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Autore: solandia    09/12/2023    2 recensioni
Un Diavolo incompleto.
Due zingare di periferia.
E un Angelo bruno sullo sfondo del cielo lontano.
Una favola dark sulla scoperta di se stessi e del proprio io.
Una favola su un'inestinguibile anelito alla Libertà.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Kikyo | Coppie: Inuyasha/Kagome, Inuyasha/Kikyo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Limbo, Girone V

Inuyasha uscì dal cancello della villa a dir poco stravolto. Erano all'incirca le quattro del mattino.

Si avviò lentamente verso casa, sostenendo uno Shippo sfiancato, che minacciava ad ogni passo di crollargli addormentato sulla spalla.

Non che lui fosse messo tanto meglio, intendiamoci: il cranio gli si spaccava in due, le gambe pesavano un quintale l'una e la vista andava e veniva in un liquido baluginio. Senza contare quanto gli bruciasse la schiena. Parola sua, dopo quella serata non si sarebbe mai più lamentato del delizioso mal di testa che lo attanagliava quando si limitava a qualche bicchiere di troppo.

Per quanto la sua coscienza non si fosse distorta per niente, il suo corpo non sembrava proprio aver gradito gli eccessi in cui era stato trascinato durante quella nottata: solo la rabbia che gli serpeggiava nelle vene gli impediva di accasciarsi sul marciapiede.

E pensare che, quando aveva ricevuto il Messaggio che lo invitava a partecipare a quel ricevimento di gala, si era sentito a dir poco esaltato.

Si trattava di un evento molto in, roba ben diversa dalle festicciole underground che competevano a quelli come lui. Un party del genere, al quale sarebbero intervenuti sia uomini d'affari, sia gente dello spettacolo, sia esponenti della mafia locale, solitamente era fuori dalla portata di un Tentatore: di norma erano i Protettori a sguazzare in quel genere di cose.

I fasti dell'alta società umana erano sempre stati un sogno proibito per lui, almeno fino a due giorni prima, quando il Messaggero era venuto a svegliarlo sul far del mezzogiorno.

Inuyasha stava dormendo della grossa sprofondato nella sua branda, cullato dai borbottii di Rita che, al piano di sotto, tramava e ritramava il suo omicidio curva su tre libroni di farmacologia; il Messaggero era entrato con passo felpato dal lucernario che il mezzodemone lasciava appositamente socchiuso, si era accoccolato accanto al suo cuscino e aveva iniziato dolcemente a leccargli il viso. A Inuyasha non dispiaceva affatto quel tipo di sveglia: significava «Lavoro in vista» e la cosa non gli stava simpatica, ma non riusciva proprio ad incazzarsi con un gattino nero che veniva a solleticargli il naso.

D'altronde i gatti erano esseri maledettamente ruffiani, che sapevano corrompere chiunque con le loro moine. E i loro spiriti, come questo che fungeva da Messaggero, non erano da meno di quelli in carne e ossa.

Durante il tardo Medioevo, in quegli anni bui in cui la vita era precaria e la religione, travisata da mille superstizioni, dominava come un torchio sulla vita del contado, alcune specie animali erano state erroneamente additate come invise al Cielo: i corvi per la loro usanza di ballare sui cadaveri, i gufi e i barbagianni perché in grado di vedere nelle tenebre e i gatti perché considerati incarnazione dei sette vizi capitali per via del loro atteggiamento pigro, sornione e approfittatore. Ritenuti animali del Diavolo, erano considerati portatori di sventure.

Ogni volta che si profilavano all'orizzonte carestie, epidemie o scorribande di briganti, queste bestiole innocenti venivano catturate dai contadini, ammazzate e crocifisse sulle porte delle cascine e delle fattorie, nella convinzione che questo scacciasse l'imminente pericolo. E le persone che cercavano di difenderli, per lo più donne dal cuore gentile, venivano bollate come streghe e perseguitate insieme a quelle povere creature.

Ovviamente tutti quegli animali non erano che comunissime bestie, che non racchiudevano in sé alcun potere se non quello di cacciare i topi, ragion per cui in quell'epoca dilagava tanto facilmente la peste: dato che i loro predatori naturali venivano sterminati dagli esseri umani, i roditori si riproducevano a dismisura, e con essi cresceva la diffusione delle gravi epidemie di cui erano vettori.

E, fin qui, la storia era nota a chicchessia.

Ma l'odio chiama altro odio, e questa follia umana ebbe una seconda, occulta conseguenza: la nascita dei Messaggeri.

Fino ad allora, i Diavoli si erano sempre arrangiati con le proprie forze a comunicare fra loro. Ma alcuni degli spiriti di quegli animali, morti fra tormenti troppo atroci per trovare la pace, erano rimasti a vagare come fantasmi e, spinti dal desiderio di vendetta verso gli uomini, si erano messi al servizio degli Inferi, rendendosi disponibili per piccoli compiti come quello di fare da ponte di comunicazione fra il piano Terreno e quello Infernale.

Gli esseri umani avevano così fatto avverare quella stupidaggine della quale si erano auto-convinti, ovvero che tali bestie fossero animali del Diavolo. Ma non si erano accorti di essere stati loro a far sì che le cose andassero in tal senso.

Inuyasha amava molto la storia dei Messaggeri, perché gli ricordava costantemente quanto fosse controproducente la scelleratezza umana. Allo stesso modo, apprezzava sinceramente quelle bestie: in fondo tutti questi animali, con la loro brama di scandagliare il buio e la loro ruffiana sensualità, gli ricordavano Valeel. E tutto sommato quello di Valeel era un ricordo piacevole.

Solo dopo aver ricevuto una ciotola di latte e una cospicua dose di grattini sulla collottola, il gattino nero si era degnato di porgere a Inuyasha il Messaggio. Questo altro non era che un foglietto di pergamena arrotolato e fissato al suo collare.

Il Mezzodemone lo estrasse, lo lesse con cura e proruppe in un grido di gioia: mai prima di allora era stato precettato per un Lavoro tanto importante!

