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Autore: time_wings    10/11/2023    0 recensioni
[Wolfstar, Jily + una ship non taggata]
Sirius Black sa che ha quattro mesi prima di perdere la vista. James Potter sa che hanno quattro mesi per vedere il mondo insieme. Dopo averci riflettuto per meno di dieci secondi, i due partono per un viaggio dalle destinazioni incerte, che li porterà più lontano di quanto avessero previsto. Perché alla fine è davvero così cruciale trovare se stessi?
Una storia raccontata da alcuni occhi.
Dal testo: “Sei uno che pianifica molto, eh?” La verità era che non lo sapeva, era cresciuto con l’idea che leggere gli altri servisse solo a sfruttarli successivamente. Era nuovo a questo gioco.
“Mh, un sacco.”
“È molto grave, fa male alla salute.” Inclinò il viso su un lato, lo guardò ancora, le palpebre di colpo pesanti rispondevano più al torpore che al sonno. Un altro paradosso di quel paese. Le ciglia di Remus si piegavano sulle guance, la pelle era segnata da qualcosa che sembrava vento. “Dove hai detto che vai?”
Genere: Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Peter Minus, Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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C'è un riferimento al suicidio, non riguarda nessuno dei personaggi.



C’era una specie di interferenza nel tempo, in sottofondo un rumore a banda larga.
Qualche giorno prima l’avevano messo seduto in una barca tra due montagne, l’acqua le leccava alla base. Loro, umani sfrontati, attraversavano quell’equilibrio al passo lento della calma, tra uno schiocco e un altro di un remo.
Sempre qualche giorno prima, Hội An aveva brillato di luci di lanterne e si era accesa di odori, di onde di mare, di edifici di legno così vecchi che prendere la mano di Remus all’improvviso gli era sembrato più proibito di ogni singolo gesto proibito al mondo.
Quel giorno, invece, era a Sydney, da qualche parte tra il primo e l’ultimo dell’anno e il cielo era appena esploso. Se avesse avuto una tartaruga chiacchierona sottomano di nome Scorza, che a centocinquanta anni era ancora un ragazzino, le avrebbe raccontato l’assurda storia di come era finito lì, a guardare l’Harbour Bridge sparare scintille, come quelle candeline di compleanno molto scenografiche che non si spegnevano mai soffiandoci sopra. E Scorza l’avrebbe detto a un pesce, che l’avrebbe detto a un altro pesce, passando per squali, uccelli e granchi. Ma Sirius non avrebbe sentito l’ultimo anello della catena venire a chiudersi al primo a raccontargli il suo stesso viaggio, perché non sentiva più nulla.
Così tante luci in cielo che sarebbero potute essere tutte riflessi delle lenti delle telecamere che trasmettevano quello spettacolo alle televisioni di tutto il mondo. E ogni lente un orologio che andava indietro nel tempo, che si fermava.
Uno, due. Tre.
Ripeti da capo.
 

Mary MacDonald era un’artista. Casa sua sembrava uscita direttamente da uno di quei film fatti più per l’estetica che per il contenuto.
Si trovava su una strada in cui anche d’estate gli alberi si assicuravano che a terra permanesse un tappeto di foglie. Strani fiori rossi pendevano dai rami. Lei era all’ultimo piano di un edificio di mattoni. Era un open space tappezzato di tele, il linoleum macchiato di vernice indurita. La casa di un’artista, proprio la casa di un’artista, al punto che pareva finta.
“Ma è bellissima!” Lily si affacciò alla finestra, si intravedevano dei fiori. Era in cima a un soppalco, dalla ringhiera pendevano tele dipinte a metà.
Sirius ne ispezionò una. Era una scena incomprensibile: un fiume di gente sfumava in un fiume di lepri. Si riunivano sullo sfondo a formare un campo da cui nascevano dei tulipani. Le facce delle persone in primo piano erano distorte in espressioni estreme, il terrore si scontrava con i fiori.
Mary spostò tazze macchiate di vernice e di tè dal pavimento con i piedi. Sirius si chiese se non bevesse mai da quella sbagliata. “Cinque letti ovviamente non li ho…” iniziò.
James alzò una mano. “Abbiamo una tenda!”
“... ma ho dei materassi,” concluse Mary, guardò James confusa. Lui ritirò la mano.
“Grazie per l’ospitalità, Mary,” Remus lasciò il borsone alla porta e abbassò la testa, “se possiamo sdebitarci in qualche modo…”
 

