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Autore: _Lightning_    25/12/2023    4 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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          UNA VOLTA, quando era poco più di un ragazzo e stava tentando di capire cosa fare della sua vita, mentre i boati della guerra iniziavano appena a scemare, a Ricciardi è capitato di posare lo sguardo su un dipinto che, tutt’ora, gli è rimasto impresso nella mente come una fotografia.

In verità, non ne ricorda nel dettaglio il soggetto, né cosa dovesse rappresentare. Ciò che si è sedimentato nella sua memoria, però, sono le ombre nette, i contrasti di bianchi e colori caldi degli edifici che quasi facevano male allo sguardo e il rincorrersi di linee diritte che sembravano perdersi in punti di fuga illogici.

Gli unici particolari nitidi che gli sovvengono sono due. Uno era la sagoma di qualcuno che corre in primo piano; un bambino, forse, dai tratti indistinguibili, che pareva minuscolo in confronto agli edifici e schiacciato dalla loro mole, in corsa verso un orizzonte di un azzurro carico e impossibile. E un’ombra, un’ombra lunga e minacciosa che sporgeva come inchiostro liquido oltre un muro, sul tragitto del bambino.

Non rammenta altro, se non la sensazione di profonda, inquieta solitudine, eppure di estrema vicinanza e rispecchiamento, che gli aveva infuso quel quadro. Era rimasto a guardarlo a lungo, nella collezione d’arte di un qualche nobile francese in cui era capitato durante un ricevimento, appena diciottenne.

Adesso, mentre imbocca quasi in corsa la viuzza di casa propria, per un istante gli torna in mente, sovrapposto a ciò che vede come un dagherrotipo sbiadito.

Le palazzine incombono su di lui, illuminate in modo violento dai lampioni, che formano ombre dense a tagliare la strada; il punto di fuga in fondo alla via sembra sbagliato, distorto dalle luci artificiali che gettano aloni giallastri tutt’intorno. Vi è un senso di calma sospesa, di grave immobilità che sembra sprofondare a poco a poco sulle case e sugli uomini.

Come tanti anni fa, pensa che quel mondo, apparentemente in grado di piegare i principi della fisica e della prospettiva, non è poi dissimile dal proprio, quello in cui vede i morti. In entrambi i casi, vi sono delle leggi naturali che si spezzano e torcono; eppure, entrambi quei mondi esistono, nella loro impossibilità, anche se uno solo su tela e l’altro solo nei suoi occhi. Esistono e si sovrappongono, camminando fianco a fianco tra la gente. Esiste lui che corre incontro ai fantasmi, così come il bambino corre incontro all’ombra in agguato.

Quell’istante di straniamento si incrina come un vetro scheggiato quando sente levarsi la voce di Maione, un sussurro gridato nella notte:

«Commissa’!»

Con Bruno che lo tallona, Ricciardi si ferma di fronte al brigadiere, che è paonazzo in volto e ha mancato di allacciare un bottone della divisa nella fretta di indossarla. Alla cintura, porta agganciata una vecchia lanterna a petrolio.

«Maio’, mano male che sei già qui,» lo saluta, senza nascondere il sollievo.

«E che pensavate, che venivo qui a spassiare?» ribatte lui, suonando offeso.

«Buonasera, brigadiere,» dice Bruno, con una flemma fuori luogo che Maione asseconda:

«A voi, dottore esimio.»

Prima che Ricciardi possa troncare i convenevoli, Bruno lo anticipa:

«Vorrei dire che è un piacere non vedervi sulla scena di un delitto, una volta tanto... ma non vorrei sbilanciarmi troppo, visto che il qui presente commissario non si degna di spiegarsi.»

«Nelide dov’è?» lo ignora Ricciardi, con un picco d’apprensione.

Maione punta un indice verso l’alto e lui la scorge solo ora affacciata alla finestra, imbacuccata in una stola, che scruta la strada come un gargouille indispettito.

«L’ho costretta a tornare su e, credetemi, ce n’è voluto,» dice Maione. «Non volevo si prendesse un malanno, con questo freddo.»

