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Autore: ntnmeraviglia    21/10/2023    1 recensioni
Un racconto di ferite, di dolore. Di sesso, di sporco, di marcio. Di Dio, di servi di Dio; di umani che giocano a fare Dio.
Quattro storie diverse, intrecciate tra loro in un unico, ripugnante destino.
Se vi va di sporcarvi le mani di sangue, siete nel posto giusto.
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AVVERTENZE: In questa fanfiction troverete poche ship canoniche - e poche ship concrete in generale -. Al contrario, sono presenti diversi OC (original characters); sei, per l'esattezza, che presenzieranno per tutta la durata della storia e si interfacceranno con quasi tutti i personaggi dell'opera originale. Se siete affezionati ad Hellsing e, in generale, al filo conduttore della storia esattamente nell'ordine e nel modo in cui si svolge nel canon, forse questa lettura non fa per voi; e allo stesso modo se non siete fan degli OC.
Per il resto, siete i benvenuti, e mi auguro che le mie piccole ideuzze vi intrattengano tanto quanto hanno fatto con me!
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Alucard, Integra Farburke Wingates Hellsing, Maggiore, Nuovo Personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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« Ti avverto, Pip. Se bari di nuovo… cazzo, stavolta giuro su Dio che ti faccio un buco in mezzo agli occhi. »

« Mai barato, fratello. Non è colpa mia se sei una sega. »

Mai fidarsi di un mercenario che ti guarda negli occhi assicurandoti di non nascondere alcuna carta dentro la manica. E Isaac, che da ben sette anni aveva a che fare quotidianamente con un branco di soldati prezzolati, lo sapeva bene.
I Bernadotte l’avevano accolto in casa loro quando aveva dieci anni; quel giorno ne compiva diciassette. Di acqua sotto i ponti ne era passata molta, e ora persino un trovatello dalle mani sporche di sangue poteva ritenersi parte di una famiglia. Anzi, forse l’omicidio che ancora portava sulle spalle non era che una marcia in più: una vocazione, per così dire.
O almeno, così la definì quell’uomo anziano anni addietro: un uomo che Isaac, ai tempi, non riusciva a comprendere; né lui, e né tanto meno i suoi strambi discorsi sulla glorificazione della morte. Ne carpì l’immensa saggezza solo al momento in cui la falce, che lui stesso aveva servito per tutta la vita, si dimostrò pronta a ghermire anche lui, cibandosi del suo spirito e riducendo il suo corpo ad un logoro contenitore di mangime per i vermi.

« Non ti sforzare, nonno. » Isaac lo chiamava nonno, relegandogli un titolo familiare che di fatto non aveva. Il sangue che pulsava nelle loro vene non era il medesimo, e mai lo sarebbe stato. « Così peggiorerai le cose. »

« E chi se ne frega. » il più longevo dei superstiti Bernadotte parlava a fatica. Tossiva e grugniva in continuazione: sputava grumi di muco e saliva sporca cercando invano di ripulirsi i polmoni, ciancicava come se da un momento all’altro dovesse ingoiarsi la lingua. Tuttavia, riusciva comunque a sprigionare dignitosa sapienza persino in giaciglio eterno. « Se ho chiamato te e non Pip, è perché ti devo parlare. Quindi sta’ un po’ zitto e ascoltami. Isaac, quando sei arrivato qui… cazzo, ho pensato subito che fossi un mollaccione. Solo uno smidollato poteva essere così tanto divorato dai sensi colpa da ammalarsene. Sono ancora convinto… » qui ci fu un altro gracchio di tosse, e per poco non ci si soffocava. « … Che, ai tempi, quella brutta febbre fu consapevole. Ti stavi autoinfliggendo una punizione per aver ucciso, e questo mi disgustava. Mi ricordavi mio figlio da piccolo… e anche Pip, da piccolo. Entrambi hanno avuto delle remore, si erano fatti prendere dalla paura per molto, moltissimo tempo. Un terzo rammollito non avrei saputo accettarlo. Ma poi… mi hai stupito, ragazzo. La riconoscenza nei nostri confronti per averti accolto ti ha spinto a voler diventare come noi… come me. Hai una mira notevole, e non hai mai smesso di voler imparare. Ti sei allenato duramente anche quando le condizioni ti erano avverse, e ora sei diventato a tutti gli effetti un degno erede dei Bernadotte. Mi hai reso orgoglioso. »

« Grazie, nonno. Per me è un—… »

« Placati con le smancerie. Non ho finito. » Isaac non se la legò al dito. Innanzitutto, perché si trovava al cospetto di una persona praticamente più morta che viva, e certamente non sarebbe stato opportuno andargli a contestare l’educazione. E poi, la scortesia era pressoché un’usanza di famiglia: suo nonno non s’era mai espresso in smielate dimostrazioni d’affetto, né in svenevoli moine da due soldi. E andava bene così. Come già detto, anche in punto di morte aveva dato prova di orgoglio ed amor proprio, mantenendo il cuore di ghiaccio di cui aveva sempre fruito in oltre settantacinque anni di vita. « Io sto morendo, giovane. Sto morendo, e non posso farci niente. Da un momento all’altro potreste rimanere soli, e io voglio andarmene sapendo che Wild Geese è al sicuro… che voi due siete al sicuro. Dovrai controllare Pip, dovrai essere tu il capo. Lui è bravo, ma… è meno freddo. Gli capita di farsi condizionare dalle sue emozioni: è troppo sensibile, e questo lo porterà a mala strada. Inoltre, basta che veda un pelo di passera e non capisce più niente. No, non è adatto a comandare… devi farlo tu. Hai capito? Dimmi che lo farai. »

« … Lo farò, nonno. Te lo prometto. »

Mentì. Mentì affinché suo nonno potesse morire in pace, senza il rimpianto di aver lasciato dietro di sé qualcosa di non detto; ma la sua volontà non venne esattamente rispettata. Di fatto, a seguito della tragedia, Wild Geese acquisì una doppia leadership… la qual cosa funzionò distintamente, ed avrebbe continuato a farlo ancora per molto. Pip ed Isaac erano fratellastri, ma era incredibile quanto simile fosse il loro modo di pensare, quanto conformi le loro idee seppur non fossero fatti della stessa carne.
Perché scapicollarsi per il timone, quando entrambi potevano condurre la nave senza cercare di sovrastarsi l’un l’altro?
Eppure, un timore primordiale albergava perpetuamente i meandri della mente del giovane figlio di nessuno. Perché egli, in cuor suo, sapeva bene che nessuna squadra ha senso senza un unico comandante a cui la ciurma può abbandonarsi: i problemi, prima o poi, sarebbero arrivati anche per loro.