La pizza. Ecco come si erano sdebitati.
Si erano seduti tutti e sei a terra, una stanza di tele coperte e lasciate a metà. Dalla finestra sul soppalco e dai balconi le tende si gonfiavano al ritmo del vento. Sirius non avrebbe potuto vivere tutta la vita in un posto simile, sarebbe caduto vittima di una certa inspiegabile magia del sonno, un torpore di violini e raggi del primo pomeriggio che portavano il retrogusto verde dell’estate.
“Siete fortunati a essere venuti qui in tempo per Capodanno, la città è piena! C’è chi paga anche cinquecento dollari per un buon posto da cui vedere i fuochi d’artificio.”
“Davvero?” Peter parlò attraverso un boccone di pizza. “Mi sembra già cara di suo.”
“Non c’è un parco da cui si può vedere lo stesso lo spettacolo?” domandò Lily.
“Sì, ma… è un po’ quello che cercano di fare tutti. Ci si piazza anche dalla notte precedente a volte.”
Sirius si strinse nelle spalle. “A me sta bene anche solo lo champagne.”
Mary si sporse al centro per una birra. La stappò, l’effervescenza sibilò in risposta. “Non ho detto che non vedremo i fuochi.” Sorrise sorniona.
Era una cosa strana su di lei, perché sembrava una caramella. Aggraziata ed elegante, la pelle liscia e i denti allineati, se fosse stata un’attrice le avrebbero dato la parte della moglie morta del protagonista, la creatura perfetta nelle sue fragilità più intime. La furbizia, invece, era un vestito pieno di pieghe. Alla fine Sirius suppose che avesse senso, se nello stesso quadro disegnava orrore e tulipani.
“Si dà il caso che abbia un amico che lavora in una delle barche al porto. Di solito riesce sempre a infilare qualcuno in più.”
“Sei persone?” Remus mollò la pizza nel piatto e inclinò il viso di lato. Sirius distolse lo sguardo un secondo dopo, rispetto a quando avrebbe dovuto.
“Si può fare.” Mary sorrise nel suo misterioso modo angelico. “Mentre per i giorni successivi…”
“Oh no, non ti disturbiamo. Volevamo partire e andare verso l’interno.” James la interruppe, sventolando le mani.
“Il deserto? In macchina in questo periodo non è l’ideale. Quando piove a terra diventa poltiglia e le auto si impantanano. Non c’è ricezione telefonica e se non avete acqua a sufficienza… adios.”
James fece schioccare la lingua. “Davvero? Non è per… serpenti, ragni, lupi mannari, mostri infernali in formato animale?”
Mary si alzò e si strinse nelle spalle. Si diresse all’ingresso e ravanò in una ciotola piena di lettere e volantini. “So che non è una tipica attività turistica australiana, ma per caso vi interessa?”
Sirius fu il primo a ricevere l’annuncio. Lesse velocemente, poi lesse di nuovo. Poi si accertò una terza volta di aver letto bene.
Era una follia.
 

“TRE, DUE.”
Le voci erano una. Un drago solo che si inabissava in America e riemergeva nel Teatro dell’Opera sotto forma di corno sul muso. Il suono da solo forse bastava a far crollare il ponte, a far implodere i palazzi, a crepare i pavimenti, a separare le acque.
Per un attimo, nel respiro che si doveva prendere tra un numero e l’altro, Sirius sperimentò quell’Apocalisse. Era lo champagne, però, solo lo champagne. L’unica Apocalisse era quella che si consumava nel razzo in cui si trasformava il tappo stappato.
“Uno,” sussurrò Sirius, mentre Sydney esplodeva, il mare una tavolozza di riflessi colorati.
Gli parve che la barca avesse preso sotto un’onda che era quella dell’anno nuovo, fatta di tempo, di materia d’orologio, della stessa trama del telo su cui c’era stampato adesso quest’ultimo ricordo che avrebbe avuto dei fuochi.
“Auguri,” gli disse Remus. Non capì se l’avesse sentito o se la parola gli fosse arrivata in testa per via sanguigna, sparata in vena. Sirius lo guardò attraverso palpebre calanti e una leggera distorsione da lente fisheye. Era ubriaco. Veramente, era ubriaco. Poi Remus si sporse verso di lui e gli baciò una tempia.
Non aveva assolutamente senso.
Sirius pensò: crede che abbiamo sei anni? poi pensò: bello.
Dopodiché James e Peter furono su di lui.
Accaddero una serie di cose insieme. Così tante, infatti, che per vederle tutte andava usata una tecnica nota a Dio, le renne di Babbo Natale e i maghi.
Quella per cui gli orologi si fermavano, le lancette giocavano a nascondino. Che ore sono? Di che colore è un incubo? Quante stelle si disegnano attorno a un tombino e dipende davvero da quanto è profondo il baratro? In sei giorni Dio creò il mondo, il settimo si riposò, e per tutto il resto dell’eternità? Quanti semi si piantano in un campo allagato?
Accaddero una serie di cose insieme.
Zero. Meno uno.
Estraine un paio a caso:
 

Gli occhi di Lily Evans

“Non lo farai mai, eh?” disse, aveva il cuore in gola. James Potter era un’ombra che ondeggiava davanti a lei, a ritmo del mare, della musica, della sua stessa paura. Aveva in ballo ogni singola emozione che Petunia le aveva sottratto. Se fosse stata capace di fare questo, allora sarebbe stata capace di provare qualcosa, di connettersi.
Provare.
Parola ironica.
Sinonimo di tentare, dimostrare e sentire. La si usava in un laboratorio di particelle, su un campo da golf e mentre si soffiava su un fiore.
“Cosa?” James le sorrise. Il suo viso si illuminava a intermittenza di blu, rosso e giallo. Sotto ogni sfumatura Lily intravedeva qualcosa di rotto. Se l’avesse conosciuto prima, sarebbe stata in grado di vederlo tutto intero? Lo avrebbe voluto, un ragazzo tutto intero?
“Questo.”
Lily si sporse in avanti e lo baciò sulle labbra. Sapeva di sale e di champagne e di ogni singolo chilometro che l’aveva stancato.
Lui esitò. Per un attimo, i fuochi trattennero il fiato. Era caldo, era reale. Se si fosse ritratto, Lily l’avrebbe accettato. Non subito, prima forse si sarebbe voluta buttare giù dalla barca. Ma non si dovette mai preoccupare di un rifiuto, perché lui ricambiò.
Le prese il viso tra le mani, respirò nella sua bocca. Quale linfa vitale stesse inspirando non lo sapeva ancora, ma Lily ne aveva stoccata per anni e l’aveva lasciata inutilizzata nello sgabuzzino delle cose inutili della sua testa. Sulla porta aveva proprio affisso una targhetta: ‘cose inutili’, due chiodi che la reggevano nella parte alta. Ma uno dei due chiodi cedette, la targhetta ondeggiò come un pendolo, rivelandone un’altra nascosta sotto: ‘paure’. Aveva abbastanza linfa vitale anche per lui, gliel’avrebbe data.
Era facile, vivere senza dare via mai niente, senza mettere in gioco. Non si soffriva, non si piangeva e non si amava. Non si sentiva, non si dimostrava e non si tentava. Non si provava.
Lo schiocco del loro bacio non suonò, se lo mangiò il nuovo anno. James la guardò. Era stato un libro aperto per interi giorni di viaggio, ma solo su una pagina. Era come se facesse della sua intera esistenza una gara a riempire buche di profondità, perché non sembrasse mai che sprofondava. La baciò di nuovo. Lily non sapeva se voleva continuare a guardarlo o continuare a baciarlo. Era caldo, era reale.
Qualunque fantasma lo infestasse, per qualche attimo se lo ingoiò il mare.
Annegato, era sul fondale di Sydney, dove non arrivava la luce dei fuochi.
 

