Serie TV > Il Commissario Ricciardi
Segui la storia  |       
Autore: _Lightning_    05/01/2024    3 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


 


 

          «TERRIBILE, terribile.»

Don Pierino scuote la testa, con la berretta che minaccia di capitolar giù dal capo calvo e le guance tremule per l’indignazione. Stringe al petto un breviario consunto, con ancora un indice adunco a tenere il segno, e si agita sul posto facendo oscillare il lungo talare viola, in un moto continuo che lo fa sembrare una buffa campanula bistrattata dal vento.

«Terribile, sì,» concorda Ricciardi, «ma non sono venuto qui per parlarvi di questo, Reverendo, anche se non mi stupisce che la notizia si sia già sparsa.»

«Ma come? Non state investigando su quella povera creatura?»

Il prete pare sul punto di scomunicarlo seduta stante, dal modo in cui strabuzza gli occhi e inarca le sopracciglia rade, e la sua voce rimbomba più squillante sotto le alte volte di San Raffaele, attirandosi le occhiate di qualche orante mattutino.

«Ovviamente,» lo placa lui, facendogli cenno di spostarsi verso una delle cappelle laterali alla navata. «Ma ho dei doveri di commissario a cui ottemperare rispetto a un altro caso, prima.» Don Pierino sembra assai poco soddisfatto della risposta, almeno finché Ricciardi non si affretta a integrarla: «Ciò non vuol dire che voi non possiate essermi d’aiuto su entrambi i fronti. Anzi, a esser sincero, ci speravo.»

Il reverendo si raddrizza, rimanendo comunque lievemente ingobbito, le mani giunte sul libretto. Assomiglia più a un soldato armato di baionetta che un uomo di chiesa, a vederlo così.

«Credevo foste venuto qui per un consulto spirituale, per placare l’anima dopo questo evento sciagurato. Se posso aiutarvi anche in altro modo, però, non posso che esserne felice. Ditemi pure, commissario.»

Ricciardi sorride appena, grato. Non si considera un credente, ma parlare con un uomo arguto, energico e paradossalmente poco clericale come Don Pierino tende a schiarirgli le idee e a fargli ritrovare il filo dei propri pensieri, quando lo perde.

«Il nome di Fernando Gigliolo vi suona familiare? Pare fosse un contribuente piuttosto attivo nella carità ecclesiastica.»

Don Pierino si ferma presso una delle cappelle, sotto lo sguardo mite di una statua di Santa Rita, illuminata da un fascio di luce in cui danza pulviscolo dorato. Riflette ancora un poco, prima di rispondere:

«Non posso dire di conoscerlo in senso stretto,» premette, con le dita che tamburellano lungo la croce dorata sul suo breviario. «Però, sì, il nome Gigliolo mi è arrivato, di tanto in tanto; e deve essere un filantropo assai attivo, per arrivarmi. Sapete che non ho rapporti molto stretti coi miei fratelli del clero,» aggiunge a mo’ di scusa e con una punta di fierezza malcelata.

Ricciardi stira le labbra a quel commento: è dallo scalpore dei Patti Lateranensi, che l’uomo ha di molto rarefatto i propri rapporti diretti con la diocesi di Napoli, dicendo che non gli piaceva prender parte ai giochi di potere, per quanto favorevoli. Non è una posizione semplice da mantenere, ma Don Pierino non retrocede di un passo su quel punto, e ciò non può che accattivarsi la sua stima.

«Non sapreste fornirmi alcun dettaglio in più?» chiede comunque, guardando un po’ lui, un po’ la chiesa semivuota. «Per esempio, per quali istituzioni facesse beneficenza?»

«No, non saprei dirvi con certezza, commissario. Non era un membro della mia parrocchia, dopotutto, e qui a Napoli c’è l’imbarazzo della scelta.»

«Però, sembra che avesse particolarmente a cuore gli orfani e gli invalidi di guerra.»

Don Pierino sospira, concentrandosi. Ricciardi attende, sulle spine, le dita che sfilacciano al solito l’interno delle tasche.

«Per gli invalidi, credo avreste più successo nel chiedere a qualche funzionario, che a un uomo di chiesa, visto che pare sia di loro esclusiva competenza lasciarli all’incuria,» dice, con pungente brio. «Per gli orfani, avete buone possibilità chiedendo ai Turchini o alla Real Casa dell’Annunziata, per cominciare. Di solito, i grossi donatori si rivolgono a loro, anche per mettersi in contatto con congregazioni minori.»