« Qual è la posta oggi? »

« Hm… »

Un ventunenne ed un diciassettenne seduti allo stesso tavolo in terrazza, col vento che gli spazzolava i capelli, impegnati in un’amichevole – per così dire – partitella a poker. Entrambi avevano acquisito dalle nuove strampalate mode la smania dei capelli lunghi, e guai ad avvicinarci un paio di forbici. Ma portarli sciolti e fluenti rappresentava una gran noia, oltre che un problema per il loro lavoro: si sparpagliavano sul viso, e a causa della scarsa visuale rischiavano di rimanerci secchi. E così, li portavano legati: Isaac, con la sua chioma nera come la notte, si limitava ad un codino pasticciato senza troppe pretese. Pip, invece, che aveva sempre voglia di avere gli occhi delle belle donne su di sé, teneva quella massa ramata domata da una lunga treccia, che sicuramente non passava inosservata. Quantomeno inusuale, specie per un uomo.

« Trovato. Se vinco io, mi dirai finalmente cos’è che ti ha detto il nonno il giorno della sua morte. »

Grave. Isaac, che fino a poco prima si guardava distrattamente le carte, ora andava irrigidendosi, ed i suoi occhi fulvi scattarono alla figura ostentatamente indifferente del suo fratellastro.
Un tacere bilaterale per una manciata significativa di secondi. Il sibilo del tabacco bruciante delle loro sigarette strette tra i denti come unico suono percepibile.

« E se vinco io? »

« Non lo so, dimmelo tu. »

« Bo’. Pagami un paio di puttane. »

« D’accordo, andata. »

Philippe non era mai riuscito a strappare dalla bocca di suo fratello le segretissime oralità del testamento di suo nonno. Un po’ assurdo, dato che era lui il Bernadotte di sangue: non era mai riuscito a mandare giù il boccone amaro, e, di tanto in tanto, sentiva la pungente necessità di tirare in ballo la faccenda.
Fosse stato per Isaac, gli avrebbe confidato tutto nell’attimo stesso che aveva messo piede fuori dalla stanza del vecchio malconcio. Ma non sarebbe stato peggio? A dirla tutta, stava solo cercando di proteggerlo da quello che, sicuramente, sarebbe stato solo un inutile ed insopportabile dolore.

« Hah! Beccati questa, stronzetto! » dopo quasi due ore di giocata taciturna, occhiate furfanti e tentativi non sempre fruttuosi di chiudere la mano, Pip si sentì baciato dalla fortuna. Piazzò sul tavolo un bel tris di Q, affiancato da una coppia di 2. « Scusami tanto, fratellino, ma questo è un full! Coraggio, ora mantieni la tua promessa. Sputa il rospo! »

« … Scusami tu, Pip. Scala reale massima. »

« Che cosa?! Non posso crederci! Sei uno stronzo, hai imbrogliato! »

« Mai barato, fratello. Non è colpa mia se sei una sega. » Isaac scimmiottò le stesse parole del fratellone, sghignazzandosela compiaciuto, senza un accenno di modestia; anzi, semmai, con un pizzico di sana e spietata crudeltà, nel tipico meccanismo di giocosa supremazia tra consanguinei. Peccato che non lo fossero davvero. « Tieniti pronto ad offrirmi quelle puttane, mi raccomando. »

Pip era fortunato, perché non avrebbe sborsato un centesimo per assumere i servigi di nessuna prostituta. Il giovane orfanello era solito piazzare scommesse assurde ed alquanto disdicevoli, senza tuttavia riscattarne effettivamente i golosi premi.
Piuttosto, si limitò semplicemente a sgranchirsi un po’ le gambe, allontanandosi dal tavolo da gioco; gettò ciò che ne rimaneva del mozzicone ardente, lo pestò col tacco del proprio stivale di cuoio strappato. Si chiuse in bagno, ed il cigolio fischiante della manovella del lavabo rimbalzò tra le mura. Raccolse dell’acqua con le mani, e la utilizzò per sciacquare faccia e capelli.

« C’è mancato poco… » borbottò, prima d’esalare un sospiro di sollievo. Quando poi si sfilò dalla manica l’asso di cuori che aveva scrupolosamente nascosto a Pip, constatò inorgoglito di averla fatta franca ancora una volta.
Quel segreto sarebbe rimasto con lui fin dentro la tomba, poteva giurarci.

 

Isaac, nove anni al reclutamento.

 

–––––

 

I giorni di prigionia furono inferno sulla terra. Un costante ed infinito susseguirsi di secondi nulli, che divennero minuti, che divennero ore, finché non si trasformarono in giorni.
Cinque, per l’esattezza. Izaya trascorse cinque giorni e quattro notti in un claustrofobico cubo cinto di mura incrostate di muffa, con le sbarre mangiucchiate dalla ruggine.
Gli avevano dato un cesso, non si erano proprio risparmiati con la scortesia. E questo perché quel particolare detenuto non era visto come un vero e proprio essere umano, ma come uno scarto. Un reietto senza un soldo, senza una famiglia; uno spirito solo, vagante alla ricerca di chissà cosa. Infruttuoso per la società e troppo poco ricco perché qualcuno se ne curasse: Izaya, ben presto, cadde nel baratro della disperazione, conscio del laido destino a cui era condannato. Se un membro così rispettato dell’alto clero italiano – ancor più del Vaticano – si era preso la briga di farlo incarcerare personalmente, allora poteva soltanto significare che la sua colpevolezza era tanto grave ed irreparabile da dover scomodare persino i nobili servi di Dio in persona. Non una sola anima al mondo si sarebbe adoperata con altrettanta intensità per tirarlo fuori.
Era così ovvio. Si sarebbero dimenticati di lui, e l’avrebbero lasciato marcire in quella fetida cella, diventando un tutt’uno con il mucido e con il sudicio ossidato.
Nessuno si sarebbe preoccupato di salvarlo.

