Serie TV > Il Commissario Ricciardi
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Autore: _Lightning_    15/11/2023    8 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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          L’INCEDERE pesante di Maione che rompe la quiete mattutina del suo ufficio non è mai un buon segno.

Ricciardi alza il capo del rapporto che sta stilando alla scrivania sin da quando lo sente risuonare in corridoio, già pronto a incontrare la sua espressione temporalesca non appena entra nella stanza.

«Buongiorno, commissario,» lo saluta il poliziotto, togliendosi il berretto, con le sopracciglia folte inclinate all’ingiù e il tono di chi enuncia un discorso funebre. «Abbiamo un morto ammazzato all’Arenella.»

«Un buon giorno davvero, Maione,» commenta Ricciardi, avvitando la stilografica e reclinandosi contro lo schienale, affatto stupito dalla notizia: d’altronde, è pur sempre lunedì. «Sai già qualcosa?»

«Solo che la vittima è ricca,» allarga i gomiti Maione, «che era un ufficiale dell’esercito e che si chiama Fernando Gigliolo.»

Ricciardi inclina la testa, con quel nome che non gli suona nuovo; forse perché comune a Napoli, o forse per averlo sentito pronunciare in uno dei rari eventi obbligati nelle vesti di barone di Malomonte, spalla a spalla con la piccola nobiltà.

«Di’ a Camarda di preparare l’automobile,» dice, appuntandosi di approfondire in seguito. «Fin lassù è una bella scarpinata. Telefono io al dottor Modo.»

Maione sembra molto sollevato dal fatto che lui non abbia nemmeno preso in considerazione la funicolare, e una linea di tensione scompare dalla sua fronte. Si calca il berretto in testa e ruota sui tacchi con agilità insospettabile per la sua stazza. Ricciardi lo sente chiamare a gran voce Camarda non appena varca la soglia; i passi affrettati dell’agente scalpicciano sul pavimento tirato a lucido, seguiti dalla sua voce acuta e sempre allarmata:

«Comandi, brigadiere!»

Viene indirizzato prontamente da Maione alla rimessa auto.

Ricciardi si prende qualche istante, prima di levarsi in piedi. Volta il capo per lasciar spaziare lo sguardo oltre la finestra, sul chiostro interno dove si affaccendano vari poliziotti in divisa nera e rossa, in un andirivieni costante oltre l’arco d’ingresso.

Il sole di metà marzo non è ancora abbastanza deciso da esser caldo attraverso i vetri e gli danza in volto in raggi appena tiepidi, preannunciando la fine dell’inverno ormai vicina. È lieto che sia bel tempo, almeno, visto che l’emicrania pare non volergli dar tregua sin dalle prime luci dell’alba, quando l’ha destato. Il lieve ma insistente pulsare sulle tempie e dietro agli occhi, un ritmo di marcia cadenzato che conosce bene, viene stemperato un poco dal timido calore che filtra fino a lui, mitigando gli strascichi di una notte per lo più insonne.

È un fastidio che gli capita sovente, prima che gli arrivi un caso. Si è chiesto più volte se sia mera coincidenza, o se quella sorta di avvisaglie facciano parte della sua maledizione. Porta le dita alla fronte, premendovi appena, quasi ad afferrare quel dolore per tirarselo via dal cranio, ben sapendo che c’è un unico metodo comprovato per scacciarlo. Ovvero, dare giustizia ai morti, per quanto gli è possibile.

Si riscuote da quella breve pausa, si alza in piedi e solleva infine la cornetta del telefono, facendosi mettere in contatto con l’Ospedale dei Pellegrini e poi con Bruno che, come gli pareva di ricordare, sta staccando dal turno di notte.

«Ohi, Riccia’, che tempismo!» esordisce il medico dall’altro capo, con una nota stanca nella voce altrimenti gioviale. «Me lo dovevo immaginare, che se non mi scocciavi la domenica l’avresti fatto il lunedì mattina, per augurarmi uno splendido inizio di settimana.»

«Piantala di essere petulante e vieni in Questura, che stavolta ti diamo un passaggio noi.»

«Che galante,» lo sente sogghignare, per niente turbato dalla notizia implicita di un delitto. «E dove mi porti in gita?»