Avrebbe dovuto presenziare, insieme al suo storico Compare Shippo, al grande ricevimento che si sarebbe tenuto di lì a due giorni nella villa del magnate della finanza più in vista della zona, come manovalanza affiancata a un gruppo di otto Protettori Adulti.

Allegati al Messaggio c'erano due inviti per il party, abbinati ad altrettanti documenti d'identità falsi da esibire al buttafuori all'ingresso della festa. Ufficialmente i due Tentatori sarebbero risultati essere i rampolli di una famiglia di noti (quanto inesistenti) industrialotti di provincia.

Il fatto di dover partecipare alla festa visibilmente, fu un dettaglio che attizzò ancor di più l'entusiasmo di Inuyasha: solitamente, quando i Protettori avevano bisogno di manforte in vista di Lavori particolarmente pesanti, reclutavano i Tentatori portandoseli dietro perfettamente invisibili.

Per tutti gli umani presenti, dunque, i Tentatori non c'erano, mentre i Protettori assumevano identità false e partecipavano apertamente agli eventi mondani. Questo permetteva loro di godersi tutti i piaceri offerti dalla festa, lasciando a becco asciutto i loro miseri sottoposti, che dovevano limitarsi a sgobbare in silenzio.

Ma stavolta era diverso: lui e Shippo erano stati precettati, certo, ma per partecipare concretamente all'evento. E infatti, cinque minuti dopo, il campanello era squillato e un garzone di lavanderia gli aveva consegnato due smoking freschi di lavatura.

Inuyasha era convinto che quella novità potesse significare una cosa sola sola: i suoi Gerarchi si erano accorti del Lavoro magistrale che stava facendo con Rita e questo era il loro modo per complimentarsi con lui. Si trattava di sicuro dell'avvisaglia di una promozione imminente.

Certo, purtroppo il ricevimento cadeva proprio quel sabato sera, momento che Rita aveva scelto come quello ideale per l'omicidio, ma Inuyasha non si era lasciato minimamente abbattere da quel dettaglio: se era vero che non avrebbe potuto essere presente per gustarsi in diretta il frutto delle sue fatiche, era comunque sicuro che Rita avrebbe agito senza fallo, perché ormai i suoi pensieri turbinavano in un vortice assassino dal quale non si sarebbe mai potuta affrancare, che lui la vegliasse o no.

Rita, insomma, avrebbe camminato verso l'Inferno con le sue stesse gambe e lui finalmente poteva avviarsi all'agognata scalata dei Piani Alti.

Così aveva pensato.

Solo adesso, a ricevimento finito, si rendeva conto di quanto immaturi fossero stati quei pensieri.

Aveva passato una nottata allucinante, probabilmente la peggiore della sua vita.

In primis, gli otto Protettori presenti si erano ben guardati dal muovere un dito, preoccupandosi solo di spassarsela e lasciando tutto, ma proprio tutto il Lavoro sulle spalle sue e di Shippo. E Lavorare da visibili non è sempre facile, quindi il primo ostacolo era stato proprio scegliere con cura i momenti per occultarsi e quelli per manifestarsi.

A complicare irrimediabilmente il tutto, però, c'era stato il tipo di Lavoro che gli avevano affibbiato. Cosa aveva fatto lui nei cinquant'anni trascorsi dalla sua Condanna? Quel che compete a un Tentatore: spinto la gente a bere, drogarsi, farsi una scappatella alla faccia della fiducia del coniuge o giocarsi lo stipendio alle slot-machines.

Punto.

Fine.

Su quello era competente e gli era sempre stato proibito di volgersi a questioni di maggior peso.

E adesso, di punto in bianco, veniva spedito in smoking a un Gran Galà e lì sul posto, manco fosse l'agente 007, gli era stato impartito l'ordine di infiltrarsi in una riunione fra mafiosi e industriali per farla volgere secondo la strategia designata.

Ma quale strategia?!

Ora, a parte il fatto che prima della riunione era stato messo a Lavorare nella zona del bagno, dove la gente peregrinava per farsi di un nuovo ritrovato della fantascienza che il crack a confronto ha un gran rispetto per le cellule cerebrali; a parte il fatto che, sniffatosi la nuova biancaneve (che a dire il vero era una rosaneve), era stato subito così male da desiderare di non essere mai nato e aveva poi dovuto reiterare la cosa almeno una ventina di volte, per trascinare in quel nuovo giro tutti quelli che gli veniva di volta in volta indicato di trascinarvi; a parte il fatto che Shippo si era fatto più volte di lui ed era finito fuori-combattimento a metà della serata; a parte il fatto che arrivare a una riunione fisicamente devastati come lo era lui e dover recitare il rampollo di una qualche famiglia borghese era roba che non sarebbe riuscita neppure a Jhonny Deep nelle sue giornate migliori, la cosa che più lo faceva incazzare era che, di quella stramaledettissima strategia, nessuno gli aveva detto un tubo.

Non aveva la più pallida idea della piega che avrebbe dovuto far prendere agli accordi che quella gentaglia intendeva stringere.

Che ne sapeva lui di intrallazzi mafiosi?

Niente.

Un chiarissimo, limpidissimo, schifosissimo niente!

Non aveva idea delle famiglie implicate, degli affari loschi che conducevano, né della merda in cui sguazzavano gli industriali che si stavano rivolgendo ad esse per pararsi il culo. Era comunque partito con fiduciosa quanto genuina diabolicità, confidando che sarebbe certo stata cosa ottima se gli accordi si fossero conclusi, perché più gente si compromette con la malavita organizzata, meglio è per la Gerarchia, che controlla la malavita in ogni angolo del globo.

In tal senso aveva provato a Lavorare all'inizio, ma, in capo a pochi minuti, aveva compreso quanto la situazione fosse ben più complessa. Tuttavia, lui non sapeva nulla di quel che bolliva in pentola, l'unica cosa che aveva capito era che alcuni di quegli industriali erano già vicini a un altro clan, forse rivale di questo.