« Ragazzo? » una voce cosparsa di batuffoli di ovatta, quasi incomprensibile. Izaya la credette frutto di uno dei suoi soliti vaneggiamenti divini, e scelse di ignorarla. « Ragazzo, mi senti? Sei vivo? »

Quell’insistenza non era abituale nei vaneggiamenti, no. Di solito andavano via alla svelta come erano arrivati; ora, invece, piuttosto che sparire, il richiamo divenne sempre più distinto e cristallino, come se lì con lui ci fosse concretamente qualcuno e la sua mente non gli stesse giocando alcuno scherzo. Cosa che, conoscendosi, era alquanto difficile da credere.
Ma la curiosità era irrefrenabile, e lo costrinse ad aprire gli occhi nonostante lo scetticismo.
Fu una scelta saggia. Le fosche iridi del giovane ripresero vita, risplendendo come le ali di una lucciola: si trovava davanti ad un vero e proprio miracolo, un’apparizione celeste.
Ancora una volta, Dio non l’aveva abbandonato.

« Padre Anderson! »

« Sei uno straccio, ragazzo. Che ti danno da mangiare? »

« Non molto, a dirla tutta. Oggi hanno dimenticato il pranzo. »

« Cielo… sono desolato. Questo è proprio un postaccio. » un Anderson piuttosto contrariato si sfilò dagli occhi verdi i piccoli occhiali tondi, lucidandoli con un lembo di tunica. Come si poteva biasimarlo? I modi con cui quel ragazzo veniva trattato erano fuori dalla grazia di Cristo; ergo, contro ogni possibile approvazione clericale. Ancor più inaccettabile, per cui, che fosse stato proprio un autorevole affiliato della Chiesa ad esiliarlo a quella infima posizione di miseria.

« Lei che ci fa qui, Padre? Credevo che nessuno si sarebbe ricordato di me. »

« Io non dimentico facilmente una potenziale faccia amica. Com’è che ti chiami tu? »

« Izaya. »

« Hm… e da dove vieni? Chi sono i tuoi genitori? »

« Non lo so, mai conosciuti. Vivo di strada da quando sono al mondo. »

« E questo spiega l’odore. » del resto, l’acutissimo tanfo che impregnava quel maialaio di prigione non poteva essere solo frutto di sudiciume biologico da parete. Mancava davvero poco che gli si incenerissero i peli del naso, assieme a quelli della barba bionda come il miele. « Potremmo chiamarti Izaya senza famiglia. Come Remì. »

« Remì…? »

« Remì sans famille. Non l’hai mai letto? »

« Io non so leggere, signore. »

« Avrei dovuto immaginarlo… » un silenzio imbarazzante rimbombò tra quelle quattro mura, ma Izaya non parve curarsene, né avvertirne il peso. Non è che fosse proprio una cima, né culturalmente ne socialmente parlando. « Comunque, sono venuto qui per un motivo ben preciso. Vedi, io mi trovo fortemente in disaccordo con il provvedimento che il vescovo Maxwell ha preso nei tuoi confronti. L’ho trovato immotivato, oltre che eccessivo. Inoltre, non ti ha dato modo di spiegare le tue ragioni, quindi io mi trovo qui oggi per ascoltarle. Voglio che tu mi dica perché hai aggredito quel ragazzino. »

« Oh… » ecco, ora sì che avvertiva la difficoltà, il vero brivido della paura. Ai suoi occhi, Anderson era la personificazione di Cristo, Dio fattosi uomo per eccellenza. Non voleva; anzi, non poteva commettere errori. Non con la divina provvidenza che, miracolosamente, gli offriva una seconda opportunità. Così, facendosi piccolo come ogni servo del cielo che si rispetti, cascò sulle ginocchia, congiungendo le mani in segno di preghiera. « Possa Dio avere pietà del mio corpo da peccatore! Non avevo alcuna intenzione nociva, posso giurare innanzi al sacro altare! Non volevo uccidere. Io volevo solo… punire, e ferire gravemente. »

« Punire? Perché? »

« Perché quei ragazzini insultavano il buon nome del Vaticano. Macchiavano la sacra Chiesa con disgustose carnalità finalizzate a moneta. Sono una brava persona, un buon cristiano! Proprio per questo, ho ritenuto fondamentale proteggere il nome di Cristo dal peccaminoso seme mortale. Amen! Signore, ti prego, perdona i miei mezzi scellerati… »

Il sacerdote si riscoprì folgorato da quel fiume in piena di parole. Positivamente sbalordito da una fede tanto pura ed incontaminata, specialmente per un giovanotto di così tenera età. Quanti anni aveva? Nove? Dieci, al massimo. Lui, nel suo primo decennio di vita, ancora si infilava le dita nel naso. Izaya, invece, sembrava nato con un dono, con la predisposizione vocativa adatta a renderlo un perfetto candidato per l’Iscariota.