«Hai fatto bene, grazie.»

Fa un cenno del capo a Nelide, sapendo che non ci sarà verso di farla schiodare da lì; lei ricambia in silenzio, immobile, guardinga.

«Ora, mi spiegate che è successo? Pareva che avesse visto un morto, quando mi si è presentata sull’uscio.»

Ricciardi fa appello al poco senso di sé che gli è rimasto per non mostrarsi turbato dall’espressione infelice di Maione.

«Raffaele, scusa se t’ho disturbato a quest’ora, ma non era una questione che potesse aspettare.»

Fa una breve pausa, assicurandosi di avere l’attenzione di Maione e il silenzio di Bruno, prima di lanciarsi uno sguardo circospetto attorno. Trova senza pensare la finestra di Enrica, al secondo piano di fronte a casa sua: intravede una sagoma stagliata contro il vetro illuminato e, per un istante fuggevole, incontra uno sguardo cerchiato da sottili occhiali dorati; lei è rapida a lasciar ricadere la tenda a schermarsi. Ricciardi serra la mandibola: può dire addio alla discrezione, se mai c’è stata.

«Spostiamoci dentro,» li invita, con un cenno brusco verso il portone, «sarà più semplice spiegarvi tutto.»

«Alla buon’ora,» bofonchia Bruno.

Lo sguardo che gli invia, però, è più preoccupato che risentito.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

La voce lo assale non appena apre il portoncino e mette piede nell’androne. Stavolta, le sue pupille si dirigono immediatamente verso il centro della stanza, a terra. Sa che è solo un’impressione, ma gli sembra ancor più straziata, come se a gridare così a lungo le si stesse consumando la voce. Non sembra nemmeno più umana.

Dal portoncino lasciato aperto, filtra abbastanza luce da poter distinguere con chiarezza i contorni della stanza e i dettagli del mattonato in tufo.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

«Maione,» si forza a dire, sovrastando la cantilena udibile solo a lui, «tu oggi m’hai parlato della leggenda del Munaciello.»

Maione aggrotta le sopracciglia e solchi profondi gli incidono la fronte per lo sconcerto. Lo sguardo che scambia con Bruno è tutt’altro che discreto e il medico emette un soffio esasperato.

«Sì, brigadie’, ha fatto una capa tanta con questa storia anche a me. Assecondatelo, prima che mandi ai pazzi pure noi.»

Ricciardi strizza le labbra, contrariato; sa che il sarcasmo di Bruno diventa caustico, quando è nervoso, ma quella battuta gli si conficca sottopelle come una spina molesta. Il medico sostiene il suo sguardo con fare altrettanto poco scherzoso, ben conscio di aver colpito in profondità.

«Sì, ve ne ho parlato,» risponde cauto Maione, forse captando il picco di tensione tra loro. «Ma non pensavo riteneste plausibile che...»

«Che qualcuno si sia interessato a questa leggenda tanto da verificare se i pozzi d’accesso siano agibili o meno, così da muoversi indisturbato nei cunicoli sottoterra?» completa Ricciardi, con fermezza. «Dopotutto, questa credenza del "Munaciello" deriva dai pozzari che vi facevano manutenzione; gente reale, esistita, che in questa rete sotterranea si muoveva davvero a piacimento.»

«Mezzo secolo fa, magari,» commenta Bruno. «Col risanamento di Napoli hanno chiuso, murato e messo in disuso la maggior parte della vecchia rete idrica e delle cisterne di raccolta. E grazie a Dio, aggiungo: almeno ho qualche caso di colera in meno per le mani.»

«E questo dovrebbe scoraggiare un criminale a intrufolarvisi?» ribatte Ricciardi, inclinando un poco la testa nella sua direzione. «Semmai, gli consente di muoversi con ancor meno limitazioni e controlli, soprattutto se sa quali gallerie sono agibili o meno.»

Maione si agita un poco sul posto, e pare turbato dall’idea di avere qualcosa che gli striscia sotto le scarpe.

