Serie TV > Wynonna Earp
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Autore: aurora giacomini    04/11/2023    1 recensioni
E’ Halloween. In questa notte, il velo che divide il mondo dei vivi e quello dei morti si assottiglia sino a svanire. Un’altra barriera cede all’incantesimo. Il mondo interiore di Waverly si riversa all’esterno con violenza, con dolore. L’introspezione prende il sopravvento, il pensiero si fa logorroico, le percezioni plasmano il mondo, lo modificano: distinguere fra cosa è reale e cosa no diventa sempre più difficile, illogico. Non ha più senso cercare il confine fra pensiero e azione, fra ricordo e sogno, perché non esiste più.
Ci sono solo loro due. Scrutano l’Oceano, ognuna con le proprie domande, ognuna con le proprie risposte.
Il suono della sua voce infrange anche l’ultima barriera, quella del silenzio.
E’ un orizzonte destinato a non finire. E’ un miasma informe, incorporeo, senza tratteggi, senza linee.
Questa è la notte senza confini e l’alba è lontana.
Genere: Angst, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Nicole Haught, Waverly Earp, Wynonna Earp
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Spazio d’Autore: I capitoli totali saranno in realtà tre: sarebbe stato troppo lungo e pesante.

 



II.


 

Waverly impiegò qualche secondo a riconoscerla davvero. 

«Nicole...» Pronunciare quel nome le diede uno strano brivido, come quando da bambina faceva qualcosa che non avrebbe dovuto. «... la figlia della fioraia, giusto?» Aveva fatto in modo di renderla una domanda, solo per educazione. Sapeva benissimo chi aveva davanti. La porta dei ricordi si era spalancata e ogni cosa si stava riversando sulla sabbia, come quando si apre uno sgabuzzino troppo ingombro e disordinato senza le dovute precauzioni. Fu investita e sommersa da immagini e suoni che stentò a sentire come suoi, come se appartenessero a un’altra adolescente, a un’altra Waverly.

Nicole strinse le labbra; somigliò a un sorriso. E quel sorriso inghiottì quei quindici anni, li annullò.


Ogni venerdì pomeriggio, Charleen e Waverly si recavano al negozio della signora Dubois. La Tulipe Indigo era un grazioso agglomerato di mattoni e vetrine, luminoso anfitrione di infinite varietà di piante e fiori, autoctoni o esotici. Che si desiderassero delle rose rosse per conquistare un innamorato o delle camelie per impreziosire l’ambiente, La Tulipe Indigo era la risposta, la prima scelta di ogni abitante della città. Charleen aveva sepolto il suo innamorato appena il mese prima e da decorare c’era solo la sua lapide di marmo nero. Anche per il funerale si era rivolta alla signora Dubois che, seppur con pochissimo preavviso, aveva preparato e consegnato i fiori per la camera ardente, per la chiesa e aveva realizzato una grande corona funebre, sobria ed elegante, come era nei desideri della madre di Waverly.

‘‘Buon pomeriggio, signora Earp’’, aveva salutato cordialmente la fioraia, accennando quasi un inchino col capo. Negli anni, l’accento francese si era mescolato a quello del posto, dando vita a suoni peculiari e melodici.

‘‘Buon pomeriggio, signora Dubois’’, aveva ricambiato Charleen, con la stessa cortesia ma con la testa ferma, fieramente alta.

Waverly trovava divertenti quegli scambi: le ricordavano vecchi film con dame ridicolmente vestite. 

‘‘La lavanda è più rigogliosa che mai’’, aveva detto la signora Dubois. Consigliava sempre di aggiungere qualche stelo di lavanda perché, come aveva spiegato a Waverly, la lavanda dice ‘il tuo ricordo è la mia unica felicità’. Waverly aveva sperato la memoria del padre morto non fosse l’unica felicità della sua vita; si era vergognata di quel pensiero e aveva pianto.

‘‘E’ cominciata la primavera’’, aveva detto Charleen, che si era rivolta alla pianta di ciclamini appoggiati sull’angolo del piccolo bancone, come a enfatizzare la sua affermazione. ‘‘Desidero qualcosa che dica che è primavera. Niente colori troppo accesi, ti prego.’’