Gli occhi di una donna davanti a una corda

Non usciva da giorni, da settimane. Ormai era sicura che non potesse e basta. Ogni tentativo si era abbattuto contro il muro che le impediva di esistere.
L’esplosione di Sydney, oltre la finestra, arrivò muta. Respirò a fondo, era pronta.
Era pronta?
Il cellulare trillò sul tavolo, si illuminò. Senza sapere perché lo afferrò, gli occhi ancora sulla corda.
Ho portato una mantellina anche per te.
Sollevò un sopracciglio, confusa. Sotto apparve un altro messaggio.
Nel caso piova.
Guardò la corda. Se poteva morire poteva fare tutto.
Grazie, scrisse, quasi non vedeva più lo schermo, sto arrivando.
 

Gli occhi del grosso cane

L’esplosione gli attraversò il cranio, l’intera anima vibrò.
Con un gemito, si nascose sotto il letto.
 

Gli occhi dell’astronauta

Una linea buia copriva la Terra. Strizzò la bustina d’acqua e acchiappò la goccia fluttuante con la bocca.
 

Gli occhi del ragno

Erano otto, sei in alcune specie.
 

Gli occhi del morto

Erano chiusi.
 

Gli occhi del disegno di Dolly, cinque anni, che ritraeva un leone visto da davanti. Sua mamma l’aveva esposto sul frigo con un magnete

. .
 


Erano sul tetto della casa di Mary. Il giorno stava strappando il buio. La notte era stata un tornado di musica, di luci, di liquidi. Sirius se la ricordava nella forma di un quadro di Picasso.
Si toccò il petto, non aveva la maglietta. Non avrebbe saputo nominare neanche una delle ultime stelle in cielo.
“Remus,” gracchiò. Non sapeva se fosse veramente nei paraggi, non aveva distolto lo sguardo. “Remus?”
“Mh-mh?”
Evviva!
Buttò una mano nella direzione della voce, atterrò sul cuore. Sincronizzò il respiro ai suoi battiti.
Chiuse gli occhi e tornò a dormire.
 
 
 
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Il volantino di Mary era un’offerta di lavoro su un’isola remota che contava due abitanti. Nei mesi estivi reclutavano personale, perché diventava meta dei turisti che facevano island hopping.
Sirius si svegliò col fruscio delle onde e il canto di uccelli di cui non avrebbe mai imparato il nome. Aveva passato la sera precedente a fare cocktail per gli ospiti. Non era un asso, ma era facile accontentare chi si voleva solo ubriacare. In ogni caso l’assenza di mansioni mattutine aveva fatto di lui l’unico a cui fosse concesso di svegliarsi più tardi.
La stanza era vuota, la luce entrava a fiotti e si gettava sulle tegole di legno del pavimento. Senza una star da illuminare, si limitavano a sottolineare i pulviscoli e gli odori.
Sirius rotolò fino al comodino e afferrò il suo taccuino. Buttò giù un paio di righe, poi si fermò. La penna sorvolava la pagina in cerca di nuove parole. Con una punta di irritazione, sfogliò le altre pagine recise. Le aveva ordinate contrassegnandole da numeretti che nessuno avrebbe mai seguito.
Le rilesse, la penna esitò di nuovo alla fine dell’ultimo concetto. Inclinò il viso su un lato, prese un respiro profondo e invece di scrivere una nuova parola scrisse un punto.
Ricontrollò l’ordine, ripiegò i fogli, raggiunse con uno sforzo di pigrizia la tasca che aveva sempre lasciato chiusa del suo zaino e ne tirò fuori una busta. Ci mise la lettera dentro.
Sapeva che c’era il rischio che arrivasse anche a inizio febbraio, per quando sarebbero già tornati. Il postino sull’isola era più un marinaio, portava le lettere verso e via dall’isola su una barca dalla vernice scrostata. L’avrebbe mandata lo stesso, avrebbe fatto comunque un viaggio più breve di quello che aveva fatto lui per spedirla.
 

