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Autore: Nina Ninetta    30/10/2023    8 recensioni
Monika è una giovane giornalista inviata dal suo capo ad ascoltare la storia che ha da raccontare un'anziana signora, quest'ultima sopravvissuta all'Olocausto grazie alla benevolenza di un ufficiale delle SS... Scoprirà così una vita fatta di clandestinità, odio antisemita, ma anche tanto, tanto amore.
Questo testo partecipa al contest Le quattro stagioni si raccontano indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP
Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2024 indetti sul forum Ferisce la penna
Questa storia partecipa alla To Be Writing Challenge 2023 indetta da Bellaluna sul forum Ferisce la Penna
Genere: Malinconico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Сasa Meyer
 

“Chi salva una vita,
salva il mondo intero”
Itzhak Stern,
tratto dal film
Schindler’s List
 

 
Monika fermò la macchina nella strada alberata e consultò l’indirizzo sul foglietto. Sì, sembrava essere arrivata, perciò lasciò l’abitacolo e si strinse nel giubbotto. Sebbene fosse solo autunno, le temperature erano calate parecchio in quei giorni e una tenue pioggerellina mattutina veniva giù, fredda e umida.
La giovane giornalista si guardò intorno: le villette, in quella zona residenziale, erano tutte uguali, stessa forma, stessa grandezza, stesso colore grigio/nero dei tetti; macchine costose erano parcheggiate nei vialetti. Muovendosi lentamente, trovò la casa che cercava e bussò al campanello. Le aprì una donna di mezza età, di origini baltiche, che la invitò a entrare. Il suo tedesco non era perfetto, ma comprensibile, e precedendola nel lungo corridoio – tappezzato di bellissimi quadri e suppellettili preziosi – le disse che la stavano attendendo. Quando giunsero in un’ampia sala, la donna la annunciò.
«Grazie, Ivana cara.»
Monika si voltò nella direzione da cui era provenuta quella vocina e si meravigliò di notare una donnina così mingherlina che prima, sprofondata in un’enorme poltrona di tessuto verde, non aveva neanche visto.
«Ti spiace prepararci una tazza di tè?» Proseguì la padrona, prima di rivolgersi alla sua ospite. «Le piace il tè, signorina Monika?»
«Solo Monika, la prego. E il tè è perfetto!»
«Allora tè, Ivana cara, e aggiungici anche qualche biscotto al burro. Grazie.» La donna attese che la governante andasse via, poi invitò la giovane ad accomodarsi sulla poltrona di fronte alla propria, mentre lei tornava a sedersi, volgendo il capo oltre la vetrata. Qui la veduta non era delle migliori: affacciava, infatti, su un giardino trasandato, abbandonato. «Grazie per essere qui, Monika» aggiunse sognante.
«Ha detto al mio capo di avere una storia da raccontare.»
«Jürgen è un amico di famiglia, sapevo non avrebbe rifiutato l’ultimo desiderio di una vecchia» sorrise la signora, continuando a guardare oltre la finestra il cielo che si faceva sempre più cupo, carico d’acqua.
Monika approfittò di quel momento di riflessione per scrutare l’ambiente circostante e anche la donna che le sedeva dinnanzi, persa nei suoi ricordi. Era una donnina di pochi chili e scarsi centimetri d’altezza, con i capelli bianchissimi e cotonati che ricordavano una nuvola nei giorni tersi; il viso dall’espressione serena era nascosto da un paio di occhiali con le lenti fumé. Le dita scheletriche erano intrecciate in grembo, posate sopra un quadrato di lana di colore beige scuro – forse uno scialle o una sciarpa – con i lembi sfrangiati e ornata da ricami a forma di fungo, dal cappello a pois rosso e nero e il gambo marrone. Monika distolse lo sguardo dalla donna per guardarsi intorno: si trovava in un salone ampio, arredato con mobili antichi di ottima fattura. Un camino scoppiettava vivace a pochi metri da dove erano sedute, mentre nell’angolo in alto c’era un pianoforte. Ciò che però la incuriosì fu il fatto che non ci fossero fotografie, solo soprammobili raffinati e un bellissimo orologio a pendolo. Fatta eccezione per un unico portafoto adagiato proprio sulla superficie del pianoforte. Più tardi, accostandosi, la giornalista avrebbe visto ritratti in quella foto sbiadita i protagonisti del racconto che stava per conoscere.
