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Autore: Spoocky    09/10/2023    5 recensioni
Un guerriero senza patria, un devoto rifiutato dal suo Credo e un'adolescente senza radici, ognuno con le proprie difficoltà ed un passato difficile, si trovano costretti dalle circostanze a doversi aiutare a vicenda per raggiungere un obiettivo comune: attraversare le infide paludi di Arrak.
Questa storia partecipa al contest “D&D Mania – Capitolo II” indetto da Ghostro sul forum di Efp
Genere: Avventura, Hurt/Comfort, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Carissimi lettori, vorrei innanzitutto ringraziare Ghostro per avermi dato l'opportunità di scrivere questa storia.
E' doveroso avvertire che, all'inizio, era stata pensata per essere una long di dieci capitoli ma, per mancanza di tempo e problematiche mie personali, non sono riuscita a finre in tempo. Di conseguenza, questo racconto sarà il primo di una trilogia di mini-long, strutturata come una campagna di Dungeons & Dragons (anche se non ha nulla della Lore di D&D): ogni racconto è una sessione autoconclusiva, che contribuisce allo sviluppo della trama generale. Per correttezza, avviso anche che Till, che farà la sua apparizione verso metà di questo capitolo, è un personaggio creato da Old Fashioned, a lui il merito della caratterizzazione. Il contest richiedeva che usassimo almeno due personaggi di altri partecipanti e uno di quelli che ho scelto è lui.

Mi rendo conto che è una cosa un po' particolare, spero apprezzerete comunque.

Buona Lettura ^^


“Siete sicuro di non voler restare per la notte?” insistette Luther, il padrone di casa, aiutando Jonah a scendere dallo sgabello su cui si era inerpicato per incidere il sigillo a protezione della casa dietro l’architrave della porta “Certo non è una reggia,” ammise, indicando con il braccio la stanza principale della sua casupola “ma è calda e asciutta. Almeno non farete una notte all’addiaccio sotto il temporale.”
“Vi ringrazio di tutto cuore, ma devo proprio rimettermi in marcia.” Il sorriso del giovane non raggiungeva i suoi occhi, ma Luther non se ne accorse o finse di non notarlo “Non posso davvero fermarmi più a lungo, mi dispiace.” Non voleva essere scortese, sapeva che rifiutare l’ospitalità della famiglia avrebbe causato loro un dispiacere, ma il marchio sulla sua spalla sinistra cominciava a bruciare: doveva allontanarsi da loro il prima possibile.
“Almeno accettate un po’ di cibo per il viaggio.” Perché non potesse rifiutare, Martha, la moglie di Luther, gli aveva sottratto il vetusto zaino che portava sulle spalle e vi stava infilando pane, formaggio, marmellata e carne salata “E’ il minimo dopo quello che avete fatto per noi, tra benedizione e raccolto. E poi guardatevi: siete così sciupato! Da quanto non facevate un pasto decente prima di oggi?” Lo sgridò. Quand’egli cercò di fermarla e riprendersi lo zaino, allontanò la sua mano con uno schiaffo: “Non v’azzardate! Come pensate di sopravvivere un altro giorno, là fuori, senza niente da mangiare?!”
Solo quando fu soddisfatta del numero di cibarie che l’aveva costretto ad accettare, a cui le sue figlie avevano aggiunto due piccoli amuleti in tessuto ricamati da loro, gli riconsegnò lo zaino. Nel farlo, gli pose le mani sulle guance e lo costrinse a chinarsi per posargli un bacio sulla fronte. Poi lo strinse in un abbraccio: “Ho visto la tristezza che grava nei tuoi occhi, povero ragazzo.” Sussurrò, affinché solo lui potesse sentirla “La tua non dev’essere una vita facile, ma ti auguro con tutto il cuore di trovare presto la pace.”
Anche le due bambine gli cinsero la vita con le braccia e lo strinsero forte, mentre il loro fratellino gli porse la mano, che strinse come quella del padre.