«Perché volete verificare l’ipotesi adesso e qui?» chiede poi, guardandolo negli occhi. «Con tutto il rispetto, commissario, ma non mi sto raccapezzando per niente.»

«Sapeste io,» commenta Bruno.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Ricciardi si stropiccia con forza le palpebre, con quella voce soffusa che lo rintrona e la perplessità dei suoi compagni che lo opprime.

«Vi assicuro che un senso c’è,» taglia corto, guardando entrambi con quello che, ne è abbastanza convinto, è uno sguardo tutt’altro che lucido. «Ho sentito dei rumori provenire da qua sotto, ieri notte... e anche poco fa,» aggiunge, per buona misura. «Non potevo iniziare a indagare per conto mio sulla base di un sospetto: avevo bisogno della tua presenza, Raffaele, in quanto membro della Squadra Mobile, così da renderla un’investigazione ufficiale in caso salti fuori qualcosa,» dice d’un fiato, rischiando più volte di perdere il filo per l’interferenza della voce fantasma.

Vede gli occhi di Maione farsi via via meno scettici, sostituiti dalla composta impassibilità che assume sul campo. Non è del tutto convinto, ma lo è abbastanza per fidarsi.

«E di me come mai avevi bisogno, di grazia? Ti serviva l’accompagno per mano?» interviene Bruno, con pungente tempismo.

Ricciardi gli lancia una rigida occhiata d’ammonimento: Maione è praticamente uno di famiglia, ma non è un buon motivo per esporsi a quel modo, anche sotto forma di facezia.

«Vedila come una precauzione,» risponde soltanto, senza quasi muovere la bocca. «Ora, apriamo quel pozzetto d’accesso. Dovrebbe essere qui, da qualche parte.»

Accenna col mento al mattonato che calpestano al centro dell’androne. Spera che sia lì, almeno.

Il brigadiere apre il globo della lanterna e si fa passare uno zolfanello da Bruno, accendendo lo stoppino e regolandolo. Un’aureola di luce dorata si proietta nell’androne, rendendo mobili e tremule le ombre come attorno a un falò.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Ricciardi chiude gli occhi per un lungo secondo. Una parte di lui nutre il dubbio atroce che non esista alcun punto d’accesso al sottosuolo; l’altra, immotivatamente ostinata come solo un’idea insana può esserlo, gli ripete che, se là sotto c’è un fantasma che lo chiama, deve esserci anche il modo di raggiungerlo. Se c’è davvero un fantasma. Se così non fosse, quella sua maledizione sarebbe troppo crudele, troppo...

«Riccia’.»

Lui riapre gli occhi e la vede, nell’istante stesso in cui Bruno richiama la sua attenzione puntando l’indice: una linea curva più marcata sul pavimento, a segnare i contorni di una sezione di tufo circolare, di circa un braccio di diametro. Ricciardi vi posa con cautela il piede sopra e, a una pressione più decisa e mirata su uno degli angoli in rilievo e smussati di una mattonella al suo centro, la sente smuoversi leggermente. Non l’ha notata la notte scorsa, nel buio pesto e coi piedi congelati.


«Non sembra fissa,» osserva Maione, chinandosi un po’ goffamente sulle ginocchia.

Poggia a terra la lanterna con un lieve clangore metallico e tenta di far presa sul piccolo riquadro di pietra porosa.

«Aspettate, faccio io,» lo ferma Bruno, accovacciandosi a sua volta.

Con agilità chirurgica, rispetto alle mani tozze di Maione, riesce a far leva con le unghie e a svellere la mattonella quel tanto che basta per sfilarla dalla sua nicchia. Al di sotto, celato dallo strato di pavimentazione nuova, balugina un grosso anello metallico.

«Questa parte la lascio a voi, brigadie’,» si scosta il medico, rifiutando ostentatamente la mano di Ricciardi per rialzarsi.

Maione scosta la lanterna, afferra l’anello e, con molto meno sforzo del previsto, solleva l’intera sezione di pavimento. La scosta un poco di lato, scoperchiando la mezzaluna nera di un cunicolo verticale che si perde nel nero pece al di sotto.