«Monika, cara, vuole ascoltare la mia storia? Non voglio che muoia con me. Credo sia una bella storia…»
«Sono qui per questo!»
«Ha con sé ciò che le serve per prendere appunti?»
«Assolutamente sì! Le dispiace se la registro? Sa, non vorrei perdermi qualcosa o essere costretta a interromperla» Monika teneva sulle gambe un taccuino con una penna, mentre sul tavolino, posto al centro fra le poltrone, adagiò un registratore vocale e quando fu certa che l’altra fosse pronta premette REC. Una lucina rossa cominciò a lampeggiare.
 
«Mi chiamo Rahel Erber e sono ebrea. Tra il 1933 e il 1939 il regime nazista mise in atto cambiamenti radicali per la comunità ebraica tedesca, emarginandoci e privandoci dei diritti civili, del lavoro e di ogni libertà. Migliaia furono internati nei campi di concentramento o nei ghetti, in cui furono costretti a vivere in condizioni ignobili. La situazione degenerò nel novembre del 1938, durante la cosiddetta Kristallnacht[1], quando io avevo solo diciassette anni. Vivevo con i miei genitori presso la fattoria dei Meyer, nelle campagne appena fuori Amburgo. Mio padre, Elias Erber, era un perito agrario, uno dei migliori in circolazione a quei tempi; mia madre Ester si occupava della casa.
Ero felice! Avevo trascorso una splendida infanzia e una buona adolescenza, nonostante il fatto che sia cieca dalla nascita. Andavo a scuola con il figlio dei Meyer, Leonhard – Leo per tutti – che contava nove anni più di me e quindi mi proteggeva come se fossi la sua sorellina. Ricordo quanto fosse bello sentirsi protetti da qualcuno, sapere di poter fare affidamento su un ragazzone grande e grosso come lui…
Poi, dicevo, nel novembre del ’38 tutto mutò. Una sera vennero a bussare alla porta di casa Meyer due militari delle SS, i quali chiesero di vedere la famiglia ebrea che lavorava per loro. Era palese che già sapessero tutto, quindi mentire sarebbe stato inutile e controproducente. Tuttavia, Leo – che all’epoca aveva ventisei anni e faceva parte dell’esercito in qualità di sottotenente – corse fino alla piccola casetta in cui vivevamo, poco oltre la fattoria, per annunciare ai miei genitori ciò che stava per accadere. Disse, tutto trafelato, che per loro non poteva fare nulla, ma avrebbe potuto aiutare me, nascondendomi nella sua casa – dove i militari tedeschi non sarebbero entrati, giacché era impensabile che un ufficiale trasgredisse agli ordini del Führer. Inoltre, li tranquillizzò aggiungendo che loro erano due adulti in salute, non gli avrebbero fatto del male, ma io… io ero una ragazzina pelle e ossa, cieca ed ebrea. Mi avrebbero sparato nelle campagne circostanti. Piansi, mi dimenai, inveii contro Leo che mi stava separando da mamma e papà, ma lo seguii spinta dalle suppliche di mia madre, la quale mi abbracciò fortissimo promettendomi che sarebbero tornati presto. Inutile anticiparti, Monika cara, che non li avrei mai più rivisti. Né da vivi, né da morti. Mamma mi avvolse le spalle in questa vecchia sciarpa coi funghi, ultimo e unico ricordo che mi resta di lei. Di loro.
