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Autore: _Lightning_    22/11/2023    7 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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          QUANDO escono dalla palazzina di Gigliolo, il sole è ormai quasi al suo picco e irradia un piacevole calore, stemperando il vento di tramontana ancora tagliente.

Ricciardi cammina in coda a Bruno e Maione, che parlottano tra loro mentre attraversano il piccolo cortile esterno, diretti all’auto parcheggiata a bordo del marciapiede. Un paio di domestici segue il loro passaggio con occhi angosciati; Ricciardi sa che li rivedrà in Questura quel pomeriggio, dopo una prima rassegna di domande piuttosto infruttuosa.

Dalle loro parole, Gigliolo non sembra essere stato tirannico né particolarmente prodigo di lodi, ma comunque benvoluto; che è molto più di quanto si possa sperare negli ambienti degli alti gradi militari. Ricciardi è conscio che il modo familiare in cui lui trattava Rosa, prima, e Nelide, adesso, è assolutamente non conforme a quanto accade nella maggior parte delle case più abbienti. Lo vede più di quanto voglia, quando si trova a parlare con domestici che gli si rivolgono quasi con riverenza, o con un misto d’ansia e circospezione dettato solo in parte dal suo ruolo di commissario che indaga su un crimine. È il timore di chi sa che una singola parola sbagliata può sempre costargli la paga, o il posto.

Non è ciò che ha visto stavolta e, sebbene non basti a sollevare dai sospetti nessuno che fosse al servizio di Gigliolo, lo indirizza più verso l’esterno di quelle mura, che verso l’interno. Un estraneo, che però pareva conoscere bene Gigliolo, o quantomeno le sue abitudini.

«Tu… che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Aveva riconosciuto l’intruso, questo gli è lampante, ma...

«Ohi, Riccia’,» Bruno gli rifila un colpetto sul gomito, «sei tra noi?»

Lui si riscuote, fissando interrogativo prima lui e poi Maione, che lo fissano di rimando.

«Ti stavo per chiedere se ti va di fare una deviazione, prima di rientrare,» ripete il medico, sbuffando una nuvoletta di fumo dal sigaro.

«Una “deviazione”, qui?» interviene Maione, perplesso. «E dove? Alle ville dei nobili? Senza offesa, commissa’,» aggiunge in fretta, e Ricciardi alza appena le spalle, indifferente.

«Ma fatemi il piacere, brigadiere; intendevo al “Nuovo Ospedale Moderno”, o “23 Aprile”, o come diamine vogliono chiamarlo per dar lustro alla patria o che so io,» ribatte Bruno.

Gesticola nella sua direzione generica, verso la Collina dei Cangiani ancora bloccata tra campagna e città, prima di guardare di nuovo lui, che si limita a sospirare sottovoce. Non che gli dispiaccia accompagnarlo, ma ha già un caso tra capo e collo e una sfilza di testimoni e sospetti da interrogare.

«Non hai un cadavere da esaminare?» gli fa notare, con un cenno verso i due poliziotti che li superano in quel mentre, portando una barella vuota.

«Il morto mica ci scappa,» gli fa il verso lui, «e poi, in teoria, non sono di turno fino a domattina. Vedi? Mi scocci anche nel giorno libero,» lo accusa, puntandogli contro il sigaro ora acceso.

«E te ne vuoi andare per ospedali pure nel giorno libero?» lo canzona lui, stavolta con un mezzo sorriso.

Quell’osservazione suscita un’espressione buffa sul volto del medico, un lieve sgranare d’occhi molto simile all’imbarazzo, come non avesse nemmeno pensato a quel dettaglio e si sentisse colto in fallo.

«Vabbuò, mica sei obbligato a scortarmi, vado pure da–»

«Maione, riporta tu l’auto in Questura,» lo interrompe lui, dando un’occhiata all’orologio da polso che segna ormai mezzogiorno passato. «Ci vediamo là subito dopo pranzo. Il dottore e io ce ne andiamo per ospedali.»