Ricciardi annuisce, sempre con la sensazione latente di stare avvicinando tra loro due capi opposti e apparentemente insanabili dello stesso tessuto. Serra le mani dietro la schiena, trattenendo un moto inquieto, e sente il cuore accelerare i battiti, come sempre quando intravede dinanzi a sé una pista da seguire, seppur per un istante. Svanisce come un riflesso fugace sull’acqua, ma l’impressione permane. Le successive parole le pronuncia con intento, osservando la reazione del prete:

«Ciò mi facilita il lavoro, perché dovrò comunque far loro visita per domandare se risulta scomparsa una bambina nelle loro strutture. O in quelle a loro affiliate.»

Don Pierino trasecola, come se avesse anche lui, solo ora, fatto combaciare due tasselli finora distanti e discordanti.

«Lo ritengo improbabile, commissario. L’avrebbero già segnalato a voi, alla Polizia. Sono molto attenti ai fanciulli che hanno in cura,» dice, con fermezza. «Purtroppo, però, vi sono molte anime innocenti che non hanno la fortuna di essere accudite da loro e che vagano per la strada, alla mercé degli abietti. Lo sapete meglio di me, commissario... quel povero bambino, l’anno scorso, avvelenato come...»

«Lo ricordo bene, credetemi,» lo interrompe lui, seccamente.

Non ha bisogno di pensare anche al cadavere del piccolo Tetté abbandonato al freddo, in questo momento, né alla torma di altri bambini che gli gravitava attorno, e che chissà che fine ha fatto ora. Don Pierino strizza le labbra, contrito, e addolcisce un poco lo sguardo.

«Dio solo lo sa, cos’abbiano passato quelle povere creature.»

Si fa il segno della croce e Ricciardi non lo imita. Fissa invece gli arzigogoli barocchi in stucco e marmo che si affastellano sopra di lui, senza aggiungere altro.

Né che Annina non pareva affatto essere cresciuta in strada, tanto meno col proprio nome ricamato sulle vesti, né che non vi è stata alcuna segnalazione di scomparsa da parte di quelle istituzioni che Don Pierino definisce così premurose, nonostante il decesso risalga a più di un giorno fa. A poco meno di ventiquattr’ore da quello di Gigliolo, di fatto.

Ricciardi frena quella linea di pensiero, sentendosene attratto oltre ogni logica motivazione, se non l’istinto, che gli dice di stare perseguendo un collegamento corretto e non solo campato per aria per sua convenienza. Non ha prove, però, solo intuizioni basate sul niente e coincidenze sfarfallanti, tenute insieme da leggende, voci che solo lui può udire e ipotesi improbabili.

«Un’ultima domanda. Un po’ bislacca, a dire il vero,» aggiunge, inclinando appena il capo a mo’ di giustificazione e suscitando un guizzo incuriosito sul volto del prete. «Voi, del cosiddetto Munaciello, avete mai sentito parlare?»

Ci manca poco che Don Pierino scoppi a ridere: si trattiene, con un paio di colpetti di tosse contro il pugno serrato.

«Ah, commissario, se ne ho sentito parlare. Troppi ce ne stanno, in questa città!» si rianima, senza alcun a traccia di rimprovero nel menzionare quel racconto popolare, confermando la sua fama di prete un po’ troppo indulgente col profano. «Ogni strada e quartiere ha la sua versione; chi dice che è benigno, chi maligno; chi gli lascia offerte e chi lo tien lontano… è affascinante, invero,» dice allegro, per poi guardarlo con insistenza. «Ma perché mai vi interessa questa storiella? Non sarà mica così che state indagando, spero.»

«Una curiosità mia, nient’altro,» si schermisce lui, abbozzando un sorriso. «E, a volte, anche questo tipo di storielle può tornare utile. In loro c’è sempre un fondo di verità.»

«Beh, commissario, allora fate attenzione a non lasciarvi abbindolare,» lo ammonisce, ricomponendosi un poco nelle sue vesti ufficiali di ecclesiastico. «In queste favole, non è mai ben chiaro dove si celi il male o il bene. Sono entità volubili, quelle che scaturiscono dalla vulgata del popolo; e, alla fine, esse si rivelano solo fallibili, malaccorti esseri umani.»

Ricciardi non ribatte, incupendosi. Di ciò che dice Don Pierino è già ben conscio: il grido di Annina lo segue ancora come un’ombra e, dappresso, c’è quella informe del Munaciello, in tutto il suo fin troppo umano orrore. Di certo, quell’omicidio non ha a che fare con una storiella frivola, né con le bizze di uno spirito capriccioso.