Se si voleva essere precisi, la popolazione dell’isola, esclusi i nuovi arrivati, era tre. Theo e sua madre avevano un cane e andava per forza preso in considerazione come abitante, perché altrimenti accettare che facesse loro da guida sarebbe stato totalmente incoerente.
L’isola l’avevano esplorata un po’ da soli un po’ in gruppo, ma non per intero. Logan (il cane) la conosceva come… la sua zampa destra. Scorrazzava per la foresta superando buche e gradini naturali con un’agilità che li lasciava vittime di quegli stessi ostacoli non segnalati.
“Questo cane è un pazzo,” disse James, imprecando. Era stato fantastico, perché per scavalcare un masso non aveva visto l’albero e Peter, davanti a lui, che aveva appena spostato un ramo per passare, gliel’aveva accidentalmente dato in fronte. Ora aveva un segno rosso a marcare la sua disfatta. “Ci manca solo un serpente lungo sei metri e…”
“James, non ci sono serpenti sull’isola,” ribadì Lily. Ribadì, perché James menzionava i serpenti almeno sette volte al minuto.
“Per ora.”
“Per ora cosa? Da dove vengono, dall’oceano?”
“Lo sapete,” si intromise Peter. Si era messo un cappello molle che era un po’ da pescatore, un po’ da esploratore. Era impressionante, perché l’aveva comprato in Inghilterra, se lo portava dietro da mesi tra le altre cose che secondo lui ‘potevano sempre servire’. “Alcuni tra i serpenti più pericolosi del pianeta sono acquatici.”
“Visto?” James inciampò su una pietra. Non cadde, fece finta di niente. “Quindi non serve che attraversino l’oceano per arrivare qui, sono già qui.”
“Ma sono acquatici!”
“Pete, dovevi proprio dirlo?” Questo era Remus. Afferrò il cane per il retro e gli riservò una carezza aggressiva. “E non insultate Logan, è un bravo cane.”
Sirius voleva tirarsi contro un ramo d’albero come James. Anzi, a morte il ramo, voleva tirare una testata all’albero nella sua interezza. Remus era diventato ingestibile. Prima faceva amicizia con Theo come se avesse dovuto convincerlo ad adottarli. Il che era esilarante, perché Theo era la creatura più buona sulla faccia della Terra e sfornava muffin per clienti e viaggiatori scapestrati come se fosse stata la sua missione di vita. Letteralmente, aveva stretto la mano di Sirius e gli aveva chiesto cosa voleva per colazione. Poi Sirius aveva dovuto assistere a Remus che legava con Logan e gli passava croccantini e carezze distratte. Era nuovo a questo gioco, si sentiva come quei cretini che si innamoravano della gente perché mostrava spiccata gentilezza o istinto genitoriale verso i bambini. A un certo punto, dopo un’altra nottata passata a versare drink ai turisti che restavano a dormire sull’isola, Sirius si era svegliato e aveva trovato Theo e Remus che sfornavano muffin per la colazione. Gli si erano aperte due possibilità: o lo uccideva nel sonno per mettere fine alla sua frustrazione o al prossimo sorriso furbo gli ficcava la lingua in gola e addio il corteggiamento.
Respirò profondamente e superò l’ennesima interazione col cane. James a quanto pareva non era pronto a lasciar correre così facilmente. “Una settimana, eh?” gli sussurrò nell’orecchio. Sirius non si era mai pentito tanto della sua stessa arroganza.
“James, veramente, devi stare zitto.” Lui rise. “Devi. Fare. Silenzio.”
“Guarda che fai prima a perdere la vista.”
“Tu fai prima a perdere la vita,” ribatté Sirius.
“Uh, attenzione,” James si allontanò e alzò le mani. Sorrideva come una iena. “Siamo nervosi!”
“Lo sai che i serpenti acquatici sono famosi perché strisciano fino al bagnasciuga e attaccano gli isolani?” Sirius lo superò e andò verso la testa della fila, per riunirsi a Logan.
“Ah-ah, molto divertente,” James si fermò. “Stai scherzando, vero?”
Raggiunsero il punto più alto dell’isola un’ora dopo. Qualcuno ci aveva messo una panchina, affacciava dove gli alberi si aprivano. Logan guardava l’orizzonte, il mare così rarefatto che si fondeva nel cielo.
Sirius gli diede due colpetti tra le orecchie. Il cane ansimò, poi si sporse verso la sua mano. Si sarebbe goduto il suo glorioso momento da re dell’isola se James non avesse continuato in sottofondo a ciarlare di serpenti.
 

Gli occhi del custode

L’uomo esaminò la posta. Quando trovò la lettera che veniva dall’Australia sollevò un sopracciglio. Aveva consegnato regali di Natale appena quindici giorni prima ai bambini, ad alcune mamme piaceva così. Sinceramente non duravano molto, non è che fossero proprio compostabili.
Il custode non era un fan sfegatato dell’ambiente, eh, però non poteva lasciare i bambolotti sui pezzi di terra, era una questione pratica.
Era sempre una questione pratica, nel suo lavoro. Era più una questione pratica per lui che per un medico, un ingegnere, un muratore. Si poteva solo essere pratici, quando non serviva più la speranza.
Una lettera comunque… suppose che si potesse lasciare. Non sarebbe volata via se l’avesse piantata, nessuno si sarebbe lamentato. Non era uno scienziato, ma la carta ci metteva poco a decomporsi, no? Non avrebbe neanche visto l’estate.
Sbuffando – il custode non era un angelo, altrimenti si sarebbe dovuto commuovere due volte a settimana: un sacco – si alzò e aprì la porta sul retro.
La lapide era una di quelle solitarie. Il custode non si metteva certo a ficcare il naso, ma sapeva quali erano le più frequentate. Era una cosa che si imprimeva nelle mura, dipendeva dalla distanza dei pianti e da come il vento spostava le lacrime.
Si inginocchiò, un altro sbuffo. Sollevò un po’ di terra. Prima di piazzare la lettera la guardò: adesivi di spedizione e indicazioni per la lapide a parte, non c’era scritto altro.
La sotterrò senza darle un solo altro pensiero, era davvero meglio non lasciarsi trascinare in queste faccende. La spedizione rendeva chiaro già troppo: il cognome del mittente era lo stesso del morto. Sia mai che fosse una riconciliazione, era tra i più tragici degli affari.
Girò i tacchi e tornò a casa.
Sulla lapide, inscritto da tre anni:
REGULUS ARCTURUS BLACK
GIU 1994 – NOV 2014
 