Maione porta una mano alla tesa del berretto, per poi fissare di sottecchi uno dei vagoni della funicolare che arranca sferragliando in lontananza, lungo il pendio.

«Contenti voi...» borbotta, per poi farsi più composto. «Convoco qualcuno, oltre ai domestici di Gigliolo?»

«Fammi il favore, e cerca di rintracciare la moglie; i domestici sono stati piuttosto evasivi al riguardo e pare non fosse in casa. Recupera anche qualche informazione sugli altri furti da De Blasio: Una lista di tutti gli impiegati di servizio in ogni abitazione farebbe al caso nostro, qualora ci fosse qualche nome ricorrente.» Fa una pausa, tirando le labbra. «Anche se ne dubito. Non mi sembrano sprovveduti.»

«Affatto,» concorda Maione. «Però, stavolta ci hanno lasciato secco qualcuno invece di fare un lavoro pulito. È qualcosa.»

«È qualcosa,» annuisce Ricciardi, a malincuore.

«È lavoro per me,» mugugna Bruno.

Maione gli rifila un’occhiata storta.

«Senti, se ti avanza tempo, vatti a fare pure un giretto alla Sanità,» aggiunge in fretta Ricciardi, quando il brigadiere sta già per aprire la portiera.

«Un “giretto”?» ripete il brigadiere, con gli occhi chiari adombrati dalle sopracciglia ora aggrottate. «Alla Sanità?»

«È un po’ che non ti fai vivo col nostro informatore,» esplicita lui, faticando un poco a mantenersi serio. «Poi, magari, pensa che ti sei scordato di lui e si risente, no?»

È chiaro che Maione, se non ci fosse una gerarchia da rispettare, gli rifilerebbe volentieri uno scappellotto; lo fissa di sbieco, come fisserebbe uno dei suoi figli dopo averlo sentito pronunciare una profanità.

«Commissa’, voi vi divertite troppo, con questa storia,» lo ammonisce, calcandosi meglio il berretto in capo e salendo al posto di guida.

«Io? Mai,» ribatte lui, prima di dare un colpetto sul tettuccio dell’auto a segnalargli di partire.

«Bugiardo,» commenta Bruno, mentre Maione parte sobbalzando con uno sputacchiare di fumi di scarico. «Tu ti diverti sempre un mondo.»

Ricciardi scuote la testa, senza però negare a voce, un sorriso che gli preme agli angoli della bocca. Fa un cenno col mento verso il cancello.

«Non volevi vedere ‘sta meraviglia di ospedale?»

«E andiamo,» s’avvia subito lui, coi suoi passi lunghi, «che ce n’è, da camminare.»

Ricciardi lo sa perfettamente, sin da quando ha accettato di accompagnarlo. Bruno inforca i suoi occhiali da sole, neanche fosse agosto inoltrato, e si immette tra il viavai piuttosto acceso della zona.

Ricciardi gli si affianca mentre procedono verso l’enorme Piazza delle Medaglie d’Oro, dove viaggiano più auto che probabilmente in tutta Napoli, superano i binari del tram e imboccano uno dei larghi stradoni appena asfaltati che portano verso la nuovissima zona ospedaliera ancora in costruzione. Gli fa un certo effetto vederlo tagliare così nettamente, come una cicatrice diritta e bianca, i campi boscosi che lo circondano. Immagina come sarebbe vedere qualcosa di simile tra le montagne verdi e selvatiche del suo Cilento, attorno a Fortino arroccata sul proprio cocuzzolo, e il pensiero lo intristisce senza un particolare perché.

Dopo una decina di minuti di marcia che li fa sentire ben presto accaldati, nonostante il freddo, Bruno si ferma lungo una curva che dà sulle colline ondulate circostanti, le mani affondate nella tasca della giacca pesante. Poco oltre, la prima struttura appena costruita dell’ospedale è ormai visibile, ancora attorniata da cantieri, cumuli di terra e mattoni e mezzi pesanti.

