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Autore: Carme93    12/10/2023    0 recensioni
Accademia di Magia Beauxbatons.
Possedere poteri magici non rende l'adolescenza un'età meno turbolenta e complessa.
Anche per i maghi è difficile crescere e costruire la propria identità e Didier Moreau lo sa bene.
[Questa partecipa al Writober di Fanwriter.it]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
- Questa storia fa parte della serie 'Notizie da Beauxbatons '
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Confessioni di un pagliaccio triste
 

Didier Moreau, di anni sedici, ha sempre avuto ben poche certezze nella vita, ma in questo momento sa per certo di essere nei guai. In enormi guai, per la precisione.
Mordicchiandosi il labbro e spremendo il cervello per trovare una possibile spiegazione a quello che era accaduto, seguì Daniel Mercier, il temuto professor di Difesa contro le Arti Oscure, lungo il corridoio. In realtà, se fosse dipeso da lui, sarebbe stato molto distante da lì o, quanto meno, nella sua camera in dormitorio.
La loro marcia – perché sì, Didier non avrebbe trovato un sostantivo migliore per definirla, d’altronde il professore era un ex Auror – si fermò davanti a una porta.
«Siediti» ordinò Mercier.
Il ragazzo fissò per un attimo il divanetto ricoperto di morbida seta azzurra – sì, proprio morbida, lo sapeva per esperienza – e sospirò.
«Non ti muovere da qui» aggiunse il professore. «La professoressa Girard sarà qui a momenti».
Didier si accasciò contro la spalliera e lo osservò mentre si allontanava. E chi si muoveva? Non era mica scemo! Era già abbastanza nei guai, senza filarsela. Camélie Girard era la sua insegnante di Incantesimi da cinque anni, nonché vicepreside della Scuola.
E poi, la verità era che di fare il cretino non gli interessava proprio, né in quel momento né il generale. E senza il suo pubblico, poteva benissimo togliersi la parrucca e la maschera da clown.
«Moreau».
Didier aveva riconosciuto i suoi passi, mentre si avvicinava, ma continuò a fissare ostinatamente il pavimento di marmo chiaro con venatura bluastre.
«Entra».
La sua voce non era più severa del solito, ma ciò non bastava a tranquillizzarlo sul fatto che se la sarebbe cavata facilmente. Si sollevò, ma mantenne lo sguardo basso entrando nell’ufficio di medie dimensioni.
In quei frangenti pensava che la maschera di Pierrot gli sarebbe calzata più di quella del clown.
La Girard gli indicò una delle due sedie imbottite di fronte alla scrivania di legno massiccio. Didier obbedì ancora una volta nel silenzio assoluto.
«Allora?».
Allora che? Avrebbe voluto risponderle, ma naturalmente se ne guardò bene. Che cosa avrebbe dovuto ribattere? Ormai finiva in quell’ufficio in media una volta a settimana. Non potevano direttamente arrivare al sodo? Tanto le era stato sicuramente riferito il motivo per cui era lì.
«Didier, che è successo stavolta?».
Ma perché non poteva punirlo e basta? Il dialogo era una tortura inutile. Stavano perdendo tempo entrambi. Ognuno sceglie quali maschere indossare quando esce dalla propria stanza al mattino. La Girard quella della vicepreside severa e inflessibile; lui quella del pagliaccio. A ognuno la propria. Questa storia delle maschere gliel’avevano raccontata due suoi compagni, quegli strambi di Theo Morel ed Emile Pauwels, e non riusciva proprio a dimenticarla. Di certo non poteva mettersi a spiegarla alla Girard. Non avrebbe saputo farlo e lei avrebbe pensato che la stesse prendendo in giro.
«Didier, raccontami quello è successo durante la lezione di Difesa contro le Arti Oscure» gli chiese esplicitamente.
Era stata solo sfortuna. Peccato che la scusa non sarebbe valsa a nulla con la Girard.
 
