglio» fece Talyn, sfregandosi il sonno via dagli occhi. Bevve ancora dal pozzo, per caricarsi al massimo prima d’affrontare il deserto. Mentre lo faceva notò, con la coda dell’occhio, che Klaatu si era appartato e beveva anche lui da una borraccia. Questo confermava che la precedente richiesta d’acqua era solo un espediente per prendere contatto. Il giovane si ripromise di tenerlo sempre d’occhio, finché non avesse compreso le ragioni di quell’interesse.
   I due si misero in cammino, alla luce crepuscolare dello Spazio Fluido. Klaatu mostrò l’andatura irregolare dei Fremen a Talyn, che si sforzò d’imitarla, sebbene la trovasse oltremodo faticosa. Anche dopo aver imparato il passo, il giovane aveva difficoltà a mantenerlo sulle lunghe distanze. Gradualmente tornava a camminare in modo più normale, tanto che Klaatu dovette spesso richiamarlo all’attenzione. Strada facendo, l’uomo raccontò altri dettagli sui Vermi e sul loro mondo sabbioso.
   «Sembri molto esperto di questo pianeta Dune» notò Talyn a un certo punto. «Ci sei stato?».
   «Sì... più o meno» rispose Klaatu, sibillino.
   «Come sarebbe, “più o meno”? Ci sei stato oppure no?!» chiese l’El-Auriano, irritato da quell’atteggiamento.
   «Le cose non sono sempre così lineari, mio giovane amico. Il tempo non è sempre lineare» rispose Klaatu. «Diciamo che, in un certo punto del continuum spazio-temporale, io sono su Dune».
   Talyn rimuginò su queste parole, cercando d’interpretarle. Voleva forse dire che Klaatu era un viaggiatore del tempo? E c’era qualcosa d’ancor più disturbante. Su Arena c’erano persone, animali e robot provenienti da molte realtà differenti; ma Klaatu pareva esperto di tutti. Era come se fosse stato in ogni mondo di ogni cosmo, e tanto a lungo da impratichirsi di ciascuno. Quanti anni servivano per acquisire un’esperienza così sterminata? Migliaia? Milioni? Insomma, cos’era realmente quell’essere? Su che pianeta era nato, a che specie apparteneva? Quali erano le sue capacità, e quali i suoi obiettivi?
   «E soprattutto... perché io gli interesso tanto?» si chiese Talyn, arrancandogli dietro. «Quando si ha una conoscenza così enciclopedica, come ci si può interessare ancora a qualcosa? Cosa c’è in me che gli fa dire “vale la pena spenderci del tempo”?». Non seppe darsi risposta. Ma continuò a seguire Klaatu, ascoltandolo attentamente, con la speranza che il tempo e l’esperienza avrebbero risposto ai quesiti.
 
   Camminarono per altri due giorni, costeggiando la zona sabbiosa, sempre con quell’andatura che spaccava i ginocchi. Finalmente raggiunsero una regione dal suolo roccioso, ben saldo sotto i piedi, dove non c’era da temere d’essere fagocitati da un Verme. Talyn ne fu sollevato, per quanto potesse essere sollevato un naufrago su Arena. Adesso erano in una zona leggermente meno secca, tanto che qua e là crescevano delle sterpaglie, le prime che il giovane avesse visto su quel pianeta. Klaatu lo guidò a un altro pozzo, al quale poterono ristorarsi. Avevano da poco ripreso a camminare, alle prime luci dell’alba, quando qualcosa attirò l’attenzione di Talyn. Una forma regolare, geometrica, che spiccava tra le rocce informi.
   Era un monolito perfettamente rettangolare, con gli spigoli così rifiniti da essere taglienti. Le sue proporzioni – Talyn lo percepì con la sua sensibilità El-Auriana – erano esattamente 1x4x9. Se ne stava ritto su uno dei lati corti, così che visto dal davanti sembrava una porta sul nulla. La sua superficie levigata era d’un nero intenso e uniforme, senza la minima macchia o irregolarità. Un nero così profondo da non riflettere nemmeno la luce del sole nascente. Era chiaramente un oggetto artificiale, perché la natura non avrebbe mai potuto ritagliare una forma così perfetta; sembrava fuori posto lì in mezzo al deserto. Chi l’aveva realizzato, e a che scopo? Stranamente attratto dal monolito, Talyn deviò dal cammino e si avvicinò per esaminarlo. Qualcosa d’inesplicabile lo spingeva ad accostarsi, se possibile a toccarlo.
   Accortosi che il giovane non lo seguiva più, Klaatu si fermò e si guardò attorno, fino a scorgerlo. «Ehi, che stai facendo? Allontanati, quello non fa per te!» esclamò, con una strana urgenza nella voce. Gli corse dietro, per fermarlo prima che lo toccasse.
   Talyn era vicino al monolito quando a un tratto si accorse di non essere solo. C’erano delle scimmie attorno a lui. Scimmie molto particolari. Alcuni erano scimpanzé, altri oranghi dal pelo rossiccio, altri ancora imponenti gorilla. Ma invece di camminare a schiena curva, appoggiandosi alle nocche, erano tutti in postura eretta, ben saldi sulle gambe. Doveva esserci stata una significativa mutazione nella loro fisiologia. Una mutazione non solo fisica, ma anche mentale. Le scimmie infatti erano tutte ben vestite e con la pelliccia pettinata. Gli scimpanzé parevano scienziati, o comunque intellettuali; una di loro aveva persino gli occhiali. Gli oranghi avevano più l’aria di amministratori e burocrati; uno di loro aveva un bastone da passeggio. I gorilla infine dovevano essere i militari, poiché avevano elmi e corazze in cuoio e metallo. Erano muniti d’armi bianche, come spade e alabarde; due di loro erano persino a cavallo.
   «Beh, vi siete evoluti?!» fece Talyn, troppo sorpreso per pensare alla diplomazia.
   «Un Umano! Un Umano parlante!» gridò l’orango col bastone. «Faccia qualcosa, Generale Ursus!».