Quindi?

In che direzione avrebbe dovuto spingere la cosa, per far piacere ai suoi Capoccia?

Dalla parte di chi doveva stare?

Ci fosse stato un fottutissimo bastardo di Protettore che si fosse degnato di dargli due dritte!

Niente! Era stato mandato lì allo sbaraglio, nel buio più assoluto.

Ignorando il panico che la situazione gli trasmetteva, aveva fatto quel che aveva potuto come aveva potuto, scegliendo a naso quella che gli era sembrata la soluzione più marcia, e in quel senso aveva Lavorato, senza la minima idea di quel che ci si aspettasse da lui.

Stupidamente, lì su due piedi si era fatto l'idea che il silenzio dei suoi Superiori fosse dovuto al fatto che quello si poteva considerare una specie di Esame. Forse, si era illuso, avevano solo voluto metterlo alla prova in un ambiente nuovo, per vedere se era degno della promozione che l'Eternità aveva già in serbo per lui. Per questo ce l'aveva messa tutta per concentrarsi e Lavorare al meglio, anche se il suo organismo devastato remava decisamente contro.

Era stato solo una volta uscito da quella riunione che era arrivata la vera doccia fredda.

I Protettori l'avevano convocato in una saletta privata, per farsi dare un resoconto dettagliato del suo operato. Lo avevano ascoltato per circa tre minuti, poi erano partiti con i calci. Iniziavano sempre così, prendendoti a calci, quando avevi sbagliato a Lavorare. Poi ti fracassavano due o tre costole e alla fine ti rifacevano i connotati. Era il discorso-standard che rivolgevano a chi falliva: chiaro, limpido e al quale nessuno avrebbe mai chiesto di aggiungere ulteriori spiegazioni.

Il suo viso, in ogni caso, era stato graziato, perché in mezzo a una festa di quel genere avrebbe attirato troppo l'attenzione, anche da dietro lo Schermo. Per questo avevano preferito spogliarlo e ustionargli la schiena. Tanto, sotto lo smoking, nessuno avrebbe notato le piaghe.

Per i Diavoli di Rango torturare un novellino era un passatempo innocuo e scevro da qualsiasi conseguenza. Per i Tentatori, invece, non c'era nulla di divertente nel subire tali torture, ma era una cosa a cui non potevano in alcun modo sottrarsi: se un Diavolo Completo decideva di usare un Tentatore come punchingball, questi perdeva ogni controllo sul proprio corpo, che si rifiutava di muoversi o fuggire e restava lì, inerme, a prenderle di santa ragione.

Umiliante.

Il dover subire questo tipo di Incantesimo dei Superiori, in grado di renderlo un misero giocattolo da strapazzare, era una delle cose che Inuyasha più odiava del proprio stato. Anche perché a lui capitava di essere preso di mira molto più frequentemente rispetto agli altri Tentatori.

Probabilmente perché era un Condannato.

E questo significava che era intelligente e intimamente ribelle, quindi molto più gustoso da rendere immobile e seviziare di un tontolone come Shippo, che non aveva superato l'Esame solo perché era palesemente un povero idiota.

Quella volta, però, i giochi erano sottilmente diversi. Quella non era la classica seduta di Torture che seguiva a un involontario errore del disgraziato di turno.

Ne era certo.

Sotto le botte che gli piovevano addosso da ogni parte e anche dopo, quando era stato rispedito nell'area-bagni e, con il più smagliante sorriso sulle labbra, si era dovuto calare per altre sette volte quella roba micidiale che invece di anestetizzarlo acuiva il dolore che gli martoriava le membra, non poteva fare a meno di pensare che tutta quella situazione era stata creata ad arte per lui.

Lui, che credeva di essere stato notato e di essere a un passo dalla Promozione.

Lui, che si illudeva di poter essere ammirato e ben visto dai Superiori.

Lui, che aveva messo non solo la sua vita, ma anche quella di Rita nelle loro sudicie mani.

Lui, che per loro non era che feccia.

Non l'avrebbero mai accolto nella Gerarchia, ora lo sapeva.

Aveva ottenuto qualcosa di davvero miracoloso con la povera Rita. Loro se n'erano accorti e, pur di non Promuoverlo, erano corsi ai ripari: avevano ordito quel piano, trascinandolo a quella festa proprio il giorno dell'omicidio, tanto per togliergli anche la soddisfazione di gustarselo, e lì lo avevano messo in condizione di sbagliare alla grande, così da fottersi qualsiasi merito.

Probabilmente non esisteva affatto un verso corretto ove dirigere la riunione mafiosa: qualsiasi cosa avesse fatto, lo avrebbero accusato di Omissione Lavorativa. E poi si sarebbero finti magnanimi e l'avrebbero lasciato nella condizione in cui era, sostenendo che i suoi meriti e demeriti si controbilanciavano a vicenda.

Tutto qui.

Tutto schifosamente qui.

E, se in futuro avesse ritentato la scalata con qualche nuova iniziativa personale, le cose sarebbero andate ancora in questo modo.

Questa era la bolla di sapone in cui si dissolvevano definitivamente i suoi sogni di gloria: era un Tentatore e sempre lo sarebbe rimasto.

In Eterno.

Merda!

Non riusciva a pensare ad altro che a quanto odiasse la propria Gerarchia. Gli stava sul cazzo già prima, ma ora, dopo quella meravigliosa serata, si era guadagnata il suo odio più totale.

Il problema era che non poteva liberarsene: per la prima volta si rese conto con agghiacciante lucidità di essere solo uno schiavo. Fino ad allora si era sempre ritenuto uno che non era stato riconosciuto nel proprio valore, ma che in qualche modo aveva tutta l'Eternità davanti per rifarsi, ed era sempre stato convinto che si sarebbe rifatto eccome.

In quel momento, invece, gli fu chiaro di non avere via d'uscita.

Era in una situazione di merda.

Faceva una vita di merda, perpetrando un Lavoro di merda.

