Serie TV > Wynonna Earp
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Autore: aurora giacomini    31/10/2023    1 recensioni
E’ Halloween. In questa notte, il velo che divide il mondo dei vivi e quello dei morti si assottiglia sino a svanire. Un’altra barriera cede all’incantesimo. Il mondo interiore di Waverly si riversa all’esterno con violenza, con dolore. L’introspezione prende il sopravvento, il pensiero si fa logorroico, le percezioni plasmano il mondo, lo modificano: distinguere fra cosa è reale e cosa no diventa sempre più difficile, illogico. Non ha più senso cercare il confine fra pensiero e azione, fra ricordo e sogno, perché non esiste più.
Ci sono solo loro due. Scrutano l’Oceano, ognuna con le proprie domande, ognuna con le proprie risposte.
Il suono della sua voce infrange anche l’ultima barriera, quella del silenzio.
E’ un orizzonte destinato a non finire. E’ un miasma informe, incorporeo, senza tratteggi, senza linee.
Questa è la notte senza confini e l’alba è lontana.
Genere: Angst, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Nicole Haught, Waverly Earp, Wynonna Earp
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Spazio d’Autore: Dubito fortemente di riuscire a correggere e pubblicare il secondo - e ultimo - capitolo entro questa sera, dunque approfitto di questo per augurarvi una notte tremenda. 
Buon Halloween!



26.10.23




 
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Non credere a niente di quello che senti, e solo alla metà di ciò che vedi.
- Edgar A. Poe





 

I.



L’aria gelida sembrava studiare ogni fessura, ogni spiraglio pur di infilarsi sotto la giacca e i vestiti pesanti che Waverly Earp aveva indossato prima di uscire. Era stato necessario uscire: non avrebbe tollerato la compagnia di sua sorella neppure per un altro minuto. A Wynonna piaceva bere; indugiava in quel piacere autodistruttivo sempre più spesso, sempre più a lungo. Era triste. Siamo tutti tristi, pensava Waverly.

Ai lati delle strade, le zucche intagliate le sorridevano sornione, arroganti e accusatrici. ‘‘Egoista, ecco cosa sei’’, sembravano sussurrare malignamente. Waverly non era egoista, non lo era mai stata e non si era mai considerata tale. Eppure quei ghigni luminosi insistevano. Abbassò gli occhi sulle foglie marce e bagnate, sugli stivali che le calpestavano con indolente rabbia, che la portavano lungo il viale della città in cui era cresciuta, lontano dall’estranea che chiamava sorella.

Lei non era un’egoista.

La guancia pulsava, gli occhi punti dalle lacrime.

Intirizzita, si strinse nella grande giacca bianca cercando di scaldarsi, affondò le mani nelle tasche, aprì e strinse i pungi. La pelle e i muscoli delle gambe si ribellavano al freddo, la rimproveravano per quei jeans troppo aderenti e sottili; ma non smisero di condurla. Condurla dove? Waverly non lo sapeva; sapeva solo di non volersi fermare, sapeva solo che la distanza fra lei e Wynonna non era ancora sufficiente.

Waverly ci aveva provato. Aveva provato con tutte le sue forze a far funzionare quella serata, a renderla spensierata e allegra, diversa dalle altre. Un paio di giorni prima aveva acquistato delle zucche; erano ortaggi che erano stati amati, baciati da molte piogge e da soli clementi, lo sapevano, l’avevano sentito, per questo erano così belle e pasciute. Non le aveva acquistate al supermercato, era andata da un contadino. Le aveva pagate più del dovuto. Non se ne era pentita. Ora se ne pentiva; ora che il fantasma di quella più grande e arancione le compariva davanti agli occhi col suo polposo cervello sparso sul pavimento della cucina.

‘‘Oops’’, aveva detto Wynonna, inespressiva eppur compiaciuta, ‘‘non penso ce la farà.’’

‘‘Non è divertente’’, aveva ringhiato Waverly in risposta. Era stato un suono rabbioso ma trattenuto; trattenuto forse dalla speranza che magari si poteva rimediare, far finta di nulla e ricominciare, intagliare la successiva, insieme.

‘‘Lo sarebbe, se tu fossi dotata di un minimo senso dell’umorismo’’, aveva ribattuto Wynonna, portandosi la bottiglia alle labbra mentre Waverly cercava qualcosa con cui cominciare a pulire, mentre si chiedeva se sarebbe riuscita a salvarne qualcosa o se il suo posto fosse ormai solo la spazzatura. ‘‘Era divertente.’’

