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Autore: Parmandil    07/10/2023    1 recensioni
Le porte del Multiverso sono aperte! Per tre anni gli avventurieri della Destiny hanno vagato tra le realtà, cercando di ritrovare la propria. Ma tutto ciò non era che il preambolo del vero conflitto.
Catapultati in un sistema stellare costruito artificialmente, assemblando pianeti ghermiti dal Multiverso, i nostri eroi iniziano a comprendere il diabolico piano degli Undine. Divisi dopo una fallita infiltrazione, dovranno scegliere tra la filosofia federale – il bene dei molti conta più di quello di uno – e la propria – tutti per uno e uno per tutti. Riusciranno i naufraghi a sopravvivere sul pianeta Arena, dove i più formidabili guerrieri del Multiverso si affrontano in lotte all’ultimo sangue? Quali segreti si nascondono sulla stazione a forma d’icosaedro? Chi è realmente il Viaggiatore? E soprattutto, di chi ci si può fidare? Tra stargate e monoliti, tra gli Aracnidi di Klendathu e i Vermi di Dune, le differenti realtà si contaminano come non mai. La posta in gioco è più alta, i nemici più agguerriti e le lealtà personali saranno messe alla prova come non mai. Anche radunando i campioni del Multiverso, c’è una sola certezza: stavolta non tutti i nostri eroi si ritroveranno sani e salvi.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Il Viaggiatore, Nuovo Personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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-Capitolo 5: I Magnifici Nove
 
   Come faceva quasi ogni giorno, da quando si erano stabiliti nell’antro del tecno-prete, il Capitano Rivera guidò la sua squadra in esplorazione, alla ricerca di nuovi alleati. O per meglio dire, seguì Erzsébeth, poiché la Nietzscheana era naufragata su Arena da molto prima di lui e quindi conosceva il circondario. Sapeva dove si erano rifugiati i combattenti, quali valeva la pena di contattare e quali invece era meglio evitare. Grazie a lei, gli avventurieri si erano risparmiati un bel po’ di problemi. Ma anche così, il piano di Rivera procedeva a rilento.
   Dopo dieci giorni di sforzi, gli unici due elementi ad essersi uniti alla squadra erano Kara Thrace – detta Scorpion – e Johnny Rico, che erano finiti su Arena di recente e quindi non avevano ancora trovato un rifugio. Nel loro caso unirsi alla banda era stato l’unico modo per sopravvivere su quel mondo inclemente. E comunque non vi erano entrati senza scossoni. Entrambi provenivano da realtà in cui l’Umanità era sola contro minacce aliene e quindi stentavano a fidarsi di Naskeel. L’idea di lasciare volutamente il rifugio per cercare altri alleati, anche alieni, gli sembrava una follia. Il Capitano aveva dovuto mettercela tutta per convincerli a seguirlo. Del resto, le “regole d’ingaggio” erano poche e chiare: tutti facevano la loro parte, nessuno oziava, e in caso di bisogno tutti aiutavano i compagni in difficoltà.
   Ancor più contestato era il fatto che il comando della banda spettasse a Rivera. Le uniche basi per questo stavano nel fatto che lui e Naskeel erano i fondatori del gruppo, e Naskeel riconosceva la sua autorità. Oltre a questo, s’erano fatte questioni di grado. Rico aveva il grado di Tenente, Erzsébeth di Comandante, per cui se fossero appartenuti alla stessa unità militare Rivera avrebbe effettivamente rivestito il grado più alto. Scorpion aveva obiettato che anche lei era Capitano, ma dopo un serrato interrogatorio aveva ammesso che lo era solo della sua squadriglia di caccia; e un Capitano di squadriglia era comunque subordinato al Capitano di vascello.
   «Tanto sono tutte fesserie» aveva detto Scorpion nel suo modo diretto. «Noi non veniamo dallo stesso esercito. Anzi, da quel che ho capito, tu non sei nemmeno un militare in senso stretto, ma più un avventuriero» aveva detto a Rivera.
   «Sarò anche un avventuriero, ma sono l’unico fra noi ad avere un’astronave funzionante» aveva ribattuto lui. «Se ci torneremo, sarete ospiti sul mio vascello. E sarò io a riportarvi a casa».
   «Sempre che questa Destiny esista, e non sia tutta una scusa per comandare».
   «Se la prospettiva non ti aggrada, quella è l’uscita. Puoi tornare nel deserto, dove stavi morendo di stenti quando ti abbiamo raccattata» aveva concluso Rivera.
   Dopo quell’alterco, nessuno aveva più messo in discussione l’autorità del Capitano. Tuttavia Rivera aveva la sensazione che l’equilibrio raggiunto fosse precario. Che avrebbero fatto se alla banda si fosse aggregato un vero Capitano, o persino un Ammiraglio? E se si fossero uniti a un gruppo più vasto, che aveva già il suo capo? Non che Rivera cercasse il potere a tutti i costi. Ma la sua idea di partenza era adottare comportamenti più umani rispetto agli altri naufraghi, e se si faceva soffiare il comando, tutto questo rischiava di perdersi. Così, ogni volta che uscivano per le loro esplorazioni, il Capitano si chiedeva se ne valesse davvero la pena.
   «Allora, dove andiamo oggi?» chiese, affiancandosi a Erzsébeth.
   «Ci sto pensando» rispose la Nietzscheana. «Il fatto è che ormai abbiamo contattato quasi tutti i naufraghi che conoscevo. Vi ho portati da quelli che mi sembravano i più disponibili ed è andata male. Ora restano i soggetti peggiori».
   Rivera annuì cupamente. “Andata male” era un eufemismo: molti li avevano accolti sparando. Altri avevano intavolato trattative, che però si erano arenate quasi subito. In effetti una banda non aveva grandi incentivi a unirsi a loro, anche per gli inevitabili dissidi sul comando. L’unica possibilità era aggregare singoli dispersi, fino a diventare un gruppo di un certo rispetto; allora potevano sperare d’inglobare quelli più piccoli. Ma una banda di cinque elementi – sei col tecno-prete – era troppo piccola per esercitare attrattiva.
   Almeno il Capitano aveva cominciato a familiarizzare coi popoli del Multiverso. In quei dieci giorni aveva incontrato più specie sconosciute che in tutto il resto della sua vita. Centauri e Narn, Minbari e Nebari, Luxan e Scarran, Moclan e Xelayan: una galleria di strani e sorprendenti popoli. Alcuni stupivano per la loro somiglianza con gli Umani, sebbene provenissero da altri Universi. Rivera ricordò che, nella sua realtà, le specie umanoidi erano state favorite nell’evoluzione da un’antichissima stirpe proto-umanoide: non era da escludere che nelle altre realtà fosse avvenuto lo stesso. Era un peccato dover conoscere quelle specie in condizioni così avverse, senza l’occasione di un dialogo che andasse oltre le necessità basilari della sopravvivenza.
   «Ho un’idea» disse a un tratto Erzsébeth. «Sono un po’ lontani, ma ne vale la pena». La Nietzscheana parlottò fittamente con Rivera, descrivendogli la banda che intendeva visitare. Il Capitano ascoltò con attenzione, anche se dopo dieci giorni d’incontri cominciava a fare confusione. Gli Undine infatti non rapivano individui a caso, ma selezionavano quelli più adatti al combattimento. Così quasi tutti i naufraghi incontrati finora appartenevano a specie tenaci e resistenti, con forti tradizioni militari. Le poche eccezioni avevano comunque qualche vantaggio fisico o psichico che favoriva la sopravvivenza.
   Qualche passo più indietro, il resto della banda chiacchierava, mettendo a confronto le rispettive esperienze. C’erano Scorpion, Rico e Naskeel, mentre il tecno-prete come al solito era rimasto a presidiare l’antro. Poco alla volta le voci si fecero più schiamazzanti, finché il Capitano si accorse che quelli dietro di lui erano impegnati in una vera e propria gara. Stavano cercando di stabilire chi prestava servizio sull’astronave più grossa, come se questo sancisse chissà quale superiorità.
   «La Destiny è lunga 1.236 metri, per una massa di circa 25 milioni di tonnellate» disse Naskeel.
   «Niente male, ma il Battlestar Galactica raggiunge i 1.445 metri e la Pegasus arrivava a 1.790» si vantò Scorpion.
   «Se è per questo, la vecchia Rodger Young era lunga 1.500 metri e la moderna classe Athena arriva a 2.200» ghignò Rico.
   «Sì, ma qual è la massa complessiva dei vostri vascelli? Considerate che la Destiny ha anche una sezione anulare che circonda lo scafo principale» notò il Tholiano, che forse non capiva lo scopo del gioco, ma comunque vi partecipava con precisione matematica.
   «Oh, adesso m’è passato di mente» disse Scorpion, per non ammettere l’inferiorità della sua nave.
   «Anche a me» fece Rico, per lo stesso motivo. «Ehi, Elizabeth...» si rivolse alla Nietzscheana.
   «Erzsébeth, ma puoi chiamarmi Comandante» fece lei, distraendosi dalla conversazione con Rivera.
   «Quello che è» disse Rico, facendo spallucce. «Allora, la tua nave quant’è grossa?».
   «Presto servizio sulla Pax Magellanic, una classe Glorious Heritage da 1.300 metri, per una massa inerziale di 96.400.000 tonnellate. Contenti?» fece Erzsébeth.
   «Orpo, è più corta ma ci batte in massa!» fece Rico, contrariato.
   «Bah, chi vuole una nave cicciona? Viva le astronavi agili e snelle!» esclamò Scorpion. «E i caccia, ce li avete? Perché da noi i caccia sono tutto! Sono i piloti come me che difendono la Flotta Coloniale dalle astro-basi dei Cylon».
   «Bah... a che servono i caccia, se poi non controlli il territorio? Noi privilegiamo i mezzi da sbarco, per dispiegare in fretta la fanteria» fece Rico.
   «Beh, sapete, quello che conta davvero sono armamenti e scudi» disse Rivera, incapace di resistere alla gara. «E da quel che ho capito, voi siete piuttosto indietro su questo. Il Battlestar Galactica non ha scudi e la Rodger Young non ha resistito nemmeno ad asteroidi e armi al plasma. La mia Destiny ha scudi cronofasici che le consentono d’attraversare la fotosfera di una stella».
   «Notevole, anche la mia nave può farlo» fece Erzsébeth. «E le armi?».
   «Le armi... sono classificate» disse il Capitano, accorgendosi che non era saggio sbandierare i dati tattici della Destiny con quei militari appena conosciuti. Doveva essere stato il sole cocente a farlo parlare a sproposito.
   «Già, anche le nostre» disse Rico, giunto alla stessa conclusione.
   «E le nostre» fece Scorpion.
   Per diverso tempo camminarono in silenzio, sotto il sole battente, sempre guidati da Erzsébeth. Poi Scorpion non riuscì a trattenersi. «E a velocità come siete messi? Noi abbiamo la propulsione FTL che ci permette d’arrivare ovunque in un lampo».
   «In un lampo? Le nostre navi possono attraversare la Galassia, ma non certo all’istante» fece Rico, colpito.
   «Lo stesso per le nostre, se usiamo la cavitazione quantica» ammise Rivera.
   «Uhm, curioso» fece Erzsébeth. «La nostra tecnologia è più avanzata sotto molti aspetti, ma da noi i viaggi interstellari sono più complicati. Servono piloti con una comprensione istintiva delle correnti subspaziali...».
   Fu così che riprese la discussione su quale astronave fosse la più ganza. Rivera non se la sentì di bloccarla, perché in fondo era contento che i membri della banda cominciassero a legare; e poi non era male ascoltare le specifiche delle loro navi. Più passava il tempo, più si convinceva che l’unica tecnologia in grado di rivaleggiare con quella federale fosse quella del Commonwealth. E neanche loro sembravano possedere il teletrasporto. In un certo senso, era consolante. Ma su Arena c’erano esponenti di molte altre civiltà e non era da escludere che alcune fossero più progredite. Quel portale che aveva trovato sulla CSS Destiny, e che permetteva trasferimenti istantanei da un pianeta all’altro, era un indizio in tal senso. Il Capitano si ripromise di stare più all’erta che mai, sapendo che poteva imbattersi in tecnologie superiori a quelle cui era abituato.
 