Da quel buco oscuro, si leva una corrente daria più calda, carica dellodore stantio dei luoghi che di rado vedono la luce, e della nota acre del tufo umido.

Bruno fa per dire qualcosa, sporgendosi un poco, per poi scostarsi di scatto dallapertura e coprirsi naso e bocca, improvvisamente sul chi vive. Ricciardi lo fissa, altrettanto allarmato.

«Bruno? Che cè?»

Bruno si volta a guardarlo con occhi grandi. Scosta appena il palmo per parlare.

«Non lo senti?»

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Ricciardi ha limpressione che il tempo si fermi e diventi denso come miele viscoso, a quella domanda, e che la voce martellante sia diventato un urlo udibile a tutti.

«Che dovrei sentire?» riesce a pronunciare, quasi senza riuscire a dar suono alle parole.

«Lodore, Riccia,» Bruno addita la fossa ai loro piedi. «Cè tanfo di morto, qua sotto.»

Il sollievo che gli era sbocciato nel petto appassisce allistante, flebile come la fiammella che ondeggia nella lanterna. Bruno continua a fissarlo, ma lui non spiccica parola.

«Io non sento niente, dotto,» interviene Maione, sporgendosi con una smorfia oltre il bordo e allargando le narici. «Fetore di chiuso e muffa, sicuro, ma...»

«Uno tende a riconoscerlo, quando passa troppo tempo in obitorio,» lo interrompe Bruno, ancora evidentemente inquieto. «Magari mi sbaglio, o è solo un sorcio morto.»

Ricciardi non gli rivolge una singola volta gli occhi, mentre lui cerca insistentemente il suo sguardo. Non ha testa di dar retta a Bruno, adesso, o di dar adito a nuove domande.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Se la sente vibrare nelle ossa, adesso. La voce è diventata un poco più limpida, più piena. Ha un timbro acuto che gli fa pizzicare la radice dei denti.

«Spostiamolo del tutto,» ordina, parlando molto più piano di quanto vorrebbe. «Mi pare di vedere una specie di scala.»

Bruno lo fissa stralunato, spostando più volte gli occhi dalla botola a lui.

«Se vuoi scendere là sotto, mi arrendo: ti ha dato ufficialmente di volta il cervello,» commenta infine.

«Modo, dammi del pazzo ancora una volta e non rispondo davvero di me,» scatta Ricciardi, senza controllare del tutto il volume della propria voce. «Questa è unindagine di polizia, non una scampagnata. Piantala di fare lo spiritoso e renditi utile, piuttosto.»

Bruno ammutolisce, troncando quella che non fatica a intuire sia una rispostaccia. Sembra sul punto di dire comunque qualcosa; poi vi rinuncia e gli fa invece un accenno di saluto fascista, impettendosi pure, prima di chinarsi di scatto ad afferrare un bordo del coperchio. Ricciardi non risponde alla provocazione, ma la sente colpirlo in viso con più forza di qualunque schiaffo o offesa gli avrebbe potuto rivolgere.

Maione lancia unocchiata a entrambi, visibilmente interdetto dallalterco. Poi, a un suo muto invito, si ricompone e fa forza dallanello, mentre lui si affianca a Bruno, spingendo di reni per liberare lapertura.

Effettivamente, sul lato finora nascosto, si distinguono delle piccole cavità oblunghe disposte a intervalli regolari: una rudimentale scala scavata nella pietra, che si perde nelle profondità.

Ricciardi prende la lanterna, calandola nel cunicolo per la lunghezza di un braccio e gettando una bolla di luce al di sotto, che non riesce comunque a illuminare il fondo.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

«Maione, tu rimani qui di guardia mentre scendo là sotto, casomai servisse,» ordina poi, rialzandosi e portandosi svelto dal lato della scala.

Ha limpressione che, se dovesse fermarsi a pensare anche solo per pochi secondi, perderebbe quella patina di lucidità che gli permette di non paralizzarsi sul posto. Il brigadiere non protesta, anche perché visibilmente troppo corpulento per passare con agio dallapertura, ma, sebbene non lo esterni in modo così gretto come Bruno, nemmeno lui sembra condividere la sua iniziativa.