   «Subito, dottor Zaius» disse uno dei gorilla a cavallo. Gridò alcuni ordini ai suoi soldati; in un attimo avevano circondato il giovane, pungolandolo con le loro armi. «Ma guarda, un altro uomo che si atteggia a scimmia! È arrivato il momento di rimettervi al vostro posto, per il grande Cesare!» bofonchiò Ursus, afferrando Talyn per i capelli.
   «Toglimi quelle zampacce di dosso, maledetto sporco gorilla!» strepitò Talyn. Con uno scatto si liberò dalla presa, pur lasciando alcuni capelli in mano all’altro. «Cosa credete di fare, eh?! Scommetto che non sapete neanche dove siete!» gridò, rivolto agli scimpanzé e agli oranghi.
   «Oh, ti sbagli, giovane Umano!» rispose il dottor Zaius. «Siamo nella Zona Proibita, che un tempo era un paradiso. E la tua genìa l’ha trasformata in un deserto, millenni fa! Voi Uomini l’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!».
   «Si calmi, professore!» intervenne uno degli scimpanzé.
   «Non dica a me di calmarmi, Cornelius! Se lei e Zira non aveste incoraggiato gli Uomini alla ribellione, non saremmo a questo punto!» sbottò l’orango. «Avete scordato il primo articolo della nostra fede: “L’Onnipotente creò la Scimmia a sua immagine e somiglianza. Le dette un’anima e una mente, e la volle separata dalle bestie della foresta. E la fece padrona del pianeta”». Detto questo, si rivolse di nuovo a Talyn: «Sentito, giovanotto? Questo è il Pianeta delle Scimmie. Non degli Uomini!» ammonì.
   «Oh, beh, caso vuole che io non abbia una goccia di sangue umano!» ridacchiò l’El-Auriano.
   «Ti prendi gioco di me? Se non sei Scimmia né Uomo, allora che cosa sei?!» fece l’orango. Intanto i gorilla stringevano il cerchio attorno a Talyn, smaniosi d’infilzarlo.
   «Pace!» intervenne Klaatu, avvicinandosi con le mani aperte, per mostrare che era disarmato. «Non c’è bisogno di ricorrere alla violenza, poiché non siamo una minaccia. La violenza è il rifugio di chi non sa appianare serenamente le divergenze. E voi avete questa capacità, perché l’avete già dimostrato. Non fu il vostro liberatore Cesare a dire: “Scimmia non uccide altra scimmia”?» argomentò.
   «Le altre scimmie no, ma gli Uomini...» brontolò Ursus, sempre puntando l’alabarda al petto di Talyn.
   «Gli Uomini sono più imparentati con gli scimpanzé che con voi gorilla, o con gli oranghi» ribatté Klaatu. «Se c’è pace e armonia fra le vostre tre specie, a maggior ragione può esserci con loro. O voi scimmie avete così poca fiducia in voi stesse, e così tanta paura degli Uomini, da credere di dover ricorrere alla violenza?».
   «Noi non temiamo nessuno!» ribatté Ursus, battendosi fieramente il petto. «Ma gli Uomini ci disgustano per i loro modi animaleschi. Se non li si tiene in gabbia, sono pericolosi».
   «In tutta onestà, io e il mio amico vi sembriamo animaleschi e pericolosi?» chiese Klaatu, accostandosi a Talyn.
   «No!» proruppe la donna scimpanzé, facendosi avanti. «Questi Umani parlanti sono pacifici, dottor Zaius. Lasciamoli andare!».
   «E permettere che portino qui altri intrusi? No, Zira, la nostra ricerca è troppo importante per essere compromessa» disse l’orango, accennando al monolito.
   «State studiando quell’oggetto? Sapete di che si tratta?» chiese Talyn, ancora intrigato da quel misterioso artefatto.
   «Io penso che sia l’opera di antiche scimmie... quasi certamente oranghi» dichiarò Zaius, passandosi una mano sul pelo rossiccio del capo.
   «Io invece sono convinta che sia opera d’antichi Umani. Può essere la prova decisiva che un tempo erano loro a dominare il pianeta!» disse Zira, emozionata dalla sua ardita teoria.
   «Forse non è opera né degli uni, né degli altri. Forse è il prodotto di un’Intelligenza superiore, alla quale dovete tutti il vostro intelletto» suggerì Klaatu, con l’aria di chi la sa lunga.
   «Questa poi! Ne ho abbastanza di sentire eresie!» sbottò Zaius.
   «Allora lasciateci proseguire, così non intralceremo i vostri studi. In fondo siamo solo due umili viandanti nel deserto. Veniamo in pace, senz’armi, e in pace vi lasciamo» insisté Klaatu.
   Le scimmie parlottarono fra loro, con gli scimpanzé – Cornelius e Zira – che caldeggiavano la soluzione pacifica. Poco a poco gli oranghi parvero convincersi, tanto che ordinarono ai gorilla di riporre le armi. Questi brontolarono un po’, ma eseguirono, rompendo l’accerchiamento.
   Nel frattempo, però, Talyn aveva ripreso a fissare il monolito. Qualcosa in quell’oggetto esercitava su di lui un fascino irresistibile, al punto che il giovane si avvicinò, con la mano protesa per toccarlo. Di tutte le cose viste finora su Arena, sentiva che era la più significativa. A un tratto gli parve di scorgere un bagliore stellare al suo interno.
   «Mio Dio... è pieno di stelle!» disse il giovane, con gli occhi sbarrati. Era vicino a toccare la superficie nera e liscia.
   «Fermo, figliolo! Non sei pronto per quello... non ancora» disse Klaatu, precipitandosi a fermarlo. Afferrò Talyn, bloccandogli le braccia contro il corpo, e lo trascinò indietro, impedendogli di toccare il monolito. Era la prima volta che faceva ricorso alla forza, da quando si erano incontrati. «Non guardare quello... guarda me!» disse quando furono a una certa distanza. Si mise davanti a Talyn, interrompendo il contatto visivo col monolito, e lo schiaffeggiò leggermente, fino a svegliarlo dalla strana trance.