«Grazie, Reverendo,» parla infine, dopo un breve silenzio. «Mi siete stato molto utile.»

«Non mi è parso, ma ne sono lieto,» sorride lui, offrendogli poi la mano in una stretta inaspettatamente salda per la sua età. Lo trattiene brevemente, quando fa per allontanarsi. «Riguardatevi. Non è vostro solo compito farvi carico di tutto ciò che di meschino accade nel mondo. Ricordatevi anche di vivere un po’, ogni tanto.»

Don Pierino glielo ripete spesso, quell’invito che fa eco inconsapevole a Bruno, come se avvertisse l’invisibile fardello di pena che si porta sulla schiena. Ricciardi si congeda in silenzio, sorridendo appena di rimando, nel modo un po’ colpevole di chi promette qualcosa che sa di non poter mantenere.

Nel dirigersi verso l’Annunziata, Ricciardi fa una rapida tappa in Questura, sperando di intercettare Maione e passargli le ultime novità, oltre che apprendere le sue dopo l’indagine sulle abitazioni derubate e, spera, sulle opere per gli invalidi di Gigliolo. Di certo, il brigadiere si sarà impensierito nel non trovarlo in ufficio quella mattina.

Si rende conto di essersi comportato in maniera ben poco professionale, nel non presentarsi, ma spera comunque che la sua assenza non abbia suscitato troppo scalpore. E, soprattutto, di schivare una delle tirate di Garzo, che gli farebbero solo perder tempo che non ha.

Supera sveltamente il chiostro interno e l’atrio, imboccando i corridoi rasente ai muri, senza mai fermarsi. Il fatto che Ponte, l’assistente del vicequestore, non sbuchi a intercettarlo da dietro un busto di marmo come un araldo dell’Apocalisse in formato tascabile, a preannunciare l’arrivo del suo superiore, gli fa sperare di averla scampata.

Lungo il tragitto, accorda solo qualche cenno del capo ai colleghi e agenti che incrocia. Si sente osservato, e non con l’usuale misto di interdetta diffidenza che suscita il vedere un nobile nelle vesti di commissario. De Blasio, nel passargli accanto a distanza di sicurezza e nel modo più rapido che gli consentono le sue gambette tozze, fa il gesto delle corna con vigore, mormorando chissà quale scempiaggine per allontanare il malocchio. Ricciardi trattiene una delle sue solite battute in merito: non è il caso di attrarre troppo l’attenzione, anche se vorrebbe dirgliene quattro per la sua negligenza sui casi delle rapine.

Supera l’ufficio di Garzo senza intoppi e, quando apre la porta del proprio, rimane per un attimo di sasso nel trovarvi Camarda, seduto alla scrivania di Maione. L’agente, sul momento, nemmeno alza la testa dal documento che sta stilando, la punta della lingua trattenuta tra i denti per la concentrazione.

«Camarda.»

«Commissario, comandi!»

L’agente scatta in piedi, spedendo la stilografica a schizzar inchiostro sui fogli, e fa per portarsi la mano alla fronte.

«Riposo, riposo,» lo tranquillizza subito Ricciardi, con una smorfia a quelle formalità inutili. Chiude la porta dietro di sé con un colpo di tacco. «Dov’è il brigadiere Maione?»

Camarda si agita sul posto, con gli occhi grandi e un po’ sporgenti che cercano una via di fuga, come un pesce preso all’amo.

«Eh, commissario… è uscito da un pezzo. Ha detto che aveva da fare e di farmi carico del suo ordine del giorno,» risponde timidamente, come se temesse di essere incolpato di qualcosa.

«Non siete andati a controllare i pozzetti d’accesso delle abitazioni svaligiate?»

Camarda scuote la testa con vigore, di nuovo sul chi vive.

«Il brigadiere non ne ha fatto parola, commissario.»

Ricciardi si ritrova a corrugare le sopracciglia, interdetto.

È raro che Maione prenda iniziativa senza prima comunicarglielo e, quando lo fa, è perché sa che lui non approverebbe la sua linea investigativa. Il ritrovamento di Annina deve averlo turbato particolarmente, e non può biasimarlo. Si fida del suo giudizio, ma non può negare di essere un poco in apprensione.

«E sai pure dov’è andato?»

«Non è stato molto preciso, però si trattava del caso Gigliolo. Così ha detto.»

Ricciardi annuisce tra sé, approvando almeno questa mossa di Maione: se Garzo esigerà spiegazioni da Camarda, si sentirà dire ciò che vuol sentirsi dire, a prescindere da cosa stia davvero facendo il brigadiere. Ricciardi dubita abbia del tutto a che fare col caso Gigliolo, ma non crede avrebbe mentito mai così apertamente, nemmeno al povero Camarda.