   Camminarono per ore, addentrandosi in una zona di passaggi labirintici tra le rocce. A un certo punto si trovarono in un piccolo canyon, forse il letto prosciugato di un antico fiume. Le pareti si levavano ad alcuni metri d’altezza, portando finalmente un po’ d’ombra e frescura, ma il Capitano era irrequieto. «Non mi piace la nostra posizione. Se qualcuno volesse tenderci un agguato, avrebbe gioco facile» notò.
   «Hai ragione, cerchiamo di salire sugli argini» convenne Erzsébeth. Gli avventurieri cercarono un punto in cui il pendio permettesse la risalita, altrimenti sarebbero dovuti tornare indietro di un lungo tratto.
   «Arriva qualcuno; sento le vibrazioni sul terreno» disse a un tratto Naskeel.
   «Sì, li sento anch’io» confermò Erzsébeth, tendendo l’orecchio. I suoi sensi di Nietzscheana erano davvero più fini di quelli umani, perché Rivera non udiva nulla. Ma il Capitano si fidò del doppio avvertimento. «Al riparo!» ordinò, accennando a un macigno lì vicino. Vi si nascosero tutti dietro, per vedere chi stava arrivando. L’attesa non fu lunga.
   Era un plotone di soldati – dodici in tutto – rivestiti da corazze leggere, color ferro. Le loro linee avevano qualcosa d’arcaico, che al Capitano ricordò l’Antico Egitto. Portavano elmi molto aderenti, praticamente delle calotte. L’elemento più curioso erano le loro armi: lance da combattimento lunghe un paio di metri, che al momento usavano come bastoni da passeggio, per aiutarsi sul suolo accidentato. Somigliavano alla lancia di Erzsébeth, pur avendo uno stile diverso; inoltre parevano incapaci di ripiegarsi.
   «Sono loro» sussurrò la Nietzscheana. «Lascia parlare me...».
   In quella però sulle pareti del canyon apparve un folto gruppo d’armati. Erano appostati su ambo i lati, una decina per parte, così da prendere le vittime nel fuoco incrociato. Si trattava di un agguato in piena regola. I nuovi arrivati avevano corazze nere, simili ai carapaci dei coleotteri, che li coprivano completamente. Persino le teste erano del tutto celate da sofisticati caschi, conformati per qualcosa di più voluminoso di un cranio umano. Le loro armi somigliavano a fucili phaser.
   «Krill» riconobbe Erzsébeth. «Sono fanatici religiosi, convinti di dover sradicare le altre specie. È quasi impossibile trattare con loro» sussurrò.
   «State fermi» ordinò Rivera agli altri. Aveva capito che i Krill non ce l’avevano con loro, anzi non sembravano nemmeno averli notati. Le loro vittime designate erano i soldati con le lance che percorrevano il canyon più avanti. Questi infatti dalla loro posizione non riuscivano a vedere i cecchini appostati, per cui si stavano cacciando in trappola.
   «Li massacreranno, non credi che dovremmo intervenire?!» sussurrò Scorpion.
   «È quel che faremo» decise Rivera, non volendo perdere dei potenziali alleati. «Distrarremo il fuoco nemico e poi saliremo da lì». Indicò un pendio scosceso da cui, con qualche sforzo, potevano risalire il canyon, arrivando al livello dei Krill. Vedendo che non c’era tempo da perdere – i soldati in grigio stavano per cadere nell’agguato – il Capitano passò all’azione.
   «Attenti, è un’imboscata!» gridò, sparando ai cecchini. Dalla sua posizione più favorevole riuscì a colpirne uno, facendolo cadere giù nel canyon.
   «Fuoco, per Avis!» intimò il comandante Krill. I suoi soldati eseguirono, ma dovettero dividersi tra i due gruppi d’avversari, risultando meno efficaci.
   «Jaffa, Kree!» gridò il capo del plotone in grigio, reagendo prontamente alla minaccia. I suoi uomini si dispersero, per non costituire un bersaglio compatto, e risposero al fuoco con le lance a energia. I loro colpi erano assai precisi, tanto che diversi assalitori furono abbattuti. Ma i Jaffa erano comunque svantaggiati dall’inferiorità numerica e dalla posizione, trovandosi in fondo al canyon, circondati dai Krill. Non avevano molti ripari, così che parecchi Jaffa caddero, colpiti dai cecchini appostati sopra di loro. Era una battaglia senza quartiere. Le grida dei colpiti echeggiavano nel canyon e i colpi erratici minacciavano di provocare dei crolli.
   «Arrendetevi, infedeli! Inchinatevi ad Avis e vivrete!» gridò il comandante Krill, ma era chiaro che non l’avrebbe fatto, se avesse creduto in una facile vittoria.
   «Mai! Noi siamo i Jaffa Liberi e non c’inchiniamo a nessuno!» ribatté il capo degli assaliti. «Abbiamo abbattuto i falsi dèi Goa’uld!» aggiunse con orgoglio, sebbene i colpi gli piovessero tutt’attorno.
   «Già, perché erano falsi!» rise il Krill. «Ma Avis è vero, e non un solo granello di sabbia si muove senza la Sua volontà!».
   «Allora anche la vostra sconfitta sarà sua volontà!» ribatté il capo dei Jaffa, aprendo il fuoco su di lui. L’altro si ritrasse appena in tempo. Lo scontro si trascinò, con gli armati appostati dietro le rocce, che ogni tanto si sporgevano per sparare un colpo.
   «Adesso!» ordinò Rivera, vedendo il momento propizio. Lui ed Erzsébeth uscirono dal riparo, mentre gli altri facevano fuoco di copertura. Raggiunsero il pendio e lo risalirono, cercando di tenersi bassi, così che i Krill non riuscissero a vederli dalle loro posizioni. A un tratto il Capitano scivolò sul pietrisco, rischiando una brutta caduta. La Nietzscheana se ne accorse e gli offrì l’estremità della sua lancia. L’Umano vi si aggrappò, finché smise di scivolare. Dopo essersi scambiati una breve occhiata d’intesa, ripresero l’arrampicata. In breve giunsero in sommità, allo stesso livello dei Krill appostati. Allora furono loro a fare fuoco di copertura, mentre Scorpion e Rico salivano. Stavolta fu la donna a scivolare leggermente, raschiandosi i pantaloni all’altezza delle ginocchia, ma riuscì a frenarsi con le sue forze e riprese la salita. In breve anche lei e Rico furono in sommità.
   «Avanti!» ordinò il Capitano. Non potevano aspettare Naskeel, perché i Jaffa erano allo stremo. Così attaccarono i Krill sul loro lato del canyon, approfittando del fatto che non avevano ripari. Alcuni Krill furono uccisi e gli altri furono spinti così sul ciglio del burrone che questo – colpito dai Jaffa – franò, trascinandoli giù. Ci fu uno schianto fragoroso, seguito da un gran sbuffo di polvere e sabbia.
   Il Capitano tossì e si passò la mano sugli occhi irritati. Quando la nube polverosa si disperse, vide che tutti i Krill sul loro lato erano stati neutralizzati. Fra questi c’era anche il comandante della squadra. Quanto ai Krill sull’altro lato, erano rimasti in pochi e senza guida, tanto che si ritirarono. Rivera li osservò finché fu certo che erano ben lontani. A quel punto lui ed Erzsébeth ridiscesero nel canyon, lasciando i compagni di vedetta in sommità. Sdrucciolarono sul fondo per la stessa via da cui erano saliti, riunendosi a Naskeel. I tre si avvicinarono cautamente al luogo dell’agguato, dove le ultime polveri si stavano depositando.
   Malgrado l’aiuto degli avventurieri, i Jaffa erano stati colpiti duramente, per via della loro posizione esposta. Nove di loro erano caduti sotto i colpi dei Krill, mentre altri due erano stati travolti dalla frana. Solo il capo-pattuglia era incolume. Lo trovarono inginocchiato accanto a un compagno agonizzante. Quando quest’ultimo annuì, autorizzandolo a procedere, il comandante imbracciò la lancia a energia. «Muori libero» disse, e lo finì con un colpo al cuore. Poi si girò di scatto verso i nuovi arrivati, minacciandoli con la lancia, come se volesse sparare anche a loro. «Fermi! Chi siete?!» intimò.
   «Quelli che ti hanno salvato la vita» ribatté il Capitano, puntando a sua volta il phaser. «Mi spiace di non aver salvato anche i tuoi uomini, ma eravate troppo esposti».
   «Già... è stata colpa mia» ammise il Jaffa, deponendo la lancia. «Speravo che seguendo il letto del fiume ci saremmo risparmiati qualche giorno di viaggio e avremmo trovato delle pozze. Avrei dovuto mandare qualche uomo in avanscoperta di sopra. Ora non ho più una squadra. Non sono più un comandante... non sono più nulla» disse tristemente. Si levò anche la calotta metallica, lasciandola cadere a terra. Era un omone di carnagione scura, col cranio rasato e giusto un poco di barba sul mento. Era così affranto che Rivera non era certo di come procedere. Forse la cosa migliore era dargli spazio, aspettando che fosse lui a parlare.
   In quella però dalla frana giunsero dei suoni soffocati e alcune pietre furono smosse, rotolando al suolo. Il Jaffa si accostò, sperando che uno dei suoi soldati travolti fosse ancora vivo. Cominciò a rimuovere le pietre, aiutato da Rivera ed Erzsébeth. Ma con grande delusione, quello che apparve sotto i detriti non fu un Jaffa, bensì un Krill. Anzi, a giudicare dalle rifiniture dorate dell’armatura era proprio il loro comandante, colui che aveva deciso l’imboscata. Erzsébeth gli strappò subito l’arma a energia, sebbene il Krill sembrasse troppo malridotto per usarla. Persino il suo casco era in parte schiacciato.
   «Perché ci avete attaccati?!» chiese il Jaffa, puntandogli la lancia alla gola.
   «E perché non dovremmo? Siete creature senz’anima, una povera imitazione dei figli di Avis» rispose quello, toccandosi il petto. «Non avete diritti su questo mondo, né su altri, poiché Avis ha creato il cosmo solo per noi» rivendicò.
   «Questo mondo non si trova nel tuo cosmo. Siamo stati tutti rapiti da un’altra specie, gli Undine» spiegò Rivera. «Sono loro il vero nemico. Dovremmo unire le forze per fuggire da qui, invece che distruggerci a vicenda, come vogliono loro».
   «Le menzogne di un infedele sono come ronzio di mosche» fece il Krill, rifiutando persino di guardarlo. «Sappiate solo che la vendetta di Avis sarà terribile!».
   «Dimentica Avis e ascoltaci!» ringhiò il Jaffa, ancora rabbioso per l’uccisione dei suoi uomini. Afferrò il casco danneggiato del Krill e glielo strappò rudemente, mettendo a nudo il volto.
   Rivera osservò perplesso l’alieno. Era simile ai Jem’Hadar, i soldati del Dominio, tanto da sembrare una loro variante. Aveva la stessa pelle scagliosa, anche se più pallida, e lo stesso testone vagamente triangolare. Gli occhi però erano interamente neri e il mento aveva delle escrescenze ossee biforcute. «Senti, gringo, non abbiamo tempo da perdere. Se non collabori...» cominciò il Capitano, ma s’interruppe.
   Al Krill stava accadendo qualcosa d’orribile. Nel momento in cui il suo volto pallido era stato messo a nudo, il sole del deserto aveva preso a bruciarlo in modo terrificante. Le ustioni si allargarono a vista d’occhio, come se stesse rosolando in padella. «No, la luce no!» rantolò l’alieno, cercando di farsi scudo con le mani. In pochi attimi però le ustioni si aggravarono a tal punto che egli perse tutte le forze. Le braccia gli ricaddero, mentre un odore di cottura saliva dalle sue carni. Il Krill emise qualche rantolo smozzicato e sussultò in agonia. Infine ricadde inanimato, il volto così bruciato da essere irriconoscibile.
   «Ma che diavolo...?» fece Rivera, impressionato. Aveva conosciuto specie fotosensibili, come i Remani, ma nessuna che avesse una reazione così immediata e devastante.
   «Sì, i Krill sono altamente sensibili alla luce solare» confermò Erzsébeth, osservando con sufficienza la carcassa bruciacchiata. «Ecco perché all’aperto indossano i caschi. Una luce intensa come questa, con forte componente ultravioletta, li uccide in pochi secondi».
   «Buono a sapersi... al prossimo incontro dobbiamo solo convincerli a levarsi i caschi» ironizzò l’Umano. Vedendo che il Jaffa gli era ancora accanto, decise di rivolgersi a lui. «Sono il Capitano Rivera, della nave federale Destiny» si presentò.
   «E io sono Yo’rek, dei Jaffa Liberi» rispose l’altro. «Ero Tenente di vascello quando naufragammo su questo mondo... ormai sono passati anni. Non riuscendo a riparare la nave, l’abbiamo abbandonata, in cerca d’altri veicoli con cui andarcene. O in alternativa di un chappa’ai» spiegò.
   «Un cosa?!» fece Rivera.
   «Forse lo conosci col nome di stargate, o astra porta» chiarì il Jaffa. «È quel grande anello attraverso cui si possono raggiungere altri mondi, a patto di conoscerne le coordinate».
   «Ah, intendi il portale ico... sì, lo stargate» si corresse il Capitano, intuendo che quello era il suo nome corretto. «Non credo ce ne siano su questo pianeta. Gli Undine ci hanno esiliati qui per farci combattere, quindi non avranno lasciato vie di fuga».
   «Sì, è la conclusione a cui sono giunto anch’io, dopo aver compreso la natura di questo luogo. Speravo ancora di trovare una navicella riparabile, ma ormai anche questa speranza è infranta» disse tristemente Yo’rek.
   «Mi spiace per la tua squadra. Comunque, se lo desideri, puoi entrare nella mia» propose Rivera, accennando ai compagni.
   «Nella tua squadra... c’è anche quello?» chiese il Jaffa, accennando al Tholiano.
   «È il Tenente Naskeel, e sì, fa parte del mio equipaggio» confermò Rivera, ormai abituato a queste reazioni sorprese.
   «Uhm... gli altri sono tutti Tau’ri?» volle sapere Yo’rek, passando lo sguardo da Erzsébeth – coi suoi speroni ossei – ai due ancora appostati in alto.
   «Come? No, siamo Umani!» disse il Capitano.
   «Appunto: i Tau’ri sono gli Umani, specie quelli nati sulla Terra» disse solennemente Yo’rek.
   «Okay, facciamo un passo indietro» disse Rivera, massaggiandosi le tempie. «Io sono un Umano della Terra, ma vengo da una realtà diversa dalla tua. Tutta la mia squadra, tranne Naskeel, è composta da Umani che vengono da altre realtà ancora. Quindi ci scuserai se non capiamo del tutto la tua terminologia. Abbiamo deciso di collaborare, per sfuggire agli Undine e andarcene da qui. Vedi, io ho un’astronave funzionante che ci attende nello spazio. Se riuscissimo a contattarla, ci prenderebbe a bordo».
   «Dici sul serio?!» fece il Jaffa. Una scintilla di speranza si riaccese in lui.
   «Sì, e ti dirò di più: la Destiny può viaggiare tra le realtà» rivelò il Capitano. «Quindi riporterò ciascuno di voi nel suo cosmo d’origine, se riusciremo a tornare a bordo. Allora, ci stai?».
   «Sono con te, Capitano Rivera» disse Yo’rek. Ora che lo shock per la perdita dei compagni cominciava ad attenuarsi, il Jaffa aveva un atteggiamento composto, quasi solenne. «Conosci il pianeta Chulak? È il mio mondo d’origine» disse.
   «Temo di no. Hai le coordinate?».
   «Ho quelle da impostare sul chappa’ai. Mi basterà raggiungere un qualunque pianeta provvisto di portale per tornare a casa» spiegò il Jaffa.
   «Caspita, che comodità! Immagino che dalle vostre parti le astronavi siano sorpassate» commentò Rivera, riflettendo sulle implicazioni di una rete galattica di stargate.
   «No, affatto. Certi carichi sono così ingombranti che non sarebbe pratico farli passare per i chappa’ai» spiegò Yo’rek. «Inoltre le astronavi sono ancora fondamentali per stabilire la supremazia militare sui pianeti. Così le potenze interstellari hanno flotte di navi da guerra. Non sono istantanee come i portali, ma in definitiva sono quelle a sancire il predominio».
   «Senti, senti...» fece il Capitano. Quel cosmo sembrava un luogo promettente in cui cercare alleati. Parlarono a lungo, scambiandosi informazioni sui rispettivi universi. Prima di andare, Yo’rek volle seppellire gli sfortunati compagni di squadra. Ciò fu fatto rapidamente, scavando le fosse col phaser e il fucile polaronico, per poi adagiarvi i corpi e ricoprire il tutto di pietrisco. I Krill invece furono lasciati dov’erano; Naskeel tuttavia prese una delle loro armi.
   Terminato questo triste compito, Rivera notò che il sole aveva cominciato a calare e decise di tornare al rifugio per la notte.
   «Se vi occorrono strumenti per trovare la Destiny e contattarla, potrei condurvi alla mia vecchia nave» propose Yo’rek. «Non può volare, ma gli altri sistemi sono in ordine».
   «A che distanza si trova?».
   «È lontana» ammise il Jaffa. «Anche prendendo la via più diretta, servirà almeno un mese per raggiungerla».
   «Uhm, è troppo lontana per puntarvi subito» ragionò il Capitano. «Prima torneremo al nostro rifugio, e una volta lì vedremo se siamo in grado d’affrontare un viaggio così lungo». Pensò anche al tecno-prete, chiedendosi se sarebbero riusciti a portarselo dietro; finora non li aveva mai seguiti nei loro giri esplorativi.
   Gli avventurieri presero così la via del ritorno. Molti fecero domande a Yo’rek, che però non era più tanto loquace. Strada facendo raccontò comunque strani aneddoti, come il fatto che un tempo ai Jaffa era impresso sulla fronte il marchio del loro signore Goa’uld, e solo dopo la ribellione gli era stato risparmiato questo supplizio. «Anche al mio antenato Teal’c, uno dei primi Jaffa a ribellarsi, fu impresso il marchio di Apophis, ed egli combatté a lungo per lui» rivelò. «Ma infine trovò la forza di ribellarsi, unendosi all’SG-1, una squadra di terrestri che avevano cominciato a esplorare la rete di stargate. In oltre un decennio di straordinarie avventure e battaglie, essi trovarono nuove tecnologie e alleati su altri mondi. Riuscirono persino ad abbattere Apophis e gli altri Goa’uld, come Anubis e Ba’al, inaugurando una nuova era per la Galassia» disse con fierezza. D’un tratto però si fece cupo. «Nella mia famiglia si contano grandi eroi... i padri fondatori della moderna nazione Jaffa. Io però non ho mai fatto nulla d’importante, e se morirò qui, il mio nome non sarà ricordato» confessò.
   «Amigo, lascia che ti dica una cosa che ho dovuto imparare sulla mia pelle» disse Rivera. «È inutile paragonarci agli altri, che siano o meno nostri parenti. Se lo facciamo, tendiamo a scegliere paragoni tali da uscirne con le ossa rotte. Se proprio dobbiamo paragonarci a qualcuno, facciamolo con noi stessi nel passato, e vediamo se siamo riusciti a migliorarci almeno un po’. Già questo è il meglio che possiamo fare».
   «Sei saggio, Capitano Rivera» riconobbe il Jaffa.
   «No, ho solo dovuto imparare le cose nel modo più difficile» corresse l’Umano.
 