   «Tu... tu sai che cos’è?» chiese l’El-Auriano, riprendendosi.
   «La forma di Qualcosa che non ha forma» rispose Klaatu, sempre enigmatico. «Andiamo, su... il tempo stringe. Non possiamo indugiare per alcun motivo. Guarda là!» disse, indicando l’orizzonte.
   Talyn osservò nella direzione indicata e vide qualcosa che gli gelò il sangue. Un muro arancione veniva verso di loro, inghiottendo colline e dune. Era una tempesta di sabbia, la stessa che aveva rilevato giorni prima dalla Destiny. Si avvicinava rapidamente; già adesso la luce del giorno diminuiva, per via della crescente foschia. Il giovane ricordò che sui mondi desertici le tempeste di sabbia potevano ricoprire un intero emisfero e durare settimane, persino mesi. Se si lasciavano sorprendere all’aperto, era la fine.
   «Scimmie, radunatevi! Torniamo al campo base, nella grotta!» ordinò Zaius, accompagnandosi con un ampio gesto, per richiamare a sé la squadra. In un attimo furono tutti attorno a lui, scimpanzé, oranghi e gorilla. Questi ultimi erano smontati da cavallo e si tiravano dietro gli animali per le briglie, cercando di calmarli. Talyn guardò i primati, quasi sperando che li accogliessero nel loro rifugio.
   «Non voi!» grugnì Ursus, respingendolo con l’alabarda. «Voi Uomini restate fuori, e vedremo se il deserto avrà pietà di voi». Dal suo tono, era evidente che li considerava spacciati.
   «Cercate un rifugio... buona fortuna» disse però Zira, prima d’essere costretta ad andarsene con i suoi simili.
   In pochi minuti Talyn e Klaatu rimasero soli, col vento sempre più sostenuto e il cielo che si oscurava, da oriente verso occidente. La tempesta di sabbia stava arrivando e loro non erano attrezzati per resistere.
 
   «Conosci qualche altro rifugio nelle vicinanze? Uno che non sia occupato da scimmie megalomani?!» chiese Talyn. Ancora non sapeva se fidarsi di Klaatu, che malgrado il suo atteggiamento pacifico lo inquietava, per via delle sue strane conoscenze. Ma non aveva alternativa; restare all’aperto significava morte certa.
   «In effetti sì, ce n’è uno» rivelò Klaatu. «È una delle mie dimore temporanee su questo pianeta. Si trova a mezza giornata di marcia. Dovremmo arrivarci in tempo, se andiamo a passo sostenuto».
   «Fa’ strada, allora» disse Talyn. Quella notizia lo sollevava, ma al tempo stesso accresceva la sua inquietudine. Se erano così vicini al rifugio, significava che Klaatu lo aveva guidato fin lì di proposito, col pretesto d’aggirare l’area infestata dai Vermi. Quindi aveva sempre avuto l’intenzione di attirarlo a casa sua. Forse aveva persino previsto l’arrivo della tempesta di sabbia, calibrando tempi e distanze, in modo che a Talyn non restasse che accettare l’offerta. Era provvidenziale e preoccupante al tempo stesso. Mentre lo seguiva, il giovane si ripromise di tenere alta la guardia. Avrebbe ascoltato e osservato attentamente il suo anfitrione; ma non era tenuto a credere a tutto ciò che diceva.
   Camminarono di buon passo, quasi correndo, perché la tempesta si avvicinava come un predatore pronto a inghiottirli. Il vento trascinava la sabbia più fine, che finiva negli occhi e li irritava. Così era sempre più difficile guardare dove si metteva i piedi e tenere la giusta direzione.
   «Stammi vicino! Se ti perdi nella tempesta, neanche gli avvoltoi ritroveranno la tua carcassa» avvertì Klaatu. Inforcò un paio d’occhiali da deserto, tratti dal suo zaino, per avere la vista più libera. E continuò a procedere, guardandosi attorno in cerca di punti di riferimento. Una roccia scolpita dal vento, un tronco essiccato; tutto era utile per orientarsi. L’uomo mantenne un passo rapido, come se fosse sicuro della direzione. Solo ogni tanto si fermava qualche secondo, guardandosi attorno, in cerca del successivo punto di riferimento. Mai una volta fu costretto a tornare indietro, e nemmeno a cambiare direzione per correggere un errore.
   Invece di confortare Talyn, questo lo inquietava. Anziché dirigere verso gli affioramenti rocciosi, infatti, si stavano gettando nell’aperto deserto. Non c’era niente lì che potesse difenderli dalla furia del vento. «Senti, sei sicuro che stiamo andando nella direzione giusta?!» chiese il giovane a un certo punto.
   «Certo! Tieni duro, siamo quasi arrivati!» lo rassicurò Klaatu. Anche lui doveva parlare a voce alta, per sovrastare il vento.
   «Ma siamo in pieno deserto! Non ci sono ripari qui!» insisté l’El-Auriano.
   «Abbi fede, mio giovane amico. Non tutto è come appare!» disse l’altro, proseguendo ostinatamente verso la pianura.
   «Già, a volte è peggio» borbottò Talyn. Aveva parlato a voce così bassa che non si aspettava d’essere udito. Eppure Klaatu si voltò verso di lui, come se avesse sentito perfettamente.
   «Non hai avuto una vita facile, eh?» gli chiese in tono comprensivo.
   «Direi di no. Quando la casa ti crolla in testa per un bombardamento, e sei l’unico sopravvissuto della famiglia, e a sei anni devi cavartela per strada, impari che avere un buon rifugio è tutto!» ribatté Talyn, con un’occhiata accusatoria.
   «Mi dispiace per la tua famiglia. E mi dispiace per te, figliolo. Nessuno dovrebbe subire una cosa del genere» disse Klaatu, con aria di profonda partecipazione.