Nell’allontanarsi da loro, Jonah aveva gli occhi pieni di lacrime. Solo quando fu sicuro che non potessero vederlo bene in volto si girò indietro e rispose al loro saluto. A fatica, soffocò il nodo che gli stringeva la gola e s’addentrò nel bosco. Già il cielo si era oscurato e il tuono rimbombava in lontananza. Il temporale non era opera sua, ormai aveva capito che il cielo ed i suoi fenomeni erano fuori dalla sua portata, ma sentiva la sua furia crescere insieme al dolore del marchio. Non l’aspettava una nottata tranquilla, di questo poteva stare certo.

Un passo dietro l’altro, sempre più stanco, si trascinava nel bosco, Il marchio bruciava sempre di più, come se gli stesse scavando nella carne. Il suo corpo si faceva man mano più debole e le sue membra sempre più pesanti, mentre sentiva salire la febbre ed i brividi si trasformavano in spasmi sempre più dolorosi.
Tuoni e fulmini si moltiplicavano in frequenza e forza, e non passò molto tempo prima che cominciasse a piovere a dirotto. Il mantello che indossava sopra la tunica era stato spalmato di cera per renderlo impermeabile, ma non lo proteggeva contro le folate di vento gelido che sferzavano il suo corpo febbricitante. Cominciò a barcollare e la vista gli si fece debole.
Strofinandosi gli occhi, intravide un’ombra scura poco davanti a sé, in fondo ad una radura di qualche genere. Le ginocchia gli cedettero e dovette arrivarci a carponi, ma riuscì a raggiungere un punto in cui un intreccio di arbusti, rami e radici secolari aveva creato una sorta di alcova sotto cui la pioggia non filtrava. Si trascinò fino in fondo ed ebbe a malapena le forze di sfilarsi lo zaino e la spada dalla schiena prima di crollare semincosciente, sopraffatto dal dolore.



Quando riprese i sensi, alcune ore dopo, era già buio pesto.
La tempesta sferzava ancora il bosco sopra la sua testa. Anche se l’acqua non trapelava tra le fitte spire dei rovi, il vento gelido – o che lui stesso percepiva gelido a causa della febbre – filtrava dall’ingresso del suo rifugio improvvisato, e gli penetrava fin nelle ossa, aumentando il suo disagio ed il dolore. La sua esperienza gli permise di capire che la febbre aveva smesso di salire: abbastanza alta da prostrarlo e farlo soffrire, ma non tanto da ucciderlo. Le sue, pur scarse, conoscenze in materia di benedizioni erano sufficienti per salvargli vita ed anima, ma non a debellare la maledizione.
Si sentiva debole, avrebbe avuto bisogno di mangiare qualcosa, magari di accendere un fuoco per scaldarsi, ma appena cercava di muoversi, una fitta lancinante lo costringeva a desistere e rannicchiarsi su sé stesso, cercando di recuperare almeno un po’ di calore.

All’improvviso, tuttavia, un rumore che nulla aveva a che vedere con i suoni della foresta lo fece sobbalzare. A fatica, riuscì ad alzare lo sguardo e, pur con la vista appannata dalla febbre, riconobbe l’ombra scura di un uomo poderoso che si stagliava all’ingresso del suo rifugio. Una forza sovrannaturale si abbatté sul suo corpo prostrato, costringendolo a terra, ma riuscì a combatterla per sollevarsi su un gomito, pur tremando come una foglia. Dalle sue labbra livide uscì un sussurro rauco ma udibile: “Ti prego, non t’avvicinare! Va’ via!”
 