Non era divertente.

Wynonna era sempre stata una bambina speciale, maledettamente intelligente e sensibile; davvero troppo sensibile. Sua madre glielo aveva ripetuto fino al giorno prima di morire. Charleen parlava a Waverly come se fosse lei quella più grande, quella che doveva capire, essere paziente e matura. Parlava della primogenita come fosse un giglio straordinario, troppo delicato per qualsiasi clima; qualcosa che forse ogni ventisette anni sarebbe sbocciato per una notte e avrebbe incantato il mondo con la sua rara bellezza; il suo inestimabile, unico Fiore della Pazienza. Qualcosa che avrebbe cambiato tutto, fino a sovvertire le complesse leggi dell’Universo. E Waverly ci aveva creduto. Aveva creduto che sua sorella fosse la prescelta per qualcosa di grande, immenso e inimmaginabile. L’aveva accettato e aveva accettato di non essere lei, l’eletta; l’aveva fatto senza rammarico, senza invidia e senza rabbia. La rabbia era adesso, adesso che aveva scoperto che loro madre non si era mai sbagliata. Wynonna era unica e avrebbe potuto davvero cambiare il mondo; sapeva leggere nel cuore della gente e quello che leggeva sembrava farla soffrire, sembrava umiliarla e indebolirla, come se avesse ribrezzo della natura umana. Ma anche lei era umana. E il dono una maledizione, un fardello troppo pesante per un corpo fatto di carne e ossa.

E provava rabbia Waverly, provava tanta rabbia e le ragioni erano diverse, poche ma potenti.

L’odore avvolgente, invitante delle ghiottonerie alla zucca, alle castagne e alle patate dolci le solleticò il naso, le ricordò che non aveva cenato. Ma le ricordò soprattutto la seconda zucca sul pavimento, la risata sguaiata e perduta di sua sorella, i suoi occhi che l’accusavano di essere come tutti gli altri: demoni venuti a turbare il suo sonno e la sua veglia.

«Non sono un demone», confidò alle foglie morte, «sono solo stanca.»

I pensieri le avevano offuscato la mente e la vista, ma le gambe, seppur scontente, l’avevano condotta da qualche parte, forse nel tentativo di consolarla. E forse c’erano riuscite.

L’Oceano sembrava un gigantesco specchio nero, sconfinato e misterioso; cupo e custode di chissà quale segreto. Rifletteva la luna piena, così grande da dare l’impressione che stesse per entrare in collisione con la Terra. O forse era l’Oceano che cercava di rapirla, di rubarla al nero dell’Universo per trascinarsela nel nero dei suoi abissi, di farla sua, per sempre. Per un attimo, più fugace di un battito di ciglia, Waverly si chiese se quell’enorme massa d’acqua salata e gelida potesse desiderare anche lei; lei che si sarebbe lasciata prendere. Solo per un momento. Poi avrebbe lottato e sarebbe tornata alla vita, perché Waverly amava la vita, anche se essa è un’amante capricciosa e, forse troppo spesso, crudele.

Si mise seduta a poca distanza dal bagnasciuga, dove le onde non sarebbero riuscite a raggiungerla; non ancora. La sabbia era gelida, dolorosa a contatto con le carni, oltre lo strato di tessuto troppo leggero. Raccolse un po’ di sabbia e la guardò scivolarle via dalle dita, aiutata da gravità e vento. Una lacrima nacque tra le ciglia socchiuse, rotolò sulla guancia e cadde da qualche parte, nascosta dall’ombra del suo corpo.

‘‘Lo sai’’, le aveva detto una volta Wynonna, con le lacrime agli occhi, ‘‘i granelli di sabbia, tutti quanti, non potranno mai eguagliare, neppure avvicinarsi al numero di corpi celesti che stanno lassù’’ e aveva indicato il cielo notturno. Aveva pianto e non c’era stato modo di consolarla. Ma lei non era triste, non quando guardava il Firmamento: era commossa da un’immensità, da una bellezza che sapeva che non sarebbe mai riuscita a comprendere. ‘‘Eppure’’, aveva ripreso, ‘‘tutta l’energia un giorno si esaurirà: l’Universo si spegnerà e morirà nel gelo e nel silenzio, come un vecchio che lasci questo mondo senza rimorsi ma pieno di rimpianti.’’ Questo la rendeva triste. No: la straziava, le dilaniava l’anima e le penetrava il petto, scavava e le graffiava crudelmente il cuore, che non poteva fermarsi.