 
 
Circa un’ora prima
 
Didier sbuffò annoiato dalla prospettiva di dover sopportare un’ora di Difesa contro le Arti Oscure. Lasciò cadere la borsa ai suoi piedi e si accasciò sulla superficie lignea del banco. La classe era un po’ differente da quelle tradizionali, in quanto una via di mezzo tra una sala duello e un’aula gradinata. Si era seduto nell’ultima fila a destra e aveva a malapena posto attenzione ai compagni che lo attorniavano. Erano solo una manciata di mesi che condividevano le lezioni insieme, ma si era fatto un’idea quanto meno vaga di ognuno di loro.
«Moreau, mi annoio con Mercier» gli sussurrò un compagno a pochi posti di distanza.
Didier non si voltò verso di lui, ma s’irrigidì: quando Jorge Blanco si annoiava, voleva un giullare a divertirlo. E quel giullare era lui. Sinceramente, però, non gli andava molto d’indossare la sua consueta maschera con Mercier, la cui fama come Auror lo precedeva.
«Avanti, non farti pregare».
Farti pregare. Decisamente aveva un concetto tutto suo di preghiera.
«Oh, hai sentito?» borbottò Jaime Diaz, mentre il professore entrava in aula.
«Sì» soffiò seccato. Lanciò un’occhiata a Mercier che prendeva posto tra due pedane di fronte alla platea di banchi.
Blanco era quello che poteva essere considerato il bullo della Scuola. Da cinque anni ormai c’erano ben poche persone che non lo conoscevano e, soprattutto, che non lo temevano. Quell’anno i professori avevano deciso di dividere il suo gruppetto almeno durante le lezioni, ma non era servito granché; anzi, come ormai si vociferava nei corridoi, era stata una pessima scelta: Blanco si era limitato a trovarsi nuovi tirapiedi per disturbare durante le lezioni e vedersi con i suoi vecchi amici al di fuori di esse.
Sospirò, incurante della spiegazione di Mercier, e indossò la sua maschera: la parrucca, il cerone bianco con un pizzico di rosso sulle guance e l’immancabile naso rosso. Si entrava in scena.
Saltò sul sedile di legno e da lì sul banco. Tutti i ragazzi seduti nella sua stessa fila lo fissarono chi a occhi sgranati chi divertiti, tra questi Blanco.
«Che fai?» sibilò Santiago Correia, uno dei pochi che si salvava lì dentro e che quell’anno stava soffrendo particolarmente perché avevano messo il suo migliore amico in un’altra classe.
Non gli rispose. I primi risolini soffocati cominciavano a sollevarsi. Colse i pollici sollevati verso l’alto di Blanco.
Allungò la gamba abbastanza da raggiungere il banco di fronte. Le compagne sobbalzarono, ma per fortuna non strillarono. Le risate divennero sempre più forti. Mercier, però, stava facendo uno strano schema alla lavagna e non poteva ancora vederlo.
«Fate silenzio!» sibilò Mercier, mentre le risate alle sue spalle divenivano sempre più rumorose. Si voltò appena in tempo per vedere Didier raggiungere la seconda fila. «MOREAU!» urlò.
Roman Nuňez gridò a propria volta: «Vai, Moreau, sei forte!».
Qualcuno fischiò.
«Scendi».
Didier lanciò una fugace occhiata a Marie Kauffman, probabilmente una delle poche persone con la testa sulle spalle lì dentro. Ognuno faceva le proprie scelte: lui solo non ci voleva stare.
Era ora di concludere lo spettacolo. Ignorando i richiami del professore, saltò sul banco in prima fila ma qui mise il piede su qualcosa che lo fece scivolare – successivamente avrebbe scoperto che era stato uno stupido lucidalabbra a fregarlo… probabilmente era per questo che alle ragazze era vietato truccarsi: troppo pericoloso ˗ in avanti proprio addosso al professor Mercier, che attutì la sua caduta.
«Levati di dosso!» sbottò l’uomo spingendolo sul pavimento marmoreo.
Ormai la classe era piegata in due dalle risate e qualcuno lo applaudì anche.
 
 
Circa un’ora dopo
 
 
Concluse il suo racconto e sollevò lo sguardo sulla Girard.
«Quindi ti annoiavi e hai fatto una cosa così stupida e pericolosa?».
Naturalmente, non aveva coinvolto Blanco, ma la sostanza non cambiava. «Non era pericoloso» trovò il coraggio di contraddirla. «È stata solo sfortuna».
L’espressione che si dipinse sul volto della donna gli lasciò intendere che quella non sarebbe stata un attenuante e nemmeno che Paula García aveva un lucidalabbra in classe.
   
 
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