Con un grugnito di disapprovazione ad accompagnare il consueto scatto del capo, Till si scostò il ciuffo, ormai fradicio, dalla fronte. I capelli si sparsero con un suono bagnato sul resto del suo cranio rasato, strappandogli una sfilza d’imprecazioni tra i denti stretti. Con gli anni, aveva imparato a tollerare il freddo ed il cattivo tempo, ma tollerare non significava rassegnarsi ad essi e, soprattutto, non significava apprezzarli. A maggior ragione quando la tempesta si scatenava all’improvviso sulla sua testa, passando da un semplice cielo coperto ad un vero e proprio nubifragio in pochi minuti, prima che avesse tempo e modo di organizzare un riparo.
In momenti come quello, in cuor suo, arrivava quasi a desiderare che esistesse una qualche divinità. Solo per avere qualcuno da insultare e su cui scaricare la propria irritazione. Aveva tuttavia imparato a sue spese che non esistono esseri superiori: il fuoco è fuoco, l’erba è erba e la pioggia, per quanto fastidiosa, è solo pioggia. Inutile cercare di attribuirvi un significato superiore: era così e basta.
Anche se cominciava davvero ad averne abbastanza di quel temporale.

Con quei pensieri in testa s’addentrò a passo deciso nel bosco, l’orecchio teso a captare ogni fruscio e le mani pronte a correre sull’elsa della spada.
Non impiegò neppure un secondo ad estrarla nel voltarsi di scatto, quando un rumore improvviso alle sue spalle lo fece sussultare. Quella volta, però, non ebbe bisogno di usarla: dagli arbusti a lato del sentiero fece capolino una volpe, seguita a ruota da due volpacchiotti. La famigliola proseguì per la sua strada senza degnarlo di un secondo sguardo e lui rinfoderò la spada scrollando le spalle.
Nel voltarsi, però, il ciuffo gli era di nuovo finito in faccia e dovette scostarlo di nuovo con uno scatto nervoso del capo. Così facendo, si rese conto che il sentiero sfociava in una piccola radura, sulla quale s’affacciava un intreccio di radici tanto fitto da formare una sorta di caverna.
“Se esistesse un dio, non c’è dubbio che le bestemmie lo spronerebbero senz’altro a fare meglio!” borbottò tra sé, avviandosi verso quell’anfratto, che sembrava tutt’altro che comodo, ma almeno aveva l’aria d’essere asciutto.
Più s’avvicinava, però, più la sensazione che qualcosa non andasse si faceva più forte. Il suo istinto, corroborato da anni di abitudine, gli gridava a gran voce di allontanarsi. In qualche modo avvertiva che, sul fondo oscuro di quel groviglio di rovi, avrebbe trovato qualcosa di malvagio e perverso. Al contempo, tuttavia, sentiva una sorta di bisogno atavico, del tutto irrazionale, di avvicinarsi, quasi che affacciarsi su quel pertugio fosse un suo dovere. Di nuovo, si scostò il ciuffo bagnato dal viso con il solito scatto nervoso, scacciando con esso tutti quei pensieri: “Bah.” Sbottò “Se anche lì dentro ci fosse qualcosa, se è viva si può uccidere, e se è morta non può far danni.”
In effetti, là dentro, qualcosa c’era. Anzi, c’era qualcuno.
Un qualcuno che, non appena Till fece per affacciarsi all’ingresso dell’anfratto, gli rivolse un avvertimento sinistro: “Ti prego, non t’avvicinare! Va’ via!”
Poiché ormai aveva intuito di non essere solo in quell’angolo di bosco, Till non si scompose più di tanto: “Chi c’è?” Si limitò a chiedere, quasi più per curiosità che altro, dato che una voce tanto sottile e rauca poteva appartenere solo ad un malato o a un ferito grave. Di fatti, l’unica risposta che ottenne fu una tosse violenta e profonda. A quel punto, Till voleva vederci chiaro. Gli bastò schioccare le dita per accendere una delle piccole torce che si portava dietro, per poi addentrarsi con circospezione sotto i rami e le radici.