‘‘Non succederà che fra miliardi e miliardi e miliardi di anni’’, le aveva ricordato Waverly.

Wynonna aveva abbassato gli occhi, solo quelli, il mento ancora indirizzato alla fonte della sua felicità e del suo dolore. L’aveva guardata per un tempo troppo lungo, troppo freddo. L’aveva guardata come se non la riconoscesse, con crudeltà e biasimo.

‘‘Tu non capisci...’’ aveva mormorato in ultimo, scandendo le parole lentamente, come se le costassero fatica, come se facessero male.

«No, Wynonna, io non ti capisco...» mormorò all’Oceano. E sinceramente, per l’ennesima volta, cercò di capire perché gli occhi di sua sorella vomitavano lacrime amare come bile ogni volta che contemplava l’esistenza, anche quella più lontana e inafferrabile. Un’esistenza di cui non sarebbe mai stata testimone né martire. Invece lei, Waverly, era lì, nell’esistenza di Wynonna, nel suo mondo, nel suo presente, vittima di sbalzi d’umore che sembravano privi di logica, solo crudeli.

Guardò l’Oceano come fosse il volto di un sapiente, di un saggio erudito che avesse capito ogni cosa, che avesse le risposte a domande non ancora formulate dall’essere umano. Gli chiese se desiderasse rapire sua sorella, se nel fondo di quel nero senza suoni, ci fosse per Wynonna la possibilità di trovare pace. Perché forse solo la morte avrebbe potuto salvarla da se stessa. Waverly indugiò su quel pensiero violento e freddo che le rimandava l’immagine del volto di sua sorella, pallido e gonfio come la luna, inespressivo, inerte e gelido. Si chiese se la sua faccia sarebbe stata ancora in grado di esprimere quel dolore e quel disprezzo, una volta che il cuore si fosse fermato.

Il grido acuto e festoso di un bambino la salvò dalla tortura che si stava infliggendo; una tortura che forse la consolava, forse la distruggeva. Entrambe le cose. Tese l’orecchio, lasciò che il vento conducesse a lei quei suoni pieni di vita e aspettative, di illusioni e gioie. Erano distanti, oltre la sabbia, oltre i blocchi di cemento, aldilà degli alberi, su un viale pieno di porte a cui chiedere: ‘‘Dolcetto o Scherzetto?’’. Wynonna amava quel rituale: le piaceva osservare i volti che si schiudevano per lei, mascherati o puliti, gioiosi e complici o apatici e un po’ scocciati. Le piaceva scrutare dentro quegli occhi famigliari o estranei, le piaceva anche se a volte provava dolore, tanto dolore. Poi aveva smesso di piacerle. Poi l’alcol aveva cominciato a sostituire il calore umano nella sua pancia. Aveva smesso di guardare le persone negli occhi; lentamente, aveva smesso di contemplare la loro esistenza. Per Wynonna, ormai, esisteva quell’unica entità che le scendeva lungo la gola, che ormai non bruciava più, che le faceva provare un po’ di dolore al pettorale sinistro, alle costole; durava poco quel dolore e veniva subito ricompensato, guarito e spinto nel fondo di un’incoscienza senza sogni.

Waverly provò il desiderio di alzarsi, di raggiungere il viale alberato e unirsi a quei bambini, un po’ in disparte, da brava adulta disillusa, e pensare: Dolcetto o Scherzetto?, senza dirlo, forse muovendo appena le labbra prima di stenderle, piegarle all’insù in risposta al sorriso o al cenno di un altro adulto. Provò il desiderio di ripetere l’esperimento che Wynonna aveva fatto in quinta elementare, quando si era messa a distruggere le zucche e ogni decorazione che aveva incontrato: voleva sapere cosa sarebbe successo, quanto forti sarebbero stati rabbia, tristezza, odio o perdono. Lei non l’aveva mai spaccata, una zucca, neppure per sbaglio; quella volta era rimasta a guardare, attonita. Era scappata ogni volta che l’aveva fatto Wynonna, un secondo dopo, senza mai farsi vedere, senza mai sbagliare, senza mai rallentarla o tradirla. Senza mai permettere alle sue piccole gambe di separare Wynonna da ciò che desiderava. Era stata una brava ombra, proprio una brava, piccola ombra.