E lo trattavano come un pezzo di merda.

E la cosa più esaltante era che tutto questo sarebbe rimasto immutato di lì all'Eternità, senza scampo.

Sotto il cielo stellato di quella notte limpida, con Shippo pesato sulle spalle e il corpo dolorante in ogni dove, schiumava di rabbia al punto che avrebbe sfasciato l'universo intero.

Peccato che un Tentatore non potesse sfasciare proprio un bel niente.

Dal canto suo, il Compare era alla frutta, ma non era stato malmenato e neppure si era accorto di quel che era capitato a lui. Era stato in pianta stabile davanti a quel fottutissimo cesso per tutto il tempo, eccezion fatta per una mezz'ora passata, invisibile, in una camera da letto dove aveva spinto un'aspirante attricetta a concedersi in atti osceni a tre sedicenti produttori televisivi.

Per quanto il suo corpo fosse provato, nel complesso Shippo si era divertito un mondo e ora ciarlava con voce impastata interrompendo di continuo i pensieri del Compare con commenti su questo o quel culo e questo o quell'altro paio di meloni, peggiorandone in tal modo l'umore già nero.

Lui però non si prese la briga di zittirlo, tanto sapeva che il silenzio non sarebbe durato più di due secondi: Shippo non aveva filtro, tutto ciò che gli attraversava l'anticamera del cervello usciva in direttissima dalla bocca, senza alcuna rielaborazione. L'unica speranza di starsene in pace, per Inuyasha, era di liberarsi al più presto della sua scomoda presenza.

L'avrebbe volentieri abbandonato lì in mezzo alla strada, ma gli Ultimi non abbandonano mai un proprio Compagno. Valeva per gli Angeli come per i Diavoli Incompleti. Ed era la più ferrea di tutte le leggi, anche se non era mai stata né scritta né pronunciata, né veniva forzata in esecuzione da qualche Incantesimo, come tutte le altre.

Si diresse così verso l'abitazione dell'amico.

Shippo viveva nel locale caldaie di un casermone marcescente, in uno dei rioni peggiori della città. E ci si trovava alla grande. Tre quarti d'ora dopo aver abbandonato la villa, Inuyasha lo scaricò su quell'ammasso di coperte pulciose che usava come letto, e il Compare si addormentò all'istante.

Lui si rannicchiò in un angolo, incapace di chiedere altri sforzi al suo corpo.

Per quanto difficile gli risultasse con la mente così in subbuglio, si concentrò il più possibile nel tentativo di alleviare almeno un pochino il malessere dovuto a quella maledetta polvere rosa. Quando la luce verde che si dipanava dalle sue dita smise di illuminare la stanza, i raggi del sole già filtravano da sotto la porta. Il suo corpo era ancora profondamente provato, ma forse ora sarebbe stato in grado di camminare fino a casa.

Una volta lì, avrebbe almeno potuto gustarsi i risultati del Lavoro svolto su Rita.

Era deciso a pascersi almeno di quello: ora sapeva che non sarebbe servito a scalare la Gerarchia, ma forse l'avrebbe aiutato a rimettersi in piedi moralmente. Certe cose, d'altronde, vanno fatte anche solo per se stessi.

Si spogliò dello smoking, a dir poco anacronistico per girare a piedi a quell'ora del mattino, si infilò in una vecchia tuta di Shippo e si gettò in spalla un trench consunto che sembrava essere stato dimenticato da secoli sull'attaccapanni.

Capo chino e bavero alzato per aiutare il suo Schermo tremolante, uscì nuovamente per le strade e in meno di mezz'ora arrivò all'ingresso del suo condominio. No, non a falcate decise: se l'era fatta tutta appoggiandosi ai muri e barcollando come un ubriaco. Ma non abitava lontano.

Filtrò nell'atrio e chiamò l'ascensore. Ne sortì di fronte all'appartamento di Rita. Origliò alla porta, ricevendo in ritorno solo un glaciale silenzio.

Probabilmente la megera era già morta da un pezzo, o l'avrebbe sentita russare.

Rita, a occhio e croce, doveva essere a chiamare il medico, un giovanotto che abitava due isolati più in là e che, fuori orario, non rispondeva mai al telefono.

Compiaciuto, Inuyasha si avviò su per l'ultima rampa di scale, unico collegamento al piano attico. Beh, attico era una parola un po' troppo grossa: in sostanza, l'ascensore non arrivava fino al sottotetto, quindi l'unico modo per raggiungere il suo appartamento era trascinarcisi a piedi.

Fu quando arrivò al terzultimo gradino che la vide. Là, fuori dalla porta del suo loft, rannicchiata a terra, con la testa fra le mani e il respiro spezzato.

Rita era lì.

La sua figuretta tremava piano.

Forse dormiva.

Forse piangeva.

Inuyasha non riusciva a capirlo, ma non era quello che contava.

Il vero problema era perché diavolo fosse fuori dalla porta di casa sua.

Si bloccò con un piede a metà fra un gradino e l'altro, indeciso sul da farsi.

Avvicinarla?

Blandirla?

Ignorarla?

Oppure, semplicemente, sparire?

L'ultima sarebbe stata la soluzione più comoda: non era in vena, in quel momento, di occuparsi di lei.

Ma prima che gli riuscisse di optare per una strategia qualsiasi, la donna sollevò il capo e fissò gli occhi nei suoi.

Occhi castani colmi di lacrime.

Un attimo dopo, gli si era gettata al collo e stava piangendo a dirotto fra le sue braccia.

Fu un miracolo se Inuyasha non si ribaltò ruzzolando giù per le scale insieme a lei. Spiazzato, si arrese a cingerla con le braccia e carezzarle la nuca per farla calmare: il signor Neri l'avrebbe fatto.

Non c'era affetto nel suo gesto. Né desiderio o qualsiasi buona disposizione d'animo nei confronti della poveretta: era solo scazzato, per quanto cercasse di non darlo a vedere. Per questo, probabilmente, gli fu concesso quel gesto.