«Bruno, tu...»

«Scendo con te,» lo anticipa lui, seccamente. «"Per precauzione", no? Nel caso ti rompessi losso del collo.»

Ricciardi annuisce una sola volta, apprezzando lo sforzo di non impuntarsi per principio. Si toglie il soprabito, troppo ingombrante, e vede Bruno imitarlo e rimboccarsi le maniche della camicia, come prima di un intervento chirurgico. A fatica, si cala nellapertura, puntellandosi coi palmi sul pavimento sconnesso e cercando a tentoni con la punta delle scarpe il primo gradino scavato nella roccia. Quando lo aggancia, si ritrova con il pavimento allaltezza del collo e con laria umida che gli preme addosso come una creatura viva, dal respiro tiepido e fetido.

«Fate attenzione, commissa,» gli raccomanda Maione, corrucciato, una mano premuta distinto sulla fondina. «E pure voi, dottore.»

Solo dopo aver trovato un fragile equilibrio, Ricciardi si fa passare la lanterna da Maione, la aggancia alla cintura e, precariamente, cerca lo scalino successivo sotto di sé. Un principio di vertigini gli si avvita sul fondo dello stomaco mentre scende goffamente, la lanterna che sbatacchia contro il muro e i gomiti che sfregano contro le pareti del cunicolo insudiciando la camicia.

È appena abbastanza largo da far passare un uomo adulto e, se inarcasse un poco la schiena, toccherebbe laltra parete senza difficoltà. Calarsi così gli richiede uno sforzo fisico al quale non era preparato, e avverte ben presto un bruciore soffuso alle braccia e alle gambe.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Si sente come se stesse scendendo allinferno e anche il calore sembra aumentare, assieme alle folate di aria umidiccia. Sopra di sé, il circoletto di luce viene oscurato dalla sagoma di Bruno, che gli lascia qualche metro di vantaggio prima di intrufolarsi a sua volta, rimanendo comunque nell’alone della lanterna.

Ricciardi perde la percezione di quanta distanza abbia percorso verticalmente, ma, a un certo punto, il muro in regolari mattoni di tufo cede il posto a una massa di tufo grezzo, scavato grossolanamente, e avverte il cunicolo farsi più largo.

Il suo piede incontra il vuoto senza preavviso. Trattiene brusco il respiro e si aggrappa con un moto di panico al gradino, imprimendosi la pietra ruvida sui polpastrelli indolenziti. Ritrova con uno spasmo lappoggio solido con la punta della scarpa. Non riesce a veder bene, ma gli pare di scorgere il terreno poco più di un metro sotto di sé, dopo quello svasamento repentino.

Si cala lentamente, allungando la gamba più che può, e finalmente sfiora qualcosa di solido con la scarpa: un pavimento. Porta a terra anche laltro piede, barcollando appena, e ruota subito su se stesso, col cuore che batte in doppio tempo per lo sforzo e per langoscia. Si rende conto che è stato un errore quando un fiotto di vertigini lo assale: è in precario equilibrio su un cornicione di tufo di appena un metro di larghezza, e sotto di lui non scorge il fondo. È svelto ad addossarsi schiena al muro, e sta per avvertire Bruno, quando sobbalza senza volerlo:

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

La voce è fortissima, qui, nel buio quasi totale. Avverte, più distinto, un lezzo di decomposizione che lo prende alla gola. Da qualche parte alle sue spalle, dove...

Qualcosa di duro gli urta la spalla e si scansa di colpo, col fiato mozzo.

«Riccia, fai luce, che non vedo un accidenti,» gli arriva la voce sforzata di Bruno, ancora appeso sulla scala, mentre fa oscillare pericolosamente un piede a mezzaria nel punto più largo.

«Sta attento,» dice, indirizzandogli la gamba lontano dal bordo e verso il suolo. «Stiamo in bilico, qui.»