Rimase seduta a contemplare l’inganno che non era infinito.

Una folata di vento le sospinse sul viso una ciocca di capelli; un filamento ramato si incagliò fra le labbra, come un filo in attesa della cruna di un ago. D’istinto alzò una mano e voltò il viso, per liberarsi di quel solletico. Fu allora che la vide.

Era una figura alta, slanciata, così sottile da sembrare quasi una sagoma di cartonato. Le lunghe braccia tenute lungo i fianchi, dove le mani scomparivano nell’elegante giacca nera, simile a un tabarro ottocentesco, ma più adatto a fasciare e rispettare un corpo femminile. I capelli dovevano essere rossi, un rosso quasi volgare, ma sufficientemente scuro e spento da non esserlo davvero. Sotto i raggi della luna, le ciocche brillavano di riflessi viola e argentei. Capelli bagnati. Waverly provò un brivido; presto, però, si accorse che si trattava di un ricordo: non aveva più freddo. La donna contemplava l’Oceano come aveva fatto Waverly fino a un momento prima: sembrava porre domande a cui, però, sarebbe rimasta volentieri sorda. Era solenne ed eterea; quello sembrava il suo posto, come lo era quello di un polena sulla prua di un veliero antico. Waverly si chiese se, voltandosi, la donna avrebbe pensato lo stesso di lei. Se lo chiese senza una ragione, senza desiderio, accolse semplicemente il pensiero, come accoglieva quelli che non riguardavano sua sorella, e lo lasciò esistere, sfogare e morire.

La guardò ancora per qualche momento, sentendosi di troppo, il terzo incomodo in una conversazione fra amanti, ancora troppo giovani e innamorati dell’idea dell’altro per poterne cogliere i difetti che un giorno avrebbero amato o odiato. Entrambe le cose, se avessero lasciato che la tenerezza del tempo smussasse istinti e desideri, illusioni e pretese. Aveva pensato per la prima volta all’amore che invecchia cinque anni prima. Stava contemplando Il Bacio di Klimt e non riusciva a lasciare la tela: l’aveva trovata violenta, troppo violenta. Ma era un violenza che colpiva solo lei; lei che non impersonava nessuno dei due, che non conosceva la sensazione di essere avvolta e colmata da una passione che non può attendere. La donna si era avvicinata, le era rimasta al fianco come se fossero giunte lì insieme, come se non ci fosse bisogno di parlare, perché non c’era imbarazzo. Alla fine aveva rotto quel silenzio.

‘‘Siamo sempre in ginocchio’’, aveva commentato. ‘‘Noi donne, intendo’’, aveva aggiunto, voltando appena la testa, lentamente, fermando gli occhi sulla guancia di Waverly.

Waverly si era trattenuta dal dirle che pensava che anche lui fosse in ginocchio, perché dubitava che quello rappresentato potesse allontanarsi dall’idea dell’uomo virile e predatorio, suggerito dalle possenti spalle e dalla posa quasi rapace che racchiudeva la sua amante. Non poteva essere così basso. Si era limitata a un sorriso, senza voltarsi, senza reagire davvero. Anche la donna aveva sorriso, soffiando lentamente l’aria della narici, come a schermirsi, ma con un’indulgenza che le era propria, complice. Studiandola con la coda dell’occhio, Waverly aveva capito che la sua interlocutrice doveva aver passato i cinquanta, avviandosi verso il cambio della prima cifra. Le luci bianche, troppo forti della galleria, però, erano state clementi e non erano riuscite a inquinare una bellezza che rifiutava ancora di sfiorire.

Quella notte, contemplando il soffitto dal letto di quella sconosciuta, Waverly si era chiesta come sarebbe stato se al mattino si fosse fermata per fare colazione insieme, se le colazioni sarebbero diventate pranzi e cene. Avrebbe continuato ad apprezzare quegli occhi scuri, quando la pelle avrebbe ceduto e li avrebbe un po’ nascosti, quando il tempo li avrebbe resi opachi e spenti? Avrebbe continuato a trovare giovamento in quel corpo morbido, forse già troppo rilassato? Si era chiesta se sarebbe riuscita a perdonare l’amarezza che quella donna aveva nei confronti del mondo, quella disillusione quasi tossica, vittimistica. Aveva raccolto i suoi vestiti, silenziosa come un fantasma, come l’intrusa che era in quella dimora. Aveva fatto colazione in un bar, lontano dalla galleria, lontano da quell’appartamento che non l’avrebbe mai più rivista.