   Tornati nell’antro del tecno-prete, gli avventurieri fecero le presentazioni. Yo’rek fu disgustato da quell’essere coperto d’impianti cibernetici, tanto che sulle prime imbracciò la lancia a energia. «Quello non è un Replicatore, vero? Né un Asurano?!» chiese.
   «Non so di cosa parli. È solo un tecno-prete di Marte, okay? Ora posa quell’arma» ordinò Rivera.
   Il Jaffa eseguì, ma per il resto della serata non perse di vista il cyborg.
   «Allora, dobbiamo prendere una decisione» disse il Capitano più tardi. «Se Yo’rek ci guida alla sua nave, potremmo localizzare la Destiny e forse contattarla. Ma dovremo affrontare un viaggio molto lungo. Il cibo sarà appena sufficiente, mentre per l’acqua dovremo rifornirci ai pozzi lungo il cammino». La tuta distillante lo avrebbe certo aiutato, ma non ne aveva altre per i compagni.
   «Vi guiderò a quelli che trovai col mio gruppo» garantì il Jaffa.
   «E naturalmente rischiamo di fare incontri spiacevoli lungo la strada» proseguì Rivera. «Se poi arriviamo a destinazione, non c’è alcuna garanzia di localizzare la Destiny. Come vedete, è un viaggio molto arduo per una speranza molto esile. Io stesso sono combattuto, quindi decideremo democraticamente, per alzata di mano. Alzino i favorevoli!».
   Sorprendentemente alzarono tutti la mano, tranne il tecno-prete.
   «Bene, allora andremo. Prepariamo i bagagli; porteremo tutta l’acqua e il cibo possibili» stabilì Rivera, augurandosi che fosse la scelta giusta.
   «Andate, se lo ritenete utile. Io resto qui» disse però il tecno-prete. «Non mi separerò dalle mie sacre macchine, e poi vi rallenterei il cammino».
   Il Capitano non insisté, perché anche lui aveva la stessa sensazione. «E va bene. Se contatteremo la Destiny, faremo in modo di recuperare anche te» promise.
   «Sta’ attento, Capitano. Questo mondo è pieno di xenos, e dell’invisibile miasma della loro corruzione» disse il sacerdote, avvicinandosi in un ticchettio d’arti meccanici. Prese Rivera da parte, mentre gli altri facevano i bagagli, e gli sussurrò all’orecchio. «Ricorda: un vero guerriero spesso comprende i suoi nemici meglio ancora dei suoi amici. Ed è un trabocchetto pericoloso lasciare che la comprensione si traduca in compassione. Compassione per il nemico! Ecco la più grande minaccia per chi combatte. Essa t’induce a lasciare in vita l’avversario, perché lui è la giustificazione per la tua esistenza» ammonì.
   «Ho ben altre giustificazioni per vivere, all’infuori dei miei nemici» garantì il Capitano. Fece per allontanarsi, ma il tecno-prete lo trattenne con una delle sue sinistre grinfie meccaniche.
   «Buon per te, giovanotto. Ma può venire l’ora in cui ti troverai circondato dai nemici, e non ti fiderai nemmeno degli amici. In tal caso ricorda che le persone mentono, ma il sangue non mente. Solo il sangue rivela chi sei!» disse, enigmatico. Dopo di che lasciò andare Rivera, permettendogli di allontanarsi.
 
   Il giorno dopo gli avventurieri si misero in marcia, lasciando la relativa sicurezza dell’antro per gettarsi nell’imprevedibile deserto. Adesso era Yo’rek a guidarli, facendo all’inverso la strada che lo aveva condotto lì. Camminarono per gran parte del giorno, scambiando poche parole. Il Capitano si chiedeva se avesse fatto bene ad affidare le loro vite alle promesse dell’ultimo arrivato nel gruppo. Se all’arrivo avessero scoperto che i Jaffa erano ancora molti, e questi li avessero catturati?
   «È un rischio da correre» si disse Rivera. «Non possiamo starcene chiusi in quell’antro. Dobbiamo capire cosa sta succedendo lassù» pensò, alzando gli occhi al cielo.
   «L’ha notato anche lei, Capitano?» gli chiese Naskeel, affiancandolo.
   «No, cosa c’è da notare?».
   «A quest’ora l’Harvester dovrebbe essere visibile, in quella zona» spiegò il Tholiano, indicando una porzione di cielo.
   «Ma non c’è» notò Rivera.
   «Appunto».
   «Uhm, non ti sarai sbagliato?».
   «No, Capitano. Se la stazione non è dove dovrebbe essere, significa che gli Undine la stanno muovendo» puntualizzò Naskeel.
   «Perché dovrebbero... oh, no» fece Rivera, intuendo la verità. «Vogliono aprire un’altra interfase, rubare un altro pianeta».
   «È l’ipotesi più probabile» confermò il Tholiano. «Ecco perché dobbiamo raggiungere al più presto la nave Jaffa, per farci un quadro più preciso di cosa sta accadendo nello spazio».
   «Lo faremo» promise il Capitano, affrettando il passo.
 