Sgancia la lanterna dalla cintura e la riposiziona sotto lo sbocco del cunicolo, permettendogli di veder meglio. Bruno, dopo unocchiata verso il basso, si lascia cadere direttamente, facendogli perdere un altro paio di battiti quando oscilla appena sul bordo; gli afferra un lembo della camicia, attirandolo più vicino al muro.

«Dio, mai più,» butta fuori lui come se niente fosse, spazzandosi via la polvere dai pantaloni, per poi commentare: «Fa un caldo bestia, qua sotto.»

Ricciardi lo nota davvero solo ora: la temperatura è decisamente più mite rispetto alla superficie, dopo il primo strato daria gelida. Si sente la lingua incollata al palato e non aggiunge altro, osservando piuttosto lambiente che li circonda con una sorda meraviglia attenuata dallangoscia.

Fa fatica a distinguere i contorni, ma i suoi occhi si stanno abituando alloscurità e la luce combinata della lanterna e del pozzo aperto gli sono daiuto.

Sotto di loro si apre unenorme stanza, dal soffitto che sembra ergersi verticalmente e poi ad arco, come la cupola di una cattedrale inghiottita nella fitta oscurità. Il cornicione su cui sono ne percorre lintero perimetro, scavato in modo grossolano, ma regolare: un vero e proprio camminamento. Il pavimento al di sotto sembra tremare ed è solo sporgendo la lanterna che riconosce la superficie come acqua, contenuta in quella che sembra una vasca. Un sottile ma penetrante odore di marcio lo prende alla gola, sospinto dalle folate sotterranee.

Deve essere una delle cisterne idriche in disuso: al centro della stanza pende ancora una catena, da cui un tempo, presumibilmente, si calava un secchio per attingervi. Il pozzo vero e proprio, invisibile nel buio se non per un fievole alone più chiaro, doveva sbucare dove ora cè la guardiola del portiere. Da un bocchettone acquifero nel muro della vasca cola un rivoletto quasi invisibile, in uno stillicidio che lascia dietro di sé una scia dalghe verdognole. È lunico suono udibile là sotto; o almeno, dovrebbe.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Ricciardi ha paura a voltare la testa per seguire la voce, ma è un gesto quasi istintivo. I suoni rimbombano in modo insolito contro il tufo grezzo e poroso, attutiti e distorti al contempo.

Si ritrova a muovere un paio di passi lungo il cornicione, che digrada pian piano, conducendo a una sorta di passerella in muratura a livello col pavimento e aggettata sulla vasca. Bruno lo segue in silenzio, posando una mano sulla sua spalla per non perderlo nel buio; e, crede Ricciardi, anche in una sorta dofferta di pace dopo lalterco di prima.

Costeggiano in fila per uno il bordo della cisterna, facendo schizzar via un paio di ratti, fino ad arrivare alla passerella. Lo sciabordio di minuscole onde la lambisce.

Quasi invisibile nelloscurità, lungo il muro, si apre una stretta fenditura: un cunicolo, alto appena per far passare un uomo adulto se chinasse un poco la testa. Al muro, appesa a un gancio divorato dalla ruggine, cè una lanterna molto più rudimentale della loro, coi vetri rotti e un mozzicone di cera semi sciolta ancora sul fondo.

Guarda oltre la soglia dombra, che sembra solido carbone al di là della pozza di luce della loro lanterna. Di nuovo, gli sovviene quel quadro visto una vita fa, con le sue linee di demarcazione nette e le prospettive che si perdevano ove locchio non riusciva a guardare. Gli è sempre piaciuta quella nitidezza, quel tracciare confini invalicabili tra le cose.

È un qualcosa che lui, nella sua vita vissuta camminando nel limbo che appartiene ai morti, invidia profondamente; vorrebbe infilarsi in quel quadro, o trasporre il quadro nella realtà, cosicché ognuno viva nel proprio spazio, indisturbato, ignaro di chi è dallaltra parte. Senza quelle linee dombra invisibili e confuse che è sempre costretto a varcare, facendo collidere i due mondi.