   «Beh, sai... tutto quel che non ti uccide, ti rende più forte» rispose il giovane, con un sorriso cinico.
   «No, non necessariamente. Certe vittorie ti lasciano così fratturato da predisporre la successiva sconfitta. Il conflitto non risolve nulla; la pace è l’unica via» ribatté Klaatu, serissimo.
   «Ah già, tu sei l’amante della pace» disse il giovane, ricordando come si era rivolto alle scimmie. «Anche il mio popolo, gli El-Auriani, lo erano. Poi un giorno arrivarono i Borg e distrussero il nostro mondo, costringendo i pochi superstiti a disperdersi nella Galassia. Il pacifismo non ha salvato la mia gente, l’ha condotta al macello» disse, chiedendosi come sarebbe stato vivere sul suo mondo, anziché tra gli alieni. «Io non intendo finire così. Se qualcuno minaccia me o i miei cari, mi sento in diritto e in dovere d’opporre resistenza. Anzi, ti dirò di più: se qualcuno attaccasse i miei compagni e io non intervenissi per amore della pace, sarei complice dell’aggressione. È facile fare i pacifisti, quando c’è qualcun altro che muore per proteggerti!» si sfogò. Pensò a tutte le volte che la Federazione era stata attaccata e aveva dovuto combattere per sopravvivere. Pensò a cosa sarebbe successo durante la Guerra Civile, se nessuno si fosse opposto al regime genocida dei Pacificatori. E infine pensò alla sua vita con gli avventurieri: se non si fossero difesi con le armi, sarebbero tutti morti da tempo. Lui stesso aveva ucciso pur di salvare la sua madre adottiva, Losira.
   «Non confondere la pace con la resa ai violenti» disse Klaatu in tono grave. «Solo perché molti hanno pervertito l’idea di pace, trasformandola in collaborazionismo, non significa che si debba rinunciare a cercare la vera pace, fondata sulla giustizia. Ma ne parleremo più avanti. Guarda, siamo arrivati!». Indicò davanti a sé.
   Talyn si schermò dalla sabbia con la mano e guardò a sua volta. Davanti a loro c’era una distesa rocciosa che si stendeva a perdita d’occhio. Niente grotte, niente edifici; nemmeno un relitto in cui trovare riparo. «Vuoi dire che il tuo rifugio è sotterraneo?» chiese il giovane, aggrappandosi all’ultima speranza.
   «No, è proprio qui davanti a noi» sorrise Klaatu.
   Talyn tornò a guardare. Non c’era altro che la pianura, perfettamente livellata. «Senti, amico, mi prendi per i fondelli?!» chiese, con una collera che tradiva la disperazione di trovarsi nel deserto più sperduto, senza riparo contro la furia degli elementi.
   «Come, voi El-Auriani non siete grandi osservatori? Guarda con più attenzione!» insisté Klaatu.
   Il giovane lo fece, non avendo di meglio. Finalmente notò una stranezza: i granelli di sabbia parevano rimbalzare contro una vasta struttura invisibile, accumulandosi su un lato. Osservando attentamente, Talyn notò che lo strato di sabbia delineava un’ampia parete inclinata, come quella di... «Una piramide! Una piramide occultata!» comprese.
   «Hai indovinato... più o meno. Non è solo una piramide» disse Klaatu. Si scostò la manica, rivelando un bracciale, e vi premette un comando. Allora una lama di luce si delineò nella semioscurità della tempesta, aprendosi progressivamente. Era l’ingresso della piramide. Il portello calò, formando una rampa d’ingresso. All’interno c’erano corridoi metallici, illuminati artificialmente e decorati da geroglifici.
   «Si tratta di... un’astronave» comprese l’El-Auriano, sempre più meravigliato. «Non ne avevo mai viste di piramidali. Sei pieno di risorse, amico».
   «Su, entriamo, prima che si riempia di sabbia» disse Klaatu, e salì rapidamente sulla rampa. Talyn si affrettò a seguirlo. Appena furono dentro, Klaatu richiuse il portello. Lo scafo era così spesso che non si udiva l’ululare del vento, né il grattare della sabbia. Per la prima volta dal naufragio, l’El-Auriano si sentì relativamente al sicuro.
 
   «Ti ringrazio per l’ospitalità. Scusa se ho dubitato di te» disse Talyn, sebbene i suoi dubbi non fossero del tutto sciolti.
   «Pensavi che il sole del deserto mi avesse fatto ammattire, eh?» fece Klaatu in tono bonario. «Non scusarti, giovane amico. Ci siamo conosciuti da poco, in un ambiente ostile. È giusto che tu sia prudente. Ma questo è il luogo più sicuro che troverai su Arena. Le bestie e i combattenti là fuori non possono entrare. Qui dentro c’è abbastanza acqua e cibo da permetterci d’aspettare comodamente la fine della tempesta. Nel frattempo potremo chiacchierare, se ti va. Sono certo che hai molte domande».
   «Eccome! Questa nave è tua, o comunque del tuo popolo?» chiese Talyn, sperando di sapere qualcosa non tanto del vascello, ma del proprietario. Klaatu infatti non gli aveva ancora detto a che specie apparteneva e su che mondo era nato. Ogni volta che gli poneva domande del genere, lui svicolava. Anche stavolta non andò meglio.
   «No, l’astronave era già qui quando arrivai» spiegò Klaatu. «È uno dei tanti relitti che costellano Arena. Io mi sono limitato a riattivare alcuni sistemi, per renderla più vivibile. L’occultamento è tra questi; così non attiro i visitatori indesiderati».
   «Credi... che potremmo farla volare di nuovo?» chiese Talyn, vedendo una possibilità di fuga.
   «No, i motori sono danneggiati in modo irreparabile. Gli Undine non permettono a nessuno di lasciare Arena contro la loro volontà» rispose Klaatu, spegnendo sul nascere la speranza.
   «E se cercassimo di contattare la mia nave, la Destiny? Così verrebbero i miei colleghi a prenderci» suggerì Talyn, deciso a provarle tutte.