Leo mi condusse nella sua stanza personale, strappandomi via la stella di David che tenevo cucita sulla spalla destra. “Questa non ti serve più” mi disse, pregandomi di restare in silenzio, presto sarebbe tutto finito. Ma non finì mai, in realtà. Sarebbero trascorsi sette anni prima che l’incubo terminasse.
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, migliaia di ebrei furono costretti a vivere nelle Judenhäuser[2] in condizioni estreme. Leo mi giurò che i miei genitori erano stati portati appena fuori il nostro distretto e che non se la passavano male; ogni volta mi mandavano dei biscottini alla cannella – i miei preferiti – ma con il passare del tempo iniziai a sospettare che fosse lui stesso a comprarli in qualche pasticceria. Alla fine, con l’inasprirsi del conflitto, perdemmo le loro tracce. Scoprii che erano stati fucilati solo molti anni dopo la risoluzione della guerra. Piansi disperata: nel mio cuore erano morti due volte.
Alcuni ebrei vissero in clandestinità, aiutati da tedeschi impietositi, e perciò chiamati U-Boat, ossia sottomarini. Io ero una di loro. Eppure, Monika cara, nella mia clandestinità non mi è mancato nulla. Leo mi ha insegnato a scrivere, mi leggeva libri di storia e geografia, trattati di letteratura e filosofia per istruirmi. La sera, dopo cena, ci sedevamo al pianoforte – sì, è lo stesso che vedi alle mie spalle – e lo ascoltavo suonare musiche insieme dolcissime e melanconiche. Poi, accompagnandomi con le mani sulle mie, mi insegnava le note e io, piano piano, imparavo le ballate di Vivaldi, Mozart, Beethoven.
Una mattina all’alba, mentre ero seduta davanti alla finestra, lui mi raggiunse e, accarezzandomi la testa, mi chiese quale fosse la mia stagione preferita. “La mia è l’autunno” confessò, “poiché con il suo arrivo l’aria diventa più fresca e i sogni prendono i toni caldi delle sfumature delle foglie”.
Io risposi che non avevo una stagione preferita, per me i colori e il paesaggio restano immutati. Gli odori cambiano, ma il fetore della guerra li aveva cancellati. E lui, allontanandosi per indossare la giacca della divisa – ne percepii il fruscio – aggiunse che quasi mi invidiava: grazie alla cecità potevo evitare di vedere le cose orribili che la sua gente stava facendo alla mia. Quindi si inginocchiò e mi prese le mani, domandandomi come facessi a non odiarlo per quello. Gli risposi che non avrei mai potuto odiarlo, sarebbe stato come odiare me stessa. Mi baciò i palmi e se ne andò.
Invece, lo odiai a fondo, per tanto tempo, e odiai me stessa perché odiavo lui. Accadde quando mi riferii che si sarebbe sposato. Me lo disse mentre davo da mangiare alle galline, allora gli lanciai contro il cesto con il mangime e scappai. Conoscevo bene il territorio in cui ero nata e cresciuta, non avevo alcun problema a muovermi con agilità nella campagna, ma lui era abile quanto me e anche di più. Mi riacciuffò poco oltre la recinzione della proprietà Meyer, afferrandomi per entrambe le braccia e urlandomi che non aveva avuto scelta. Mi raccontò che era stato suo padre a combinare il matrimonio con la figlia di un ottimo partito e lui non poteva sottrarsi ai suoi compiti di primogenito: ormai aveva quasi trent’anni e doveva portare avanti il nome della famiglia. Onestamente, Monika, credo che il signor Meyer avesse compreso il sentimento che ci univa e ne era terrorizzato.
Come biasimarlo… a quei tempi poi…
A tal proposito, proprio mentre stavamo discutendo, ci raggiunse una Kübelwagen[3] con quattro militari a bordo, probabilmente attirati dalle nostre urla. Fecero domande insistenti rivolte a me, su chi fossi e come mi chiamassi. Per fortuna, Leo fu lesto nel rispondere al posto mio: ero una cugina malata venuta dal sud per respirare un po’ di aria buona. Credo che gli abbiano creduto perché era un loro superiore, se fosse stato un civile non so come sarebbe andata a finire…
Tornammo a casa, senza proferir parola alcuna. Tra di noi cadde un gelo che perdurò per anni, non ci furono più lezioni private, né incontri notturni intorno a un pianoforte, sebbene lo sentissi suonare quasi ogni sera e immagino mi attendesse. 