   Qualche ora dopo, i viaggiatori erano ancora nel labirinto di rocce quando udirono un frastuono di spari misto a versi animaleschi. «Un altro combattimento!» esclamò Erzsébeth, attivando la sua lancia dell’Alta Guardia. Anche gli altri imbracciarono le armi.
   «Non capisco da che parte è» si lamentò il Capitano, disorientato dagli echi che rimbalzavano tra le rocce.
   «Di qua!» fece Rico, volgendosi a destra.
   «Sei sordo?! È di là!» fece Scorpion, girandosi a sinistra.
   «È proprio davanti a noi» li smentì Naskeel, tirando dritto. Il gruppo seguì il Tholiano, che sembrava particolarmente bravo a orientarsi. Più avanzavano, più il frastuono aumentava, segno che si stavano avvicinando. Finalmente sbucarono in uno spiazzo, trovandosi davanti a una scena truculenta.
   Una moltitudine d’Aracnidi di varie specie attaccava un solo guerriero, cercando di finirlo. Questo era in trappola, trovandosi con la schiena contro una parete rocciosa; ma opponeva una resistenza indomita. Gli avventurieri lo osservarono sbalorditi: non avevano mai visto un combattente del genere. La sua statura era colossale, tanto da farlo torreggiare sui Warrior Bug. Era interamente rivestito da una massiccia corazza blu oltremare, con rifiniture dorate. Sembrava pesantissima, anche per via dell’enorme zaino, eppure il proprietario si muoveva con grazia mortifera. Sul pettorale aveva l’emblema di un teschio alato, mentre sugli spallacci e sul casco campeggiava un altro simbolo: una U che probabilmente era una omega rovesciata. Le sue armi erano un massiccio mitragliatore, brandito a una sola mano, e una spada-motosega che fumigava del sangue degli Aracnidi. Il guerriero le usava simultaneamente con grande maestria, abbattendo ogni creatura che osava avvicinarsi. Sul suo casco blu spiccavano gli occhi dal taglio cattivo e dallo scintillio sanguigno.
   «Indietro, miseri Tyranid, nel nome dell’Imperatore!» tuonò il guerriero, tagliando in due un Warrior Bug con un solo fendente. «Non banchetterete con la mia carcassa! Non oggi!» proclamò.
   «Avete visto il suo simbolo?» notò Erzsébeth, sempre attenta ai dettagli.
   «Sì, dev’essere un Ultramarine... quelli di cui parlava il tecno-prete» annuì Rivera.
   «Che facciamo?» chiese Scorpion.
   «Che domande! È un commilitone in pericolo, lo aiutiamo!» rispose Rico, sul punto di gettarsi allo scoperto.
   «Piano, novello Rambo» lo frenò Rivera. «Lui non si considera un nostro commilitone. Da quanto ho capito, gli Ultramarine sono dei massacratori. Anche se lo aiutiamo, non è detto che ci sia riconoscente. Potrebbe ucciderci solo perché non apparteniamo al suo Impero».
   «Allora tiriamo dritto» propose Erzsébeth, col tipico pragmatismo Nietzscheano.
   «Però si sta battendo con grande coraggio. Sarebbe disonorevole abbandonarlo» obiettò Yo’rek.
   «Groan... tu che ne pensi, Naskeel?» fece Rivera, alle prese con un’altra decisione difficile.
   «Non abbiamo elementi per stabilire se l’Ultramarine sarà un valore aggiunto alla squadra oppure una minaccia. A sua discrezione, Capitano» rispose il Tholiano.
   «Che farei senza di te?» fece Rivera, sarcastico. «E va bene, non me la sento di passare oltre. Diamogli una mano!».
   A queste parole gli avventurieri aprirono il fuoco sugli Aracnidi. Colti di sorpresa, alcuni furono abbattuti ancor prima di capire da dove veniva l’attacco. Passati i primi attimi, tuttavia, molti altri fecero dietrofront e contrattaccarono. Rivera e i suoi dovettero mettercela tutta per tenerli a distanza. Fortunatamente Erzsébeth e Yo’rek si rivelarono abili a colpire i gangli nervosi degli Aracnidi con precisi colpi delle loro lance a energia.
   Vedendo che due terzi degli avversari erano stati distratti dall’attacco, anche l’Ultramarine riprese animo. Attaccò gli Aracnidi, lasciando che le loro zampe falciformi si spuntassero sulla sua resistentissima armatura. Li crivellò di colpi, li falciò con la spada-motosega, e a quanti si dibattevano al suolo schiacciò i centri nervosi sotto i robusti stivali. Quando un imponente coleottero sputafuoco cercò d’attaccarlo, l’Ultramarine gli lanciò una granata dritta in bocca. Il getto di fuoco la fece esplodere, disintegrando la testa del coleottero e schizzando ovunque il suo sangue. Il resto del corpo cadde a terra, sfrigolando tra le sue stesse fiamme. A quel punto gli ultimi Aracnidi batterono in ritirata.
 
   Dopo il frastuono della battaglia, cadde il silenzio. L’Ultramarine si ergeva in mezzo alle carcasse delle creature, con la corazza macchiata del loro sangue verde e arancio. Il suo mitra fumava per il surriscaldamento e pareva aver esaurito le munizioni. La spada-motosega però era ancora attiva e gli occhi rossi puntavano dritti su Rivera.
   «Ci siamo... o mi ammazza, o mi ringrazia» si disse il Capitano. Un guerriero del genere non era fatto per le mezze misure.
   «Chi siete?!» chiese l’Ultramarine con voce stentorea.
   «Capitano Rivera, della nave stellare Destiny. E questi sono i campioni che si sono uniti a me, per sopravvivere in quest’inferno» rispose l’Umano, cercando d’impressionarlo. Certo, era come un gattino che cerchi d’impressionare un leone...
   «Io sono Azrael Grimmaul, del dodicesimo capitolo degli Ultramarine, inviato a Cadia dal nobile Guilliman» rispose il guerriero in blu. «Dovevamo opporci alla Tredicesima Crociata Nera di Abaddon il Distruttore. Ma quando Cadia è stato inghiottito dall’Occhio del Terrore, ci siamo ritrovati qui. Da allora abbiamo fatto ciò per cui siamo nati... combattere!».
   «Sì, abbiamo incontrato il tuo tecno-prete che ci ha raccontato la storia» rivelò il Capitano. «Lui pensava che foste morti tutti».
   «Io sono l’ultimo superstite. Sono stato via a lungo, cercando un modo per lasciare il pianeta, e ora stavo tornando al nostro rifugio» ammise l’Ultramarine. «Davvero il sacerdote vi ha accolti? Dev’essersi rammollito... un tempo non avrebbe tollerato gli stranieri».
   «Ascolta, siamo tutti sulla stessa barca, quindi ci conviene collaborare...» cominciò Rivera.
   «Non con gli xenos!» fece Azrael, vedendo Naskeel che usciva allo scoperto. Subito rivolse la spada contro di lui. «Il nostro Codice è chiaro: brucia l’eretico, uccidi il mutante, purifica l’impuro. E soprattutto, nessuna pietà per gli alieni!» minacciò.
   «Questo ominide sembra ostile» constatò Naskeel, imbracciando il fucile polaronico. Si accostò al Capitano, parlandogli a mezza voce. «Se vuole convincerlo, perché non prova con la storiella dell’elefante?».
   «Non è il caso, okay?!» fece Rivera, esasperato. Vedendo che i due continuavano a puntarsi le armi, abbassò il fucile di Naskeel e poi si rivolse all’Ultramarine. «Sarà meglio che aggiorni il tuo Codice, perché se ragioni così non uscirai mai da questa trappola!» avvertì. «Sono stati degli alieni chiamati Undine a portarci qui. E finché combatteremo fra noi, potranno osservarci e affinare le loro tattiche. Capisci che, se ti scagli contro di noi, non fai che rafforzare il vero nemico?! L’unico modo per non dargliela vinta è unire le forze per scappare!» insisté.
   A queste parole, l’Ultramarine rimuginò brevemente. «A volte ho sentito dire che lottare contro il Caos non fa che rafforzarlo. E tuttavia non c’è vittoria senza battaglia» mormorò. A un tratto rialzò la fronte, avendo preso una decisione. «Poiché mi avete aiutato contro questi Tyranid, non leverò le armi contro di voi. Ma voglio sapere se avete realmente guadagnato la fiducia del tecno-prete. Quindi ora torneremo al suo antro, così sentirò la sua versione».
   «Siamo impegnati in un viaggio importante, non possiamo tornare indietro solo per soddisfare la tua curiosità!» protestò Erzsébeth, dando voce al pensiero di tutti.
   «Invece lo farete, o ve la vedrete con me» avvertì Azrael. In un attimo fu accanto a Erzsébeth e le puntò la spada-motosega alla gola, così rapido che i compagni non ebbero il tempo di reagire. «Considerati fortunata che non pretenda altro. Se ti chiedessi di professare la tua devozione per l’Imperatore-Dio dell’Umanità, che mi risponderesti?!» le chiese.
   «Sono una Nietzscheana. Noi pensiamo che Dio è morto» ribatté freddamente lei.
   «Quindi ti consideri la dea di te stessa? È difficile vivere all’altezza di una tale aspettativa, ragazzina. Prima o poi arriverà qualcuno più forte di te, a dimostrare che non sei niente!» avvertì l’Ultramarine, sempre puntandole la lama alla gola.
   «Senti, se vuoi vedere l’antro e scambiare due chiacchiere col tecno-prete, va bene!» intervenne Rivera, per diminuire la tensione. «Basta che poi tu la smetta di minacciarci. Non scambiare la nostra cortesia per debolezza; anche noi siamo tutti veterani» avvertì.
   «Molto bene» fece Azrael, riponendo finalmente la spada in cintura. Si passò la mano sulla corazza, levando un po’ del sangue alieno, e marciò a grandi passi verso l’antro. Agli avventurieri non restò che seguirlo. Alcuni di loro si erano già pentiti di averlo salvato, poiché a causa sua avrebbero perso almeno un giorno di viaggio. Altri speravano ancora che quel guerriero gigantesco potesse unirsi al gruppo, dopo aver constatato la loro sincerità. Nessuno comunque dubitava della sua pericolosità; non dopo averlo visto maciullare gli Aracnidi come se niente fosse.
 
   Era ormai tarda sera quando gli avventurieri tornarono al loro rifugio. Il Capitano si affacciò nella galleria, chiamando ad alta voce il tecno-prete. «Ehilà! Siamo tornati prima del previsto! Non preoccuparti, va tutto bene... più che bene, in effetti! Abbiamo ritrovato uno dei tuoi Marine!».
   Non ci fu risposta. Rivera alzò gli occhi ad Azrael, che lo fissava con gli occhi rossi del casco, che ancora non si era mai tolto. «Non mi ha sentito. Sarà nelle grotte più interne, a oliarsi le parti meccaniche o qualcosa del genere. Adesso lo raggiungiamo, eh?» fece il Capitano.
   «Prima tu» disse l’Ultramarine in un tono che non ammetteva repliche.
   Con un sospiro, Rivera entrò nella galleria semibuia. Sentì che Azrael lo tallonava, passo dopo passo. L’Ultramarine in armatura era così grosso che passava a stento dal tunnel. Il Capitano si trovò a pensare che se l’energumeno voleva sparargli alle spalle, quella era l’occasione perfetta. Ma qualcosa gli diceva che, se mai gli avesse sparato, lo avrebbe fatto al petto e non alla schiena. Così andò avanti, fino a sbucare nell’antro. Azrael emerse dietro lui. Si guardarono attorno... e videro il tecno-prete.
   Giaceva al suolo, con la tonaca crivellata di proiettili e intrisa di sangue. A giudicare dalla striscia vermiglia che aveva lasciato in terra, doveva essersi trascinato per qualche metro prima d’essere finito con dei colpi alla testa. I suoi occhi artificiali, che un tempo brillavano verdi nella penombra, erano spenti; non c’era più segno di vita in lui. Lì accanto aleggiava il servo-teschio, come un animale domestico che vegli il padrone defunto.
   Il Capitano non dovette nemmeno guardare l’Ultramarine per accorgersi che questi aveva sguainato la spada-motosega e gliela puntava alla gola. «Dammi un motivo valido per non ucciderti, perché io non ne trovo più» avvertì il colosso.
   «Il tuo sacerdote era vivo, quando ce ne siamo andati stamattina. Qualcun altro dev’essere sopraggiunto nel frattempo» disse Rivera, sentendo il sudore scorrergli sulla fronte. «Del resto sai bene che su questo pianeta ci sono pericoli ovunque. Tutti sono in cerca di rifugi e sono pronti a uccidere per conquistarli».
   «Questo è vero» ammise Azrael. «Ma se qualcuno ha attaccato l’antro... perché non è rimasto qui? Perché non se n’è effettivamente impossessato?!».
   «Forse l’aggressore è tornato indietro, per guidare qui il resto della sua banda. O forse non era interessato al rifugio in sé, ma solo alle scorte che poteva razziare».
   «Comode scuse, dato che non possiamo verificarle» avvertì l’Ultramarine. In quella però il servo-teschio gli si avvicinò, ronzando e agitando i tentacoli per attirare l’attenzione. Il suo occhio artificiale rosso brillava stranamente.
   «Dimmi che questa cosa fa anche da telecamera di sorveglianza» mormorò Rivera, sempre con lo spadone alla gola.
   «Mostra ciò che hai visto, servo dell’Imperium!» ordinò l’Ultramarine. E il servo-teschio obbedì. Dal suo occhio artificiale si sprigionò la registrazione dell’accaduto. Era un ologramma primitivo, agli occhi di Rivera: l’immagine era azzurrina e tremolante. Ma per l’Ultramarine questo non era un problema. Videro così che alcuni robot avevano fatto irruzione nell’antro, sparando coi mitragliatori innestati negli avambracci. Il tecno-prete, appesantito dagli impianti, non aveva fatto in tempo a trovarsi un nascondiglio. Colpito al petto, si era trascinato verso le sue adorate macchine, prima d’essere finito con una raffica alla testa.
   «Fottuti Cylon! Attaccano sempre quando meno te l’aspetti!» imprecò Scorpion, giunta a sua volta nell’antro. «Quelli sono Centurioni, letali nel breve-medio raggio. E se il filmato non ti basta, guarda qui!». S’inginocchiò accanto al tecno-prete e lo frugò, estraendo una pallottola. «Questo è il calibro usato dai Cylon. Puoi rottamarne uno e fare il confronto, se vuoi esserne sicuro».
   Intanto l’ologramma mostrò che i Cylon, dopo aver ucciso il tecno-prete, avevano frugato l’antro e se n’erano andati con alcune attrezzature, soprattutto unità d’energia. Avevano disdegnato le scorte alimentari, da robot quali erano. Quando l’ultimo di loro ebbe lasciato l’antro, la registrazione terminò. Il servo-teschio tornò in quiete.
   «Bravo ragazzo!» fece Rivera, dandogli un colpetto d’approvazione sulla calotta cranica. Poi si rivolse all’Ultramarine: «Ti basta come prova?».
   «È sufficiente» riconobbe Azrael, e ripose la spada-motosega. Non si scusò per averlo quasi decapitato. Forse le scuse non facevano parte del suo vocabolario. «Resta il fatto che quei Necron non avrebbero trovato il rifugio, se non vi foste fatti seguire».
   «Si chiamano Cylon» corresse Scorpion. «E se hanno seguito le nostre tracce, a maggior ragione avrebbero seguito le tue. Non sei esattamente un peso-piuma».
   «Suppongo di no» fece l’Ultramarine. Dal tono sembrava che ridacchiasse. «E va bene, non vi riterrò responsabili della sua morte» decise, osservando i resti del tecno-prete.
   «Mi spiace per lui. Suppongo che fosse un sant’uomo... a modo suo» incespicò Rivera, osservando i sinistri congegni che gli erano appartenuti.
   «Non spiacerti per lui. Ora è tutt’uno col suo Dio-Macchina» ribatté l’Ultramarine.
   Rivera notò come certi macchinari, che nei giorni precedenti erano spenti, adesso parevano attivi e ronzanti. Alcune spie s’erano accese di una luce verde, la stessa degli occhi artificiali del tecno-prete. E c’era il mistero del servo-teschio che si era attivato al momento giusto, come se qualcuno gli avesse trasmesso un ordine. Possibile che il sacerdote avesse conseguito la sua fusione con lo Spirito Macchina?
   «Beh, immagino che tu ora voglia rivendicare questo rifugio» disse Erzsébeth all’Ultramarine. Ormai tutta la banda era rientrata, e tutti temevano lo sfratto, perché difficilmente il colosso avrebbe considerato valido l’accordo stretto col tecno-prete.
   «È nel mio diritto; fu il mio gruppo ad attrezzare la caverna con tutto ciò che potemmo salvare dalla nostra navicella» confermò Azrael. «Ma sono curioso: dove stavate andando, così carichi di provviste?».
   Rivera non moriva dalla voglia di dirglielo, ma pensò che una speranza di fuga poteva indurre l’Ultramarine a collaborare. Così gli riassunse il loro piano.
   «Interessante» fece il colosso al termine del racconto. Per la prima volta da quando lo conoscevano si levò il casco, posandolo su un macchinario. Aveva il cranio rasato, cosparso di piccole cicatrici, e un mascellone quadrato che gli dava quella voce baritonale. Gli occhi piccoli e duri spiccavano sul viso vissuto. «Sono tentato di aggregarmi, piuttosto che starmene qui a marcire» ammise.
   «Saresti certamente di valore per la squadra» riconobbe il Capitano. «Tuttavia devo chiederti di riconoscere la mia autorità, finché ne farai parte».
   «Io servo solo il mio Primarca e l’Imperatore-Dio! Non un debole omuncolo di un altro cosmo!» obiettò Azrael. «Qui attorno a me vedo campioni di valore. Come puoi arrogarti il comando, tu che sei il più debole del gruppo?» incalzò.
   «Tanto per cominciare, sono stato io a radunare questi lupi solitari e a farne una squadra. Se non avessi perseguito quest’idea, staremmo ancora combattendo tutti contro tutti» rivendicò il Capitano. «Inoltre sono l’unico che dispone di un’astronave funzionante. Se mai ce ne andremo da qui, sarà sulla mia nave, non sulla tua» disse, fronteggiando il colosso. «Se ci vuoi fuori dal tuo rifugio, ce ne andremo. Ma non aspettarti poi che ti accogliamo nella banda, se dovessi cambiare idea».
   «Non sei intimorito... questo mi piace» riconobbe l’Ultramarine, torreggiando su di lui. «Ma tu e gli altri non avete idea degli orrori che ci sono là fuori. Robot da combattimento, vermi giganti... dubito che sopravvivrete alla marcia».
   «Più uniamo talenti diversi, maggiori sono le probabilità di sconfiggere i nostri veri nemici, gli Undine. Loro non si aspettano che riusciamo a collaborare. E un buon soldato non è forse colui che riesce a sorprendere il nemico?» argomentò Rivera.
   «Hai una buona parlantina; non mi sorprende che tu sia Capitano» ghignò Azrael. «E sia! In questo regno del Caos sono disposto ad allearmi con chiunque abbia un piano di fuga. E poi questo rifugio non è più sicuro, ora che i robot ne hanno scoperta l’ubicazione. Sono con te... e vedremo che ne verrà fuori».
 