“Disgustoso,” disse Peter.
Sirius piantò le mani nella sabbia dietro di lui e incrociò i piedi. Erano scappati dalla stanza in cui dormivano tutti insieme perché James aveva detto a Lily una cosa così melensa, ma così melensa che resterà un mistero per decenza. Era così melensa, che stavano ancora esprimendo la loro repulsione a riguardo.
Remus li raggiunse con l’armamentario, ovvero le tavole da surf.
“No,” disse Peter. In sua difesa, Remus era andato via senza spiegare con cosa sarebbe tornato. “Vado da Theo prima che mi veda e mi costringa.”
“Conservami uno per gusto di qualunque cosa stia preparando,” gli disse dietro Sirius.
Peter impiegò la sua migliore tecnica di camouflage, vale a dire che corse come un matto facendo così tanto baccano che lo sentì tutta l’isola e le coste vicine.
“Hai visto Peter?” Remus lasciò cadere le tavole accanto a lui. Sirius riservò un’occhiata perplessa prima a loro, poi a lui.
“Sì, era qui un attimo fa, ma l’ho perso di vista. Il rumore che hai sentito era Atlantide che cadeva.”
Remus rise e prese posto sulla sabbia. “Hai mai surfato?”
“Su un’onda di fascino e buon gusto.”
“Ti insegno.”
Certo, perché adesso sapeva anche surfare. L’aveva imparato all’accademia degli assassini dell’autocontrollo di Sirius. Si lasciò prendere la mano e trascinare a mare. Quando l’acqua gli bagnò le caviglie, Remus mollò surf e mani e gli sfilò la maglietta.
Ora, Sirius non aveva un pratico confronto prima-dopo di come lo stava guardando, ma doveva aver fatto qualcosa di molto espressivo con gli occhi perché, quando Remus lanciò lontano la sua maglietta e lo guardò, esitò un secondo. “Che c’è?”
“Pensavo che devi stare attento, Lupin. In mare ci sono gli squali.”
“James ti ha passato la paranoia?”
“James è l’ultima cosa a cui sto pensando.”
Poi iniziò la lezione di surf.
Vita e fantasia non erano proprio mai la stessa cosa, quindi Remus sapeva un po’ surfare. Il film mentale in cui prendeva uno tsunami sotto la tavola, sparendo nel ricciolo dell’onda per pochi secondi di adrenalinico splendore, che finivano con lui che usciva vincitore e il costume perso da qualche parte negli abissi del mare, rimase un film mentale. Comunque l’attività aveva coinvolto una quantità di contatto fisico non indifferente. Sirius era debilitato. Ed era anche arrabbiato perché erano gli altri a dover essere debilitati dalla sua presenza, questa storia era inammissibile.
“La prossima insieme,” gli urlò Remus dalla sua tavola, sopra il ruggito delle onde. Gli schizzi gli finivano nei capelli, che gli ricadevano sulla fronte in riccioli scomposti. Aveva una luce negli occhi selvaggia e divertita.
Sirius la voleva inalare.
Avevano fatto abbastanza progressi perché il progetto avesse solo il 30% di possibilità di riuscire.
Riuscì a metà. Caddero entrambi, le tavole e la corrente li tirarono a riva. Quando riemersero, ridevano come se fossero partiti insieme da Londra quattro mesi prima, non per necessità.
Tu non sai surfare!” Sirius si slacciò il velcro dalla caviglia e abbandonò la tavola sul bagnasciuga.
“Ho detto che ti avrei insegnato, non che sono un istruttore.”
Sirius si avvicinò. “Io non ti dico come buttarti con il paracadute, se non so farlo.”
“E infatti io non mi fiderei.”
Erano vicini. Vecchia storia.
L’acqua gli arrivava al bacino, tra di loro schioccava con rumore di chiuso. Non sarebbero bastati sei dei serpenti di James a distrarre Sirius dal modo in cui la luce rimbalzava sulla superficie dell’acqua e illuminava dal basso gli occhi di Remus.
Mosse un passo ancora avanti, la sabbia sollevò sott’acqua il terremoto che avrebbe scosso il litorale di un altro paese. Alzò un dito e con la punta disegnò una striscia che partiva dallo zigomo di Remus e si fermava a un angolo della bocca. Lì rimase con gli occhi.
“Peter non è più tornato,” disse Remus. Qualunque disinvoltura cercasse di fingere naufragò, perché la frase divenne un sussurro stupido. Fece un passo indietro, venne annullato un secondo dopo.
“No,” confermò Sirius, “perché, sei a disagio?”
“Io?”
Visto che ci teneva più alla sua capacità di provare un punto che a qualunque altra cosa sul pianeta, Sirius riuscì a distogliere lo sguardo dalle sue labbra solo per darsi un’occhiata esagerata intorno. “Vedi qualcun altro?”
Remus deglutì, gli occhi di Sirius scattarono in basso a seguire il percorso. Aprì la bocca per dire qualcosa, poi sembrò ripensarci e scosse soltanto la testa.
“Non ti sopporto più.”
“Mh.” Remus strinse le labbra, poi annuì. Gocce di mare si staccarono dai suoi capelli. Era una cosa così adorabile che se avesse avuto un muro davanti Sirius avrebbe provato l’istinto di tirarvi un pugno.
“Lo sai perché, vero?”
Non rispose. Sirius da un po’ non era sicuro che fosse ancora in grado di farlo. Era ancora possibile fare un passo avanti. Azzardato, zero distanza. Lo fece.
Remus mosse la testa impercettibilmente in avanti. Tra le loro labbra un capello, la distanza tra Mercurio e Plutone.
Sirius lo baciò.
Nello stesso istante in cui lo fece anche il sole.
I fuochi d’artificio avvizzirono, il Teatro dell’Opera smise di brillare di viola. Il pick-up tornò indietro fino a Siem Reap, fino a Saigon, il traghetto si ritirò al porto, Krabi e le sue noci di cocco sfumarono. Bangkok bruciò dei sette colori dell’arcobaleno, di luci e di contraddizioni. Le montagne crollarono coi loro templi. L’alba boreale si fece tramonto australe, la sauna fredda, Helsinki bolliva nel sole caldo di un contatto visivo. In un bar dove un uomo ruttava destino e i tavoli odoravano di antico.
Un ragazzo accanto a lui prese un sorso di birra e poi si mise a urlare. Il suo profilo, sovrapposto alle luci stroboscopiche dall’altro lato, brillava in ombra come una foto in positivo.
Si voltò e incontrò i suoi occhi.
Remus gli prese il viso tra le mani e si spinse verso di lui. Se avesse potuto, Sirius gli avrebbe chiesto se poteva premere così forte da passargli la cicatrice sul labbro, per baciarlo per sempre.
Il pensiero lo fece ridere.
Ripeti da capo.
La lancetta vacillò, lottò per riprendere il conto che aveva perso.
“Perché sorridi?” gli domandò Remus. Sorrideva anche lui, premeva la fronte contro la sua, il sale si addensava in una bolla.
“Ah?”
Incontrò.
“Ti ho chiesto perché sorridi.”
Lo baciò di nuovo.
Sirius era un ammasso di esplosivi e micce e il timer suonò.
 