Ma vedi, Monika, mi sentivo tradita. Ovviamente, ero consapevole che non ci saremmo mai potuti amare come le persone normali, perché ero ebrea, certo, ma anche perché ero cieca.
Chi persona sana di mente desidererebbe una donna cieca?
Benedikta, sua moglie, venne a vivere in casa Meyer come da tradizione e all’inizio mi risultò difficile detestarla. Era una giovane donna intimorita, costretta a sua volta a sposare un uomo che non amava e non conosceva. In ogni caso, il vecchio Meyer morì senza veder avverato il suo sogno: la perfetta e sana donna ariana non diede mai alla luce un figlio.
Nel 1943, Leonhard fu inviato in Francia e non lo vedemmo fino alla fine della guerra. In quegli anni morirono entrambi i suoi genitori, ma lui non tornò a casa, neanche per i funerali. Sapevo che con la moglie si scambiavano corrispondenze, ma se in tali lettere ci fossero parole rivolte alla sottoscritta, questo non lo seppi mai, Benedikta non me ne lesse neanche una. Penso lo odiasse. Di certo, non posso affermare che sia stato un buon marito per la povera Benedikta, la quale si ritrovò ad appena trent’anni completamente da sola, in una casa enorme a fare da balia a una ragazza ebrea e cieca. Cominciò a essere cattiva nei miei confronti, minacciandomi che mi avrebbe denunciato alla Gestapo. “Vorrei essere cieca come te, così non sarei costretta a vederti ogni giorno! Ebrea schifosa!” diceva. Ma non lo fece mai, non mi denunciò, anche se usciva tutte le mattina e rientrava nel tardo pomeriggio. Dove andasse non lo so, non gliel’ho mai domandato, tuttavia è facile immaginarlo. Non la biasimo, era una donna giovane e – suppongo – attraente.
Poi un giorno Leo tornò. Era stato congedato per aver perso un braccio. Benedikta urlò isterica che adesso avrebbe dovuto prendersi cura non di uno, ma bensì due disabili. Io ero immobilizzata sulle scale, piangevo senza emettere lamenti. Lo sentii dinnanzi a me, qualche scalino più giù, sfiorarmi le dita; non proferì parola. Ho immaginato piangesse a sua volta.
All’epoca, io avevo ventiquattro anni e lui trentatré. La guerra sarebbe finita di lì a pochi mesi, eppure furono i giorni più duri che avessi mai vissuto. Le liti dei due coniugi erano terribili, ogni volta lei mi tirava in ballo. Diceva fosse per colpa mia se il loro matrimonio non funzionava, che portavo sfortuna: ero come un uccello del malaugurio, perciò lei non riusciva a rimanere incinta, le avevo lanciato una maledizione. D’altronde, ero una sporca ebrea, aveva fatto bene il Führer a deportarci tutti, stavamo trascinando la Germania nel baratro. A quel punto, Leo le intimava di smetterla, non aveva idea di quello che diceva, se solo avesse visto ciò che facevano a quella povera gente… e qui lasciava la frase sospesa.
Una volta sentii dirle: “Nascondere ebrei equivale alla pena di morte, lo sai?” Silenzio. “Hai avuto il coraggio di mettere in pericolo la tua famiglia pur di salvare lei!” Ancora silenzio. “Santo cielo, devi amarla proprio tanto…”.
