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Autore: drisinil    10/10/2023    1 recensioni
Questa è una raccolta di pezzi brevi e brevissimi per il writober, come palestra di scrittura. L'ambientazione è originale, come i personaggi.
Sullo sfondo c'è una relazione MM platonica fra adolescenti.
--> Tutte le storie di questa raccolta partecipano al Writober 2023 di Fanwriter.it
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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8 ottobre - NERO (come l’ala del corvo)


I corvi non temono la neve. 

Ci camminano in mezzo, con piccoli balzi spavaldi, ci immergono il becco,  

si bagnano, scivolano, rotolano, saltano frullando le ali, sembra che si divertano. 

Il giorno in cui ha visto i corvi giocare nella neve, 

stava aspettando di chiudere gli occhi e farsi abbracciare dal freddo. 

Sarebbe successo, perché le rondini non sono fatte per la neve: sfrecciano in stormi nei cieli estivi, precipitano a volo radente sull’acqua, 

sono instancabili e insaziabili, ma il gelo le sfianca. La solitudine le uccide.

Il corvo no. Scaltro, forte, vorace, opportunista, 

il corvo sopravvive giocando con il dolore di vivere. 

Allora ha deciso che voleva essere corvo.

Quindi gli occhi li ha aperti, e nella neve, quel giorno, ha giocato anche lui.



 

Vederlo aggirarsi fra le proprie cose gli produceva una sensazione ambigua, di soddisfazione e al contempo di disagio, come se fosse tutto troppo fragile rispetto alla sua presenza, troppo stretto per contenere le linee del suo corpo, lunghissime a dispetto della statura, per una sorta di illusione che viveva solo nel movimento. 

Da fermo era solo un ragazzino basso e troppo magro, stranamente ingombrante in una casa enorme.

Gli sguardi taglienti avevano lasciato il posto a una sommessa curiosità, come se stesse visitando un museo di qualche antica civiltà, e si domandasse quale funzione svolgessero gli oggetti esposti nella teca. La teca era la casa intera, gli oggetti loro che la abitavano.


A sua madre, che li aveva accolti, aveva offerto un inchino profondo e occhi più attenti e indagatori del solito. Nessun sorriso, nessuna ingenuità, nessuna goffaggine da adolescente. Si era presentato in uniforme scolastica, però, anziché non con la solita tuta e in questa sottigliezza lui ci aveva letto uno sforzo silenzioso e un chiaro atto di rispetto.

Gli stava facendo strada, quando sentì interrompersi il suo passo e, voltandosi, lo vide fermo di fronte a una pergamena attaccata alla parete.

«Cos’è?»

«Ti piace?»

Non lo irritava mai che si rispondesse a una domanda con un’altra domanda. Forse non era abituato a ricevere risposte, perché lui non ne dava. Forse, semplicemente, amava  le domande.

«Sì.»

«Perché?»

«Tipo che… è bello?»

«Ricordami com’è che ti hanno stracciato a quella gara di dibattito?»

 

Come risposta, alzò il dito medio, ma gli riuscì meno bene del solito il gioco di prestigio di nascondere un mezzo sorriso. Restò intrappolato nelle rughe di espressione intorno agli occhi assottigliati e le labbra lo catturarono per un attimo.

 

Ormai quando lo vedeva sorridere, iniziava a sembrargli un trionfo personale.

 

«È bello. È bello come il nero spicca sul bianco, con quella forma tutta strana…» la imitò con la mano, muovendo il braccio come se fosse un pennello. Per un attimo, il giallo dei faretti si sciolse, il ballatoio perse consistenza, la polvere si fermò sospesa in aria e il disegno apparve dal nulla, liquido di luce.

Quando abbassò il braccio, non era rimasto nulla, se non il ritardo impercettibile con cui la mano seguiva l’andamento del polso, con una grazia assoluta e assolutamente inconsapevole.

 

Deglutì per essere sicuro di aver chiuso la bocca, da quando lo conosceva aveva imparato a controllare di non lasciarla spalancata. Parlò soltanto per mascherare lo smarrimento: «Quindi è puramente una questione cromatica?»

 

Lui si strinse nelle spalle, spazientito. «Ohi, ma che ne so! Sei tu il secchione figlio di papà. È un bel nero. Punto. Nero intenso come…»

Storse la bocca, batté le palpebre e si voltò a guardarlo con la faccia malfida che faceva quando gli veniva il sospetto di essere preso in giro.

 

«Eddai, che cavolo, finisci una frase, ogni tanto! Mi viene il nervoso a sentirti parlare a rate.»