È un edificio sobrio e dai colori pastello, in chiaro stile d’architettura nuova come i tanti sorti nel giro di così pochi anni in giro per Napoli. Due fasci littori ornano i capitelli delle due false colonne all’ingresso, racchiudendo il frontone ancora privo di nome, in attesa di essere battezzato.

Bruno si poggia a sedere sul muretto che delimita lo stradone, senza dar cenno di voler avanzare ancora. Si toglie il cappello, liberando i ricci castani, poi gli occhiali, come a volersi godere meglio la vista e quel sole inaspettato, che gli accende le iridi scure di riflessi caldi, quasi ambrati. Non parla, in modo per lui alquanto insolito.

Ricciardi si siede accanto a lui, spalla a spalla, e respira la sua compagnia e il silenzio di quel luogo ancora deserto, circondato solo da vento, campi e dal mormorio soffuso della città sottostante. Il mare sfavilla in lontananza, abbracciando Napoli.

«Tu questo “pellegrinaggio” all’ospedale nuovo l’avevi già fatto, vero?» gli chiede a mezza voce dopo un po’, anche se l’ha capito dal momento in cui il medico ha fatto strada fin lì senza il minimo tentennamento.

Bruno soffia aria e fumo dal naso, solo l’accenno di un verso divertito.

«E bravo, commissa’. Si vede che ci sai fare, con le indagini.»

Ricciardi lo fissa dal basso inclinando il capo, senza risentimento; più con una sorta di rassegnazione per quei sotterfugi obbligati.

«Non era un caso così complicato.»

«A me sembrava una scusa plausibile,» lo rimbecca lui, col tono malinconico che vela la sua spigliatezza quando gli parla a quel modo, per poi riassestarsi su un sogghigno irriverente: «La prossima volta, se vuoi, ti invito direttamente a pranzo in pubblica piazza. Tanto ci urlano cose pure peggiori, di questi tempi.»

Ricciardi incrocia le braccia al petto, nascondendo un sorriso e riaggiustandosi poi sulla fronte la ciocca di capelli che il vento incostante continua a scomporgli.

«Evita, magari.» Si rimette poi in piedi, invitandolo con una discreta spinta del gomito ad avviarsi di nuovo da dove sono venuti, verso la funicolare. «Penso che a pranzo al Gambrinus possiamo ancora andarci senza tutta questa pantomima.»

«Ma come, è l’unica cosa divertente,» chiosa lui, un po’ serio, un po’ scherzando. «Quindi, mi stai invitando?»

«Ti sto dicendo di muoverti,» lo spintona con più forza, affatto convincente nella sua irritazione, «ché con le tue pantomime m’hai scombinato la giornata.»

Bruno si lascia andare a una risata, senza la minima traccia di pentimento, anzi, con fare vittorioso, come la pacca sulla spalla che gli rifila. E in fin dei conti, gli concede Ricciardi, poter passeggiare sotto il sole con lui, dimenticandosi per un paio d’ore del freddo, dei mal di testa e degli spettri, è davvero una piccola vittoria in quella mattinata come tante.

Quando varca finalmente la soglia di casa, sono ormai le nove passate. L’accoglienza di Nelide, prima ancora che riesca a togliergli del tutto soprabito e giacca umidi, è una sfilza di rimproveri a mezza bocca in cilentano serrato: perché fa sempre tardi, perché mangia come un pettirosso denutrito e perché se ne va in giro sotto la pioggia senza cappello.

«Va a finire, che uno di questi giorni smetto pure di vedervi, per quanto vi sciupate,» conclude, in un modo fin troppo simile a quanto faceva Rosa prima di lei; si vede, che era sua zia. «U’ sazio nu crere a u’ riuno,» aggiunge, con un perentorio sollevarsi di sopracciglia.

Ricciardi fa sempre fatica a decifrare quegli oscuri detti cilentani, ma coglie comunque l’antifona.

«La prossima volta mando qualcuno ad avvertirti,» la placa senza molto successo, poiché, di fatto, si dimentica sempre.