L’antro che si era creato era abbastanza alto che Till avrebbe potuto starci seduto senza difficoltà, e non molto profondo. Gli bastò fare tre passi per trovarsi faccia a faccia con il latore di quel tetro avviso. Gli bastò una rapida occhiata per capire che, qualunque cosa avesse, non poteva essere contagioso: lo sconosciuto, un uomo alto quasi quanto lui e magro come un chiodo, se ne stava rannicchiato a terra, avvolto in un vetusto mantello grigio, senza nessuno dei marchi che contraddistinguevano i portatori di qualsiasi morbo. Se anche si fosse ammalato di recente, la sua pelle era pallida e sudata, ma priva di pustole, piaghe, e di qualsiasi altro sintomo a lui noto. Non era, quindi, per timore di contagiarlo che aveva cercato di tenerlo alla larga.
Restava da capire se stesse fingendo per attirarlo in una trappola di qualche genere. Anche se, più lo guardava e più gli sembrava che la sua sofferenza fosse sincera, l’esperienza gli aveva insegnato a non fidarsi delle prime impressioni.
Decise di tastare il terreno: “Che ti succede?” Domandò, mentre la mano libera raggiungeva un pugnale ben nascosto dalle falde della giubba “Sei ferito, per caso?”
Lo sconosciuto fece uno sforzo evidente per alzare il capo e, incrociandone lo sguardo, Till non vi scorse neppure un’ombra di malizia. Solo un profondo, inesprimibile, dolore s’annidava sul fondo delle sue iridi verdi, lucide di febbre: “Ti prego…” sussurrò “Non avvicinarti…”
“Continui a ripeterlo.” Sbottò Till “Ma perché?”
“Lui… potrebbe farti del male.”
“Chi sarebbe questo ‘lui’?”
Il giovane fece per rispondere ma, appena schiuse le labbra, fu colpito da un attacco di tosse tanto violento da farlo piegare in due. Nonostante la tosse, Till lo vide cercare di parlare, ma questa volta dalle sue labbra pallide fuoriuscì un fiotto di sangue ed egli crollò a terra, in preda di forti spasmi.
A quel punto, il guerriero aveva visto abbastanza: “Va bene.” Disse, mentre si scostava di nuovo il ciuffo dalla fronte “Qualunque cosa tu abbia è chiaro che non stai fingendo. Certo, potresti essere un incantatore di un qualche genere, ma ormai ne ho viste d’ogni sorta e, ormai, me ne sarei accorto.”
Incastrò la torcia nel terreno e prese la borraccia che gli pendeva al fianco. Strisciando sulle ginocchia, raggiunse il giovane e gli sollevò il capo da terra. Non c’era da stupirsi che stesse tremando: quel poveraccio bruciava di febbre.
“Bevi.” Lo spronò, accostandogli il recipiente alle labbra “Ne hai bisogno.”
Quello, però, cercò di scostare il viso, ma ormai era troppo debole anche solo per un gesto così piccolo. “Se è per quel ‘lui’ di cui dicevi prima,” insistette Till “non devi preoccuparti: non ho mai incontrato nulla che non potessi uccidere.”

Stremato dal dolore, Jonah aveva un bisogno quasi disperato di qualsiasi genere d’assistenza quell’uomo così cupo e massiccio fosse disposto ad offrirgli. Se l’esperienza gli aveva insegnato a tenere a distanza chiunque per evitare di mettere a rischio le loro vite, gli bastò incrociare lo sguardo di quegli occhi di ghiaccio per avere l’assoluta certezza che dicesse la verità. Chiunque fosse, aveva visto cose che lui, forse, non avrebbe potuto mai immaginarsi. In cuor suo, sentì di potersi fidare e cedette alle sue brusche premure. Schiuse le labbra e prese, obbediente, un sorso dalla sua borraccia.
L’acqua era fresca e pura, quasi un balsamo sulle sue labbra, riarse dalla febbre, sembrò cancellare del tutto il sapore ferrigno del sangue. Riuscì a berne un altro paio di sorsi prima di fare un cenno col capo, per indicare che ne aveva abbastanza.
Anche quel misero sforzo aveva prosciugato le sue già deboli forze. Alzando gli occhi verso il suo inaspettato soccorritore, vide solo una macchia nera, a cui riuscì a rivolgere un flebile: “Grazie.” Prima di perdere di nuovo i sensi.
 