Rita singhiozzava forte, aggrappata ai lembi del suo trench. Non c'era modo di consolarla, anche perché, diciamocelo, consolare qualcuno non era esattamente il punto di forza del nostro eroe.

Dieci minuti dopo i due se ne stavano ancora accucciati sull'ultimo gradino, lei squassata da respiri irregolari, con il viso completamente sprofondato nel grembo del Mezzodemone, e lui sull'orlo di una crisi di nervi, che faceva di tutto per trattenersi dall'esplodere e cercava di guardarla mimando tutta la preoccupazione di questo mondo.

Insomma, probabilmente questa scenata era dovuta al fatto che Rita, dopo aver compiuto il misfatto, si era svegliata dallo stato di paranoia in cui era precipitata e aveva preso coscienza della gravità del suo gesto.

E ok, tutto regolare. Tutto da copione.

Ma lui avrebbe voluto gustarsi in santa pace i suoi sensi di colpa attraverso il pavimento, non certo in diretta in questo modo così schifosamente melodrammatico.

«Allora, Rita, me lo dici che è successo?» domandò infine, sforzandosi di sfoderare un tono ignaro e premuroso al contempo.

«Oh, signor Neri, se solo lei sapesse... Se sapesse che cosa spregevole ho fatto!»

Inuyasha sorrise apertamente.

Non gli riuscì di fare altrimenti, pregustando l'imminente confessione: finalmente un successo al quale brindare, in quella giornata del cazzo.

Ma lui, come avrebbe dovuto reagire?

Beh, sdegnandosi, è ovvio. Non appena lei gli avesse confessato il delitto, lui l'avrebbe guardata con disgusto e l'avrebbe abbandonata lì, sul pianerottolo, come si abbandonano i sacchi dell'immondizia. E questo avrebbe definitivamente maciullato l'animo già in frantumi della donna.

«Sentiamo, Rita cara, cosa avresti fatto di tanto brutto?» le chiese.

«Io... io...»

Rita tremava e non riusciva a proseguire. Inuyasha, nonostante tutta la stanchezza che lo attanagliava, ormai non stava più nella pelle e cercò ancora di incoraggiarla: «Tu...?»

La poveretta esplose: «Io ho progettato di assassinare mia madre!»

Lo gridò a lui, al Cielo, a se stessa o forse solo alla tromba delle scale, e subito riprese a singhiozzare a dirotto.

Il Diavolo si rabbuiò: «P-progettato?» balbettò con una trista apprensione nella voce.

«Oh, che il Cielo mi perdoni, ma è così! Ho passato l'ultima settimana a pianificare l'omicidio di mia madre! Ho studiato e ristudiato un modo per avvelenarla con i farmaci che utilizza ogni giorno! Anzi, avevo già preparato l'intruglio! Ma quando è stato il momento... Oh, solo un Angelo del Cielo può avermi fermato, Signor Neri!»

Inuyasha la guardava interdetto: «Vuoi dire che... che alla fine non l'hai fatto?!»

«No, che il Cielo sia lodato, no! Ma avevo già il micidiale cocktail fra le mani! Capisce? Eppure quando è stato il momento... beh, non ce l'ho fatta. Non me la sono sentita: ho gettato tutto nel water e avrei voluto impiccarmi, ma mi sono ricordata delle parole che lei mi ha rivolto, esortandomi a vivere e ad aver rispetto di me stessa, allora ho rinunciato anche all'idea di farla finita e sono corsa a cercarla».

Inuyasha si staccò dalla donna, alzandosi in piedi e fissandola freddissimo.

«Insomma, mi stai dicendo che non l'hai fatta fuori, giusto?»

«Esatto. Mi sono fermata appena in tempo».

Il Mezzodemone alzò una mano, come a volerla colpire, ma si fermò a mezz'aria: il suo corpo non gli rispondeva più. Era infatti vietato a un Diavolo far del male in prima persona agli esseri umani, fosse stato anche solo per un misero ceffone. Era una legge scritta nelle Trame stesse dell'Universo, a cui non poteva sottrarsi.

«Bah. Che insulsa perdita di tempo» dovette limitarsi a bofonchiare, dandole la schiena e avviandosi verso la porta del proprio appartamento, schiumante di rabbia.

Rita lo fissava senza capire quel suo repentino cambio di atteggiamento: «Ma io... Io la volevo davvero morta! Sono un mostro!»

Stizzito, Inuyasha fece un rapido dietro-front e tornò ad accucciarsi davanti a lei. L'avrebbe volentieri presa per il collo, se solo gli fosse stato possibile, ma dovette accontentarsi di ringhiarle in faccia.

«Sì, sei un mostro, Rita: un mostro di stupidità! Lo vuoi capire che non l'hai ammazzata?! Non ce ne frega un cazzo di quello che avevi in mente, perché alla fin fine conta solo quel che metti in pratica. Sono i gesti che concretizzi che ti qualificano come persona, non i voli pindarici della tua fantasia! Non sei diventata un'assassina, lo vuoi capire?! Non ti sei firmata la condanna agli Inferi! Sei Libera. Libera di vivere, lo capisci?!»

Lei lo guardava, sconvolta e spaventata dalla sua rabbia.

E lui sputò fuori qualcosa che pensava da molto tempo, ma che mai avrebbe pensato di arrivare a gridarle in faccia: «E allora vivi, cazzo! Vivi anche fuori da quella tua dannatissima testa, patetica donnicciola che non sei altro! Finiscila di sognare sui romanzetti rosa e fatti una vita, fatti un lavoro, fatti un uomo! Metti in pratica qualche cazzo di cosa, in questo Tempo Mortale che ti è dato. Vedi di farlo alla svelta e , soprattutto, senza rompere più le palle al sottoscritto. Chiaro?!»

Nel dire così, mentre sbraitava come un ossesso, Inuyasha riuscì non si sa come a darle uno spintone con la mano destra e a farla ruzzolare giù per le scale.

Fu una cosa imprevista anche per lui.