Sorrise alla donna che continuava a contemplare le acque con l’immobilità di chi non abbia nessuna guerra da combattere, non col corpo. Le aveva sorriso e si era chiesta perché fosse riuscita a risvegliarle quel ricordo così sepolto nella coscienza, sbiadito come se si fosse trattato solo di un sogno. Distolse lo sguardo e la lasciò all’intimità che si stava ritagliando, senza più cercare di origliare le parole mute che forse rivolgeva alle onde.

Col crescere della luna era cresciuta anche la trepidazione dell’Oceano, che ora sembrava una bestia ferita che si dimeni, che brami la carne che non può raggiungere. Waverly si alzò prima che l’onda potesse ghermirla. Camminò all’indietro, quasi avesse paura che la fiera potesse avventarsi su di lei a tradimento.

Oramai abbastanza distante, si voltò a guardare la sconosciuta per rivolgerle un saluto silenzioso, un addio solitario, solo suo; per ringraziarla della compagnia che non sapeva di averle tenuto, che ignorava come il conforto che le aveva gentilmente, inconsapevolmente regalato.

Inaspettatamente incontrò i suoi occhi, che da quella distanza erano solo due scintille senza iride o pupilla, solo il riflesso della luna. Waverly rimase ferma e la guardò come fosse l’unica cosa possibile, giusta. La donna dai capelli rossi e bagnati fece lo stesso. Poi, quasi con troppa violenza, voltò la testa alla sua sinistra, come se qualcuno le si fosse avvicinato d’improvviso. Su quella spiaggia c’erano solo loro due, e la donna se ne convinse abbastanza in fretta. Tornò a concentrarsi su Waverly, questa volta quasi con stupore e, in pari tempo, con una specie di consapevolezza tutta sua. Waverly alzò una mano, accennando un saluto. La donna non ricambiò, ma sembrò sorridere. Tornò a contemplare l’orizzonte come se l’Oceano l’avesse richiamata, geloso delle attenzioni che stava dando a qualcuno diverso da lui. La corrente di risacca le bagnava le scarpe di tela e l’orlo dei pantaloni, come se davvero cercasse le sue attenzioni, come se volesse trascinarla con sé negli abissi. A lei non sembrava dispiacere, forse lo desiderava.

Waverly tornò indietro, vicino al confine fra sabbia e acqua. Finse di cercare qualcosa fra i granelli, finse di trovarlo e raccoglierlo. Tirò fuori il pacchetto delle sigarette e ne accese una. Sperava di attirare l’attenzione di quella donna, che forse si sarebbe avvicinata: aveva l’aria di una bisognosa di nicotina. Non se ne era andata, si accorse, per quel gesto non ricambiato, non speculare. Desiderava ancora gli occhi della donna su di sé, perché quel sorriso non era stato abbastanza, ma era stato magnetico. Forse lo aveva solo immaginato. Forse desiderava solo indispettire l’Oceano, derubarlo.

«La notte senza confini. La chiamano così, vero?»

Alla fine la donna si era avvicinata, aveva annullato la distanza fra loro e doveva averlo fatto troppo vicina al bagnasciuga, perché la sabbia non conservava l’eredità dei suoi passi. Si era fermata a una distanza che le consentiva di farsi udire senza alzare la voce e che, nel contempo, non risultava invadente. Waverly pensò che la sua voce le fosse giunta gradevole e inattesa, come la festa di un compleanno che si credeva dimenticato. Era stato un suono triste, acuto ma morbido, un po’ infantile ma invecchiato da una dolore che Waverly non conosceva, che non riusciva a indovinare. Che non era sicura di voler conoscere.