Un fuocherello vivace crepitava alle spalle di Till, diffondendo un calore piacevole nell’alcova, mentre il possente guerriero aggiustava il mantello del suo sconosciuto compagno più stretto attorno al suo corpo sottile. Il giovane era molto pallido, pur vicino al fuoco, ancora tremava e sussultava per degli spasmi occasionali. Gli aveva poggiato la testa sul suo zaino, per farlo stare un poco più comodo, ma sembrava ancora molto sofferente. Era bastato sfiorargli la fronte con il palmo per capire che aveva la febbre alta, anche se non al punto da metterlo in immediato pericolo di vita, gli aveva trovato un punto molto più caldo tra il collo e la spalla, ma non c’era traccia di medicazioni o altro che potesse indicare una ferita infetta. Dal bagaglio del giovane aveva recuperato una pezzuola, che espose alla pioggia per bagnarla prima di stenderla sulla sua fronte arroventata, per dargli un po’ di sollievo. A parte un lieve gemito, però, non ottenne altra reazione. Qualunque fosse la causa, era sprofondato in uno stato di profonda incoscienza.
Se non altro, il suo respiro era regolare e stabile, e ormai gli sembrava improbabile che potesse peggiorare, quindi decise di lasciarlo riposare. Chiunque fosse quel, ‘lui’ di cui il giovane continuava a parlare, sempre che non fosse un fantasma generato dal suo delirio, avrebbe trovato pane per i suoi denti se avesse deciso di farsi vivo.

Passarono alcune ore di tranquillità.
I rami intrecciati isolavano bene dalla pioggia, e il fuoco, ancora ben vivo seppur più basso, manteneva l’ambiente gradevole. Till si era assopito da un po’, ormai, quando un non ben definito senso d’allarme lo richiamò alla coscienza.
Nella penombra dell’alcova, la figura inerte del giovane era sovrastata da un’aura minacciosa.
Una figura indistinta, più una perturbazione dell’ambiente che un’entità corporea, che sembrava svilupparsi proprio da quel corpo incosciente, ora del tutto inerte, come abbandonato.
Allarmato, Till fece per alzarsi, almeno per controllare che stesse ancora respirando, ma qualcosa lo respinse. Gli parve che l’entità sembrasse sforzarsi d’acquisire una forma più precisa, ne percepiva la tensione, la rabbia addirittura, ma restava evanescente, come l’aria deformata dal calore di una fiamma.
Ad un certo punto, gli sembrò d’intravedere degli occhi che lo scrutavano minacciosi e scattò in avanti, cercando di trafiggere la figura con la spada, ma anche quell’impressione labile che ne aveva avuto scomparve con un ringhio, quello sì, molto concreto, ma senza lasciare alcuna traccia.

Il giovane giaceva ancora immobile, come se non si fosse reso conto di nulla, del tutto inconsapevole dell’accaduto. Chinandosi su di lui, Till s’accorse che le sue membra erano più rilassate, non più scosse dagli spasmi violenti che lo avevano tormentato fino a quel momento, e la temperatura s’era abbassata un poco. Sembrava dormire tranquillo.
Qualunque cosa fosse quell’essere, sempre che fosse reale, gli parve evidente che agiva al di fuori dalla sua volontà, come se ne avesse una propria, indipendente. Poteva essere il ‘lui’ da cui lo sconosciuto aveva cercato di tenerlo lontano?
Gliel’avrebbe chiesto il mattino dopo, magari, una volta che si fosse svegliato. In quel momento, però, pensò che fosse meglio lasciarlo riposare. Forse era la prima vera notte di sonno che passava da chissà quanto.
Ad ogni modo, qualunque cosa fosse successa, non lo riguardava, e avrebbe potuto tranquillamente ignorarlo, ma qualcosa di quell’esperienza lo aveva scosso e sentiva il bisogno di saperne di più, se non altro per potersi, all’occorrenza, difendere dato che le armi convenzionali sembravano inutili in quel frangente.
Decise, comunque, di demandare il tutto alla mattina dopo.
Con uno scatto deciso della mano, ravvivò la fiamma, perché potesse continuare a bruciare per il resto della notte, e ritornò nel suo cantuccio, dove riprese sonno anche prima del previsto.
 
  
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