Non era mai successo che arrivasse a colpire qualcuno.

La vide rotolare per quattro o cinque gradini, prima che si fermasse e si risollevasse abbastanza per tornare a guardarlo in faccia, massaggiandosi un braccio indolenzito.

Il palmo della mano di Inuyasha scottava in modo innaturale, proprio lì, dove era venuto in contatto con il corpo di lei. Ma c'era una cosa che bruciava ancora di più, ed erano gli occhi di Rita puntati su di lui.

Perché non lo stavano guardando con odio, erano solo disperati e sconvolti.

Quella femmina aveva cercato qualcosa da lui e lui gliel'aveva negato. Ecco, erano occhi che lo stavano guardando così: occhi che hai deluso e tradito, ma che ancora sembrano ostinarsi a mendicare qualcosa da te.

Lo turbarono nel profondo, incutendogli un disagio nuovo, più subdolo di ogni altro disagio da lui percepito fino a quel momento.

Incapace di reggerli ancora, si voltò di scatto e si barricò nel proprio appartamento, sbattendo la porta.

Ma la sentiva piangere anche da lì.

Rita, al piano di sotto, non la smetteva di singhiozzare, con gli occhi e con l'anima.

Era assordante, tanto da impedirgli di dormire.

Ma lui aveva bisogno di dormire: stava troppo male, nel corpo e nell'anima (sempre che uno come lui ce l'avesse davvero, un'anima).

Era rimasto a friggere sulla branda per una mezz'ora, con il corpo incapace di muoversi e i pensieri che gorgogliavano come se dovessero eruttare, poi non aveva più retto e se n'era tornato a vagare per le strade, a casaccio, Schermato alla bell'e meglio.

Non vedeva bene. Tutto era liquido e stemperato in una patina grigiastra che mortificava i colori.

I suoni, in compenso, erano più acuti e striduli che mai, tanto da trapanargli il cervello.

Poco distante dalla stazione si ritrovò a vomitare in un angolo, poi gli sembrò di respirare un po' meglio.

Il resto no, andava sempre peggio: gli doleva ogni giuntura.

La sua sopportazione era giunta al limite.

Si addentrò nella stazione, percorse la banchina dell'ultimo binario e proseguì oltre ancora per un breve tratto.

Poi arrivò da loro.

Li conosceva bene: erano i Protetti dei suoi diretti superiori e stavano lì in pianta stabile; erano gli acquirenti ad andare da loro, in una sorta di macabro pellegrinaggio. Senza dire una parola, allungò al più smilzo tutte le banconote che aveva in tasca e ne ricevette in cambio un piccolo involto.

Se lo infilò in tasca e tornò a peregrinare per le strade, fin quando non si ritrovò sul Corso.

Indi sul ponte in pietra.

E infine giù, sulle sponde dell'Acheronte, alla confortevole penombra dei piloni.

Si accucciò e aprì il pacchettino.

Non aveva l'occorrente per iniettarsela, ma poteva sempre fumarla.

L'eroina non avrebbe messo a tacere i suoi pensieri, come riusciva a fare con gli esseri umani, ma per qualche minuto forse sarebbe stata un buon anestetico per il suo corpo straziato.

Poi sarebbe stato peggio, ma in quel momento non gli importava: poteva sempre comprarsene dell'altra.

Cinque minuti dopo il suo corpo aveva smesso di gridare.

Ma anche la sua mente sembrava stanca di farlo.

Se ne stava lì, rannicchiato, a fissare i possenti flutti del fiume infernale, e si sentiva fuori luogo.

Fuori posto.

Fuori dai Mondi.

E pensare che gli sarebbe bastato saltare nella corrente e cavalcarne le onde per ritrovarsi a casa.

Peccato che non avesse più una casa nel Mondo a cui l'Acheronte conduceva.

Era stato relegato sulla Terra per l'Eternità, eppure non vi apparteneva. Non apparteneva al Mondo Terreno e non poteva più appartenere agli Inferi: era come confinato in un Limbo, condannato a mescolarsi agli uomini senza essere uno di loro, e condannato a restare sempre in contatto con il suo Mondo, senza poterne fare parte appieno.

Perché quel suo dannato Mondo era ovunque.

Era lì, in ognuno dei posti che frequentava, eppure non lo era.

Era sovrapposto alla Terra dei Mortali, eppure non la incrociava mai.

Due Mondi presenti nello stesso luogo, ma su due piani diversi.

Due Mondi che si sfioravano senza toccarsi mai...

Oh, beh. Come funzionasse la cosa in dettaglio non era chiaro neppure a lui.

«Comprenderete tutto a tempo debito» era la frase che aveva sempre ottenuto in risposta dai Diavoli Istruttori quando, da giovane Addestrando, poneva interrogativi sulla struttura dei Mondi.

'Fanculo.

Visto che si era fottuto la Carriera, di risposte non ne avrebbe mai avute.

Tutto quello che capiva era che non esisteva luogo dove potesse nascondersi, perché non c'era luogo dove i suoi Gerarchi non avrebbero potuto tenerlo d'occhio, non c'era angolo dove sarebbe potuto sfuggire al loro Giudizio. E loro amavano tenerlo sotto controllo, era uno dei loro giochi preferiti.

L'unico punto dove non potevano giungere era dentro di lui: non potevano leggere i suoi pensieri. Angeli e Diavoli, di qualsiasi rango fossero, potevano leggere apertamente i pensieri degli esseri umani, ma non quelli dei propri simili.

«È del tuo cuore che devi fare un baluardo, se vuoi un barlume di Libertà. Trovare una stanza dove barricarti non ti servirà a niente, perché sarai sempre sotto i loro occhi, per quanto cemento tu abbia attorno. Ma dentro di te nessun Gerarca metterà mai il becco, sempre che tu sia abbastanza scaltro da non far trasparire i tuoi pensieri attraverso i tuoi modi di fare».