Si mette a tavola per quieto vivere anche se, come suo solito a cena, non ha affatto fame; tanto meno dopo un pranzo insolitamente sostanzioso come quello di oggi.

Alla fine, dopo aver deciso di evitare la funicolare e scendere invece a piedi verso la città bassa da Montesanto, prendendosela un po’ troppo comoda, Bruno e lui non hanno fatto in tempo a passare al Gambrinus. Hanno invece ripiegato, per grande insistenza del medico, su una pizza a portafoglio divorata in fretta e furia durante il tragitto, quando quella pioggerellina insistente aveva scacciato il bel tempo e si era riversata sulla città.

Il medico si era poi diretto ai Pellegrini per occuparsi della necroscopia di Gigliolo e lui ha passato in resto della giornata in Questura, ad ascoltare uno dopo l’altro il personale di servizio del defunto colonnello. Ovvero, una sequela infinita di persone che pareva non sapere niente di niente sul delitto né sul furto e che esternava un dispiacere sincero per lui, misto ad angoscia per il futuro. Anche il domestico che aveva ritrovato il corpo, tale Corrado Sannio, pareva genuinamente scosso dal fatto e propenso a collaborare.

La vedova Gigliolo, invece, dovrà sentirla per prima cosa domattina, dato che, a quanto pare, era a Roma; si deve altresì premurare di condurre degli accertamenti su questo fatto. Ricciardi ha la testa che gli scoppia in modo particolarmente vizioso, anche per la consueta intensità delle sue emicranie.

Nelide gli piazza la zuppa di lenticchie e il pane in tavola e sparisce subito per rigovernare la cucina, col brontolio di fondo dei suoi rimproveri che si muta presto in un canto leggero, ad accompagnare l’acciottolio delle stoviglie nel lavello.

Ricciardi lancia un’occhiata al piatto, senza avvertire appetito, poi lo sposta verso la finestra, un gesto frutto dell’abitudine, più che della volontà. Gli pare di scorgere la sagoma sottile di Enrica oltre le tende dell’edificio di fronte, ma è solo un attimo fugace. Non gli provoca alcuna emozione, se non una lieve stretta allo stomaco che non definirebbe piacevole; l’impalpabile angoscia, piuttosto, di chi sa di essere in torto.

Intreccia le dita tra loro sul tavolo, stringendosele e sfregandosele con nervosismo.

Non ama avere questioni in sospeso. Dovrebbe parlarle, uno di questi giorni, perlomeno per chiarire qualunque malinteso possa essere rimasto tra loro. Certo, lei ora si frequenta con un ufficiale tedesco e non crede rimpianga più di tanto quegli appuntamenti furtivi alla finestra, fatti di sguardi e sorrisi che non avevano mai portato a nulla di concreto.

Ciononostante, è stato comunque lui a sparire da un giorno all'altro, e gli pare un atteggiamento a dir poco villano. Non che potrebbe mai spiegarle il perché, in effetti. Dunque, è un'intenzione destinata a perdersi tra il portone di casa sua e quello di Enrica, lavata via come l'acqua piovana nel vico sottostante.

Due cucchiai scarsi di zuppa e un bagno rapido più tardi, entra finalmente nella propria camera, accusando la stanchezza della giornata che gli irrigidisce la schiena. Il sonno non arriva come naturale conseguenza, però: quello gli tocca sempre inseguirlo ogni sera.

Sdraiato supino sul materasso, fissa le travi del soffitto, vedendovi in controluce il volto smorto di Gigliolo, come fosse davanti a lui in quel momento.

«Tu… che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Gli continuano a rimbombare in testa quelle ultime parole, come dopo ogni altro caso. Sa che continuerà a udirle fin quando non vi metterà la parola fine. A volte, quando scivola nel dormiveglia, quelle del fantasma più recente si mescolano alle decine, centinaia di altre che hanno attraversato la sua vita, troppo spesso lasciate invendicate. Come quelle degli spettri che scorge ogni giorno, derelitti, agli angoli delle strade o nei vicoli più miseri.