Sott’acqua, la bomba esplose. In superficie risalì solo una bolla. Scoppiò, un’onda la riportò a riva.
Sirius Black prese un solo respiro profondo, quando espirò l’aria vibrò appena. Guardò il modo in cui nuvole di zucchero filato si posavano su uno sfondo che era solo antefatto di tramonto. Osservò l’acqua cambiare colore, la rete di onde in superficie dividersi in scaglie, la sabbia ammucchiarsi nei punti in cui qualcuno o qualcosa l’aveva segnata. Dietro di lui, l’isola respirava.
Qualcosa gli arpionò la gola. Era il contrario di un groppo, era un’assenza, l’opposto della carta vetrata: invece di levigare rendeva ruvido.
Quando qualche settimana prima aveva creduto di aver perso la vista e Remus aveva acceso la lampada, quando gli aveva detto cosa stava succedendo, aveva già buttato la bomba sul fondale.
James era stato fantastico a prevenire la sua drammatica ammissione. A un certo punto, quattro mesi prima, Sirius sarebbe davvero andato a casa sua durante una notte di pioggia, senza saper distinguere il sotto dal sopra, gli avrebbe detto qualche stronzata, che il temporale veniva dal centro della Terra, che era l’inferno a essere in cielo. E James avrebbe dovuto interpretare tutte le informazioni che non sarebbe comunque stato in grado di dire, tutte le debolezze che non avrebbe saputo articolare né da sobrio né da ubriaco né da morto né nei momenti più cruciali per James, quando invece ci sarebbe dovuto essere. Ma per quanto James fosse stato fantastico a prevenire, prevedere, capire con uno sguardo, c’era una certa conquista nell’essersi volontariamente raccontati, senza venire sorpresi con metà avambraccio nella merda.
“Facciamo un gioco,” disse.
James voltò la testa a guardarlo, da qualche parte sull’isola qualcuno stava facendo un tour guidato.
“Io chiudo gli occhi, dimmi quello che vedi. Così ci alleniamo per quando sarà.”
Lui si schiarì la voce. “Allora,” Sirius si sistemò meglio sulla sua sdraio, in attesa. “Il cielo è un po’ meno blu del mare.”
“Porca puttana, James.”
“Che vuoi? Se non ti sta bene chiedi a Remus, è lui il poeta.”
“Ma che poeta?” Sirius teneva ancora gli occhi chiusi, era solo più nervoso.
“Che ne so, dice cose strane a volte.”
“Perché tu dici cose normali.”
“Okay, okay,” James inspirò, poi espirò in uno sbuffo concentrato. “C’è il molo a sinistra. Ha le tegole un po’ mangiucchiate dall’umidità e con questa luce non si vede bene, ma i pilastri che lo reggono, dove toccano il mare, hanno attaccate un po’ di quelle alghe tipiche che si attaccano alle cose, insieme alle conchiglie.”
Sirius schiuse un occhio e lo guardò di sottecchi. Aveva le sopracciglia aggrottate, come se vedere di colpo fosse diventata un’attività meno passiva. Le foglie dell’albero facevano passare una luce a chiazze, che lo colorava sulla guancia, a metà del collo e poco sotto la spalla. Distingueva a stento il modo in cui quello che diceva si rifletteva liquido negli occhi. La stanghetta degli occhiali si metteva in mezzo quando muoveva la faccia.
“Vabbè, poi c’è il mare. Non ha in tutti i punti lo stesso colore. Comunque è una bella spiaggia, se chiedi a me. Ne abbiamo viste varie, però è diverso quando ti affezioni così. Personalmente la più divertente è stata quella su cui abbiamo giocato a calcio. Te lo ricordi, il tizio che tifava United? Un bastardo allucinante. Infatti non era neanche troppo forte, a un certo punto Pete gli ha preso la palla come se gliel’avesse praticamente regalata…”
“È una descrizione penosa, Jamie,” stavolta Sirius voltò anche la faccia, guardandolo direttamente. Suo malgrado sorrideva.
James ricambiò, simile. “Ti dovrai accontentare.”
Si sporse verso di lui, ruotando il braccio alla cieca per colpirlo, ma James si ritrasse con una risata.
“Oppure devi veramente chiedere alla tua dolce metà.”
Sirius fece per rispondere, poi assottigliò lo sguardo. “Aspetta, che ne sai…”
“È un’isola piccola, le voci girano.” James sollevò le sopracciglia, su e giù, un saggio su un pizzo di una montagna o uno scemo che vinceva un premio. “Grazie, comunque, per aver lasciato la stanza a me e Lily.”
“Non lo voglio sapere.”
“È fantastica, davvero. È semplice. Non mi sono mai…” Si guardarono di nuovo, indietro nel tempo, sull’isola ma sulla soglia della porta e sull’antefatto del dolore. La bomba negli abissi sbuffò una volta. “Sentito così.”
“Ne sono felice. Era ora.” Sirius annuì. “Anche se è davvero troppo per te.”
James alzò le mani, l’aria tornò leggera. “Non so come sia successo.”
“Dev’essere pazza. Forse vive in montagna, il cambio d’altitudine.”
“Sì, per forza.”
 