Gliel'aveva insegnato Valeel, la vecchia Esploratrice che era stata sua Compagna di Lavoro tempo addietro: glielo aveva ripetuto spessissimo, durante le innumerevoli nottate che avevano passato insieme a guardare la luna passeggiare nel cielo di un'altra città, seduti sui cumuli di carcasse di auto.

Gli mancava, Valeel. Ma aveva imparato a fare senza.

E comunque, forse era meglio che quella femmina ormai non fosse che un ricordo: se fosse stata ancora al suo fianco, probabilmente si sarebbe messa a ridere di lui.

A crepapelle.

Doveva ingoiare. Ingoiare il suo stato e il suo ruolo.

Questa era la chiave.

Questo aveva fatto anche Valeel, la Pluricondannata: aveva ingoiato e masticato tanto bene la sua condizione, da arrivare a farne un trampolino di lancio verso la Libertà.

Perché, nella condizione di Schiava per eccellenza, Valeel era sempre stata Libera come lui non era mai stato. In barba a tutto e tutti, aveva sempre assecondato la propria fame di conoscenza senza fermarsi davanti a nessun divieto, nessuna imposizione. Nessuna Condanna. E Inuyasha non sapeva ancora dire se, averla conosciuta, per lui fosse stato un bene o solo l'ennesimo disastro.

In quel periodo, subito dopo la Condanna, a Inuyasha era stato assegnato un piccolo manipolo di Tentatori da guidare.

«Non sei uno sprovveduto: ci attendiamo molto da te. Tu pensa a non deluderci e magari chissà, un giorno potremmo anche riconsiderare la tua posizione».

Con queste parole era stato messo al Lavoro. E di elogi sul proprio operato ne aveva anche ricevuti parecchi, all'inizio. E a lui piaceva moltissimo sentirsi dire quanto fosse carismatico e in gamba a trascinare i compagni.

Tutto sommato quello era stato un periodo abbastanza roseo, per lui.

Era soverchiato dalla vergogna per il proprio stato, certo, ma in barba all'umiliazione subita (o forse spronato da essa), aveva incanalato tutte le energie nel Lavoro, con risultati eccellenti. E all'inizio ne aveva anche tratto una certa soddisfazione: spingere gli esseri umani verso la decadenza non era esaltante come guidarli nei più oscuri meandri della cattiveria, ma la decadenza ha il suo perverso fascino e per qualche tempo Inuyasha ne era comunque stato appagato.

Poi arrivò Valeel.

Lui e il suo gruppo se la trovarono lì un martedì mattina e rimasero inebetiti di fronte alla sua figuretta. Nessuno di loro aveva mai visto un Esploratore, se non nelle immagini del sussidiario utilizzato durante l'Addestramento, e anche se erano stati avvisati del suo trasferimento nelle loro file, non avevano potuto fare a meno di restare a fissarla basiti.

Valeel non somigliava a nessuna creatura che avessero mai visto.

Era piccola e raggrinzita, come una bambina rinchiusa nella pelle di una vecchia di cent'anni.

Aveva una forma vagamente umanoide, con una testa e quattro arti, ma la testa era troppo grossa per quel corpicino sottile e gli arti rinsecchiti e fragili sembravano vittime di secoli d'atrofia.

Camminava, se lo voleva. Almeno per rari tratti ci riusciva. Ma preferiva strisciare sul ventre, Valeel La Serpe.

Si snodava al suolo, si inerpicava fra gli oggetti infilandosi in ogni anfratto come un tralcio d'edera semovente. Poteva appiattirsi come un'ombra e filtrare ovunque, come la luce che si insinua in ogni più piccola fenditura.

Peccato che in lei non ci fosse nulla di luminoso.

Nemmeno gli occhi.

Aveva due occhi inquietanti, Valeel, azzurri come il ghiaccio più antico. Perfidi come l'amore e furbi come la morte.

Non erano occhi da Diavolo, no.

Ma nemmeno il resto del suo aspetto era diabolico, visto che non aveva né corna né ali.

Inuyasha si era domandato spesso come fosse stata in origine e se si fosse ridotta così per la vecchiaia, o per devozione al Lavoro, o solo perché le ripetute Condanne e Torture a cui era stata sottoposta l'avessero sfigurata.

Perché era vecchia, Valeel. Doveva essere al mondo da almeno sette secoli. Sette secoli in cui aveva collezionato una Condanna dopo l'altra. D'altronde gli Esploratori erano tutti Pluricondannati, questo era risaputo anche ai pivelli come lui.

Aveva visto di tutto e si intendeva di tutto, Valeel La Vecchia. E ti guardava con quel viso rugoso da tartaruga, ti bersagliava di domande sul senso delle cose e rideva di te e della tua ignoranza con quella bocca sdentata, emettendo un suono cristallino che sembrava il canto di una pupattola allegra. E poi strisciava e si annodava su se stessa compiaciuta, Valeel La Bambina, gingillandosi con quel suo corpicino prepubere come avrebbe fatto un bebè di pochi mesi. Dopodiché tornava a fissarti coi suoi occhi indagatori e furbi, si avvolgeva intorno a te sinuosa e ti bersagliava di altre domande, tanto per metterti meglio in crisi. Suadente come poche donne fatte sanno essere, Valeel La Gatta.

Inuyasha era rimasto a dir poco stregato da lei.

Non all'inizio, beninteso: di primo acchito quell'essere bizzarro poteva solo suscitare ribrezzo.

Ciononostante svolgeva il suo Lavoro alla perfezione, ordiva Tresche magistrali e scovava ambiti di intervento che nemmeno a un Tentatore arguto come lui sarebbero mai venuti in mente.

D'altronde, cos'erano i cinquant'anni di permanenza nel Piano Terreno di lui in confronto ai sette secoli di lei?

Lui, confinato fra i vicoli delle periferie di opulente città occidentali, aveva visto giusto la cocaina soppiantare l'eroina e poi quest'ultima tornare in auge, mentre lei aveva girato il mondo e annusato da vicino ogni rivoluzione epocale della storia moderna.