Ricciardi ignora a bella posta il suo tono affatto consono a una telefonata di lavoro.

«All’Arenella, per il nostro morto del giorno.»

«Allora vengo di corsa.»

«Puoi camminare, non credo che il morto ci scappi.»

«No, ma volevo farmi un giretto all’ospedale nuovo. Non ci ho ancora dato un occhio; voglio proprio vederla, questa “opera magna” fascista...»

«Modo,» lo ammonisce soltanto lui, le pupille che scattano fulminee per la stanza vuota.

Incrocia solo lo sguardo severo del re e del Duce dipinti su tela nei quadri davanti a lui, da soli abbastanza insistenti da instillargli disagio. Si sente sempre osservato, in quell’ufficio, e Bruno dovrebbe misurare le parole quando sono al telefono su una linea della polizia.

«Ero serio, stavolta,» sbuffa il medico, con una scarica di statico che non lo rende credibile. «Ogni tanto lo sono.»

«Spicciati.»

«Mi spiccio, mi spiccio, non t’agita–»

Ricciardi attacca senza lasciarlo finire, con un sorriso che gli sfugge.

Si infila il soprabito grigio, forse troppo leggero per il clima ancora invernale, e attraversa i corridoi della Questura, con qualche cenno di saluto ai vari colleghi che incrocia; quelli almeno, che non fingono di non vederlo. De Blasio imbocca direttamente la porta di un ufficio non appena lo vede svoltare l’angolo, e Ricciardi non manca di rifilargli un sonoro “buongiorno” in coda alla sua ritirata, tanto per ribadire la propria fama di iettatore.

Arriva nel chiostro interno con le mani affondate nelle tasche del soprabito, accolto da una folata d’aria gelida che gli sfiora il volto; fa ancora abbastanza freddo da intirizzirgli le dita e arrossargli il naso.

Maione lo affianca non appena lo vede e si avvicina con lui a Camarda, in piedi di fronte all’automobile parcheggiata nel piazzale. L’agente gli rivolge un saluto fin troppo entusiasta, con tanto di schiocco di tacchi, ma, all’occhiata arcigna del brigadiere, lascia ricadere di scatto il braccio destro teso, per poi farsi da parte dopo un più semplice, affrettato saluto militare. Ricciardi non risponde a nessuno dei due, se non con un lieve cenno del capo, le mani ancora piantate in tasca. Maione sospira, guardando l’agente allontanarsi, poi si mette alla guida dell’Alfa Romeo nera.

Mentre il collega si sistema al volante, Ricciardi apre la portiera e volge per un attimo lo sguardo in alto, verso il quadrato di cielo azzurro racchiuso nella cornice grigiastra degli edifici. Strizza appena gli occhi quando il sole fa capolino oltre la linea del cornicione, abbagliandolo in un guizzo di luce. Per un attimo, gli sembra una mattinata come tante lì a Napoli.

Poi sale al posto del passeggero e il cerchio alla testa si fa più stringente, ricordandogli l’incontro con quel nuovo morto ormai dietro l’angolo, e che per lui non esistono mattinate normali.

«Rapina finita male,» sentenzia Maione.

Poi storce le labbra con disappunto, quasi fosse una conclusione troppo facile e non volesse crederci.

«Per lui, sicuro,» borbotta Bruno, girando il corpo di Gigliolo sul fianco.

Ricciardi, un poco discosto, tiene un occhio su di loro e l’altro sulla sagoma opalescente che levita sul basso tavolino di vetro infranto, cantilenando incessantemente la stessa frase echeggiante:

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Ogni parola è un chiodo infisso nel cervello. Ricciardi si tiene la radice del naso stretta tra pollice e indice, con quella nenia udibile solo a lui che gli rintocca nei timpani.

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Il fantasma di Fernando Gigliolo gira il capo qua e là, confuso, la sagoma corpulenta che ondeggia sul posto in cerca di qualcosa. Il segno frastagliato impresso sulla sua fronte è un negativo di quello che spicca sul suo cadavere a terra; rivoli di sangue gli striano il volto come lacrime rapprese, macchiandogli il pizzetto canuto e ben curato.