   «Possiamo cercarla coi sensori, ma dobbiamo essere molto prudenti a inviare messaggi» avvertì Klaatu. «Se gli Undine li intercettassero, risalendo alla nostra posizione, ci distruggerebbero all’istante. Vedi, tra me e loro non corre buon sangue. In effetti è da molto che cercano di stanarmi» rivelò.
   «Siete in conflitto?» chiese Talyn, chiedendosi come facesse un pacifista come lui a opporsi a quei mostri sanguinari.
   «Un conflitto filosofico, più che armato» rispose Klaatu con un sorriso agrodolce. «Loro cercano d’evolvere mediante gli scontri, quindi aizzano continuamente i campioni di questo mondo gli uni contro gli altri. Io invece cerco di fare l’opposto, di spingerli a fidarsi e collaborare... con modesti risultati, finora» ammise.
   «Quello che fai è ammirevole, dico davvero» dichiarò Talyn. «Ma se gli Undine cercassero di rapire un altro pianeta, non dovremmo fermarli, anche a costo d’usare le armi?».
   «Se dessimo battaglia, la loro ritorsione contro questi mondi sarebbe ancora più spietata...».
   «Torniamo al discorso di prima, amico. Se nessuno li ostacola, se nessuno gli dice “basta”, questi mostri si sentono incoraggiati a divorare sempre più mondi. Conosco le persone così, ne ho già incontrate fin troppe. Scambiano la tua compassione per debolezza e ne deducono di poter fare tutto ciò che vogliono, indisturbati. Se non li fermiamo adesso, alzeranno sempre più il tiro, finché... finché accadrà qualcosa di veramente atroce e irreparabile» avvertì Talyn.
   «Non hai torto, mio giovane amico» sospirò Klaatu. «Ma avremo tempo per pianificare le prossime mosse. Intanto vorrai ristorarti. Che ne dici di un pasto come si deve?».
   «Dico che è un’ottima idea» fece Talyn, che effettivamente non ci vedeva dalla fame. Era naufragato quattro giorni prima e, pur essendosi dissetato ai pozzi, non aveva mangiato quasi niente. L’unico cibo solido ingerito finora erano state alcune barrette proteiche offerte dal compagno di viaggio; poco per ritemprarlo dalla marcia nel deserto. Un vero pasto era una prospettiva quanto mai gradita.
   «Bene, mangeremo nella sala delle udienze. Alla faccia degli antichi padroni della nave!» disse Klaatu. «Ma prima lascia che ti presenti il mio aiutante» aggiunse, mentre dal corridoio giungeva un pesante suono di passi e un’ombra umanoide si stagliava sulla parete.
   Talyn ne fu sorpreso. Dall’atteggiamento di Klaatu gli era parso che lui fosse l’unico a vivere lì. Ma ripensandoci, non lo aveva mai detto espressamente. In effetti se si trovava su Arena da tanto tempo era lecito aspettarsi che si fosse già fatto qualche alleato. E quale luogo migliore dell’astronave occultata per radunarsi e fare piani?
   «Buongiorno a... lei...» disse Talyn, sperando di fare una buona impressione. Ma la voce gli si spense in gola non appena il nuovo arrivato voltò l’angolo. Perché l’aiutante di Klaatu non era una persona, ma un robot. E pure parecchio sorpassato, a vederlo.
   Era un automa grosso e goffo, con un’andatura dondolante. Il corpo e le gambe erano fatti di globi metallici semifusi, mentre le braccine erano ridicolmente corte. Al posto della testa aveva una campana di vetro, entro la quale ticchettava un elaboratore, con vari elementi in continuo movimento. Sul petto si trovavano un paio di comandi, oltre a una strana fessura. Tutta la sua corazza era d’un grigio ferro e pareva molto resistente.
   «Mio caro, questo è Talyn, della nave Destiny. Sarà nostro ospite fin quando lo vorrà. Trattalo come faresti con me: rispondi alle sue domande e vieni incontro alle sue esigenze» raccomandò Klaatu.
   «Ricevuto. Ben arrivato, signor Talyn. Si metta comodo. Posso fare qualcosa per lei?» chiese il robot, con un timbro metallico. Alcune luci azzurre gli sfarfallarono sotto la campana di vetro, dando l’impressione di una bocca.
   «Beh, vediamo... posso sapere il tuo nome, la tua origine?» chiese l’El-Auriano. Aveva già intuito che un automa così primitivo non poteva essere conterraneo di Klaatu, ma voleva comunque sapere qualcosa sul suo conto.
   «Io sono Robby» rispose il robot. «Sono stato costruito su Altair IV dal dottor Morbius, per aiutarlo a colonizzare il pianeta. In seguito ho prestato servizio sull’incrociatore C-57-D dei Pianeti Uniti, col Capitano Adams e i suoi successori».
   «Come avrai intuito, sono stato io a trovarlo tra i relitti e a riattivarlo» disse Klaatu. «Avevo perso il mio vecchio robot per colpa degli Undine e mi serviva un sostituto. Non farti ingannare dalle sue fattezze primitive: mentalmente è piuttosto evoluto».
   «In tal caso... felice di conoscerti» disse Talyn. Non aveva mai sentito parlare di Altair IV, né del dottor Morbius, perciò aveva il forte sospetto che anche quell’automa venisse da una realtà parallela. Probabilmente fra le centinaia di relitti che costellavano Arena non ce n’erano due provenienti dallo stesso Universo, pensò con un brivido.
 
   Salirono in uno dei livelli più alti della piramide, dove si trovava una sala del trono, incredibilmente sfarzosa. Talyn non aveva mai visto un’astronave arredata così: sembrava un’antica reggia faraonica. Le pareti erano decorate di geroglifici e c’erano persino dei bracieri da alimentare a legna. Lui e Klaatu si accomodarono a una lunga tavola, evidentemente pensata per molti più commensali. Robby l’apparecchiò e poi venne a prendere le ordinazioni, come un perfetto cameriere. Saltò fuori che il robot conosceva molte ricette terrestri, evidentemente programmate dal suo costruttore. Da come parlava, sembrava in grado di preparare tutto in un attimo. Siccome Klaatu prendeva delle ordinazioni abbondanti, per ristorarsi dal lungo viaggio nel deserto, l’El-Auriano si sentì autorizzato a fare lo stesso. Dopo le pietanze, Robby offrì anche una ricca scelta di liquori.