Era davvero difficile non arrivare rapidamente a stimarla e così aveva fatto lui, seguito a ruota da tutti i suoi Compari.

Poi era subentrato qualcos'altro: c'era un che di indomito in lei e non era facile ignorare la cosa, una volta che si era preso il vizio di attardarsi a chiacchierare in sua compagnia.

Quante notti passate a Lavorare gomito a gomito, e quante giornate, poi, trascorse giù allo sfasciacarrozze dove lei abitava, a guardare il cielo camminare sulla testa del mondo e a porsi domande sull'Universo, il Tempo e l'Eternità. E ad ascoltare le risposte che lei si era coniata in secoli di studi.

Perché aveva studiato di tutto, Valeel La Saggia. La sua tana scavata fra le carcasse di auto era stracolma di libri umani e libri Eterni su ogni argomento immaginabile, dall'ingegneria all'esoterismo, che lei leggeva e rileggeva per scoprire quel fine ordito dei Mondi che la Gerarchia non aveva mai voluto rivelarle. Si dilettava di chimica e alchimia, coniugando esperimenti scientifici a cabale eteree. E poi aveva il coraggio di viaggiare nel Tempo e nello Spazio, con ogni Incantesimo lecito e illecito, tutto al fine di verificare le proprie ipotesi.

Era un gigante di conoscenza in un corpicino da folletto tisico.

Inuyasha ne era stato violentemente catturato e in capo a pochi mesi era passato dal più sacrale disprezzo a diventarne l'amante.

E non riusciva neppure a ricordare come fosse successo.

Ai Condannati erano proibiti i rapporti sessuali, dato che non potevano averne con le donne umane e che era fatto veto a quelli della sua Razza di andare con loro. E i Veti in questo caso significavano che, anche se lo avessero voluto, i loro corpi non avrebbero collaborato affatto all'atto.

Inuyasha aveva voglia da una vita, all'epoca, ma mai gli era saltato in testa che avrebbe potuto fare all'amore con Valeel, finché non si era ritrovato ad ansimare dentro di lei.

Era una bimba orrenda. Brutta, vecchia, secca. Senza seni e con la pelle cascante.

Eppure era sensuale come non mai e lui la desiderava e godeva di lei e si vergognava da morire di essere caduto tanto in basso; ma più si vergognava, più ricascava nella cosa e tornava a cercarla come un ossesso.

Era una specie di droga: più si metteva in testa di farla finita con quella relazione oscena, più finiva per prenderci gusto una volta al dunque.

Perché con lei l'Incantesimo che lo obbligava alla castità non funzionava.

O meglio funzionava solo su di lui, che si bloccava, rigido e immobile. Ma lei era libera e sciolta, e si prendeva la sua voglia in quella bocca sdentata e rideva nel farlo affogare di piacere prima di prenderlo dentro di sé e fare altrettanto.

E lui credeva di impazzire.

Perché di sicuro i Gerarchi Vedevano. E ridevano. E glielo lasciavano fare solo perché si pascevano nel guardare il loro Condannato umiliarsi a tal punto pur di appagare il proprio bisogno.

A Valeel non importava un fico secco né delle paranoie di Inuyasha né di quel che passava perla testa dei Gerarchi: se aveva voglia di spassarsela con lui, lo faceva e basta.

Faceva quel che le girava, senza curarsi di nessuno. Scopava e godeva a suo piacimento con chi le andava, Umani o Diavoli che fossero, e Inuyasha scommetteva che avesse annoverato anche degli Angeli, fra i suoi molti amanti.

Nessuno dei quali, comunque, era stato davvero amato, lui compreso.

Sapeva far cadere chiunque ai suoi piedi, Valeel La Lussuriosa, e in questo non era da meno di qualsiasi donna-Diavolo adulta. Ma i maschi che aveva collezionato non erano stati altro, per lei, che gingilli per i suoi trastulli infantili.

Per lui invece era diverso: lui non avrebbe mai voluto offrire alla Gerarchia un simile spettacolo, ma non riusciva a farne a meno.

E sapeva che prima o poi avrebbe dovuto renderne conto.

Infatti, così fu.

Stava godendo in modo speciale, quella volta.

Anzi, era così perso da essere quasi in grado di muoversi, lo ricordava bene. Soprattutto la mano destra: a fatica, tremando, si muoveva su e giù lungo la spina dorsale di Valeel. E scottava in modo innaturale.

Ancora pochi istanti, forse, e anche lui avrebbe imparato a forzare l'Incantesimo della castità, come Valeel.

Ma non ne ebbe né il tempo né il modo: senza alcun preavviso due Guardie Diaboliche si erano materializzate alle loro spalle e li avevano trascinati al Giudizio in direttissima.

Il secondo, per lui. L'ennesimo per l'Esploratrice.

Inuyasha non aveva più visto Valeel da allora.

Era stato assegnato a una nuova città: ad eccezione di Shippo, aveva perduto ogni sottoposto e quindi ogni posizione privilegiata che potesse vantare fra i Tentatori.

Di Valeel non aveva mai più avuto notizia.

Chissà a quale squadrone era stata assegnata, in quale angolo sperduto di mondo. Perché di sicuro era viva, essendo un'immortale. E non si sarebbe mai arresa. Era una che non imparava mai dai propri errori, non a suon di punizioni, quantomeno: probabilmente proprio in quel momento stava seducendo qualche altro sprovveduto.

Lui invece, che non aveva la metà della sua forza di spirito, continuava miseramente ad annegare nella propria merda di vita.

Già: chissà quanto avrebbe riso di lui, quella Gatta indomita, se fosse stata lì.

Il mezzodemone appoggiò la testa contro il pilastro e rilassò un poco le membra, sospirando.

Ormai non riusciva più a tenere gli occhi aperti.

Ma era quello che voleva, no?

Dormire.

Dormire ed essere lasciato in pace.

Da tutti: Gerarchi e Compari, vittime e aguzzini, zingare e Streghe.

Chiuse infine gli occhi e tutto sparì.

  
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