   La mattina dopo gli avventurieri si prepararono a lasciare nuovamente il rifugio. Dopo la falsa partenza del giorno prima, furono ancora più attenti a prendere con sé tutto ciò che poteva tornare utile per il viaggio. Ora che i Cylon conoscevano l’ubicazione dell’antro, infatti, era rischioso tornarvi. Se avessero raggiunto l’astronave Jaffa, gli avventurieri vi sarebbero rimasti, facendone il nuovo campo-base. Prima di partire discussero del percorso. Schizzarono persino una mappa, sfruttando una delle pergamene ingiallite dell’antro. Rivera infatti voleva confrontare le conoscenze di tutti, specialmente dell’ultimo arrivato, per essere certo di non farsi sfuggire nessun pozzo. In effetti l’Ultramarine fu in grado di segnalare qualche luogo d’interesse che nessuno degli altri conosceva. «E qui c’è un fortino» concluse, segnando un punto sulla mappa.
   «Un fortino? Non ne avevo ancora visti su questo mondo» s’interessò Rivera. «A chi appartiene?».
   «Bella domanda! Non lo so» rispose Azrael con franchezza. «Non ci sono emblemi in vista. Tutte le volte che io e la mia squadra ci siamo avvicinati, quelli all’interno ci hanno sparato addosso. Si vede che non gradiscono le visite! E dire che non sembravano molti... ma erano maledettamente bravi. Non siamo mai arrivati a ridosso delle mura. Quindi non so dirvi chi c’è dentro; ma sono ottimi cecchini» disse, accennando a una tacca sulla sua armatura. Era esattamente all’altezza del cuore.
   «Se è gente così sospettosa, non ci conviene avvicinarci» commentò Yo’rek.
   «Ma l’idea di partenza non era ampliare la squadra, anche durante il viaggio?» obiettò Erzsébeth. «Se quelli del fortino vedono in quanti hanno già aderito, potrebbero cambiare idea. E a noi farebbe comodo un rifugio in questa parte del viaggio, che è la più dura» aggiunse. In quella zona, infatti, non c’erano pozzi a cui approvvigionarsi.
   «Non ci farà tanto comodo, se ci spareranno in testa» ribatté Rico.
   «Non dico d’avanzare allo scoperto come dei fessi» chiarì la Nietzscheana. «Dico solo che potremmo fare un tentativo prudente di negoziare. Se poi i padroni di casa non ne vogliono sapere, allora passeremo oltre, senza impegnarci in sparatorie».
   «Sì, vale la pena di provare» decise il Capitano. «Sempre che il fortino sia ancora difeso, quando ci arriveremo. Mi sembra che qui le cose evolvano piuttosto rapidamente».
   «Sì, potremmo anche trovarlo già saccheggiato» convenne Scorpion. «Nel qual caso lo frugheremo comunque, in cerca di cose utili».
   «Bene, è deciso» disse il Capitano, cerchiando il puntino sulla mappa. «Faremo una piccola deviazione al forte, sperando che ne valga la pena».
 
   I giorni successivi misero duramente alla prova le capacità di leadership di Rivera. Già comandare la Destiny in condizioni normali gli sembrava difficile. Ma tenere sotto controllo quella banda di bestioni, evitando che si scannassero fra loro, era un’impresa titanica. Tanto più che il calore del deserto dava alla testa e il costante pericolo d’agguati esasperava gli animi. Bastava un nonnulla per scatenare accese discussioni, che rischiavano di degenerare. Per fortuna il Capitano poteva contare su Naskeel, e anche su Erzsébeth, affinché lo aiutassero a gestire la squadra. La Nietzscheana gli consigliò di non intervenire per ogni minimo contrattempo, lasciando che fossero gli altri a trovare un loro equilibrio. «Conservati per le questioni importanti, e ti rispetteranno di più» disse. Rivera seguì il suggerimento e in effetti gli dette buoni risultati. Nel giro di una settimana, i bisticci erano nettamente diminuiti e ciascuno sembrava aver trovato il suo ruolo nella banda.
   «Sapete, stavo pensando che dovremmo darci un nome» disse Rico una mattina. «Voglio dire, io e i miei uomini non eravamo solo “la Fanteria Mobile”. No, eravamo i Leoni della Fanteria Mobile! Faceva un gran bene allo spirito di squadra» disse, mostrando il tatuaggio del reggimento che aveva sul braccio.
   «E noi come dovremmo chiamarci? Gli Scorpioni di Scorpion?» ironizzò Kara, riferendosi al suo nome di battaglia.
   «Gli Apprendisti dell’Alta Guardia» suggerì Erzsébeth.
   «L’Ultramarine e i suoi Sei Aiutanti» disse Azrael.
   «Non sarebbe male riferirci al nostro numero» notò Yo’rek. «Potremmo essere i Sette... qualcosa. I Sette Viandanti, i Sette Combattenti...».
   «I Magnifici Sette» mormorò il Capitano, ironico. Il nome gli era sorto spontaneo dalla memoria e lui l’aveva pronunciato senza nessuna pretesa di serietà. Ma gli altri, che non conoscevano i western, ne rimasero così estasiati che non vollero sentire ragioni. Da quel momento Rivera e i suoi divennero ufficialmente i Magnifici Sette.
 