«Dicono che in questa notte il mondo dei vivi e quello dei morti si mescoli», annuì, aspirando e soffiando fuori fumo e fiato, che si condensarono nell’aria salmastra e gelida che non le feriva più le carni. Avrebbe voluto voltarsi e guardarla, appropriarsi dei suoi lineamenti, scoprire il colore dei suoi occhi, sapere se l’avrebbe trovata bella o se, invece, ci avrebbe visto qualcosa di sgradevole o grottesco. «Dicono così», soggiunse, senza lasciare l’immenso specchio nero. Aveva aggiunto quell’inutile appendice forse all’unico scopo di non lasciare che il silenzio occupasse troppo spazio fra loro.

«Dicono così», le fece eco la donna; un’eco che quasi si perse nel vento, rischiando di non raggiungere Waverly. Forse anche lei voleva opporsi all’assenza di suoni.

«Fumi?»

«Ho smesso», rispose garbatamente. Non si era mossa, continuava a tenere le mani infilate nelle tasche e gli occhi sull’Oceano.

Waverly dischiuse le labbra, cercando altre parole. Dalla sua bocca uscì solo il fumo che aveva aspirato dal filtro sottile. Presto si accontentò della presenza silente al suo fianco: mitigava la sua solitudine. Era abbastanza.

Il vento cambiò d’improvviso, spingendo verso Waverly l’odore della donna: sale e alcol. Ebbe la certezza di riconoscere la marca di whisky scadente, lo stesso che acquistava sua sorella.

La immaginò camminare sul filo dell’acqua come un equilibrista che avesse perso la padronanza della sua arte. Le dita strette attorno alla bottiglia nel cui fondo aveva cercato una risposta; ormai vuota, l’aveva scagliata nell’Oceano e l’aveva seguita, forse perché era caduta anche lei, sbilanciata dal gesto rabbioso. O forse aveva tentato di annegare le sue sofferenze in un bottiglia più grande, una che non l’avrebbe restituita alla vita col mal di testa. Una che non l’avrebbe restituita affatto. Non c’era riuscita, non ne aveva avuto il coraggio, e allora era andata nel panico e gattonato e strisciato fino alla salvezza. Immaginò fosse rimasta lì, fradicia, insistendo nella contemplazione di quanto era avvenuto, rivivendo se stessa come un feticcio posseduto da una forza sovrannaturale, maligna. Qualcosa che col senno di poi, non più annebbiato, aveva stentato a riconoscere, forse addirittura a comprendere, come un folle che rinsavisca d’improvviso, costretto a fare i conti con un se stesso sconosciuto.

Una paura estemporanea le mozzò il respiro.

Il Bacio di Klimt. Violenza.

La mente di Waverly aveva indagato ed esplorato oltre, ma la verità era che quella donna non l’aveva indotta a pensare all’amore e al tempo, né alla passione di una notte. Forse un sistema di difesa l’aveva spinta oltre il dipinto, oltre le sensazioni che le aveva inferto. Oltre la verità, oltre la voce dell’istinto.

La guancia sinistra pulsò, ricordò il dorso della mano di Wynonna. Forse anche quella donna l’avrebbe colpita. Forse progettava di afferrarla e di spingerle la testa sott’acqua; forse era questo che vedeva nelle acque: una violenza immotivata, alcolica, troppo simile a quella che forse aveva avuto per se stessa.

Si voltò a guardarla, come volesse sfidarla a mettere in atto il suo orrifico progetto. Ma il viso, nascosto dai lunghi capelli grondanti d’acqua, rimase rivolto davanti a sé, non ricambiò la curiosità, non accettò la sfida. Non aveva finito il suo discorso con l’Oceano.

L’odore divenne insopportabile. La figura di Wynonna sostituì quella della donna alta. Gli occhi color del cielo di sua sorella si inzupparono di una rabbia triste, di un odio pietoso.

«Buon Halloween», mormorò a mo' di saluto. Si voltò e cominciò ad allontanarsi, sentendo che il freddo ricominciava a morderla.

Non sarebbe stata vittima anche della rabbia di quella sconosciuta, della sua frustrazione. Della sua violenza. Quella del sangue del suo sangue le era sufficiente.

«Sono Nicole.»

Waverly si fermò, si voltò e riscoprì il colore dei suoi occhi. I tratti, che la distanza prima e i capelli poi avevano nascosto, non erano grotteschi, ma anzi delicati e armoniosi. Famigliari.

Non c’era nulla di violento in Nicole.


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N.d.A: Il Fiore della Pazienza è un giglio che sboccia in realtà ogni sette anni; il ventisette era un riferimento alla serie.

 
  
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