« Il corpo dei preti armati ha proprio bisogno di uno come te. »

« Come…? »

« Okay, ora ascoltami. Devi resistere un’altra notte, solo un’altra notte. Devo smuovere un po’ di cose, parlare con qualcuno… ma ti assicuro che entro domani sarai libero. Ti verrò a prendere personalmente, e sarai reclutato come discepolo incondizionato di Dio. »

« Io non… non capisco. »

« Non serve che tu capisca ora. Mi raccomando, resisti, non morire. »

Anderson trascinava con sé una curiosa ed invalicabile aura di mistero. Terrificante per alcuni, bizzarramente attraente per altri: Izaya era tra quelli. Si sentì pervaso da una gioia embrionale che raramente il suo animo in pena aveva provato, come quella di un cucciolo da canile in strepitante attesa di essere adottato.
Quella notte non chiuse occhio, perché le immagini ed i sogni della sua nuova vita al servizio di Cristo gli affollavano la mente, schiamazzando vivaci, impedendogli anche solo di pensare ad addormentarsi.
Il giorno dopo, alle prime luci dell’alba – potevano essere al massimo le sei del mattino –, il giovane scattò in piedi come un soldato richiamato all’attenti, davanti alle sbarre, afferrandole con veemenza. Guardò oltre di esse, verso la libertà, con un sorriso tanto largo da raggiungere i lobi coi vertici.
E attese. Attese fedelmente fino alle sette. E poi alle otto, alle nove, alle dieci. A mezzogiorno, alle due, alle quattro. E più le ore passavano più il sorriso si affievoliva e la speranza lo abbandonava.
Anderson gli aveva mentito? L’aveva illuso di avere grandi piani per lui, per poi lavarsi le mani di tanto incomodo?
Quando la certezza dell’ennesimo fallimento si concretizzò, Izaya si rannicchiò contro il muro, portandosi le gambe al petto, piagnucolando. Singhiozzò così tanto che il tempo si distorse, e ne perse la cognizione. Quando smise, quando sentì quello stridio di chiavi contro la serratura, era già buio.

« Ehi, tu, piantala di frignare. Puoi uscire, sei libero. »

La guardia lo afferrò e lo scortò fuori come se non avesse alcuna voglia di essere lì; ed effettivamente era proprio così. Era sera, il turno era quasi finito, e quello stupido ragazzino non aveva alcuna importanza per lui, né ne nutriva il minimo rispetto.
Una volta fuori, Izaya si ritrovò circondato da un cielo grigio senza stelle. Privato delle manette, venne immediatamente raggiungo dal grosso colosso occhialuto, che era curiosamente accompagnato da due piccolette in abitini clericali.

« Scusa, ho fatto più tardi del previsto. Queste sono le tue nuove sorelle, Heinkel e Yumiko. Ci tenevano a conoscerti, quindi le ho portate con me. »

Ora non solo aveva un papà, ma anche delle sorelline. Delle lacrime non vi fu più nemmeno l’ombra, ed il segno bagnato del loro passaggio sparì come per magia: Izaya era al settimo cielo.

« Ciao, bimbe. Mi chiamo Izaya. » il nuovo arrivato si avvicinò alle due, tendendo loro la mano. Sperava di toccarle, di sentire la loro voce, come se dubitasse che esistessero davvero e che fossero lì per lui.
Ahimè, ciò che tuttavia ottenne in rimando fu esattamente il contrario: le due aspiranti suore evitarono ogni contatto, fisico e visivo, rintanandosi dietro Anderson e stringendogli la tunica coi piccoli pugnetti.

« A piccoli passi, Izaya. Avrete tempo per socializzare. Forza, ora seguimi. Ti porto a casa. »

Grazie, Dio”, pensò. “La tua misericordia è grande. Grazie per avermi dato finalmente una casa”.

L’Iscariota era la sua nuova famiglia.

Izaya, otto anni alla dichiarazione di guerra.

 

–––––
 

Leone non aveva mai sopportato gli inutili schiamazzi. La confusione lo irritava, l’assenza di quiete gli impediva di formulare pensieri e tenere la mente lucida; e lui, che era un soldato scelto, fedelissimo del grande capo nonché sua personale guardia del corpo, proprio non poteva permetterselo.
Ormai non era più un pallido undicenne che faticava a riprodurre le melodie di Wagner. Ora era un uomo fatto e finito: un ventenne con l’algidismo nel cuore ed il totale vuoto della sfera sentimentale negli occhi.
Difficile credere che lui fosse l’unica creatura umana in quella vampirica combriccola. Eppure, era la verità: Leone li aveva subiti come compagni, ma non nutriva alcuna stima di loro; per nessuno di loro. Non meritavano il loro posto nel Letzte Batallion, non meritavano di stare al cospetto di colui che aveva reso possibile la loro infima esistenza.
Erano esseri disonorevoli, miserabili traditori della loro umanità. Vampiri. Vampiri volontari, vampiri che avevano scelto di essere vampiri.
Uomini che diventavano mostri senza vergogna. Il fetore di quegli aborti mancati impregnava ogni stanza, e Leone ne aveva il voltastomaco.
Ma lui non era lì per loro. Loro erano… moscerini. Piccoli e fastidiosi insetti che gli svolazzavano ad un sospiro dalla punta del naso; tipici disturbatori a cui si rivolgono manate seccate durante una cena a lume di candela, mentre cerchi di concentrarti sul tuo partner.
Ecco, loro erano i guastafeste della sua costante cena a tu per tu. Ed il partner era il Maggiore.
Il Maggiore era l’unico essere vivente al mondo per cui Leone concepisse illimitato ed inviolato rispetto. Il suo magnifico intelletto l’aveva affascinato dal primo momento, quando era stato a casa sua in Brasile, a suonare Das Rheingold. E da allora, non se l’era più tolto dalla testa: l’aveva seguito ed amato fino a consumarsene. Un’adorazione perversa, platonica, idilliaca, che identificava in quell’uomo sovrappeso una sorta di aura divinatoria — pur mantenendo la sua impeccabile umanità, tuttavia.
E questo lo faceva eccitare. Il Maggiore era deliziosamente vulnerabile, fragile ed indifeso come qualsiasi essere umano. No, lui non aveva ceduto alla gustosa tentazione di conquistare l’immortalità, non si era lasciato ammaliare dalle patetiche promesse di forza sovrumana e strambe abilità ultrasensoriali. Lui era rimasto coi piedi per terra, perché la sua vera arma era una mente da fine stratega; loro due erano esseri umani, fatti di carne, sangue, organi e muscoli.
Ed ecco perché erano predestinati. Ecco perché erano anime affini. Ecco perché Leone non avrebbe potuto sottomettersi ad altri al di fuori di lui.
Lui, lui, sempre lui. Aveva sottoposto il proprio corpo a massacranti addestramenti al fine di affinare le tecniche necessarie ad essere un eccellente guardaspalle, per lui. Aveva accettato di buon grado un destino che con estrema plausibilità lo vedeva morto, per lui. Aveva ucciso, ed avrebbe continuato a farlo, per lui. Un uomo di cui non sapeva nulla: né il nome, né l’età, né tanto meno i retroscena della sua vita, ma che, paradossalmente, sentiva di conoscere in ogni minimo dettaglio, meglio di sé stesso.
E quel giorno… quel giorno, finalmente, Leone avrebbe chiuso i conti col passato. Quel giorno, avrebbe ripulito l’armadio dai propri scheletri.
Quel giorno, la sua anima diventava proprietà ufficiale del Maggiore.