   «... e per finire, un goccio di energetico» concluse l’automa.
   «Come?» fece Talyn.
   «Scusi, signore. Intendevo un bourbon di scarsa qualità. Fu aggiunto alla mia banca dati dal cuoco dell’incrociatore C-57-D, che lo chiamava “energetico”» spiegò Robby.
   Talyn sorrise per quello slang, come anche per l’innocente ammissione che era un liquore scadente. «Grazie Robby, ma con questo caldo gli alcoolici non fanno per me. Prendo solo dell’acqua e... boh, aggiungici una gazzosa» disse.
   «Subito, signore».
   Talyn si aspettava che, prese le ordinazioni, Robby andasse a un replicatore. Invece, con sua enorme sorpresa, l’automa aprì uno sportello sul petto e prese a estrarre i vassoi con le pietanze calde. «Questa, poi! Un robot con replicatore alimentare incorporato! Non ne avevo mai visti» ammise il giovane. La cosa più simile erano gli Exocomp, che tuttavia producevano solo strumenti di riparazione. Le cibarie erano qualcosa d’assai più complesso.
   «La mia tecnologia deriva dalle antiche conoscenze dei Krell, che erano molto avanzati nella scienza della replicazione» confermò Robby.
   «Wow, e come se la passano questi Krell?».
   «Si sono estinti oltre duemila secoli fa».
   «Oh». Talyn pensò che era meglio non fare altre domande, quindi prese a mangiare.
   I due banchettarono di gusto, assaporando ogni portata, tanto che per la durata del pasto scambiarono poche parole. Il giovane notò comunque che, persino nella scelta delle pietanze, il suo anfitrione dimostrava una strana conoscenza di mondi remoti e misteriosi. «Questo è Nebrie arrosto, delizia culinaria di Thra, un pianeta con tre soli» disse riguardo alla portata principale. Solo alla fine, mentre Robby sparecchiava, l’El-Auriano si rivolse di nuovo a lui. «Era tutto squisito, grazie ancora per l’ospitalità. Ma dimmi una cosa: chi ha costruito quest’astronave?» chiese, ancora meravigliato dal suo sfarzo anacronistico.
   «Oh, questo è un vascello di classe Cheops costruito dai Goa’uld, una specie parassitica di un altro Universo» rivelò Klaatu, confermandosi un tuttologo. «I Goa’uld dominarono la Via Lattea per ventimila anni, prima che una combinazione d’attacchi esterni e di rivolte interne li detronizzassero, seicento anni fa. Adesso sono praticamente estinti. La loro tecnologia è caduta in mano ai Jaffa, i loro soldati e servitori, che ora sono finalmente liberi».
   «Buon per loro. Certo che... tutto questo fa girare la testa» ammise l’El-Auriano, guardandosi attorno a disagio.
   «Cosa intendi?».
   «Beh, è destabilizzante sapere che esistono così tante variazioni della realtà» ammise Talyn. Era un pensiero che l’aveva colto spesso, da quand’era iniziata la loro odissea nel Multiverso. Ma da quand’era su Arena, la sensazione era amplificata all’inverosimile. «Tutte queste civiltà, questi imperi che sorgono e cadono... interi Universi... coesistono paralleli al nostro. E noi non lo sappiamo, a meno che una circostanza eccezionale come questa ce li faccia incontrare. Siamo come pesci in una boccia, che ignorano l’esistenza dell’oceano. Se tutto quel che può accadere è già successo in una realtà parallela, che senso ha vivere e affaccendarsi? Se faccio una qualunque scelta, da qualche parte c’è un mio alter-ego che ha fatto quella opposta. Si direbbe che tutto ciò che siamo e che facciamo sia insignificante, nel grande schema delle cose».
   A queste parole Klaatu gli si accostò con la sedia e lo fissò con straordinaria intensità. «L’inconcepibile vastità del tutto non sminuisce il valore del singolo, amico mio. Più ho appreso sul Multiverso, più ho riscoperto la fragile bellezza delle piccole cose. Ciascuno di noi è un essere unico, che vede la realtà in modo unico. In effetti potremmo dire che ciascuno di noi è un modo diverso in cui il cosmo vede sé stesso e cerca di conoscersi. Perciò nessuno è irrilevante: ogni vita e ogni scelta hanno un valore, perché sono irripetibili. Il fatto che tu possa fare scelte diverse è il più grande stimolo a fare quelle giuste».
   «Mah... più cose imparo, più mi sembra che ogni strada sia quella sbagliata» confessò Talyn, ancora pessimista.
   «Questi sono i tuoi primi passi nel Multiverso; è naturale che la tua visione della realtà ne sia scossa. Ma più progredirai nella conoscenza, più comprenderai quale sia il potenziale della mente» affermò Klaatu. «La mente non è distaccata dal cosmo, ne è parte integrante. Quando si guarda alle radici dell’esistenza, si scopre che non c’è distinzione tra spazio, tempo, materia, energia e... pensiero».
   L’El-Auriano ripensò a una delle prime realtà che avevano esplorato, lo Spazio Caotico, in cui i pensieri – soprattutto quelli inconsci – acquisivano vita autonoma. «Cosa stai cercando di dirmi?» chiese. Ma la vera domanda che avrebbe voluto fargli era: «Chi sei tu, per sapere queste cose?».
   A un tratto Klaatu si ritrasse, come se temesse di aver già detto troppo. «È tardi, suppongo che tu sia stanco quanto me. Robby ti condurrà a una stanza degli ospiti» disse accennando all’automa. «Riposati; domani potremo discutere e fare progetti».