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

«L’ipotesi della rapina mi pare plausibile,» dice Ricciardi, non troppo forte, fissando per un attimo gli occhi bianchi e vacui dello spettro di Gigliolo che vagano spaesati, fissandosi poi in un punto.

«Eh, sorprendentemente ti do ragione, caro il mio commissario,» annuncia Bruno.

Ricciardi solleva appena le sopracciglia a quel fare per lui quasi accomodante. Fa anche uno sforzo per togliersi la mano dal volto, ficcandola invece nella tasca dei pantaloni. Bruno avrà capito che è assillato dall’emicrania nel momento stesso in cui l’ha visto, probabilmente, ma vuole mantenere una parvenza di compostezza; pure se non è mai facile, quando è a pochi passi da un fantasma.

Il medico gli dà le spalle, ancora seduto sui talloni e intento a saggiare la rigidezza del corpo con occhio clinico, sotto lo sguardo rivoltato di Maione. Ricciardi lo fissa, finché lui non si decide a chiarire la sua affermazione:

«A un primo sguardo,» esordisce, additando il mobile sfondato e poi Gigliolo, «parrebbe che abbia prima impattato sul tavolino e poi si sia trascinato via, morente, fin qua.»

Ricciardi segue la linea dello spostamento, con un’occhiata fugace allo spettro, chiaramente sospeso sul tavolo, a indicare il preciso punto di morte. Non è certo il grande tappeto persiano in cui è riverso ora, col sangue confuso agli arabeschi.

«Parrebbe,» si limita ad annuire.

Se Bruno o Maione colgono qualcosa d’insolito in quell’osservazione, non lo danno a vedere.

«Solo che non è andata così,» continua Bruno, spiegando come sempre i fatti in quel suo modo vivace che lo fa sembrare quasi entusiasta di star parlando davanti a un morto. «Qua ce l’hanno trascinato dopo, quando era già cadavere. Vedete? C’è una cucitura allentata sulla vestaglia, come se lo avessero afferrato qui, e ha dei tagli e abrasioni da sfregamento sulle gambe, causati dai vetri. Post mortem, anche se non di molto; il decesso stimo sia avvenuto tra le tre e le quattro di mattina, a occhio. Non mi pare abbia altre lesioni, se non quella ovvia e fatale sull’osso frontale. Nessun segno di lotta evidente, ma questo ve lo saprò confermare con certezza dopo l’esame necroscopico.»

«Perché mai avrebbero dovuto spostarlo, se era già morto?» strabuzza gli occhi Maione, come se quel fatto lo turbasse più del delitto in sé.

«Perché, brigadiere, se dovete frugare nelle tasche di qualcuno oppure determinarne la causa di morte, è meglio farlo dove non rischiate di dire addio alle ginocchia.» Col mento, accenna alla miriade di schegge di vetro attorno al tavolino, che scrocchiano anche sotto le loro scarpe a ogni minimo movimento. «Chiunque sia stato m’ha fatto un favore, tutto sommato.»

Si rimette in piedi, segnalando la fine del suo esame, e Ricciardi sente il suo sguardo addosso, mentre aspetta evidentemente un commento da parte sua. Lui scrolla appena il capo, senza parlare; gli è sempre arduo concentrarsi, col fantasma del morto di turno che gli sibila alle spalle.

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Né Bruno né Maione insistono, a quel silenzio. Non sanno che vede i morti, certo, ma hanno lavorato su abbastanza casi con lui per sapere che, quando è sulla scena di un crimine, ha bisogno di prendersi quelle pause riflessive mute e assorte. Pensano sia un suo vezzo, uno dei tanti che in realtà celano realtà più cupe, ma glielo lascia pensare di buon grado.

Si scosta di un paio di passi, aggira il fotografo che si avvicina a immortalare il delitto e percorre il perimetro della stanza. Si dirige poi verso la porta dello studio che si affaccia sul salottino devastato, oltre il divanetto in stile rococò. L’hanno già aperta prima, durante il sopralluogo generale, ma non hanno ancora ispezionato a dovere alcuno spazio.

Quando entra nella stanza, la voce di Gigliolo non si affievolisce alle sue spalle, anzi, sembra riverberare in modo spiacevole in quello spazio più ristretto, ingombro di mobili scuri e libri, come se trapassasse le pareti in modo assolutamente illogico rispetto a quanto accadrebbe per i vivi.