« Sei emozionato, eh?~ » il Deus Ex Machina era fin troppo affollato, per essere un enorme dirigibile. Come al solito, il giovane crucco dal caschetto plumbeo – un taglio che gli incorniciava perfettamente il viso dai tratti gentili, tutto al contrario della sua indole artica: un volto così muliebre da stentare a credere che fosse quello di uomo – venne importunato, stavolta dal più giovane, almeno all’apparenza, dei suoi sgraditissimi colleghi. Il maresciallo Schrödinger gli gironzolò attorno, un passettino alla volta: le sue orecchie feline si mossero giocosamente, ed il suo volto fanciullesco si ornò di un ghigno indisponente. « Incontrerai tuo padre! »

« Non rivolgermi la parola, batterio. »

« Non essere cattivo con me, Leo! Guarda che non sto più nella pelle per te! Oggi, se sarai fortunato, il Maggiore si accorgerà finalmente quanto sei innamorato di lui! Aw~! Così dolce! »

Il tempo della sopportazione delle chiacchiere era finito già da un pezzo, ancor prima di cominciare. Per cui, Leone non ebbe né indugi né ripensamenti quando estrasse una lama Wasp dal retro dei pantaloni, infilzando il collo immacolato del ragazzo micio. Quello però non era un normale pugnale: quella era un’arma letale per esecutori professionisti. Una chicca rara, che celava un piccolo trucchetto: una volta pugnalato l’avversario con quell’arnese, quest’ultimo iniettava aria compressa nella ferita, distruggendo i tessuti dall’interno causa pressione. Va da sé che non solo quella gola venne significativamente lacerata, ma l’involucro di pelle che la ricopriva si squarciò, e saltò in aria ogni singolo legamento nervoso e muscolare.
Il corpicino minuto di Schrödinger non ebbe scampo, e tonfò al suolo stecchito. O meglio, aveva le sembianze di un morto, ma Leone sapeva bene che non lo era davvero. Quei vomitevoli scherzi della natura erano duri a morire, ahimè.

« L’avevo detto che era una cattiva idea. Lo sappiamo, ormai: col mangiatore di crauti non si può nemmeno scherzare un po’! »

« Tu sei lesionato nel cervello! Schrödie…? Stai bene? »

Ecco il resto dell’allegra comitiva. Schrödinger raramente agiva da solo quando c’era da dar noia al prossimo; piuttosto, sarebbe più corretto dire che dietro ogni molestia ai danni degli affiliati dei Millenium, si nascondeva una spumeggiante triplice coalizione.
Un terzetto intollerabile; formato forse dagli individui più detestabili per Leone.
Il primo ad intervenire a seguito del folle gesto fu Caspian. O così diceva di chiamarsi, ma chissà qual era la verità: quei bastardi si mentivano l’un l’altro guardandosi dritti negli occhi; si baciavano le labbra per poi spararsi in testa. Anche avesse mentito, non sarebbe stata una sorpresa.
Caspian era un tipo sbarazzino, sempre sovraccarico di un’energia la cui origine era inspiegabile per tutti. Il suo era un grado militare di scarso livello, poco più di un soldato semplice, ma trovava comunque il modo di far sentire sempre la propria presenza. Un malpelo tutto lentigginoso, vestito come la versione pederasta e caricaturale del conte Dracula. Vendersi l’anima per un paio di canini assetati di sangue non l’aveva reso poi così affascinante come sperava.
E poi c’era Schneewittchen, quella che aveva raccolto dal pavimento ciò che ne rimaneva del malcapitato Schrödinger. O almeno, così aveva richiesto di essere appellata; quella favola le era sempre piaciuta tanto: la dolce principessa ed i suoi adorabili amichetti affetti da nanismo!
Peccato che lei non avesse assolutamente nulla di Biancaneve. I capelli neri originali erano stati rimpiazzati da una pioggia di crini ramati; non cantava per incantare le tenere creaturine del bosco, e non aveva né nani né principi.
E, soprattutto, Biancaneve non era parte del regime nazionalsocialista, né un maresciallo; e né tanto meno un vampiro artificiale da usare in guerra.

« Se l’è cercata. Ora levatevi dai piedi, tutti e tre. Non ho voglia di giocare con voi mocciosi. »

« Ahi, ahi… cos’è questo baccano? »

Leone riconobbe il sibilo del serpente. Era come il fischio del padrone: lui, da buon fido segugio, venne attratto dal richiamo, e tutto il resto sparì. Ignorò deliberatamente i ringhi stizzosi che la rossa gli stava rivolgendo, così come si infischiò della pozza ematica del catboy diffusasi ai suoi piedi.