   Dieci giorni dopo l’inizio del viaggio, i Magnifici Sette si accorsero che le scorte d’acqua cominciavano a scarseggiare. Al tempo stesso, si stavano avvicinando al misterioso fortino menzionato da Azrael. Farvi tappa ormai non era questione di soddisfare una curiosità, ma di pura sopravvivenza.
   «Siamo vicini» confermò l’Ultramarine, guardandosi attorno in cerca di punti di riferimento. «Da questa parte» disse, affrettando il passo. Gli altri faticarono a seguire le sue enormi falcate.
   Uscirono dal labirinto di rocce, in una distesa aperta. A circa un chilometro davanti a loro spiccava il fortino, di forma quadrata, con quattro torrette ai lati e un portone blindato. Le corazze recavano qua e là i segni d’armi da fuoco, che non erano riuscite a penetrarle. Il fortino in sé era piccolo e anonimo; ad attirare l’attenzione era l’enorme quantità di carcasse che lo circondavano. Erano resti d’animali, soldati di varie specie, robot più o meno umanoidi. Che fossero grandi o piccoli, corazzati o agili, erano tutti morti con dei colpi in testa. Nessuno era riuscito ad avvicinarsi a meno di cento metri dalle mura.
   «Come vi dicevo, sono dei cecchini davvero abili» commentò Azrael.
   «Ripensandoci, forse è meglio proseguire» fece Erzsébeth.
   «Abbiamo fatto una deviazione troppo grande per ritirarci senza nemmeno tentare» obiettò il Capitano. Ripensò alle lezioni d’Accademia sulle procedure di Primo Contatto. «Dobbiamo attirare la loro attenzione senza mostrarci ostili, così da aprire un dialogo. Servirebbe un simbolo di pace, sempre che lo capiscano. Qualcosa da sventagliare, come una bandiera» ragionò. Prese a ispezionare i resti circostanti, in particolare i veicoli, finché ne trovò uno parzialmente coperto da un telone bianco. Allora ritagliò il telone, facendone una rozza bandiera. «Ora non ci resta che un’asta...» disse, osservando i compagni. Il suo sguardo si soffermò su Yo’rek, con la sua lancia da combattimento.
   «Questa è un’arma onorevole, brandita da generazioni di Jaffa» si oppose l’interessato.
   «E adesso servirà a uno scopo ancor più onorevole. Poche storie, molla l’osso» intimò Rivera.
   Senza aggiungere altro, Yo’rek consegnò la lancia. Il Capitano vi annodò la bandiera, ottenendo un’insegna che poteva essere issata.
   «Carina... ma come conti d’avvicinarla al fortino, senza che quelli dentro ti facciano un buco in testa?» domandò Erzsébeth.
   «Vediamo... sembra che i difensori sparino soprattutto da lì in poi» notò Rivera, accennando alla fascia in cui si concentravano i resti. Era un anello che cominciava a circa trecento metri dal fortino. Proprio sul limitare esterno c’erano alcune rocce che potevano fare da riparo. Al di là di esse, nulla avrebbe fermato i colpi dei cecchini. Senza soffermarsi a pensare al rischio – perché altrimenti avrebbe desistito – l’Umano cominciò a muoversi.
   «Aspetti, Capitano. Mandi qualcun altro» lo esortò Naskeel.
   «Ho già deciso» ribatté l’Umano, senza fermarsi né rallentare. «Se mi accade qualcosa, il comando è tuo». Era fortemente tentato di darlo a Erzsébeth, che fino ad allora si era dimostrata l’elemento più valido della squadra, ma ancora non si fidava della filosofia Nietzscheana.
   Se Erzsébeth ne fu delusa, non lo diede a vedere. Era sul punto d’inseguirlo per tirarlo indietro, ma Naskeel la trattenne per un braccio. «No, è il suo volere» le disse. La Nietzscheana si liberò con uno strattone, ma infine si arrese alla situazione. Rivera si era già spinto così avanti che inseguirlo significava rischiare due vite anziché una.
   Con il sangue che gli pulsava nelle orecchie, il Capitano innalzò la bandiera bianca, lasciando che sventolasse alla brezza. Camminò lentamente verso le rocce, cercando di far sì che lo proteggessero il più possibile, ma non celassero il vessillo. Malgrado la tuta distillante, la sua fronte era imperlata di sudore. Da un momento all’altro si aspettava d’essere crivellato, se i cecchini avessero trovato la giusta angolazione di tiro. Invece arrivò incolume agli affioramenti rocciosi. A quel punto non osò proseguire e si limitò ad agitare la bandiera improvvisata.
   Fu allora che un’arma a energia aprì un foro nel vessillo. «Non un altro metro, o ti faccio saltare le cervella!» intimò una voce dagli spalti. Dal suo rifugio tra le rocce, il Capitano osservò col Visore da lunga distanza. Vide due cecchini appostati sulle mura. Quello che aveva sparato, e che ora parlava, era un imponente soldato dalla corazza verdastra, con la visiera dorata. L’altra era un’aliena dalla pelle blu e i capelli – o erano tentacoli? – tirati all’indietro.
   «Non sparate! Voglio solo parlare!» gridò Rivera.
   «Le uniche parole devi rivolgerle ai tuoi tirapiedi appostati più indietro. Digli questo: il primo che si avvicina entrerà a far parte del mio museo a cielo aperto!» minacciò il cecchino.
   «Andiamo, John, sono sei mesi che non parliamo con nessuno! Lascia che si avvicinino e dicano la loro, prima di decidere se freddarli!» lo esortò la collega blu.
   «Sei troppo buona, Liara. Ma sia come vuoi» acconsentì il militare in verde. Poi si rivolse nuovamente al Capitano. «Ehi, intruso! Vieni avanti lentamente, con le mani in alto. E di’ ai tuoi amici di fare lo stesso. A meno che non siano Covenant. Se sono Covenant, digli di andare in malora!». La sua voce era così stentorea che persino quelli appostati più indietro la udirono, malgrado la distanza.
   Erzsébeth stava per farsi avanti, ma Yo’rek la prevenne. «No, vado io. Non c’è ragione di rischiare tutti» disse. «E poi devo recuperare la mia lancia» aggiunse, come se fosse un pretesto sufficiente a rischiare la vita.
   Ciò detto il Jaffa si fece avanti lentamente, con le mani alzate, finché fu accanto a Rivera. Passo dopo passo, i due arrivarono fin sotto le mura. I cecchini li tennero sotto tiro per tutto il tempo.
   «Avete del fegato a farvi avanti!» disse il militare in verde. «Allora, chi siete?».
   «Capitano Rivera, dell’USS Destiny».
   «Tenente Yo’rek, dei Jaffa Liberi».
   «Mai sentiti. Che cosa volete?».
   «Vogliamo dare un senso a questa follia!» rispose Rivera, facendo un ampio gesto per indicare i rottami che costellavano il deserto. «Sapete d’essere stati trascinati in un altro cosmo per lottare fino alla morte?».
   «Sì! Ma siamo ancora vivi, dato che facciamo secchi tutti quelli che si avvicinano!».
   «Non ne dubito, ma prima o poi finirete le provviste. O vi scontrerete con una forza troppo grande anche per voi» avvertì il Capitano. «Siamo tutti prigionieri di questo gioco perverso... ma io vi esorto a uscirne! Unitevi al mio gruppo! Siamo già in sette, ciascuno di una realtà diversa, uniti dalla comune volontà d’uscire vivi da qui. E possiamo farlo, se solo riusciamo a contattare la mia astronave, che è ancora operativa».
   «Ci stiamo dirigendo verso la mia base, nella speranza di rintracciarla. Venite con noi e avrete l’occasione di salvarvi. Rifiutate e le cose andranno avanti come hanno fatto finora» aggiunse Yo’rek.
   «Ma sentitevi! Sembrate Testimoni di Geova!» li derise il militare in verde. «Non vi aprirò il nostro fortino, quindi potete ritirarvi. Andate a ovest per tre giorni e troverete il prossimo pozzo. Questo è tutto ciò che posso fare per voi».
   «Aspetta, John» fece l’aliena blu. «Dovremmo considerare la loro offerta».
   «Eravamo d’accordo di non far entrare nessuno, Liara. Men che meno d’unirci alla prima banda di disperati» ribatté il militare.
   «Non siamo desperados!» obiettò Rivera. «Ditemi una cosa... voi due provenite dallo stesso Universo?».
   «No» ammise il cecchino. «Io sono Master Chief, soldato Spartan in forza al Comando Spaziale delle Nazioni Unite. Ero in servizio sulla Pillar of Autumn, in guerra contro i Covenant. Durante l’evacuazione di Reach, uno strano portale ha risucchiato il mio mezzo da sbarco, facendomi naufragare qui».
   «E io sono Liara T’Soni, scienziata Asari» si presentò l’aliena blu. Aveva davvero dei corti tentacoli, tirati all’indietro, al posto dei capelli. «Ero sull’incrociatore Normandy dell’Alleanza dei Sistemi, allo scopo d’investigare l’antica tecnologia Prothean, ma avevamo i Reaper alle calcagna. Stavo scendendo su Marte quando un analogo incidente mi ha condotta qui. Qualcosa di tutto ciò vi suona familiare?».
   «Temo di no» ammise Rivera. «È chiaro che veniamo da realtà differenti. Ma questo non deve scoraggiarci. Nel mio gruppo abbiamo origini diverse, ma abbiamo constatato che l’unione fa la forza. Ed è chiaro che lo avete compreso anche voi, o non sareste alleati così stretti. Se vi aggregate, avremo tutti più opportunità di cavarcela».
   «Sei sordo, amico? Ti ho detto d’andare!» fece Master Chief, per nulla convinto. Il Capitano si accorse di avere il puntatore laser sul petto, all’altezza del cuore.
   «Se sei così deciso, ce ne andremo... anche se forse dovreste consultarvi meglio tra voi» disse Rivera, notando che l’aliena blu sembrava più accomodante. «Addio e buona fortuna... se c’è fortuna su questo pianeta». Fece dietro-front e tornò verso il resto del gruppo, assieme a Yo’rek, che aveva ripreso la sua adorata lancia. Avevano fatto poca strada quando videro i compagni che uscivano allo scoperto e correvano precipitosamente verso di loro.
   «Che diavolo state facendo?! Vi avevo ordinato d’aspettarmi là, al sicuro!» protestò Rivera, stupito dalla loro incoscienza. «È inutile che corriate, tanto i padroni di casa non ci fanno entrare!».
   «Sarà meglio che lo facciano, invece, o siamo morti!» ansimò Scorpion, indicando dietro di sé.
   Allora il Capitano vide una nuvola sabbiosa all’orizzonte. Era in arrivo una tempesta di sabbia? No... le tempeste non facevano tremare il suolo e non riempivano l’aria di quel frastuono ticchettante. Aguzzando la vista, vide una massa informe che si agitava nel polverone. Erano creature brulicanti, come...
   «Oh, no».
   Migliaia di Aracnidi si precipitavano contro di loro, ansiosi di farli a pezzi. Tra tutte le specie di Arena, erano quelli incontrati più spesso. Rivera s’era chiesto più volte quanto fossero diffusi. Ora aveva la risposta: lo erano tanto da spazzare via tutto il resto. Forse erano stati introdotti sul pianeta da più tempo, o forse avevano trovato condizioni propizie per moltiplicarsi. Fatto sta che erano diventati una moltitudine affamata. E ora gli venivano contro in quantità così strabocchevole che non c’era alcuna speranza di respingerli. Persino l’Ultramarine aveva rinunciato all’idea.
   «Sembra che il nostro viaggio finisca qui» constatò Yo’rek, con una strana calma.
   «No, mi rifiuto di crederlo!» sbottò Rivera. Si era dato troppa pena per mettere assieme quel gruppo... non lo avrebbe perso tra le ganasce degli Aracnidi. Si girò di nuovo e corse verso il fortino, superando anche il precedente limite. «Ehi, voi! Aprite, maledizione! Se siete dell’esercito e avete un briciolo d’onore, allora non ci lascerete qua fuori!» gridò. Era certo che i difensori avessero visto la minaccia in arrivo.
   In breve il Capitano raggiunse il portone blindato, trovandolo ancora chiuso. Vi batté sopra e spinse con tutte le sue forze, giusto per accertarsi che non fosse sbloccato e bastasse aprirlo manualmente. Ma ebbe la conferma che era proprio serrato. Allora impugnò il phaser e guardò su, verso gli spalti. «Ascoltatemi! Con la mia arma potrei tagliare il portone, ma poi non potremmo richiuderlo, quindi saremmo tutti spacciati. Per questo motivo non farò fuoco. Voi però chiedetevi se preferite trovarvi assediati dagli Aracnidi assieme a sette validi combattenti, oppure da soli!».
   Di lì a un attimo i compagni lo raggiunsero. Azrael era sul punto di aprirsi un varco con la spada-motosega, ma Rivera lo trattenne, aspettando la risposta.
   Sugli spalti, Master Chief osservò la marea degli Aracnidi in rapido avvicinamento e comprese che in due non li avrebbero mai respinti. Ma quasi certamente neanche in nove.
   «Beh, che aspetti ad aprire?!» lo esortò Liara. «Quegli stranieri sono la nostra sola speranza. E potrebbero aver detto la verità anche sul resto».
   «Sigh... dovrò sempre avere una donna blu che mi dice cosa fare?» sospirò lo Spartan.
   «Io non sono la tua Cortana. E te lo dimostrerò prendendoti a sberle, se non ti sbrighi ad aprire quel cancello!» minacciò Liara. In realtà non avrebbe mai potuto sopraffare lo Spartan, ma l’accusa andò ugualmente a segno.
   Master Chief premette un comando sul bracciale della tuta, attivando un tastierino olografico. «Sbloccare cancello» disse, inserendo il codice di sicurezza. L’ordine fu trasmesso direttamente ai servo-meccanismi.
   Con un rumore raschiante d’ingranaggi non oliati, le ante del cancello si aprirono verso l’esterno, trascinando la sabbia che si era accumulata a terra. I Magnifici Sette si fiondarono dentro, senza aspettare che fosse aperto del tutto. Rivera entrò per ultimo, rivolgendo un’occhiata agli Aracnidi ormai vicini. Allora Master Chief inserì il codice di chiusura. Poi lui e Liara presero a sparare contro i mostri, per rallentarli e impedire che s’infilassero nel pertugio.
   Le ante invertirono il movimento e si serrarono sempre più, mentre anche i Magnifici Sette aprivano il fuoco contro gli Aracnidi. Alcune creature furono abbattute, ma le successive le calpestarono quasi senza rallentare. Un Warrior Bug arrivò a infilare le zampe anteriori tra le ante, ma queste si serrarono con tale forza che gliele tranciarono. Gli arti mozzati della creatura caddero ai piedi di Rivera, macchiando la sabbia del loro sangue verde. Da dietro il portone blindato vennero i suoni raschianti degli Aracnidi che graffiavano il metallo e cercavano d’arrampicarsi.
   Il Capitano si asciugò il sudore dalla fronte e fece un respiro profondo. Erano in salvo, per ora. Alzò lo sguardo agli spalti, di cui ora scorgeva il camminamento interno, e vide i difensori incombere su di loro. Gli puntavano ancora le armi contro. L’attimo dopo, tuttavia, Liara T’Soni ripose la propria. «Benvenuti nel nostro fortino, stranieri. Condivideremo le risorse, e anche la sorte» li accolse.
   Allora anche Master Chief abbassò il grosso fucile mitragliatore. Dopo di che saltò giù dal camminamento, atterrando con sorprendente leggerezza nel cortile, molti metri più in basso. La sua corazza ultratecnologica doveva aver attutito la caduta. Adesso era faccia a faccia con Rivera, che tuttavia non poté vedere i suoi lineamenti, celati dalla visiera dorata.
   «Un eroe non ha bisogno di parlare. Sono le sue azioni che parlano per lui» affermò Master Chief. «Capitano Rivera, tu sei stato il primo a farti avanti, quando ti tenevamo sotto tiro, e sei stato l’ultimo a entrare, quando gli Aracnidi vi erano addosso. Non mi serve sapere altro su di te. Hai il cuore di uno Spartan, perciò ti do il benvenuto» disse. E gli strinse la mano con forza.
 