«Va bene, Camarda. Continua pure a lavorare qui nel mio ufficio, hai il mio permesso ufficiale,» lo rassicura, facendolo rilassare nel suo attenti. «Se torna Maione, digli di aspettarmi qui. O di raggiungermi all’Annunziata se torna a breve, direi entro un quarto d’ora.»

«Certo, commissario. E...» si interrompe, frenando Ricciardi nell’atto di riaprire la porta. «Il vicequestore Garzo si è assai inquietato per voi, poco fa. S’è sentito fin qui.»

«Lo so.» Ricciardi si lascia scappare un sorrisetto, a dire il vero un po’ compiaciuto. Non gli riesce difficile immaginare il motivo del suo accesso. «Non starti a preoccupare, poi gli passa,» conclude, imboccando l’uscita e lasciandosi alle spalle un Camarda molto angustiato.

È ai piedi delle scale e ha quasi guadagnato l’uscita senza imprevisti, quando è costretto a inchiodare sul posto:

«Ricciardi!»

Lui chiude brevemente gli occhi, soffocando un improperio. Quando si volta a fronteggiare Garzo, è con la consueta facciata amabile e vagamente tonta che gli riserva di solito. Il vicequestore gli si fa incontro con la sua andatura leggermente asimmetrica, tamponandosi con foga l’angolo della bocca col fazzoletto, là dove la ferita di guerra gli ha distorto i lineamenti.

«Ricciardi,» ripete, col tono di un insulto quando è a un passo da lui, i baffi sottili che fremono, «dove credevate di andare con cotanta tranquillità, dopo esservi assentato per tutta la mattina?»

Lui lancia un’occhiata stolida verso l’uscita, fissandolo poi con esagerato stupore.

«A indagare, Eccellenza. Visti i recenti accadimenti, non credo di poter fare altro.»

«I “recenti accadimenti”, sì!» ripete lui, con un sorriso affatto gioioso. «Avreste dovuto sentire le calunnie che mi sono dovuto sorbire per telefono da Roma, stamattina!»

Ricciardi sgrana gli occhi con simulata preoccupazione, interpretando con efficienza la parte dell’ingenuo signorotto di provincia che poco s’intende delle grandi macchinazioni che si muovono attorno a lui. In cuor suo, dubita fortemente che chiunque, a Roma, si sia scomodato ad alzare la cornetta per un becero fatto di cronaca come quello.

«Un delitto sotto casa vostra! Vi rendete conto dello scandalo? Con tutte le voci che già vi portate appresso...»

«Sì, Eccellenza,» lo asseconda, palesando costernazione e sperando siano le solite voci sul suo portare iella, e non d’altra natura. «È per questo che ho preferito portar subito avanti l’indagine, invece di passare di qui. L’ho ritenuta una perdita di tempo prezioso.»

«Lo stesso prezioso tempo che, mentre vi mettete a bighellonare sindacando il lavoro dei vostri colleghi, state sottraendo al vero caso di cui vi dovreste occupare?»

Di nuovo, Ricciardi batte le palpebre: lo fissa spaesato all’apparenza e, intimamente, più che preparato all’argomento che gli sta schiudendo davanti Garzo.

«Il caso Gigliolo, Ricciardi!» rimarca infatti lui, prevedibile. «Ho sul collo il fiato degli alti gradi dell’esercito, per quello scempio; è un caso delicatissimo! O ve ne siete forse dimenticato?»

A lui tornano solo in mente gli avvertimenti di Livia. Si chiede quanto di ciò che dice Garzo sia gonfiato dalle sue manie magniloquenti e quanto, effettivamente, gli abbiano fatto pressioni reali per chiudere la questione alla svelta.

«Affatto, Eccellenza, e lo sto portando avanti, considerando che pare esserci un’affinità col caso corrente. Ciononostante, ritenevo, anche considerando le circostanze infelici dell’ultimo delitto, che la priorità fosse...»

«La priorità è chiudere un caso, quando tale caso può esser chiuso,» sbotta Garzo, portando di nuovo il fazzoletto a tamponarsi la bocca per l’agitazione. «Avete un colpevole; perché mai non l’avete ancora arrestato?»

Stavolta, l’incredulità che sente affiorargli in volto è almeno in parte genuina. Dovrebbe ormai aver fatto il callo a venir sempre incalzato da Garzo per mettere agli arresti il primo sospettato a portata di mano, soprattutto se è qualche disgraziato del popolino che non causerà troppi imbarazzi politici, ma riesce sempre a prenderlo in contropiede con le sue pretese semplicistiche e assurde. A questo punto, non si stupirebbe nemmeno se Garzo gli dicesse di arrestare il Munaciello.