« Maggiore. » il giovane scattò sull’attenti. « Niente di preoccupante. Piccola disputa coi sottoposti. »

« Devi cercare di rimanere concentrato, ragazzo mio. Questa è un’occasione che non ti concederò una seconda volta, lo sai. » il Maggiore assottigliò le ambre incastonate tra le sue palpebre, mantenendo indisturbatamente il malevolo sogghigno. Portò poi una mano paffuta alle guance del suo devoto, smacchiandogliele dal sangue di Schrödinger zampillato su quelle gote pallide.
Si sporcò i guanti color canuto. La cosa non lo disturbò, anzi. Il contrasto del bianco vergine col fluido cremisi lo faceva impazzire. « Siamo quasi arrivati. Sii pronto. »
Sarebbe stato pronto, altroché. Sarebbe stato, per sempre, tutto ciò che il Maggiore gli avrebbe chiesto di essere.
Il dirigibile si svuotò dei principali membri del Letzte Batallion dopo poco. Il Maggiore marciava a passo indolente, pigro, conforme alla sua stazza; dietro di lui, oltre a Leone, altri due balordi individui.
Da un lato, il Doc: la mano che operava per soddisfare ogni capriccio del comandante supremo. Quell’esercito di vampiri artificiali l’aveva creato lui di sana pianta, e chissà quanti altri esperimenti da scienziato pazzo erano passati sotto i suoi ferri, a scapito del grande sperpero di vite umane di cui era fautore.
Tanto per cambiare, Leone lo detestava; ma più visceralmente rispetto agli altri. Tolto che lo riteneva nient’altro che una casalinga isterica, sia nell’aspetto che nel portamento, egli sprigionava lealtà fasulla da ogni poro. A lui il Maggiore faceva comodo, altroché! Gli permetteva liberamente di praticare ogni genere di tortura chirurgica su ogni genere di creatura, senza impedimenti o restrizioni. Ed ecco spiegato il motivo di tanta adorazione: null’altro che convenienza. Leone ne era disgustato.
Dall’altra parte, invece, il Capitano. Più di due metri d’uomo – uomo, non umano – dal volto parzialmente coperto, da cui spiccavano solo un paio di sgargianti occhi vermigli. Lui sì che attraeva a sé rispetto e fiducia, persino da parte del più giovane collega tedesco: il Capitano non aveva mai parlato. Mai. Mai detta una singola parola. Lui non chiacchierava, né si lamentava, né spettegolava. Lui eseguiva ciecamente senza discussioni.
In ogni caso, bastò guardarsi poco attorno per cogliere la grandezza del Maggiore — e non intendo certo quella fisica. Tutto ciò che ne era rimasto del Nazismo era nelle sue mani, e solo uno sciocco avrebbe potuto dubitare del suo operato ineccepibile.
Uno sciocco come il Colonnello.

« Voi, stupidi… » era troppo decrepito per quel mestiere. La divisa, ormai, gli calzava semplicemente ridicola addosso; il suo corpo era deperito, il suo volto scavato e logorato dalla vecchiaia, ed i pochi capelli che gli erano rimasti erano scoloriti e privi della bellezza di un tempo. Si reggeva in piedi per miracolo. Forse avrebbe dovuto fare largo alla gioventù…
… Ah, al diavolo. Quel ragazzino obeso aveva l’aria di un completo psicopatico, e lui, in qualità di alto ufficiale, doveva intervenire; oltre che essere messo al corrente delle insanie che gli passavano per la testa. « Che cosa state combinando?! »

« Non posso assolutamente risponderle, Colonnello. Si tratta di ordini segreti del nostro defunto Führer. »

« Non darti tante arie solo perché ti chiamano Zugführer! » mosso dalla giusta dose di violenza ed una spruzzata di invidia sociale, il Colonnello non si trattenne: colpì il grassone con un cazzotto tanto brutale da asfaltarlo al suolo. E poi, non contento, usò il suo ormai intramontabile bastone da passeggio per percuoterlo ancora, martirizzando quel corpo panciuto e sfogando su di esso le frustrazioni di un’intera carriera. « Perché non trasformi anche noi in vampiri, eh?! Perché mai?! Rispondimi! Rispondimi, mostro! »

Avrebbe potuto continuare all’infinito. Ma l’infinito non esiste, ed il suo momento di gloria terminò in fretta; più precisamente, nel momento esatto in cui un proiettile perforante ed esplosivo, rapido come una saetta, si conficcò nel pregiatissimo legno del bastone e ridusse quella frusta improvvisata in mille pezzi.
Intontito da quanto accadutogli, il Colonnello si guardò intorno, alla ricerca del responsabile. Nonostante tutti i vari orrori a cui erano state sottoposte, le sue pupille stanche riuscivano ancora a sgranarsi di puro stupore. Gli accadde anche quella volta.

« Leone…? »

« È meglio che ti fermi, Colonnello. Se esageri con gli scherzi, ti faccio fuori. »

« Maledetto rifiuto… dopo tutto quello che ho fatto per te! Dopo averti accolto nella mia casa! Dopo che ti ho cresciuto come un figlio! Quali diavolo sono i vostri obiettivi?! Che cosa pensate di farci con un esercito di vampiri armati?! »

Fu allora che il Maggiore si risollevò decorosamente dalla botta ricevuta. E quest’ultima non andò nemmeno vicina a scalfire quello sguardo infernale, le cui pupille dorate crocifissero il Colonnello con l’intensità di mille aghi affilati.

« Per assaporare all’infinito il dolce piacere della guerra. Per la guerra che stiamo vivendo e per quella che verrà. »

Diceva tutto senza in realtà dire nulla, e solo gli spiriti eletti avevano la possibilità di comprendere parole tanto agghiaccianti.
Leone, umilmente, si sentiva il primo tra essi, e lo confermò anche quando il Deus ripartì più pesante di prima, caricato degli ultimi superstiti non vampirizzati del Regime.