La guerra terminò e le sanzioni per la Germania furono tremende. Mesi dopo la resa incondizionata, quando l’estate era finita ed era nuovamente subentrato l’autunno, sentii qualcuno piangere nella stanza accanto. Doveva essere l’alba, una pioggerellina fitta fitta scrosciava sul tetto e contro le finestre. Mi avvolsi nella sciarpa coi funghi e bussai con le nocche alla porta vicino alla mia. Entrai, senza attendere il permesso, tanto sapevo di trovarvi Leonhard, era il suo studio privato quello. Lo immaginai chino alla scrivania, mentre singhiozzava sommessamente.
“Leo?” sussurrai.
“Se n’è andata. Benedikta mi ha lasciato con una lettera e poche righe”.
Ancora oggi non riesco a definire la sensazione che provai: sollievo? Pena? Rabbia? Chi lo sa…
Feci per avvicinarmi, ma lui uscì di gran carriera dalla casa e non vi ritornò per tutto il giorno. Non so di preciso che orario fosse quando lo sentii rientrare, ma ricordo si palesò sulla soglia della mia camera, rimanendo immobile e muto per qualche minuto. Io ero seduta sul letto e gli davo le spalle.
“Rahel, so che non dovrei essere qui. È tardi, è notte, sono mezzo ubriaco e… la guerra è finita, cazzo! Abbiamo perso, lo so, eppure non riesco a sentirmi sconfitto. Sconfitto… da chi, precisamente?!” Si prese una pausa. “Ma sentimi, straparlo e non so neanche bene cosa dico…”.
Mi sollevai e lo raggiunsi: “ti aspettavo. Da sempre” trovai il coraggio di confessargli. Avvertii la sua mano, l’unica che gli restava, accarezzarmi il viso, poi il suo respiro caldo farsi pian piano più vicino. Infine, le sue labbra sulle mie. Trascorsi una notte d’amore come quelle nei film: bellissima e romantica. Indimenticabile. La Germania aveva perso, ma noi avevamo vinto la libertà di amarci.
Hai preso nota di tutto, Monika cara?»
 
La giornalista sbatté le palpebre un paio di volte, fu come risvegliarsi da un sogno a occhi aperti. Calò lo sguardo sulla pagina mezza vuota del taccuino, per fortuna aveva portato con sé il registratore vocale: era stata completamene rapita dal racconto da dimenticarsi di scrivere.
«Da quel giorno avete vissuto sempre insieme?»
«Oh, sì. Sempre!»
«E Benedikta?»
«Non ne abbiamo saputo più nulla.»
Monika scribacchiò velocemente quelle ultime risposte, avanzò poche altre domande e alla fine si congedò, ma non prima di dare una sbirciatina alla fotografia sul ripiano del pianoforte, dove erano ritratti due innamorati a braccetto. Lei era evidentemente più giovane di lui, con lunghi capelli ondulati color cenere e un visino bianchissimo. Gli occhi, aperti e scoperti, erano velati di azzurro chiaro. Lui era alto il doppio, con spalle larghe quanto un tavolo e cosce muscolose. Il classico prototipo di figlio di razza ariana, pensò, biondo e in salute, seppur privo di un braccio.
Mentre tornava alla sua auto, Monika si chiese che fine avesse fatto Leonhard, come – e se – fosse morto. Se Rahel aveva ottantaquattro anni ed era più giovane di ben nove anni, lui adesso ne avrebbe dovuti avere novantatré...
Immersa nei suoi calcoli, non fece caso all’uomo che le passava accanto, salutandola con garbo. Monika rispose distrattamente, voltandosi indietro per vedere chi le avesse rivolto la parola e, solo allora, notò quell’anziano, alto e magro, vestito bene, con il capo coperto da un cappello borsalino, che si avviava su per il vialetto della casa che aveva appena lasciato, camminando a passi piccoli e svelti e reggendosi a un bastone che teneva con la sua sola e unica mano.
La giovane giornalista sorrise, improvvisamente un po' più felice: in fondo, le storie a lieto fine esistevano davvero.   


 
fine  
 
 

[1] Notte dei cristalli
[2] Case ebraiche
[3] Letteralmente auto-tinozza, nome iconico dato alle auto usate dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale
  
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