«Perdonatemi, ma proprio non capisco a chi vi riferiate.»

Ci manca poco che a Garzo saltino le ghette.

«A quel derelitto! Quel delinquente che provava a scappar in America,» prorompe, agitando a vuoto una mano con impazienza come ad afferrare qualcosa d’invisibile di fronte a lui.

Ricciardi inarca le sopracciglia.

«Intendete Beniamino Iannello?»

«E chi, se no?» conferma lui, che, gli è chiaro, nemmeno ne ricordava il nome. «Ha tutte le carte in regola, lavorava in una delle abitazioni svaligiate durante quei furti, non ha nemmeno i soldi per campare… che altre prove vi servono?»

Tutte, vorrebbe rispondergli Ricciardi, senza andare troppo per il sottile. Purtroppo, anche se raggirare Garzo non è mai così difficile, deve sempre attenersi a una certa forma nel farlo.

«Eccellenza, non sono emersi abbastanza dettagli contro di lui e, di fatto, ha un alibi che dobbiamo ancora verificare, dato che ha passato gli ultimi giorni in attesa di un imbarco all’Immacolatella...»

«Solo le deboli scuse di chi sa di essere colpevole! Per quale motivo dovrebbe voler scappare in America proprio ora?»

«È di certo sospetto. Tuttavia, abbiamo ancora delle domande da porre, temo.»

«Avete tutte le risposte che vi servono sotto il naso, Ricciardi: quali altre domande potreste mai dovergli porre, per arrestarlo?»

In altre circostanze, circostanze che non prevedono avere lo spettro di una bambina innocente a gridare giustizia sotto casa propria, né un caso “delicato” sottomano, Ricciardi lo asseconderebbe, almeno a parole. Questa non è una di tali circostanze.

Inspira a fondo, prima di parlare, in tono sommesso ma inarrestabile:

«Le risposte che ho non sono affatto quelle di cui necessito, e queste ultime posso trovarle solo se pongo le domande giuste. Se inizio a porre domande a sproposito, tra l’altro con l’intento di sentire ciò che voglio sentire, è naturale che le risposte non saranno soddisfacenti, non vi pare? Dunque, Eccellenza, portate un poco di pazienza, e saprò trovare tutte le risposte che servono; a me, a voi e ai “piani alti”,» conclude, con un lieve, complice gesto circolare dell’indice verso l’alto.

È il turno di Garzo, di fissarlo in modo un po’ ottuso, investito da quel fiume di parole e a corto di una replica sensata. Boccheggia e Ricciardi ne approfitta, aprendosi in un sorriso assolutamente falso:

«Ora, se volete scusarmi, ho due casi che mi attendono e molto lavoro da sbrigare.»

E gira i tacchi, senza aspettar replica.


«Vedete di portare risultati entro stasera, Ricciardi!» gli grida dietro il vicequestore.

Lui nemmeno si volta. Il sorriso che gli si stampa per un momento in faccia è spontaneo, sottilmente soddisfatto.

 


 


Note dell'autrice:
Cari Lettori,
dopo dei capitoli credo di non facile digestione, credo, vi regalo un momento di tregua... o meglio, io che mi diverto a gestire i personaggi, e che metto un po' più in luce il lato giocherellone di Ricciardi, che del prendere per i fondelli Garzo ha fatto il suo sport preferito (è canon, giuro!)
A questo proposito, spero che questa sua vena un po' più goliardica riesca a emergere, di tanto in tanto, anche se un po' in sordina, perché a parer mio è una componente fondamentale del suo personaggio e mi dispiacerebbe che andasse persa in favore di un piatto "tizio cupo tenebroso triste" e punto.
Comunque, qui si torna in carreggiata sull'indagine e, sebbene possa sembrare un capitolo scarno, mi serviva per reindirizzare le azioni e processi logici di Ricciardi sulla retta via (grazie, Don Pierino). Oltre al fatto che il confronto con Garzo non poteva essere rimandato per sempre... né la pista su Iannello, il cui "ripescaggio" spero vi abbia incuriosito.
Grazie a tutti coloro che seguono e commentano la storia! Sono commossa dal bel riscontro, assolutamente inaspettato, che sta ottenendo ♥
A lunedì ;)

-Light-
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Il Commissario Ricciardi / Vai alla pagina dell'autore: _Lightning_