Sirius chiuse gli occhi. Li voleva aprire, veramente, ma non ce la faceva. Cercò di respirare piano, riuscì solo nell’alleggerirsi la testa. Remus risalì con la bocca dalla clavicola alla guancia, poi si fermò. Sirius fu costretto ad aprire gli occhi.
“Non lo so, a volte mi sembra che ci conosciamo da una vita.”
Lo vedeva in penombra, mentre diceva le sue cose romantiche. Lo vedeva in penombra perché di notte l’isola spegneva le luci e scendeva il buio più buio che lui, dalla sua megalopoli di quasi nove milioni di abitanti, avesse mai anche solo concepito. E, controintuitivamente, questo significava che diventava anche la notte più illuminata che avesse mai anche solo ritenuto possibile. Quello, e avevano una candela. “È una vita, la Finlandia.” Sirius mosse la testa in su e lo baciò, poi tornò a guardarlo dal basso.
In realtà capiva cosa intendeva, ma capiva meglio anche il fenomeno. Era proprio di certe tragedie; diventavano devastanti al punto da trasformarsi in magia. E se le pubblicità delle merendine avevano ragione, bastavano le stelle. Bastava sedersi su un balcone e parlare di rapine, seguire un pazzo che avevano conosciuto in sauna e che forse stava condividendo nuove salsicce proprio in quel momento. Bastava non riuscire a dormire o lasciarsi distruggere di desiderio davanti a una candela. Da qualche parte dovevano essere esperti di magia e navigavano un mondo di scherzi e di segreti.
“Posso stare sopra?”
Remus disse: “Come vuoi, basta che fai qualcosa”, ma Sirius già lo stava spingendo di lato in ogni caso.
“Io? Tu ti sei messo a dire le cose intergalattiche.”
“Doveva essere un’osservazione eccitante.”
“Ma dove?” Si piegò su di lui. Remus alzò una mano a fermargli i capelli dietro un orecchio. La gravità non fu del tutto d’accordo.
“Atmosfera.”
“L’atmosfera già c’era, mi stavi letteralmente togliendo i pantaloni.”
Remus lo tirò giù per la maglietta. “Okay, basta.”
Sirius avrebbe acconsentito, ma si sentì di darsi un’occhiata alle spalle.
“Che c’è?”
“Non lo so, l’ultima volta che siamo stati così vicini su una spiaggia ci siamo inzuppati.”
Era buio, ma Sirius distinse benissimo che Remus aveva sgranato gli occhi. Balbettò qualcosa di incomprensibile. “Veramente l’ultima volta era una settimana fa e ci siamo baciati. E siamo a sei metri dall’acqua.”
“Era uno stacchetto comico, volevo farti ridere.”
“Mi fai venire solo voglia di alzarmi e andarmene.”
“Allora innanzitutto non penso proprio,” nella vita bisognava essere diretti, quindi gli infilò una mano nei pantaloni. Poi gli parlò nell’orecchio. Questa era un’acrobazia. Ci volevano anni di allenamento per questo genere di flessioni, ma non c’era da preoccuparsi, perché Sirius li aveva. “Capisco che sono irresistibile e non ce la fai più, tranquillo. So cosa fare.”
Se quello che Remus fece era un verso derisorio non gli venne molto bene.
 

“Non so perché ti assecondo,” Sirius tirò un calcio al gancio e sperò che affondasse così. Non affondò.
“Ho trascinato questa tenda per tutto il mondo. Letteralmente!” James infossava i suoi chiodi come se non avesse aspettato altro per quattro lunghi mesi. In effetti non aveva aspettato altro per quattro lunghi mesi. Addirittura certe volte fischiettava. “Non me ne andrò di qui senza dormire in tenda. È l’ultima sera!”
“Ma dormici tu in tenda.”
“No.”
Così era.
In ogni caso sarebbe stato stupido aiutarlo a piazzarla e rifiutarsi di dormirci, per quanto Sirius non si stesse sfrozando troppo.
“E poi,” cominciò James, mettendo le mani sui fianchi e ammirando il suo lavoro. “Tu hai dormito in spiaggia. Questa tenda è un cinque stelle, per i tuoi standard.”
Sirius afferrò il terzo gancio e glielo sventolò davanti alla faccia. “Molto divertente.”
“Non sto mentendo,” ma sorrideva.
Per la cronaca, Sirius non aveva previsto di addormentarsi con Remus sulla spiaggia, qualche sera prima. E assolutamente non aveva sperato di venire svegliato da James che lo buttava a mare, la mattina dopo.
 