Mentre le due donne si accordavano suoi componenti del bouquet con cui omaggiare la memoria del morto, Waverly, come ogni volta, aveva cercato con gli occhi Patte. L’aveva trovato subito: era acciambellato fra due vasi di monstera deliciosa; faceva le fusa al raggio di sole che filtrava dalla vetrata rivolta a ovest e che gli arrivava sul pancino. Si era messa seduta sulle caviglie e aveva cominciato a coccolarlo delicatamente, per non disturbare il suo riposo.

‘‘Attenta, potrebbe cavarti gli occhi!’’

Waverly si era alzata troppo bruscamente e aveva rischiato di perdere l’equilibrio, spaventando Patte, che era scappato a cercare rifugio in quella selva di vasi e fiori. Aveva alzato la testa, scoprendo la fonte dello scherzo un po’ meschino.

Una ragazza molto alta era sbucata dalla porta che portava al magazzino e da lì,  aveva ipotizzato Waverly, si raggiungevano le scale che portavano al piano superiore, dove c’era l’appartamento della signora Dubois.

‘‘Nicole, je t'en prie!’’, l’aveva sgridata la signora Dubois, con una nota di rassegnazione troppo importante nella voce; poi si era rivolta dolcemente a Waverly: ‘‘Monsieur Patte non ti farebbe mai qualcosa del genere, chérie.’’ Infine, alla signora Earp: ‘‘Diciassette anni sprecati, parola mia! La tua ne ha dodici, ricordo bene?’’

‘‘Ne compirà tredici la settimana prossima’’, aveva confermato Charleen, che aveva subito colto l’occasione per introdurre Wynonna nel discorso. Chi meglio di una fioraia avrebbe potuto comprendere e apprezzare le prodezze del suo giglio? Invero, chiunque sembrava esistere quasi unicamente in relazione a Wynonna, agli occhi di sua madre; anche l’altra figlia, il cui unico scopo sembrava quello di rendersi conto di chi aveva occupato quello stesso ventre tre anni prima di lei. Peccato avesse dovuto aspettare tanto per incontrarla. Quale spreco.

Waverly le aveva sentite appena e subito aveva smesso di ascoltarle: la sua attenzione era tutta per la nuova arrivata. Era la quarta volta entrava da La Tulipe Indigo, ma era la prima volta che vedeva Nicole; non sapeva e non si era neppure chiesta se la fioraia avesse figli.

Nel frattempo, Nicole aveva annullato la piccola distanza che la separava dal bancone. Senza salutare e senza degnare Waverly di altre attenzioni, si era seduta sulla sedia girevole e aveva posato i piedi accanto al registratore di cassa. Aprendo il libro che aveva tenuto sotto braccio fino a quel momento, si era immersa in un mondo il cui l’accesso sembrava vietato, addirittura impossibile a chiunque altro; ragion per cui Waverly aveva trovato tutto il tempo di studiarla indisturbatamente.

Aveva i capelli turchini; su chiunque altro quel colore sarebbe stato parecchio ridicolo, ma Waverly aveva ritenuto che Nicole lo rendesse figo, perché lei era davvero figa. Aveva pensato che dovesse essere una delle ragazze più popolari del liceo, probabilmente la più popolare, e che ogni giorno i suoi compagni litigassero e venissero alle mani, pur di vincere l’onore di sedersi accanto a lei in mensa o di invitarla alle loro feste. Le curate sopracciglia castano chiaro facevano da arco a due occhi nocciola caldo, senza trucco, che si muovevano solo per inseguire le lettere stampate. L’angolo sinistro della sua bocca spuntava da oltre la copertina del libro, in un sorriso indeciso se essere diverto o indignato. Waverly aveva desiderato che Nicole schiudesse le labbra e parlasse ancora: a causa dello spavento non ricordava il suono della sua voce, e questo le aveva quasi fatto spuntare lacrime di vergogna e di rabbia. Le braccia, martoriate da tagli e scottature, che esibiva come fossero dei trofei, spuntavano da una felpa nera senza maniche, troppo grande ma sicuramente comodissima, e terminavano in dita affusolate, ornate da uno smalto nero, molto opaco e rovinato. 