Frasi smozzicate, lamenti incessanti, parole colme di paura o rabbia o pianto. Gli si rimestano in testa in un calderone di voci e immagini opalescenti, affastellate a sprazzi di vita reale; di quella vita che, in un modo o nell’altro, finisce per vivere in sordina anche lui, ai margini di quella dei vivi. Persino con Bruno è costretto a mentire, aggiungendo ombra a quella in cui sono costretti a celarsi anche in pieno sole; e si sente sempre in difetto, quasi sporco, quando svia le sue domande, quando mente sulle sue emicranie ricorrenti, sulla sua perenne insonnia e inappetenza e sul perché si porti attaccato addosso quel sudario di mestizia pure quando è con lui. Il medico gli rimprovera spesso che ha paura di vivere, e lui non sa mai come rispondergli.

«Tu… che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

In quel caleidoscopio di frammenti onirici, la voce di Gigliolo si leva più forte dal brusio, insieme a quella degli spettri che gli sono rimasti più impressi, vittime di delitti particolarmente efferati o abietti. Quella del piccolo Tettè, avvelenato e lasciato per strada come un giocattolo rotto, lo insegue ancora a un anno di distanza. Sa che lo farà per sempre, nonostante gli abbia reso giustizia, in qualche modo, nonostante ne porti il pegno tangibile sulla nuca, nella cicatrice che gli è rimasta impressa dopo l’incidente di quel caso, quando è stato Bruno ad afferrarlo per i capelli a un soffio dalla morte...

«Tu… che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Ricciardi riapre di scatto gli occhi, strappato con un sussulto al sonno leggero e confuso che era appena riuscito a sfiorare. Rilascia un respiro lento, controllato, avvertendo una lieve patina di sudore freddo sulla fronte. Sbatte le palpebre un paio di volte, poi si paralizza, i muscoli rigidi, rendendosi conto che non è stato il ricordo della voce di Gigliolo, a svegliarlo.

È stato qualcos’altro, un suono reale, che gli scatena un brivido alla radice dei capelli e un senso di oppressione soffocante al petto; un riflesso istintivo, impossibile da reprimere. Tira su il busto di scatto, affinando le orecchie nel buio, le mani contratte sulle coperte. Dalle imposte filtra una tenue lama di luce notturna che dipinge di grigio e blu i contorni indistinti della stanza.

Coglie di nuovo, per un istante, un’eco indistinta che gli fa saltare un battito. Il silenzio gli sfrega sui timpani per qualche secondo. Poi si ripete ancora, distorta, lugubre; l’ennesima voce ignota, eppure così familiare da farlo sentire come se l’avesse sempre conosciuta.

Avverte una pressione invisibile e inesplicabile, un refolo d’aria gelida che gli si insinua sottopelle e gli avvolge il capo in una morsa, gli invia punture di spillo dietro le orbite. Conosce quella sensazione sin da quando è bambino. Chiude gli occhi, deglutendo, con un tremito che gli risale la gola.

Da qualche parte, proprio lì vicino a lui, c’è un fantasma.


 

Note dell'Autrice:
Cari Lettori,
ecco, dal prossimo capitolo entriamo nel vivo, anzi, vivissimo della storia ♥
Ho voluto ritagliare un posticino alla coppia, anche se in modo non plateale, non solo perché mi diverto a scriverli come tali, ma perché... perché lo scoprirete. Essendo un giallo, ed essendo nella sua natura non rivelare tutto subito, mi taccio.
La stesura sta andando più liscia di quanto pensassi e, sorprendentemente, ho già una buona dozzina di capitoli pronti (sempre divisi in Parte 1 / Parte 2 sennò sono mammozzioni di 6.000 parole e passa). Quindi, se la revisione mi assiste, riuscirò a pubblicare regolarmente ogni mercoledì!
Grazie a chi legge e commenta e a chi segue in silenzio ♥

-Light-



 

   
 
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