«Era in veste da camera,» sente dire Maione, con la sua voce che segue invece le leggi naturali e risuona più attutita, «se davvero cercavano qualcosa, erano certi che ce l’avesse addosso pure mentre dormiva.»

«Per esempio, la chiave di una cassetta di sicurezza,» dice Ricciardi, abbastanza forte da farsi udire fin nell’altro ambiente.

La cassetta in questione, con la chiave d’ottone ancora infilata nella toppa, fa bella mostra di sé sulla libreria, aperta e vuota. Ricciardi si avvicina, esaminando lo scaffale: era ben celata dietro alcuni libri finti in legno, eppure, non v’è segno che il ladro abbia messo a soqquadro lo studio per trovarla. Così come non vi erano segni di scasso o effrazione, né di lotta sul corpo di Gigliolo. Sente i passi di Bruno e Maione avvicinarsi, per poi fermarsi sulla soglia.

«Sapeva esattamente cosa cercare e dove cercarla.» Ricciardi si volta verso i suoi collaboratori. «Mi viene anche da pensare che conoscesse la vittima, visto che non ci sono segni di lotta.»

E visto il tono in cui la vittima si è rivolta all’intruso, ma questo non può rivelarlo. Nel parlare, fissa interrogativo Bruno, che si limita a incrociare le braccia, gettando un’occhiata verso il salone e il corpo.

«Ti darò conferma dopo la perizia,» ripete soltanto, senza esporsi.

Ricciardi annuisce, per poi spostare l’attenzione sul brigadiere, che si agita sul posto come se stesse rimuginando su qualcosa.

«Maione?» lo richiama, invitandolo a esprimersi. «Qualche idea in particolare?»

Lui scrolla le spalle, stringendo il berretto sottobraccio.

«No, commissario, o almeno, non mia. Però questo sarebbe il quarto furto con questa modalità,» aggiunge, causandogli un moto di lieve sorpresa.

«Il quarto?»

«Beh, il quarto senza effrazioni e in cui tutto è stato ripulito, in modo mirato, senza smuovere un granello di polvere.» Maione sospira pesantemente, facendosi grave. «Il primo di nostra competenza perché ci scappa il morto, però.»

«Se giochi col fuoco, prima o poi ci scappa,» commenta Bruno, pescando il sigaro dal taschino della giacca. «Poteva andare peggio; potevano accoppare un vero poveraccio.»

Ricciardi lo fulmina, troncando sul nascere il gesto di prendere anche i cerini, e il medico alza gli occhi al cielo. Gli pareva strano, che Bruno non avesse ancora commentato le simpatie politiche di Gigliolo.

«Chi si è occupato dei precedenti casi?» chiede poi, stringendosi un polso dietro la schiena.

«De Blasio,» replica secco Maione. «Strano che voi non ne sapeste nulla, vero? È sempre così preciso.»

«Maio’, non stiamo a recriminare,» lo ferma Ricciardi, già abbastanza irritato dal dover andare a elemosinare informazioni al collega. «Piuttosto, convoca tutti i domestici e gli abitanti della casa in Questura, e fa’ stilare un inventario di ciò che è stato sottratto,» ordina poi al brigadiere. «Aspettatemi pure fuori. Io do un ultimo sguardo in giro e vi raggiungo.»

Termina di parlare con un sospiro invisibile, più un incoraggiamento a se stesso che altro.

«Subito, commissario.»

Maione esegue, mentre Bruno tergiversa sulla soglia.

«Non mi sembra ci sia molto da aggiungere rispetto a quanto ha detto il buon brigadiere all’inizio,» osserva, rigirandosi il sigaro spento tra le dita.

Lancia uno sguardo astioso al busto romano in pietra nera in un angolo dello studio, poi alla teca da esposizione con tutte le medaglie al valor militare schierate in file ordinate.

«“Rapina finita male” mi sembra un ottimo riassunto, no?»

«Se fa parte di una serie ci sarà pure qualche dettaglio in comune,» ribatte Ricciardi, ignorando l’antifona: un morto è sempre un morto, fascista o meno.