Quando aveva mosso la mano dal fianco del libro, Waverly aveva pensato che Nicole l’avrebbe usata per voltare pagina. Invece la mano era andata giù e aveva sollevato l’orlo della felpa e, complici gli slip portati troppo bassi, erano stati rivelati dei peli castani e il tatuaggio di una farfalla nera, in stile tribale. Il prurito doveva essersi spostato più in alto, e così la felpa era stata sollevata fino a rivelare i bordi di un reggiseno viola scuro. Sul costato sinistro, accanto a un ventre piatto, forse troppo incavato, c’era un altro tatuaggio, molto più grande ed elaborato. Rappresentava un uomo muscoloso, nudo, seduto a cavalcioni sul dorso di un toro imbizzarrito, che versava dell’acqua da una brocca; sopra di loro, un sole o una luna, formata da due pesci, uno nero con l’occhio bianco e l’altro bianco con l’occhio nero, come lo Yin e lo Yang. Waverly, seppur affascinata, aveva però riportato l’attenzione sul tessuto viola, che lasciava intuire la forma dei seni. Era riuscita a non perdersi neppure un dettaglio: il top del bancone era di legno, ma il corpo di vetro trasparente. Si era convinta che Nicole lo avesse fatto di proposito.

La mano di Nicole era tornata sul libro e Waverly alla realtà della stanza. Si era guardata attorno, terrorizzata dall’idea di incontrare il viso scandalizzato e arrabbiato di sua madre o quello della signora Dubois. Ma le due donne si erano spostate in un altro angolo del negozio, dove la fioraia stava componendo il bouquet da portare sulla tomba del signor Earp. 

Aveva riportato gli occhi su Nicole, ordinandole mentalmente di guardarla, di chiederle scusa. Chiederle scusa per ogni cosa: per essere così bella, per essere più grande, per quel fastidio vagamente famigliare eppure inedito che ora sentiva fra le gambe. Ma le labbra di Nicole erano rimaste chiuse, i suoi occhi sulle pagine; e Waverly non aveva trovato il coraggio di rivolgerle la parola. Sembrava una donna matura, bella e impossibile, così fiera ora che era immersa in quella lettura dall’aria esotica e complicata. Aveva dubitato potesse essere la stessa persona che poco prima le aveva rivolto quelle parole insensate, un po’ meschine.

Un’ora dopo, in ginocchio davanti alla tomba di suo padre, Waverly non aveva pregato, non gli aveva parlato e non aveva pianto; aveva continuato a pensare a Nicole, ai suoi capelli, al suo viso, ai suoi occhi, ai suoi tagli, a suoi tatuaggi. Anche la notte, protetta dal buio e dall’intimità della sua cameretta, aveva pensato a Nicole; aveva fantasticato su di lei mentre mandava via il fastidio. L’aveva odiata con tutte le sue forze per essersi imposta così nella sua mente, per non averla invitata nel suo mondo, per aver cambiato il significato a quei venerdì pomeriggio. Per non averla resa reale, semplicemente guardandola. L’aveva odiata perché lei soffriva le pene di un amore nuovo, giovane e insensato, mentre Nicole sapeva a malapena della sua esistenza.

Per i successivi tre anni, Waverly aveva atteso il venerdì come se fosse Natale. Nicole era diventata la sua ossessione: scriveva il suo nome ovunque, anche sui diari, sui quaderni e sul banco di scuola, decorandolo con fiorellini, stelline e cuoricini; fantasticava di parlarle e di dichiararle il suo amore, un amore che Nicole avrebbe ricambiato con trasporto e tenerezza. 

A un certo punto, la signora Dubois aveva avuto un incidente e la sua gamba era rimasta quasi del tutto paralizzata: Nicole l’aveva praticamente sostituita. Waverly non aveva provato vergogna per la gioia che le aveva riempito il petto: Nicole sarebbe stata presente ogni venerdì e non le avrebbe mai più spezzato il cuore con la sua assenza. Ma Nicole, in tutti quegli anni, in tutti quei venerdì, aveva rivolto a Waverly poche parole, sempre le stesse: ‘‘Ciao’’, ‘‘Il resto’’, ‘‘Arrivederci’’; e lei non aveva mai osato pretendere di più, non ne aveva mai avuto il coraggio.