   «Come vuoi» disse Talyn, intuendo che per quella sera non gli avrebbe cavato altro. Lasciò la tavola e seguì Robby nei corridoi dell’astronave-piramide, fino a un alloggio, sempre arredato con sfarzo faraonico. Era talmente stanco che si buttò sul letto, ancora con gli abiti impolverati dal deserto, e prese subito sonno. Per una volta riuscì a farsi una lunga dormita, non turbata da incubi o visioni.
 
   I giorni successivi furono tra i più strani della vita di Talyn. La tempesta di sabbia non dava segno d’attenuarsi, quindi lui e Klaatu erano bloccati nella piramide. Non restava che mettere a frutto quella sosta forzata. Fortunatamente non avevano difficoltà materiali, grazie a Robby che si occupava dei pasti e della cura degli alloggi. Potevano quindi dedicare tutto il tempo e l’attenzione ad affrontare le sfide di Arena.
   Per prima cosa riattivarono i sensori dell’astronave, localizzando il relitto della Scorpion. Talyn scoprì così d’essere lontano dai colleghi: ancora più lontano di quanto avesse ipotizzato. Se voleva raggiungerli, attraversando il deserto, doveva trovare un mezzo più veloce delle sue gambe. A complicare le cose, era lecito aspettarsi che anche loro si fossero allontanati dal relitto della navicella, in cerca d’acqua e riparo. Talyn non riuscì a localizzare con certezza i loro segni vitali, dato che quelli di Rivera si confondevano con gli altri Umani, mentre Naskeel era pressoché indistinguibile dalle rocce. Questo era un problema enorme, perché significava non avere una destinazione certa. L’El-Auriano avrebbe dovuto esplorare tutti i pozzi, le caverne, i relitti e i fortini in una vasta area per ritrovare i compagni.
   «Se conosco il Capitano, farà in modo di rendersi rintracciabile, confidando nel ritorno della Destiny» argomentò il giovane, osservando una mappa della zona. Oltre ai principali tratti geografici erano indicate la loro posizione, quella della Scorpion e i pozzi d’acqua.
   «Uhm... ricorda che anche lui deve nascondersi dagli Undine. Non può attirare troppo l’attenzione» avvertì Klaatu. «Comunque andrà in cerca di un rifugio. Magari alla base delle montagne, dove ci sono caverne con acqua e viveri. Se arriva lì, potrà resistere a lungo». Attivò un comando, evidenziando i rifugi tra le montagne. Erano numerosi, su ambo i lati della catena.
   «Sì, ha senso» convenne Talyn. «Potrebbe anche cercare di radunare una banda, con alcuni degli altri naufraghi. Non avertene a male, ma mettere insieme dei guerrieri allo scopo di combattere è più facile che radunarli allo scopo di non combattere» disse, alzando gli occhi all’anfitrione. «Io comunque vorrei partire appena possibile. Ho un senso di... urgenza che non riesco a spiegare» rivelò.
   «Se senti che il tempo è importante, allora agiremo di conseguenza» disse Klaatu, che sembrava attribuire gran valore a queste percezioni.
   Talyn cercò poi la Destiny, sondando in lungo e in largo il sistema stellare, ma come previsto non la trovò. «O è ancora occultata, o è tornata nel nostro Universo a chiedere rinforzi» concluse.
   «Uhm... sei sicuro che i tuoi compagni abbiano le coordinate di ritorno?» chiese Klaatu.
   «Il nostro ingegnere diceva di averle trovate sull’Harvester» spiegò Talyn. «Pensi che si sbagliasse?».
   «Dico solo che gli Undine proteggono le loro informazioni riservate» fece Klaatu. «A proposito dei nostri avversari a tre zampe, vorrei vedere cosa stanno combinando. Analizziamo l’Harvester».
   Cercarono la stazione Undine, ma con sorpresa non la trovarono nell’orbita di Arena. «Molto strano... credi che si sia occultata?» chiese Talyn.
   «No, non penso» fece Klaatu, stranamente preoccupato. «Estendiamo il raggio della ricerca» suggerì. Come al solito non si limitò a eseguire l’operazione, ma mostrò a Talyn come manovrare i comandi Goa’uld.
   «Abbiamo un riscontro» notò l’El-Auriano di lì a poco. «Guarda, guarda... l’Harvester è uscito dall’orbita. Si sta allontanando a basso impulso. La sua rotta...». Armeggiò con i comandi, per ottenere conferma. «Sì, è così. Punta fuori dal piano dell’eclittica, verso lo spazio aperto. Che hanno in mente di fare gli Undine? Non abbandoneranno questo sistema, dopo tutti gli sforzi che hanno fatto per assemblarlo!».
   «No di certo» convenne Klaatu. «Gli ho già visto fare questa mossa anni fa, quando...» s’interruppe.
   «Quando? Non farti cavare le parole di bocca!».
   «... quando aprirono l’ultima interfase di spazio».
   «Quindi può darsi che stiano per rubare un altro pianeta?!» si allarmò Talyn. Ricordò le parole di Dualla, secondo cui il prossimo obiettivo era la Ferasa federale.
   «Sì, è probabile» convenne Klaatu, in tono fatalista.
   «Beh, dobbiamo impedirglielo!» fece il giovane, atterrito al pensiero d’altri miliardi d’innocenti che finivano alla mercé degli Undine. «Dobbiamo distruggere l’Harvester, o avvertire la Federazione perché mandi una flotta a farlo. Forse è questo che la Destiny è andata a fare. Bisogna vedere se farà in tempo». Più che rivolgersi a Klaatu, stava ragionando a voce alta. A un tratto però si rivolse all’anfitrione: «L’altra volta quanto ha impiegato l’Harvester a mettersi in posizione?».
   «Ventiquattro giorni» rispose Klaatu. «Poi ci sono volute settimane per mettere il pianeta in orbita, spostandolo con potenti raggi traenti».