 

Gonfiò le guance e sbuffò via l’aria lentamente. «Nero intenso come l’ala del corvo» disse. «Sulla neve bianca. I corvi sulla neve, non so se li hai mai visti, quando ci giocano sono… un po’ così» e indicò la pergamena con un cenno del capo. Poi subito stornò lo sguardo, affondando le mani nelle tasche e fissandosi i piedi, come se avesse appena fatto chissà quale dichiarazione imbarazzante.

 

Avrebbe voluto saperne di più, perché sotto quel discorso, sotto tutti i suoi discorsi, anche quelli che sembravano banali, c’erano sempre strati e strati di significati inaccessibili. Si rese conto, però, di non avere le forze per sostenere un terzo grado, per scavare, per discutere, per sopportare altri silenzi; ne aveva a malapena per ridere di lui e così fece.

 

Lui si irritò, si morse le labbra, gli affibbiò un finto spintone che lo fece solo ridere più forte. «Allora, me lo dici che cazzo è?»

«E’ una pergamena.»

«Ma va? E io che pensavo fosse carta igienica usata appiccicata al tuo muro… »

«Idiota. Si chiama shodou

«Cosa? La pergamena? Il tizio che l’ha dipinta?»

«La forma d’arte. Shodou è l’arte giapponese della calligrafia, come il seoye*, ma con i kanji giapponesi. Quella l’ha dipinta una mia parente.»

«Hai parenti giapponesi?»

«La sorella del mio bisnonno era sposata con un giapponese, vivevano a Osaka mi pare. Ma è roba di un secolo fa, durante l’occupazione, sai, quando ci furono un sacco di matrimoni misti… »

 

La storia non era il suo forte, tuttavia ci pensò su. Quando pensava, gli occhi diventavano ancora più piccoli e impenetrabili, una barriera per proteggere i pensieri, come se avessero potuto sfuggirgli e lasciarlo indifeso. Sembrava un impulsivo, ma non lo era per niente. «A lei piaceva?»

«A chi? Alla mia pro-pro-zia? Intendi il marito o il Giappone?»

«Boh, tutti e due.»

«Non lo so. È morta un sacco di tempo fa.»

«Non penso che esista qualcuno a cui piaccia essere cacciato via da casa sua. Stare dove nessuno ti vuole ti fa marcire l’anima.» 

Era così con lui: discorsi casuali diventavano importanti all’improvviso, senza un motivo logico apparente. La tensione si alzava e qualcosa di lui diventava avvicinabile proprio in quei momenti; sfruttarli sembrava in qualche modo immorale.

«Erano altri tempi. E comunque non t’immaginare una specie di drama, non credo proprio che l’abbiano cacciata. La Corea era ridotta male, lei ha avuto un’opportunità: è andata a stare in una bella casa, si è fatta una famiglia. Per me era contenta.»

Si voltò a fissarlo. «E tu come lo sai? Non è morta un sacco di tempo fa?»

 

Si sentiva sull’orlo di un burrone, un passo falso e sarebbero precipitati entrambi. Scelse di nascondersi dietro un sorrisetto arrogante. «Allora? Quel Kanji: sai cosa significa?»

«Fanculo chi legge?»

«Devi per forza essere volgare?»

«Devi per forza farmi domande idiote? Ti pare che conosca il giapponese? Se me lo vuoi dire, me lo dici, altrimenti non rompere.»

«A cosa ti fa pensare? Ai corvi nella neve?»

Scosse il capo e inclinò la testa da una parte, con un broncio riflessivo un po’ infantile. Guardava la tela come se dovesse entrarci dentro. Per un attimo, sembrò che dovesse farlo.

Poi lanciò via la borsa di scuola, e quel gesto rallentò il tempo abbastanza per cogliere ciò che seguì: le sue braccia che si aprivano e il suo corpo che si lanciava in una pirouette con la gamba flessa, a velocità folle e irragionevole. La terminò in alto, con un impossibile salto verticale, una sequenza che non aveva un nome perché non esisteva e non aveva alcun senso estetico. Per un attimo sembrò che il soffitto di quattro metri non fosse alto abbastanza, che l’avrebbe bucato e sarebbe volato via. Invece atterrò, con un tonfo sgraziato.

 

«Che cavolo era quella roba?»

Invece di rispondere indicò la pergamena con l’indice teso.

Ora non aveva più voglia di dirglielo, il significato quel kanji, ma lo fece lo stesso: «Significa danza

Lo vide sgranare gli occhi, e poi sorridere, senza cercare di dissimulare. Un vero sorriso, che gli sgusciò sulle labbra partendo da chissà dove. Forse il primo sorriso spontaneo da quando lo conosceva. 

Si spense in fretta, come un fuoco fatuo, ma non aveva molta importanza, sapeva benissimo che l'avrebbe ricordato per sempre.




***
*seoye è l'arte della calligrafia coreana, anticamente con caratteri cinesi hanjia, più di recente con l'alfabeto coreano hangul.
 
   
 
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