Poi, un venerdì che sembrava uguale a tutti gli altri, Waverly e Charleen avevano trovato il negozio chiuso, svuotato. Il cartello VENDESI risaltava contro quel vuoto con troppa violenza, come se quelle lettere fossero mani protese, pronte a strapparle il cuore dal petto. Il mese successivo La Tulipe Indigo era diventato un negozio di scarpe. E Waverly non aveva più rivisto Nicole.


«Sei diventata una donna», commentò Nicole quando Waverly tornò al suo fianco, spoglia di ogni paura, ma col cuore leggermente veloce e il respiro affannato, a causa della corsa nei ricordi.

«Ai miei occhi, tu sei sempre stata una donna. Lo eri prima del tempo.»

Nicole non si offese.

«Ho sempre amato bruciare le tappe», annuì.

Il volto era ovviamente maturato, ma non sembrava rispecchiare gli anni che avrebbe dovuto avere, come se il tempo, a un certo punto, si fosse dimenticato di carezzarlo e di inciderci le tacche dei giorni, dei mesi e degli anni. Si chiese se la trovasse ancora bella. Sì, assolutamente. Anche con quell’aria sofferente e trascurata, Nicole era ancora bellissima. Desiderò innamorarsi di nuovo di lei. Si chiese se avesse mai smesso di esserlo. No, assolutamente. Neppure il tempo può uccidere il primo amore; può solo addomesticarlo. Si scoprì a desiderare che Nicole compiesse una follia, che le proponesse di fuggire insieme. Avrebbe accettato, sapendo di mentire. Per qualche settimana si sarebbe rifugiata in quella bugia. Avrebbe permesso a Nicole di farla sentire di nuovo ragazzina. Viva. Poi le avrebbe spezzato il cuore e le avrebbe nuovamente detto addio.
Contemplò quei pensieri senza chiedersi perché fossero arrivati; non le importava. Li guardo allontanarsi e svanire, inghiottiti dalle onde.

«Non ero sicura fossi davvero tu», disse Nicole, infrangendo di nuovo la barriera del silenzio. 

«Io lo ero.» Sul suo viso comparve un sorriso mesto, maturo. «Avevo una cotta per te.» Alla confessione non seguì nessun imbarazzo, forse solo il desiderio di dirle che pensava non le fosse ancora passata.

«Veramente?»

Waverly accolse la nota d’ironia con un altro sorriso. Si frugò nelle tasche e si accese un’altra sigaretta: di solito ne fumava una o due al giorno, ma si sentiva irrequieta, anche se era quasi piacevole.

«Questa è la conversazione più lunga che abbiamo mai avuto», notò. Nella sua mente si scontravano ancora ricordi e pensieri un po’ intrusivi. «Anche prima non sembravi intenzionata a parlarmi. Perché mi hai detto chi eri?»

Nicole alzò leggermente le spalle, quasi involontariamente.

«Volevo sapere se il mio nome avrebbe suscitato una reazione.»

«L’ha fatto.» Le sorrise, come a chiederle di non badarci; poi: «Sei sempre stata un po’ eccentrica, forse per questo riuscisti a sconvolgere la mia giovane mente. Ma il bagno al 31 di ottobre, nell’Oceano, non ti sembra un tantino eccessivo? Non senti freddo?»

«Non sento nulla», rispose spontaneamente. Cercò di rimediare: «No, non sento freddo. Grazie per averlo chiesto.» Abbassò un momento lo sguardo e, riportandolo negli occhi di Waverly: «Perché non mi hai mai detto che ti piacevo?»

«Lo sapevi.»

«Sì. Ma perché non me lo hai mai detto?»

Questa volta fu Waverly ad alzare le spalle.

«Mi facevi paura: ti vedevo come qualcosa di... irraggiungibile.»

«Eppure, eccoci qua.»

«Già», annuì, e prese tempo aspirando e soffiando fuori il fumo. «Non pensavo che ti avrei mai rivista. E’ strano farlo così.»