« Mi dispiace di essere intervenuto, signore. » il tono pacato con cui s’esprimeva e la dolcezza con cui in quel momento stava tamponando il naso gocciolante sangue del Maggiore, contrastava nettamente la sua solita verve iraconda e coercitiva. « Non potevo sopportare che un individuo meschino come lui si prendesse certe libertà. »

« Lascia fare, mio caro Leone… » soffiò maligno il corpulento Zugführer, mentre le narici gli venivano man mano riempite d’ovatta per contenere l’emorragia. « Avrai tempo e modo di mostrargli finalmente chi sei. E ci esenterai da questa spina nel fianco. »

Il filo del passato stava per essere reciso ed il ponte del futuro attraversato. Non si torna più indietro, Leone.
 

Leone, quattordici ore alla dichiarazione di guerra.

 

–––––
 

Vivere per un quarto di secolo le era bastato per arrivare ad una conclusione tristemente definitiva: gli uomini non le piacevano. O almeno, non quelli comuni.
Semplicemente, non la capivano. Il loro desiderio sessuale era più forte di qualsiasi altra cosa: trattasi di maschi svogliati, senza nessuna intenzione di accasarsi né di pensare all’eventualità di un matrimonio, o di una famiglia.
Scopare, fottere; incontrare qualcuna ed usarne il frutto proibito per sborrare. La loro vita si riduceva a quello e nient’altro. E Alexis, la cui fede in Cristo le primeggiava nel cuore, fungeva da deterrente per quello specifico esemplare di virilità: se la davano a gambe non appena vedevano sfumarsi tra le dita un’occasione ghiotta di fornicazione come sabbia al vento.
E se da un lato era una gran fortuna, dall’altro era un dolore atroce: Dio le aveva insegnato l’incommensurabile valore della capanna, della Vergine benedetta dalla gravidanza. Ed il suo corpo, che da tempo immemore aveva assimilato quei concetti, scalpitava alla smaniosa ricerca di una gestazione. Ma senza nozze non poteva permettersi rapporti; se non aveva rapporti, non poteva certo sperare di rimanere incinta così, in uno schiocco di dita — quello era un privilegio concesso dal Signore solo una volta in tempi remotissimi, ed anche solo auspicare a ricevere lo stesso miracolo conferito alla Madonna sarebbe stato profondamente blasfemo.
Ed ecco come si era ritrovata alla ricerca di un appuntamento, e di un uomo dai solidi principi cristiani a cui affidarsi. Insomma, doveva pur esserci qualcuno disposto a sposarla: era giovane, bellissima, una casta donna d’altri tempi. Il suo unico difetto, era che la sua esasperata religiosità l’avrebbe costretta ad un connubio matrimoniale infelice, ad un’eternità grama.
Perché l’amore che voleva davvero non poteva averlo. Si sarebbe prima accontentata e poi rassegnata: Padre Anderson, l’unico uomo che era stato in grado di farla palpitare di desiderio, era largamente fuori dalla sua portata.
Nonostante la perfezione del sacro pastore fosse notoriamente inarrivabile ed ineguagliabile, Alexis si convinse di dare qualche opportunità qui e là.

« Alexis, devo proprio dirtelo… sei la donna più bella che abbia mai visto. E non sei solo bella… sei anche spiritosa, intelligente, sensibile. »

« Ti ringrazio. Sei molto dolce. » un sorriso timido le incurvò le labbra, ed il suo sguardo verdeggiante le si allineò ai piedi. Non era sicura che fosse sincero: chissà con quante altre aveva sviolinato a quel modo prima di lei. Ciononostante, quel tipo, tale Arthur, era il meglio che era riuscita a pescare dalla melma londinese dai venticinque ai trentadue: un ragazzo perbene, di buona famiglia. Certo, era di statura mediamente ridotta e disponeva una dentatura abbastanza irregolare, ma tutto sommato non era poi così sgradevole.

« Sono stato davvero bene. Posso darti uno strappo a casa? »

« Certo, perché no. »

Il viaggio in auto rasentò l’oscenità. Arthur cominciò a sfrecciare con una McLaren sportiva di ultima generazione; oltre ad aver pagato una cena profumata, ora si pavoneggiava con la sua stupida auto di lusso, senza sapere di non avere alcun effetto su una donna come Alexis. Una cristiana cattolica aborrisce lo sperpero di denaro, l’edonismo spicciolo, l’ostentazione di ricchezza che è solo materiale e non spirituale.
Ancor più quando, invece di stabilirsi a casa sua come preannunciato, la destinazione deviò a favore di un’isolata strada secondaria.

« Dove vai…? » domandò la donna, disorientata, mentre il veicolo si accostava sulla destra. Intorno a loro, il nulla più totale.
Al posto di una risposta concreta, ottenne una mano ossuta e mingherlina a sfiorarle il ginocchio. Poi, quella sgradita carezza si trasformò in una presa, che le si artigliò alle cosce, risalendone la lunghezza, infischiandosi dell’ostacolo dato dalla gonna. Ma fu quando ebbe raggiunto il centro pulsante della donna, quando un paio di dita curiose tentarono di insinuarsi sotto l’elastico delle mutande, che Alexis ebbe la forza per scollarselo definitivamente di dosso, spintonandolo nuovamente al sedile guidatore. « Ma che ti salta in mente?! Ti ha dato di volta il cervello? »

« Dai, non fare la preziosa… non dirmi che facevi sul serio con quell’assurdità di voler rimanere vergine fino al matrimonio? »

« Certo che facevo sul serio! Che razza di uomo sei?! Dovresti almeno chiedermi scusa! »

« Hah! Solo per aver pensato a questa stronzata, le scuse dovresti farmele tu. Guarda, posso farti passare la voglia di fare la santarellina in un secondo. Vuoi sentire quanto è duro il mio cazzo? »

Francamente, no. Non voleva sentirlo. Ripugnata e furiosa, si sganciò la cintura e saltò fuori dalla macchina, cominciando ad avanzare incalzante verso… be’, casa sua, anche se non sapeva bene dov’è che si stesse dirigendo. Quello stronzo l’aveva portata in mezzo al nulla, e ora le toccava brancolare nel buio cercando di orientarsi al meglio delle sue capacità.