Questa è una delle rare volte in cui riesce a vederla chiaramente, in cui lombra oltre langolo incombe preannunciata. Gli appare ancor più spaventosa.

«Riccia,» lo richiama Bruno, con un colpetto sulla spalla, proprio quando lui sta per infilarsi oltre il buio. «Mi dici che diamine stai cercando qua sotto?»

Glielo chiede con voce più mite, stavolta, ma anche con uno sguardo che è grave come non mai. Ricciardi sospira piano, con quel filo invisibile che lo tira verso il buio, verso la voce, verso lombra e la morte ancora nascoste allo sguardo e pronte a essere rivelate.

"Non lo so," sta per dire, mezzo mentendo, mezzo no, ma gli si congelano le parole in gola.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Volta di scatto la testa verso il cunicolo, con un brivido che gli afferra la nuca come a costringerlo. Sente la pupilla dilatarsi, catturando ogni pagliuzza di luce per scrutare nel buio, sapendo già cosa vi troverà. Solleva la lanterna e infila il braccio nel passaggio, scacciando le prime ombre. Gli si ferma il respiro.

Un lieve tremolio diafano, unopalescenza che vela laria rendendola densa. Il fantasma esiste davvero. La sua sagoma è minuta: Ricciardi deve abbassare lo sguardo, per incontrarne gli occhi bianchi. La sua voce alta, squillante, riverbera in ogni pietra e goccia dacqua:

«Va’ via, Munaciello!» grida la bambina, il corpo esile ripiegato in unangolazione innaturale, scosso da un tremito per la forza di quel grido, i pugni stretti contro il vestitino lacero. «Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Ricciardi si preme un palmo sulla bocca, a soffocare il singulto che gli risale il petto; nello stesso istante, Bruno gli artiglia dolorosamente il braccio, con un respiro secco che risuona come uno sparo nel silenzio del sottosuolo, gli occhi puntati nella medesima direzione.

Lha visto anche lui, adesso; ha visto il corpicino riverso a terra, appena visibile oltre laureola di luce dorata, oltre la trasparenza semi opaca del fantasma. Ricciardi avverte, da molto distante, dalla superficie così lontana dove ha lasciato il senno e la mente, le lacrime che scivolano a bagnargli la mano. Non si cura di asciugarle.

Riesce solo a guardare gli occhi spenti e bianchi della bambina, che continua a gridare, instancabile, indomita, contro lui che è arrivato tardi e contro chi le ha tolto la vita:

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

 

Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
mi rendo conto che non sia un capitolo molto natalizio XD Ma eccoci finalmente qui, alla (prima) rivelazione che spero sia stata scioccante al punto giusto.
Ora sapete anche perché, nella premessa, ho accennato a tematiche delicate.

L’ambiente descritto nella storia è stato visitato in prima persona dalla sottoscritta, con qualche rielaborazione atta alla storia. Diciamo che per fare il pozzaro bisognava praticare vera e propria arrampicata libera, ma che Bruno e Ricciardi non sono esattamente degli atleti, quindi ho attenuato la difficoltà nello scendere. Il quadro citato all'inizio, invece, è "Mistero e melanconia di una strada" di De Chirico (1914 - C’è una replica degli anni sessanta e varie altre iterazioni). Il come e dove Ricciardi abbia potuto vederlo nel 1918 circa è ovviamente molto aleatorio, ma dopo varie ricerche ho concluso non fosse del tutto impossibile, di qui la menzione di un nobile francese. Comunque, prendetela come una licenza poetica, perché mi piaceva molto l'idea di sfruttare simbolicamente il quadro (che appare anche nella sigla della seconda stagione di Ricciardi, quindi... se io può, perché no?)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e di avervi sorpresi ♥ (lo dico col cuoricino, poi all’atto dei fatti è successa una cosa tremenda... ma parlo fuor di storia, dai!).

Un grazie a tutti coloro che leggono, commentano e aggiungono la storia aglle liste lettura ♥
Ci vediamo venerdì col prossimo capitolo!

-Light-

 

   
 
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