«Piacevole o spiacevole?»

«Strano», ripeté, perché non sapeva rispondere alla domanda di Nicole. «Per te?»

«Decisamente piacevole.»

«Come sta tua madre, la signora Dubois?»

«Non la vedo da anni.» Guardò per un momento la luna, poi abbassò di nuovo lo sguardo su Waverly: «La tua?»

«Con papà, mi piace pensare.»

«Mi dispiace.»

Waverly annuì e mormorò un «grazie».

«Brutta serata?»

La guancia di Waverly pulsò in risposta allo sguardo di Nicole. Prima che potesse dire qualcosa, lei aggiunse, rapidamente: «Scusa, non sono affari miei.»

«E’ stata mia sorella, dopo che l’ho mandata a farsi fottere e ho minacciato di non farmi più vedere. Ti ricordi di lei?»

«La ragazza che mi guardava come se avesse voluto farmi un’autopsia: come potrei dimenticarlo? Mi diede i brividi. Quel giorno tua mamma aveva la febbre - giusto? - per quello ti accompagnò lei. Fu l’unica volta che la vidi. Abitate ancora insieme?»

Waverly annuì.

«E a te va bene così?»

Ho paura che se me ne andassi davvero, lei si taglierebbe le vene nella vasca da bagno; per questo non posso fuggire con te, pensò. Disse invece: «Perché sei venuta qui?»

«Qui o da nessun’altra parte. Tu?»

«Avevo paura del coltello con cui stavo intagliando la zucca, l’ultima sopravvissuta. Avevo paura di piantarglielo nel petto.»

«Mediti spesso di uccidere tua sorella?», chiese, e dalla sua voce non trapelarono emozioni, solo genuina curiosità.

«Qualche volta.» Spense la sigaretta sulla sabbia e si mise il mozzicone in tasca. «Forse aspetto che sia lei a uccidere me.»

«Ne sarebbe capace?»

«Non lo so. Non conosco quella donna.»

«Possiamo cambiare discorso, se vuoi.»

«E perché mai?» Rise amaramente. «A volte mi domando se io esista davvero, o se sia solo un suo riflesso opaco, troppo smorto per avere davvero un’identità mia.»

Nicole spostò l’attenzione sull’Oceano. Forse il silenzio sarebbe tornato troppo denso e avrebbe cancellato i suoni che avevano rimbalzato fra di loro. Forse era tempo di voltarsi e non tornare indietro.

«A volte mi domando qualcosa di simile», disse infine; e Waverly capì che non era ancora tempo di dire addio. «Sei incredibilmente reale», aggiunse, voltandosi e sorridendole delicatamente.

Avrebbe voluto ricambiare, ma si accorse che sarebbe stata una bugia: Nicole era lì, al suo fianco, ma, esattamente come allora, sembrava irraggiungibile, inafferrabile. Solo il sogno di una ragazzina.

«Posso confessarti una cosa?»

«Certo», disse, sollevata, perché ormai il tempo l’aveva liberata dall’obbligo di rispondere alla precedente affermazione di Nicole.

«Ho voglia di piangere. Non riesco a ricordare l’ultima volta che l’ho fatto, che mi sono abbandonata a un pianto liberatorio. Tu ricordi la tua ultima volta?»

Waverly impiegò qualche secondo ad accettare che quelle parole fossero giunte da Nicole.

«Fallo, sfogati. Non ti giudicherò», disse infine.

«Scusa. Non so perché l’ho detto.»

«Perché siamo tutti crudeli, siamo tutti dei mostri, tutti noi costringiamo a piangere la gente.» * Si voltò a guardarla e, per un momento fugace, la rivide diciassettenne. «Ricordi?»

Nicole socchiuse gli occhi e inclinò leggermente la testa d’un lato. 

«Dostoevskij...?», tentò dopo qualche secondo.

Waverly annuì lentamente, permettendo ai pensieri di diventare parole.

«Stavi leggendo I fratelli Karamazov, quando ti ho conosciuta. Supplicai mia madre di comprarmelo; rifiutò. La signorina Tremblay, la bibliotecaria, non ha mai più rivisto quel volume. E’ diventato il tesoro della mia adolescenza; l’ho letto e riletto fino a consumarlo, ma non credo di averlo mai davvero capito.»