Gli occhi dell’extraterrestre

L'extraterrestre potrebbe essere solo una cellula, ma, ammesso che ce ne sia, che ci sia stato o che ce ne sarà almeno un tipo provvisto di appendici predisposte alla visione, puntando il suo telescopio sulla Terra potrebbe vedere più cose.
Tipo un dinosauro o Carlo Magno.
Ma se ci mettiamo nel caso certamente specifico ma non impossibile in cui l’extraterrestre si trovi a una distanza dalla Terra tale che si riesca a osservare solo un grappolo di inutili esseri umani che, sempre per caso, sono gli stessi che osserviamo noi, vedrebbe questo:

Vedrebbe due ragazzini che si stringono la mano, un patto di sangue ridicolo per chi è rimasto ferito ancora troppe poche volte per sapere cosa sia un patto e cosa sia il sangue. Li vedrebbe correre per campi di calcio così ininfluenti da non avere un nome, poi picchiarsi quando la noia conta tutti i minuti di tutte le ore. Li vedrebbe raccontarsi i segreti alla luce del sole e al buio delle notti senza luna, quando non ci sono sveglie programmate per il giorno dopo né per un’esplosione. Ne vedrebbe uno dire all’altro che il livido enorme sul braccio non se l’è fatto cadendo, lo vedrebbe costruire così il suo primo ordigno. Li vedrebbe colorarsi di due colori, scoprirsi attraverso falsi amori e retrogusti di emozioni.
Li vedrebbe sbagliare.
Ne vedrebbe uno fare un solo piccolo pensiero distratto, guardare un fratello rinnegato in suo stesso onore e dirsi: lo bacerei. Sulle labbra, come si fa con le ragazze. Scatenerebbe l’inferno per quel bacio e lo guarderebbe bruciare una volta dato, il campo minato un susseguirsi di sbuffi senza preavviso. Vedrebbe l’altro farne il centro del suo mondo, del suo tradimento, e cristallizzare in una morte una scusa che non avrebbe saputo comporre neanche con mille altri anni a disposizione. Li vedrebbe ricostruire su fondamenta marce, ma che in qualche modo reggono.
Li vedrà occuparsi di loro in quattro mesi di condanna.
E su una spiaggia su un’isola con una popolazione di a quel punto sette abitanti e un cane, vedrà James raccontare di quella volta che un turista americano ha spaccato il tavolo mentre la madre di Theo gli gridava, dall’alto dei suoi ottantasette anni, che era un coglione-testa-di-cazzo-se-ti-prendo e poi non potersi alzare. Vedrà Sirius fingere cento volte di saper fare drink e risultare particolarmente convincente con un paio di voli di bottiglie dietro la schiena un po’ sfrontati. Vedrà come lo guardava Remus. Vedrà Peter ballare con una turista svizzera, lasciarle un bacio su una mano. Vedrà la sera della tempesta, con quattro visitatori bloccati sull’isola per tre notti e ogni notte una storia di fantasmi. Vedrà Lily mettersi in combutta con Sirius e far trovare un serpente finto nel letto di James. Visti certi decibel raggiunti, è possibile che lo sentirà anche urlare. Li vedrà mangiare davanti a quelle storie cibo sporco di sabbia, ridere a denti scoperti.
Li vedrà seduti davanti alla tenda alla fine di quel viaggio, a condividere una sigaretta, una storia per ogni borsa sotto gli occhi, le stelle così pesanti con quel buio da rischiare di cadere su di loro, portare giù tutti i loro sistemi planetari e riunirli all’extraterrestre ancora non nato.
Vedrà Peter Minus annunciare che non tornerà a casa con loro, che resterà ancora qualche mese a lavorare sull’isola.
Vedrà gli altri partire, la mattina dopo, l’alba incandescente ancora impressa nel retro delle pupille, la tenda richiusa nello zaino, le dita intrecciate, la Scozia con le sue montagne così infinitamente lontana.
Con una leggera ricalibrazione di sguardo, vedrà il signor Roope correre con nuovi amici nella sua macchina da cartone animato e la signora delle fragole portare ancora una volta i limoni al pescatore e Marlene baciare Dorcas su un prato innevato. E, sulle scogliere d’Irlanda, vento e oceano ancora litigheranno e ancora si stringeranno la mano.
E se la visione fosse relativa, se non fossero gli occhi dell’extraterrestre, se bastasse una percezione qualunque a raccontare una storia, allora sarebbe sufficiente un rigo.
Gli occhi del lettore
vedono queste parole. Per tutto il tempo non hanno visto altro che queste parole.







 
NotEl: ueeeeee, il prossimo è l'ultimo capitolo, alla fine ho deciso di non spezzare l'Australia, non c'era un punto appropriato per farlo.
Allora. Devo dire delle cose, innanzitutto sono consapevole che è un delirio, mi dovete perdonare, però giuro che ha senso, cioè davvero non sono parole a caso, anche se LO SEMBRANO AHAHAHA.
La questione del lavoro sull'isola Australiana è ispirata ai video su tiktok di Lindylenix, una ragazza che ha fatto veramente questa esperienza, tutta la roba della posta, il molo, i turisti bloccati è presa da lì, immaginatemi mentre bloccavo i suoi video ogni cinque secondi perché decidevo a caso che c'erano dettagli FONDAMENTALI per questa storia... imbarazzante.
Comunque il grande segreto è svelato, è sempre un po' criptico ma sarà ovvio ormai che mancano degli occhi, qui, quindi sapete cosa aspettarvi dal prossimo capitolo :DDDD
Io veramente spero che la cosa non vi abbia turbato, ma NON POTEVO taggare la past relationship all'inizio perché volevo che questo motore secondario di trama girasse a ritroso una volta avuta la spiegazione (qua). Ora, non so se abbia fatto un buon "effetto lucchetto" sul senso di sospensione che ho cercato di creare fino a questo punto, ma dovevo almeno tentare! 

Grazie per aver letto, amici.
Ci vediamo prestooo

El.
 
   
 
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