   Ora che si trovavano all’interno del fortino assediato, gli avventurieri dovevano respingere la moltitudine degli Aracnidi che premeva all’esterno. A prendere la parola fu Rico, che li conosceva meglio.
   «Allora gente, sono già stato in una situazione come questa col mio reggimento» spiegò il Tenente. «Non fatevi ingannare dal loro aspetto animalesco: gli Aracnidi sono intelligenti. Proveranno varie strategie, ad esempio distrarci su un lato del fortino per poi attaccare in massa su un altro. Se arrivano i Tanker Bug – intendo i coleotteri – potrebbero persino scavare un tunnel sotto le mura, a patto che il terreno sia abbastanza cedevole». Batté lo stivale al suolo, per farsene un’idea, ma non comunicò agli altri la sua impressione, per non demoralizzarli. «Dunque, direi di salire sulle torrette per avere la linea di tiro più ampia. Due di noi su ciascuna torretta, e fanno otto. Il nono può piazzarsi sopra il portone per difenderlo meglio. Magari Azrael, che ha l’armamento più pesante. Colpite gli Aracnidi sotto di voi, ma state anche attenti al cielo, perché alcuni di quei mostri volano» raccomandò.
   «Sembra un buon piano» ammise Master Chief. «Giusto per sapere... come avete fatto a scamparla, in quell’altro assedio?».
   «Vennero a prenderci con le navette» si rabbuiò Rico. Questa speranza non era più all’orizzonte.
   «Beh, se dobbiamo morire, facciamolo con onore!» tuonò l’Ultramarine, caricando il suo immenso mitra.
   «Piano, ragazzoni. Forse non sarà necessario fare gli Spartan» disse Liara, ancora appostata sugli spalti. «Sembra che gli Aracnidi stiano arretrando».
   «Cosa?! Impossibile!» esclamò Rico. Corse alla scaletta e salì sul camminamento, per verificare coi suoi occhi. Constatò che gli Aracnidi si erano allontanati di qualche centinaio di metri, lasciando un’area sgombra tutt’attorno al fortino. Ma oltre questa “terra di nessuno” i loro ranghi erano serrati, tanto che non un topo poteva passare senza essere infilzato.
   «Allora, signor esperto, hai qualche spiegazione?» chiese Liara, quando anche gli altri furono saliti con loro a osservare la situazione.
   «È un comportamento insolito...  ma comunque non è una ritirata» insisté Rico. «Gli Aracnidi sono testardi. L’altra volta continuarono ad attaccare finché i loro cadaveri formarono un mucchio alto quanto le mura, permettendo ai rimanenti d’entrare. Se adesso non fanno lo stesso, dev’essere perché attendono rinforzi. Probabilmente ci sono i coleotteri in arrivo. Quando saranno qui, allora tutti gli Aracnidi attaccheranno. E allora vedrete che non si fermeranno finché uno solo avrà vita. Abbiamo un po’ di tempo, tutto qui. Forse una notte» spiegò.
   «Intanto potremmo sfoltirli. Sono ancora nel raggio delle armi a lunga gittata» propose Scorpion.
   «Meglio di no. Si allontanerebbero di un altro po’ e noi sprecheremmo munizioni per la distanza» obiettò Rico. «No, dobbiamo aspettare che si avvicinino per attaccare, così non sprecheremo un colpo. Vedrete che, a battaglia iniziata, il problema maggiore saranno le munizioni» avvertì.
   «Beh, alcuni di noi hanno armi a energia... ma anche queste vanno rifornite» ammise Rivera, soppesando il phaser mezzo scarico per i molti scontri. «Se restassimo a secco, dovremo usare le scorte del fortino. Quante munizioni avete?».
   «Non molte, purtroppo. Le navicelle con cui siamo naufragati avevano scorte limitate e dopo di allora non abbiamo trovato molti ricambi» ammise Master Chief. «Venite giù, vi mostrerò cosa abbiamo e v’insegnerò a usare le nostre armi. Chi resta di vedetta?».
   «Io» rispose Naskeel. «A differenza di voi umanoidi, non mi stanco e non mi distraggo». Detto questo si piazzò su una torretta, a lato dell’ingresso, e prese a osservare il territorio tutt’intorno al forte. Ruotava lentamente su se stesso, con la precisione di un faro. Se necessario, avrebbe lanciato un grido così alto e squillante che lo avrebbero udito in tutto il fortino. Così gli avventurieri lo lasciarono lì e scesero a prepararsi.
   Come Master Chief aveva ammesso, le scorte di munizioni non erano molte. Lui e Liara erano sempre stati attenti a non sprecare colpi, ma anche così le loro riserve si erano assottigliate nei lunghi mesi trascorsi su Arena. Almeno il corso sull’uso delle armi non richiese molto tempo, perché erano piuttosto intuitive. Per la verità Rivera le trovò fastidiosamente pesanti rispetto a quelle federali, ma non stette a farlo notare. Avrebbe impugnato qualunque cosa, pur di non trovarsi disarmato nel momento in cui gli Aracnidi sfondavano le difese.
 
   Quella sera il gruppo si riunì per mangiare nel cortiletto, con la sola eccezione di Naskeel che restava di guardia. I padroni di casa, Master Chief e Liara, accesero un falò e distribuirono delle razioni da campo. Poi sedettero con i nuovi arrivati, cercando di familiarizzare. O almeno lo fece Liara, dato che lo Spartan era di poche parole e non si toglieva mai il casco.
   «Allora, la vostra banda ha un nome?» chiese l’Asari.
   «Naturalmente. Siamo i Magnifici Sette» rispose Yo’rek, con una compostezza che fece quasi soffocare Rivera dalle risate. «A ben vedere, ora che siete parte del gruppo dovremmo chiamarci i Magnifici Nove» ragionò.
   «Oh, mi piace!» fece Liara, senza cogliere l’assurdità della faccenda. «Hai sentito, John? Siamo i Magnifici Nove!».
   «Hm-hm» fece lo Spartan, che sedeva a una certa distanza dagli altri, sempre con corazza e casco, senza mangiare.
   «John?» s’interessò Rivera.
   «Il suo vero nome è John-117, ma non permette ad altri di chiamarlo così. Per il resto del Multiverso, lui è Master Chief» spiegò l’Asari.
   «Ed è sempre così loquace?».
   «No, di solito lo è molto meno. Ci sono giorni in cui non ci scambiamo neanche una parola» spiegò Liara. «Dev’essere il suo addestramento Spartan. In realtà non ne so molto, dato che vengo da un’altra realtà, ma mi pare di capire che quelli come lui reprimono le emozioni».
   «È naturale» commentò Azrael, ingollando una razione. «Anche noi Ultramarine sopprimiamo le emozioni, per non crollare sotto il peso degli orrori cosmici e della nostra stessa violenza. La sete di sangue potrebbe sopraffarci, se non la dominassimo con fede e disciplina. A volte ci flagelliamo a sangue per espiare le nostre colpe».
   «Ehm, posso immaginarlo» fece l’Asari, osservandolo un po’ intimorita.
   Rivera cercò di riportare la conversazione sullo Spartan. «Allora, da quanto tu e Mister Simpatia siete in questo fortino?» chiese, interessato a capire la dinamica fra loro.
   «Vediamo... ormai sarà quasi un anno» rispose Liara.
   «E in tutto questo tempo, l’hai mai visto senza casco?» la provocò.
   «Fammi pensare... no, credo di no» ammise l’Asari. «Detto fra noi, penso che stia ancora piangendo la perdita di Cortana».
   «La sua compagna?» chiese Rivera, ricordando quanto lui stesso aveva sofferto un anno prima, credendo che Giely fosse morta.
   «Non proprio... era un’Intelligenza Artificiale che lo aiutava in battaglia» rivelò Liara. «Credo che in qualche modo lui l’amasse... anche se era un amore impossibile, dato che lei poteva manifestarsi solo come un ologramma impalpabile. Poco prima che John finisse esiliato qui, Cortana si sacrificò per salvarlo durante una battaglia... anche se la sua distruzione non è accertata. In effetti potrebbe essere sopravvissuta, trasferendosi altrove. Comunque lui non può andare a cercarla, finché è esiliato qui».
   «Wow, ci credo che è incazzato» commentò Scorpion. «Comunque siamo quasi tutti messi così. Abbiamo persone da cui vorremmo tornare... persone che potrebbero essere in pericolo... e invece siamo bloccati su questa palla di sabbia. Io penso alla Flotta Coloniale, che era braccata dai Cylon».
   «Sì, vale anche per me» ammise l’Asari. «Ero in missione col Comandante Shepard, colui che amavo, quando sono stata risucchiata qui. Eravamo inseguiti dai Reaper, delle macchine senzienti che devastano la nostra Galassia ogni 50.000 anni. Non so cosa sia successo dopo di allora. Non so se i Reaper l’abbiano preso, se abbiano conquistato la nostra Cittadella... non so niente!» esclamò, frustrata.
   «Abbiamo tutti le nostre battaglie da combattere. E direi che siamo disposti a farlo, pur di ritrovare i nostri cari» concluse Rivera, pensando a Giely. «Se mai torneremo sulla Destiny, giuro che vi riporterò tutti a casa. La mia nave può farlo, e ora abbiamo anche le coordinate. Tornerete dalla vostra gente e ricomincerete da dove siete stati interrotti» promise.
   «Se sopravvivremo all’assedio» notò Yo’rek. «È un grosso se».
   «Non ho mai detto il contrario» ammise il Capitano.
 
   Per un po’ cadde il silenzio. Tutti osservavano il focolare, chiedendosi se sarebbero sopravvissuti all’imminente battaglia con gli Aracnidi. Più ci pensavano, più le speranze parevano esigue. Contro un’armata così sterminata di creature, non c’era strategia che tenesse.
   «Beh, cos’è questo mortorio?!» fece a un tratto Scorpion, alzandosi. Gettò la bottiglia nel focolare per attirare l’attenzione. «Questa potrebbe essere la nostra ultima sera tra i vivi, cerchiamo di divertirci!».
   «E cosa proponi?» fece Rico, con uno sguardo che lasciava intuire quale fosse la sua idea.
   «Non quello che pensi tu, cocco» lo gelò Scorpion. «Allora, qui ho la mia ultima sigaretta, conservata per un momento d’estremo bisogno» disse, tirandola fuori dal taschino. «Sono pronta a regalarla a quello fra voi che vince a braccio di ferro. Avanti, fatemi vedere chi è il migliore!» li sfidò.
   La proposta suscitò un certo interesse, non tanto per il premio, ma per il gusto della sfida in sé. Rivera non si oppose a quell’innocuo passatempo, pur sapendo che sarebbe stato eliminato quasi subito. Ben presto si formarono le prime coppie per le eliminatorie. La gara era semplificata dal numero pari dei partecipanti, otto in tutto, dato che Naskeel era ancora di vedetta.
   Le prime a sfidarsi, su un tavolino metallico, furono Scorpion e Liara. Vinse la prima, forse perché l’Asari non era granché interessata alla sigaretta, e nemmeno alla competizione. Toccò poi a Rivera e Rico. Fu una sfida combattutissima, perché le loro forze erano grossomodo equivalenti. Alla fine vinse Rico, per le stesse ragioni del primo scontro. Toccò poi a Erzsébeth e Yo’rek. Dopo una sfida ancor più estenuante vinse la Nietzscheana, certo in virtù dei suoi potenziamenti genetici, perché altrimenti non avrebbe mai battuto il forzuto Jaffa. Gli ultimi a battersi furono Azrael e Master Chief. Dopo una sfida che fece scricchiolare le rispettive armature, l’Ultramarine prevalse sullo Spartan.
   «Non te la prendere; è il vantaggio di avere due cuori» commentò Azrael, portandosi la mano al petto. «E con questo, direi che possiamo già designare il vincitore» ghignò, consapevole che nessun altro del gruppo poteva misurarsi con lui.
   «Eh no, dobbiamo arrivare alla fine! Sotto con le semifinali!» insisté Scorpion. Cominciò lei stessa, misurandosi con Erzsébeth. Stavolta la Nietzscheana vinse con facilità, gloriandosi poi degli applausi.
   «T’importa così tanto di una sigaretta?» le chiese bonariamente Rivera.
   «No, ma la mia gente non rifiuta mai una sfida. Alla fine, il più debole deve perdere!» ridacchiò Erzsébeth. Almeno lei sembrava divertirsi.
   «Ora tocca a noi due» ghignò Azrael, incombendo su Rico. A quella vista, Rivera fu sollevato di aver perso il primo scontro.
   «Ehm... per quanto ci tenga all’onore della Fanteria Mobile... stavolta passo...» mormorò il Tenente.
   «Non ti spezzerò il braccio, giovanotto, dato che ti servirà per combattere» promise l’Ultramarine. «Ma ogni promessa è debito, e tu hai promesso di gareggiare». Gli avventurieri assistettero così allo scontro senza speranza, vinto da Azrael in un istante. Rico si ritirò, massaggiandosi il braccio indolenzito, ma ancora tutto d’un pezzo.
   «Bene, bene... siamo rimasti noi due. Chi l’avrebbe mai detto?» fece Erzsébeth, che per quanto fosse ben piazzata sembrava minuscola in confronto all’Ultramarine. Si massaggiò gli avambracci, lisciandosi i rostri ossei.
   «Hai del fegato» riconobbe Azrael. «Saresti degna d’entrare nell’Adepta Sororitas, le Sorelle della Battaglia».
   «Un altro dei vostri ordini militari? Quanti ne avete?».
   «Tutti quelli che occorrono».
   Sedettero uno di fronte all’altra, braccia sul tavolo, pronti all’ultima sfida. Gli avventurieri gli girarono attorno, incitandoli, salvo Rivera che era preoccupato per l’incolumità di Erzsébeth.
   I contendenti serrarono le mani e presero a far forza. Per qualche incredibile secondo parve che la Nietzscheana potesse resistere. Poi l’Ultramarine ghignò ed esercitò piena forza, sbattendole la mano sul tavolo. Erzsébeth accettò graziosamente la sconfitta e anzi si complimentò col vincitore. Gli avventurieri gridarono d’entusiasmo e Scorpion consegnò la sigaretta della vittoria all’Ultramarine, provvedendo anche ad accendergliela.
   «Tutto a posto?» chiese Rivera a Erzsébeth, che si era allontanata dal tavolo.
   «Sì, tranquillo» fece lei, massaggiandosi il braccio indolenzito.
   «L’hai presa bene» notò il Capitano, sapendo quanto i Nietzscheani fossero allergici alle sconfitte, che minavano le fondamenta della loro personalità.
   «Sapevo di non avere speranze contro di lui» ammise Erzsébeth, osservando il colosso. «Comunque non c’è vergogna nell’essere vinti da un avversario così evoluto. Hai sentito che ha due cuori?!».
   «Sì, e pare che all’occorrenza sia in grado di sputare acido» annuì il Capitano. «Sono interventi un po’ troppo estremi per i miei gusti».
   «Spero di non essere troppo estrema per te» sorrise Erzsébeth, lisciandosi i rostri finché furono radenti agli avambracci. Lei e il Capitano erano vicini... troppo vicini. Caramba, come faceva la Nietzscheana ad essere così attraente, dopo tutto quel tempo in mezzo al deserto?!
   «Controllati, maledizione» si disse Rivera. «Manchi dalla Destiny da appena tre settimane!». C’era stato un tempo in cui non avrebbe resistito al brivido dell’avventura. Ma quel tempo era finito il giorno in cui si era messo con Giely. No... anche se quella era quasi certamente l’ultima notte della sua vita, e aveva un disperato bisogno di conforto, non l’avrebbe tradita.
   «Sei una... cara amica, e ti devo molto, ma ora devo andare. Cerca di riposare» disse il Capitano. Dopo di che si diresse al fabbricato che faceva da dormitorio.
   «Capisco» mormorò Erzsébeth, con lo sguardo a terra. Fin dai primi giorni in cui si erano conosciuti, il Capitano le aveva spiegato la sua situazione. Così lei non insistette. A un tratto però rialzò lo sguardo. «Ascolta! Qualunque cosa ci riservi il domani, sappi che è stato bello incontrarti. Non sono pentita di averti seguito fin qui» disse.
   Rivera si girò a mezzo, guardandola con gratitudine. Poi entrò nel dormitorio e si chiuse la porta alle spalle. Aveva la netta sensazione che gli Aracnidi, nella miglior tradizione western, avrebbero attaccato all’alba...
 