«Non so quali fossero i miei pensieri, al tempo: eri più piccola di me; all’inizio, davvero troppo piccola per me», confidò. «Ma ricordo che la tua presenza mi confortava, esattamente come sta facendo adesso. Ogni venerdì sentivo i tuoi occhi addosso, li percepivo come una forza fisica su ogni mio movimento. Mi piaceva, mi faceva sentire importante, tangibile.» Tornò al discorso precedente, forse troppo bruscamente, togliendo alla Waverly adolescente quel piccolo momento di gloria: «Penso che quel libro, che quella frase in particolare fosse un monito. Sì, ne sono convinta. Quando i miei occhi ci passarono sopra, pensai semplicemente che fosse una bella frase, adatta a un tatuaggio. Ora mi chiedo quanto pesanti sarebbero le lacrime di coloro che ho ferito, se potessi raccoglierle tutte. Mi chiedo se potrei annegarmici.»

In sincronia, come se fossero ballerine intente a seguire una coreografia, si voltarono verso l’Oceano. I capelli e gli abiti di Nicole gocciolavano ancora, come se fosse appena riemersa dal soggetto delle loro riflessioni.

«Sei caduta?»

«Davvero troppo in profondità.»

«Mi chiedo se sarò in grado di riemergere anch’io, dall’abisso in cui mi trovo...» mormorò, dopo aver soppesato le parole di Nicole. 

«Ce la farai. In un modo o in un altro.»

«In un modo o nell’altro...»


«Tornerai a trovarmi?», chiese Nicole, la cui voce era incerta come le timide luci arrivate ad annunciare che l’alba non era lontana. La notte era trascorsa come un sogno, troppo breve e incontrollabile.

Waverly non rispose, impegnata ad analizzare la peculiarità con la quale Nicole aveva scelto le parole.

«Lo farai?», insisté. Guardava l’orizzonte come se si aspettasse che da un momento all’altro ne sarebbe spuntato un mostro. Ma l’Oceano celava solo il sole.

«Posso lasciarti il mio numero di telefono, così mi dici dove venire», propose.

Nicole scosse lentamente la testa, sconsolata.

«Non so dove vivi...» Per qualche ragione, le sue stesse parole le diedero un brivido. «Non so come ritrovarti», aggiunse subito, tentando di cancellare la sensazione.

«Ho solo bisogno di sapere se posso ancora esistere per te. Se ne ho ancora il diritto.» Sembrò un guaito.

Con profondi tristezza e rammarico, Waverly pensò che la mente di Nicole fosse irrimediabilmente danneggiata dall’alcol, esattamente come quella di Wynonna. Il momento di lucidità, dato paradossalmente dalla sostanza, era finito, le cicatrici riaperte come bocche assettate. Provò un fastidio che quasi la soffocò, una rabbia simile a quella di quel tempo lontano. La odiò. Rivide il Bacio di Klimt; quell’oro eccessivo, violento come il sole che stava nascendo per uccidere quel loro momento. Odiò anche lui.

«Devo andare. Sono preoccupata per mia sorella...»

Nicole annuì piano e gli occhi le si fecero grandi d’orrore. La bestia stava per emergere.

«Mi ha fatto piacere rivederti», disse, voltandosi e puntando verso la linea d’alberi in lontananza. Questa volta non sarebbe tornata indietro. Era tempo dell’ultimo addio.

«Non ci sarebbe il peso delle tue lacrime, Waverly. Se avessimo avuto entrambe più coraggio, non ti avrei mai fatta piangere.»

Waverly si voltò. Il primo raggio di sole l’abbagliò e l’aria fredda la ferì come se mille aghi le si fossero piantati nei pori. Subito dopo, il suo corpo sperimentò il brivido di un gelo che nessun inverno avrebbe mai potuto eguagliare.

Nicole era scomparsa.


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N.d.A: * Non sono sicura che la citazione appartenga all’opera che ho indicato: non sono riuscita a verificarlo. Se qualcuno fosse in grado di confermare o correggermi, non esiti. Grazie :)
  
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