« Ehi! Dove credi di andare?! Non la sai la strada di casa tua! Dai, salta di nuovo su! »

« Preferisco perdermi per sempre che stare con te un minuto di più. »

« Tch… fottiti, allora, zoccola che non sei altro. Spero che ti stuprino a sangue mentre trovi la via. »

L’orgoglio maschile era stato ferito, e gli effetti furono prevedibilmente nefasti. Arthur la mollò lì, non solo esprimendosi in orribili manifestazioni della sua frustrazione, ma sgasandole anche in faccia coi fumi tossici delle sue lussuosissime quattro ruote. Si sa: più grande è la macchina, più piccolo è l’uccello — e, diciamocelo, ce n’eravamo fatti tutti un’idea.
Tuttavia, ciò non confortò Alexis, anzi. Cominciava davvero a credere che Dio si facesse beffe di lei: non solo seminava sul suo cammino solo uomini estremamente disagiati, ma le aveva sottratto anche l’unico che lei amava davvero, facendolo suo messaggero in Terra.
Qualche lacrima cominciò a rigarle il viso leggermente imbrunito dal belletto. Il pianto la distrasse, ed il suo andazzo divenne sempre più confuso ed insensato: ben presto le strade cominciarono a diventare tutte uguali, labirintiche, senza apparente via di fuga.
La notte la inghiottì, la paura cominciò a serpeggiarle nello stomaco aggrovigliato e contuso… specialmente quando avvertì un paio d’occhi inchiodarlesi addosso insistentemente. Se ne sentì perforata prima ancora di vederli; voltandosi un paio di volte, tuttavia, non ottenne riscontro. No, non c’era niente alle sue spalle… forse la mente le giocava brutti scherzi.
Era vero, niente di oscuro o tenebroso dietro di lei.
Ma davanti sì.

« Dio… » com’è facile credere, preferiva evitare di nominare Iddio invano. Ma con lo spavento che si prese quando quella longilinea figura in rosso le si parò davanti come una presenza inquietante, proprio non riuscì a trattenerlo. Le sfuggì dalle labbra a seguito di un rumoroso sussulto. « … Posso aiutarla? »

« Forse sono io che dovrei aiutare lei, miss. »

« Prego…? »

« Una giovane in pena che vaga tutta sola… alla mercé di qualunque malintenzionato con cattive intenzioni… » qui il volto in penombra dello sconosciuto parve ornarsi e brillare con un ghigno perverso. Alexis notò la particolarità dei suoi canini: appuntiti e lucenti come spilli d’argento. « … Cosa le è successo, mia cara? Lei piange, ed io mi struggo. »

« Questo non è affare che la riguardi. » l’ennesimo maschio con il durello? No, grazie. Non ne aveva proprio bisogno. Le sue iridi ancor punte di lacrime si incupirono, deformandole il volto in un’espressione stizzita. « Mi lasci passare, ora. »

« Hai il ciclo, vero? »

Quella domanda proprio non se l’aspettava, così come non si aspettava il repentino mutamento d’espressione e tonalità di voce del losco individuo. Se dapprima aveva tentato – con risultati oltremodo scadenti – di ostentare galanteria ed ingannevoli lusinghe, egli ora aveva assunto una sorta di aura famelica, oltre ad aver omesso il lei. Difficile da spiegare. Difficile da credere, specialmente quando dall’oscurità quell’essere avanzò verso di lei, rivelando un paio di rubini scarlatti al posto degli occhi.

« … Come dice…? » Alexis badò bene ad abbassare la cresta. Più lui le si accostava, più lei indietreggiava; delle perle di lucido sudore cominciarono ad addobbarle la fronte.
Sì, effettivamente in quel momento aveva delle grumose perdite sanguinolente tra le gambe. Ma lui come faceva a saperlo?

« L’odore di una donna col ciclo lo riconoscerei tra mille… oh, sì… dolce, squisito mestruo. È un profumo inebriante. Hm… mi eccita. E mi fa venire tanta sete. »

Un completo psicopatico. Era evidente che la giovane non fosse più al sicuro: l’augurio di stupro fattole dal buon Arthur, Dio lo fulmini, stava via via sempre più concretizzandosi.
Era il momento di filarsela senza ulteriori indugi. Alexis cominciò a correre, il più in fretta che poté: le gambe si affannarono da sole, con frenesia. Il cuore le si inceppò in gola, l’adrenalina le pompò in vena e sentì quasi di poter scoppiare.
Ma non bastò. Quel tale le si parò davanti come teletrasportatosi, e lei gli finì letteralmente tra le braccia. Egli la afferrò per un polso e per un fianco, e se la tenne stretta: la sua presa era ferrea come una morsa, come se fosse dotato di una forza non appartenente al genere umano.
Le sfiorò il volto con la punta del naso, annusandola come cane da tartufo. Percorse la linea della mascella con l’umida lingua, lasciando dietro di sé una scia di bava che la tratteggiò fino alla tempia.

« Hm… deliziosa… » mormorò, assaporando il suo sudore, beandosi delle sue paure. « Sei perfetta per me. »

Dio abbia in gloria e custodisca per sempre l’anima disperata di quella povera donna. Alexis non ebbe modo di divincolarsi: non capì esattamente cosa le accadde, ma un dolore tormentoso le infiammò il collo. Come uno squarcio. Come un morso furente. Come un’eterna dannazione.
Strillò fino a lacerarsi le corde vocali. Le sue pupille divennero vitree, svuotate delle loro sfumature smeraldine. Ed in quel momento, senza accorgersene, Alexis morì.
E venne al mondo di nuovo.


Alexis, la metamorfosi.

 

 

 

  
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