   La mattina dopo, il Capitano fu strappato al sonno da quella che pareva una vecchia sirena antiaerea. Per un attimo restò confuso, chiedendosi che diavolo stesse accadendo. Poi ricordò la situazione in cui si trovavano lui e il resto della banda. Allora balzò in piedi, si preparò in tutta fretta e corse all’aperto col phaser già in pugno. Alla fioca luce dell’alba vide alcuni Aracnidi volanti sorvolare il fortino, anche se per il momento nessuno scese in picchiata. E si accorse che la presunta sirena antiaerea in realtà non era altri che Naskeel, ancora di vedetta. Il Tholiano era capace di far vibrare il suo corpo cristallino, emettendo quel formidabile allarme. Infatti tutti i campioni si erano già fiondati nel cortile, pronti a combattere. Ciascuno aveva le proprie armi, ed eventualmente la propria armatura.
   «Okay, siamo qui, siamo svegli! Che succede?!» chiese Rivera, che indossava ancora la tuta distillante.
   «Stanno arrivando i Tanker Bug» rispose Naskeel. «Ritengo che l’assalto sia imminente».
   A quelle parole gli avventurieri salirono sugli spalti, affiancandosi al Tholiano, proprio sopra al portone. I primi raggi del sole illuminavano la pianura desertica, ricoperta da Aracnidi di varie forme e dimensioni. I loro ranghi si aprivano per far passare intere colonne di coleotteri lanciafiamme, che avrebbero preso d’assalto le mura.
   «Ebbene ci siamo» disse il Capitano. «Fra poco combatteremo per le nostre vite, e anche per la speranza di ritrovare i nostri cari. Se qualcuno vuole aggiungere qualcosa, è il momento».
   «Sì» disse inaspettatamente Azrael. «Ripeterò il sacro giuramento di vestizione degli Adeptus Astartes d’ogni legione». Schiaritosi la voce, declamò solennemente: «Accetto questo fardello, nel nome dell’Imperium sanguinante. Accetto questo fardello, non conoscendo timore. Accetto questo fardello, come angelo dell’Imperatore. Avvolgo il mio corpo in una seconda pelle, questo velo di muscoli meccanici e falsi nervi. Mi ergo inamovibile contro l’alieno, il mutante, l’eretico. Non offro alcuna pietà, non cedo terreno. Con umiltà indosso gli Imperialis, simbolo di lealtà incorrotta. Con reverenza ricevo l’attuazione, risvegliando lo spirito dell’armatura. Con orgoglio indosso gli emblemi della mia Legione e mi unisco ai miei fratelli in battaglia. Io sono Acciaio. Io sono Furia. Io sono Morte».
   Detto dal colosso armato e corazzato, il giuramento faceva ancora più impressione. Quando l’Ultramarine terminò, gli altri rimasero un poco in silenzio.
   «Niente male, amigo» riconobbe il Capitano. «Qualcuno ha altro da aggiungere?».
   «Io parlo solo con questo» disse Master Chief, levando il suo immenso fucile mitragliatore.
   «Io non sono così bravo coi panegirici» disse Johnny Rico, osservando la marea incalzante degli Aracnidi. «Tutto ciò che ho da dire è: fanculo i bacherozzi, sterminiamoli tutti!».
   «Sììì!!!» gridò Scorpion, con l’esaltazione di chi sa d’essere al cospetto della morte e quindi non si preoccupa più di niente. Il suo atteggiamento contagiò la maggior parte dei compagni, che lanciarono insulti e grida di scherno contro gli Aracnidi.
   «Allora... i Magnifici Nove combattono uniti?» chiese Erzsébeth, dando un’ultima occhiata al Capitano.
   «Sino alla fine» confermò Rivera, mirando col phaser al coleottero più vicino. Quando fu alla giusta distanza per mirare alle giunture della corazza, aprì il fuoco. A quel segnale, il resto della banda fece altrettanto. E si scatenò l’Inferno.
 
   Gli Aracnidi accorrevano a frotte da ogni direzione, incuranti del fuoco di sbarramento dei Magnifici Nove. Questi si erano disposti secondo il piano di Rico: due per torretta, più Azrael che proteggeva il portone d’ingresso dal camminamento superiore. Così non c’era direzione da cui gli Aracnidi non fossero crivellati con armi a proiettili o a energia. Ben presto il loro sangue colloso inzuppò la sabbia e le loro carcasse ingombrarono la zona attorno al fortino. Essendo disposti in coppia, i difensori si alternavano nel fuoco, così che mentre uno sparava l’altro potesse ricaricare la sua arma con munizioni o celle energetiche. Oltre a colpire gli Aracnidi a terra dovevano anche stare attenti al cielo, perché quelli volanti presero a scendere in picchiata, cercando di ghermirli. Parecchie libellule giganti furono abbattute e caddero all’interno del fortino.
   Il Capitano non sapeva quanti Aracnidi avessero eliminato, ma sospettava che stessero battendo ogni record. Al tempo stesso si rendeva conto che era una lotta persa. Gli Aracnidi arrivavano a ondate, in folle impeto d’assalto, e non si fermavano finché non erano completamente distrutti. Non ci volle molto perché si accalcassero sotto le mura, cercando di sfondarle. I difensori ne uccisero a centinaia, ma in tal modo le loro carcasse formarono pile sempre più alte. Quelli che sopraggiungevano le scalarono, avvicinandosi agli spalti, come aveva previsto Rico. Intanto i coleotteri premevano contro l’ingresso, con tale forza che minacciavano di sfondarlo. Ogni pochi attimi lanciavano getti di fuoco contro le torrette, obbligando i difensori a ritrarsi, e quindi a interrompere il fuoco di sbarramento. Solo Azrael e Master Chief erano immuni alle fiammate, grazie alle loro armature integrali, oltre ovviamente a Naskeel per la sua fisiologia. Rivera sentì più volte il calore e seppe che i compagni non se la passavano meglio. Certo, finora stavano resistendo. Ma se i coleotteri avessero sfondato l’ingresso, sarebbe stata la fine. E se per miracolo il portone avesse resistito, c’era un altro problema incombente: l’esaurimento delle munizioni.
   «Questo è per Buenos Aires!» gridò Rico, mentre il mitragliatore gli si arroventava tra le mani.
   «Per le Dodici Colonie!» aggiunse Scorpion, sebbene gli Aracnidi non ne fossero responsabili. A quel punto anche gli altri si sfogarono.
   «Per Abydos e Dakara!» urlò Yo’rek.
   «Per Cadia!» tuonò Azrael.
   «Per Reach!» ruggì Master Chief.
   «Per tutte le vittime dei Reaper!» strillò Liara.
   Erzsébeth tuttavia non si unì al coro, forse perché viveva in un’epoca di pace sotto il Commonwealth e quindi non c’erano sconfitte che le bruciassero. Anche il Capitano tacque, finché Naskeel – che lo affiancava sulla torretta – si girò verso di lui.
   «Tocca a lei, Capitano» disse il Tholiano.
   «Come?!» fece Rivera, alquanto distratto col fuoco di sbarramento.
   «Gli altri hanno ricordato una perdita significativa, ora tocca a lei» insisté Naskeel.
   «Oh, beh... ricordatevi di Alamo» disse sbrigativamente il Capitano, che non aveva voglia di frugare nella memoria in cerca di catastrofi più recenti.
   «RICORDATEVI DI ALAMO!» gridò Naskeel con un volume inconcepibile, lasciando interdetti i presenti.
   «Che fai, mi rubi le battute? Vuoi farmi credere che voi Tholiani non avete mai subito una sconfitta?!» protestò Rivera.
   «Ne abbiamo avute alcune, ma non le nominiamo davanti agli alieni» spiegò Naskeel, continuando a far fuoco.
   Il Capitano dovette ammettere fra sé che aveva senso, e continuò a sparare anche lui. Si accorse però che stava per finire le celle energetiche per il phaser, e che lo stesso valeva per Naskeel e il suo fucile polaronico. Con ogni probabilità anche i compagni sulle altre torrette stavano esaurendo le loro munizioni. Azrael poteva continuare a combattere con la spada-motosega e anche Master Chief aveva un’arma bianca, ma ormai nessuno credeva seriamente che se la sarebbero cavata. Gli Aracnidi stavano per sfondare il portone e per scavalcare le mura in almeno tre diversi punti. Allora i difensori sarebbero stati soverchiati.
   «Non lasciate che vi prendano vivi!» avvertì Rico.
   «Perché no? Che fanno gli Aracnidi ai prigionieri? Qualche cosaccia sporca?!» scherzò Scorpion.
   «No, quei bastardi gli succhiano il cervello» spiegò il Tenente, cupo in volto. «È un modo per accrescere la loro intelligenza. Ma non temete. Se qualcuno di voi sarà ferito, io lo finirò prima che gli Aracnidi lo trascinino via».
   «Confortante» borbottò il Capitano, mentre la spia sul phaser lo avvertiva che la cella energetica era quasi esaurita. Davanti a lui la massa brulicante degli Aracnidi era sempre più vicina. Quelli più in alto erano in procinto di scavalcare le mura, per riversarsi all’interno del fortino. Mancava poco al termine di quella strenua resistenza, e per giunta nessuno ne avrebbe serbata memoria. Rivera sperò che almeno quelli sulla Destiny, e Giely in particolare, fossero al sicuro. Lui purtroppo non li avrebbe rivisti... presto sarebbe stato cibo per gli Aracnidi.
   «Capitano, guardi!» disse a un tratto Naskeel, indicando qualcosa all’orizzonte.
   Rivera guardò nella direzione indicata, sebbene avesse gli occhi appannati dalla fatica, e vide una nube polverosa all’orizzonte. «Altri Aracnidi?!» esclamò, esasperato. Era incredibile che si fossero moltiplicati a tal punto, su un mondo così desertico.
   «Non credo, signore. È più grosso e scorre sulla sabbia» avvertì il Tholiano.
   Il Capitano aguzzò la vista e si avvide che era tutto vero. Qualcosa d’immenso si avvicinava a gran velocità, sovrastando anche gli Aracnidi più grossi. Scorreva sulla sabbia, creando una collinetta semovente e sollevando il polverone. Sarebbe giunto al fortino in meno di un minuto.
   «Lasciamo che arrivi» ordinò Rivera, stanco e rassegnato. «Del resto, anche volendo, non possiamo fermarlo» ammise. E restò in attesa dell’impatto fatale. 
 
   
 
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