Fa vagare lo sguardo sulle pareti coperte da librerie e sulla scrivania in noce assolutamente intonsa, se non per il pesante fermacarte a foggia di aquila in bronzo, che rifulge nel sole ormai alto.

«Vai, Bruno. Mo’ arrivo.»

«Vado, vado... non vorrei mai seccarti,» sbuffa lui. «Anche perché mi sa che ci pensa già la tua unica amante, cioè l’emicrania,» butta lì con un sorrisino, defilandosi prima che Ricciardi possa rispondergli a tono; oltre che rimbrottarlo per il tenore delle sue battute.

Scuote la testa tra sé, concedendosi finalmente di stropicciarsi gli occhi dolenti ora che è solo. Aspetta ancora qualche secondo, oppresso dalla voce inarrestabile di Gigliolo, prima di tornare nel salotto a fronteggiarne il fantasma.

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Si costringe a fissarlo con attenzione, anche se ciò non fa che acuire le fitte che gli attraversano il cranio. Gigliolo fa guizzare gli occhi privi di pupilla qua e là, in un moto eterno e tremulo.

Tutti gli spettri, a un primo sguardo, sembrano egualmente terrorizzati ed esterrefatti dinanzi alla morte. Ma, a lui che ormai sa decifrarli suo malgrado e ha imparato a discernere le sottili differenze tra l’uno e l’altro, parlano molto più con le loro evanescenti sagome azzurrine che con la voce, destinata a ripetere la stessa, ultima frase come un grammofono in stallo.

Gigliolo non sembra spaventato: solo sorpreso, sia nel tono con cui parla che nei gesti e nella postura. Forse, addirittura, scorge un velo di preoccupazione sul suo volto pieno. Il suo sguardo, sebbene vacuo, non è livello con il suo, ma rivolto un poco più in basso. Ne segue la direzione, trovando nel suo punto d’arrivo un mobiletto anonimo che sorregge una lampada in ceramica. Apre lo sportello sottostante, rivelando solo qualche soprammobile d’argento scadente e ossidato, di scarso valore; nel cassettino al di sopra c’è una risma di fazzoletti da polso ben stirati. Nient’altro.

Ricciardi si volta a fissare Gigliolo, sentendosi inquieto quasi quanto lo spettro che continua a oscillare sui talloni, sospeso sulla miriade di vetri scintillanti ai suoi piedi che riflettono la luce di metà mattina in uno sfavillio. Adocchia il divanetto rococò dietro il fantasma, il tavolino rotto e macchiato di sangue davanti a lui, la ferita sulla fronte dell’uomo; infine il mobiletto insignificante, l’ultima cosa che ha ritenuto importante fissare prima di essere ucciso.

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Ricciardi strizza gli occhi. C’è qualcosa che non gli torna.



 


Note dell'Autrice:
Carissimi Lettori (se ci siete), rieccomi su questi lidi!
Come preannunciato, torno con una storia dal tenore molto diverso rispetto all'ultima, ovvero un giallo in tutto e per tutto.
Non mancherà comunque la parte emotiva, considerando che è una continuazione spirituale di La finestra senza sole, ma non è assolutamente necessario leggerla per comprendere tutto. Il focus è sempre il caso e il mistero a esso legato, ma aspettatevi qualche svolta anche dal lato sentimentale della faccenda ;)
Il meraviglioso disegno che fa da copertina è opera di Miryel, pezzo del mio cuore che ha sostenuto questa storia sin dal primo giorno ♥
Spero che questo approccio vi piaccia e che vorrete lasciare un commento per farmi sapere cosa ne pensate ♥

-Light-

P.S. Pubblicherò la seconda parte di questo capitolo mercoledì prossimo. L'obiettivo è aggiornare con regolarità, ma ci sarà probabilmente una pausa più lunga tra il prossimo capitolo e il successivo, poiché la storia è ancora in stesura e, essendo un giallo, la revisione finale è fondamentale per far tornare tutto. Il NaNoWriMo mi sta aiutando molto, ma prevedo che gli aggiornamenti effettivamente regolari partiranno dai primi di dicembre in poi. A occhio, considerando lo stato attuale, saranno circa 15-20 capitoli effettivi.

   
 
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