   «Ventiquattro giorni... non so se basteranno per riunirci e tornare sulla Destiny» rifletté Talyn. «Come vorrei che avessimo più tempo! Tu come fai a essere così calmo?!» chiese, domandandosi se Klaatu non fosse segretamente un Vulcaniano.
   «Ho imparato a disciplinare la mente» rispose lui. «Ma non credere che non sia in pena per le prossime vittime degli Undine. E ci sono... altri rischi, che m’inquietano ancora di più» rivelò.
   «Sarebbe? Cosa c’è di peggio di un pianeta rapito e trascinato in un’altra realtà?!» chiese l’El-Auriano, sempre più in ansia.
   Klaatu lo fissò a lungo, come per decidere se era il caso di rispondergli. «Mio giovane amico, sappi che ho studiato a lungo i misteri del Multiverso» disse. «Non so tutto, ma... alcune cose le ho capite. Ad esempio, che il velo tra le realtà è più sottile di quanto comunemente si creda. Così sottile che a volte una mente ben disciplinata può attraversarlo» disse, fissandolo con quei suoi occhi penetranti. «E tuttavia, una separazione deve rimanere, o tutte le realtà collasserebbero su se stesse. Ebbene, io temo che le azioni degli Undine possano scatenare un cataclisma che loro stessi non immaginano. Temo che, se insistono troppo nel creare queste interfasi, esse possano allargarsi in mondo incontenibile. Nel peggiore dei casi potrebbe verificarsi un’Incursione».
   «Di che si tratta?» chiese Talyn, pur intuendo la risposta.
   «Un’Incursione è quando il velo tra due realtà si lacera completamente» rispose Klaatu, fissandolo con gravità. Alzò i palmi delle mani distesi e li accostò lentamente, sino a farli scontrare; allora strinse le dita. «In tal caso i due Universi si scontrano. Ma come due oggetti solidi non possono occupare lo stesso volume di spazio, così anche due realtà non possono davvero fondersi. Il risultato è che entrambi gli Universi vengono completamente distrutti».
   «Questo... è mai successo prima?» mormorò il giovane, cercando di capire se era un’ipotesi comprovata.
   «In alcune rare occasioni... ritengo di sì» rivelò Klaatu. I capelli neri gli incorniciavano il volto lungo e solenne. «Anche il nostro Universo ha rischiato grosso, qualche volta. L’ultima crisi avvenne oltre cinquant’anni fa, nella Battaglia di Exosia... ma è un’altra storia. Dopo di allora speravo che finalmente saremmo stati al sicuro. Invece scoprii che qualcuno stava ancora profanando altre realtà, e le tracce mi hanno condotto qui. Da allora ho osservato gli Undine e ho cercato di contrastarli, ahimè con scarso successo. E ora ci risiamo... stanno per farlo di nuovo» sospirò.
   «Perciò quando apriranno l’interfase...» fece Talyn, sentendo rizzarsi i peli sul collo.
   «No, no, giovanotto. Non sto dicendo che la prossima interfase ci annienterà tutti» lo rassicurò Klaatu. «Potrebbero volerci altre dieci interfasi, o cento. Può darsi benissimo che gli Undine si stancheranno del loro gioco e la smetteranno di rubare pianeti, prima che si verifichi un’Incursione. Ciò non toglie che vadano fermati, non fosse altro che per salvare gli abitanti dei mondi rapiti».
   Malgrado le assicurazioni di Klaatu, Talyn ebbe la sensazione che ogni interfase fosse una roulette russa. Il rischio di un’Incursione era minimo, ma... perché rischiare? «Hai avvertito gli Undine di questo pericolo?!» chiese.
   «L’ho fatto, ma la loro comprensione del Multiverso è alquanto rozza. Non hanno trovato conferme che le Incursioni esistano davvero, quindi si sono convinti che fossero uno spauracchio per fermarli» sospirò Klaatu. «La loro irresponsabilità è frustrante. Comunque, se ti ho raccontato queste cose, non è per terrorizzarti con incubi di un’imminente Incursione. È solo che il mio tempo in questo Universo potrebbe essere limitato» disse con malinconia.
   «Temi che gli Undine possano...» si preoccupò l’El-Auriano. In effetti Klaatu gli appariva indifeso, malgrado le sue conoscenze e la sua saggezza. Se un Undine l’avesse agguantato, cosa gli impediva di farlo a pezzi? E se anche Klaatu possedeva qualche asso nella manica, Talyn aveva la sensazione che il suo profondo pacifismo gli avrebbe impedito d’usarlo.
   «Dico solo che più persone sono consapevoli del pericolo, meglio è» chiarì l’uomo. «Io ti ho trasmesso questa conoscenza, e vorrei che tu la trasmettessi ad altri, se ne avrai l’occasione. Sii testimone della verità» lo esortò, fissandolo con quegli occhi profondi e malinconici.
   «Lo farò, hai la mia parola» disse Talyn. «Ma non posso continuare a nascondermi qui, mentre là fuori succedono queste cose. Non sono... paziente come te, d’accordo? Sono più portato all’azione» disse, cercando di non offendere l’anfitrione.
   «E così ci completiamo a vicenda» fece Klaatu, con un altro breve sorriso. «Dimmi cos’hai in mente di fare».
   «Per cominciare devo ritrovare il Capitano Rivera, informandolo di queste cose» decise il giovane. «Poi cercheremo di lasciare Arena e ritrovare la Destiny, anche a rischio di farci rilevare dagli Undine. E infine... credo proprio che cercheremo di distruggere l’Harvester» concluse.
   «Allora mettiamoci al lavoro» disse Klaatu, mostrando una sorprendente disponibilità a seguire il suo piano. «Primo passo, ritrovare il tuo Capitano. Ci muoveremo appena la tempesta di sabbia lo consentirà. Dovremo essere veloci, senza dare troppo nell’occhio. E dovremo evitare d’impegolarci in scontri inutili lungo la strada. Uhm, ho giusto in mente un mezzo di trasporto che fa al caso nostro...». 
 
   
 
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