Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come
immagino Sarah ed Hermann nel 1947.
Capitolo 64
Un invito insistente
“No, non volgerti indietro, la vestale cammina adagio,
lenta, a sé davanti guardando sempre; no, non ritornare su ciò che hai fatto,
può essere morte.”
Alda Merini, A mia figlia
Il
motivetto continuava a ripetersi nella sua testa, senza che riuscisse a ricavarne
consolazione, bensì sentendosi sempre più intrappolato nella terra di nessuno
tra i ricordi del passato e l’oblio della realtà presente, mentre la madre di
Agnese gli faceva strada verso la canonica.
Da
quella sorta di limbo si liberò al pensiero di Sarah, sforzandosi di rientrare
in sé e nel ruolo del cugino ebreo austriaco per varcare la porta dietro la
quale si trovava la chiave che, infallibilmente, lo avrebbe ricondotto a lei.
La
lettera scritta di suo pugno ciondolava nella mano del giovane sacerdote,
ignaro, o forse consapevole, di aver custodito un tesoro inestimabile. Un solo
foglio, a dimostrazione che Sarah non doveva essersi dilungata molto sulle sue
vicissitudini, lasciando, più che altro, ai suoi cari le indicazioni su come
trovarla.
“Padre”,
esordì la donna con un misto di entusiasmo e soggezione, indietreggiando di un
passo, affinché foss’egli il protagonista, come difatti avvenne.
“Ah,
il cugino di Sarah!” Nell’esclamarlo gioiosamente, il sacerdote lo guardò al di
sopra degli occhiali che gli scivolavano sul naso per poi passare in fretta
dinanzi alla scrivania.
Dietro
di essa, sul lato destro, ora non più nascosta in un armadio, v’era la porta
che conduceva alla soffitta, dove don Franco azzardò l’ultimo disperato
tentativo di salvare i bambini dalla deportazione.
Profanate
dalla violenza, impregnate di urla nemiche e delle lacrime degli innocenti, le
pareti della canonica parevano riecheggiarne il ricordo. Immaginandolo in tal
slancio d’empatia non solo verso Sarah, esso fu suo.
“Vostra
cugina sta bene”, disse don Carmine ed enfatizzò nella voce un tono
rassicurante, avendo notato l’espressione sconvolta apparsagli in volto e presumendone
il motivo, “si trova a Castellammare, una città della provincia di Napoli.
Lavora nel bar di un vecchio amico di famiglia che le ha dato ospitalità.”
Sorridendogli
compassionevolmente, gli porse la lettera ed Hermann, fissandone la grafia,
l’accolse tra le dita. Senso di colpa ed euforia si concatenarono in un
turbinio di emozioni ed egli incespicò nei modi e nel linguaggio.
“Grazie”,
disse con voce sussurrante, contraendo le labbra in una smorfia nel tentativo
di ricambiare il sorriso, “allora io tornerei alla stazione per prendere il
prossimo treno per Napoli.”
Le
parole s’incrinarono, mentre, con la lettera stretta nella mano, indicava la
porta verso la quale un piede aveva già arretrato.
“Per
quanto ne so io, il prossimo treno per Napoli partirà domattina”, sentenziò don
Carmine con un’espressione di apprensione e stupore nel constatare l’insolito
comportamento, condannandolo ancora all’attesa.
Dietro
al perdurare di un sorriso stentato, Hermann nascose la delusione e, ripetendosi
in tono e movenze, si corresse, dicendo: “Allora prenderò una camera
nell’albergo che ho visto qui vicino e partirò domattina.”
Neanche
il tempo di finire la frase che una voce maschile si sovrappose alla sua,
inducendolo a voltarsi rapidamente verso l’uscio.
“Ma
non esiste proprio che il cugino di Sarah vada in albergo”, esordì l’uomo
categorico e, dagli abiti che indossava, Hermann riconobbe l’organaro, “potete
tranquillamente venire a casa nostra e restare per tutto il tempo di cui avete
bisogno.”
Nel
pronunciare le parole «casa nostra», aveva cinto il braccio intorno alle spalle
della madre di Agnese, amorevole gesto col quale gli rivelava esserne il
marito. Sicché l’uomo era anche il padre di Agnese.
Al
cenno di approvazione della donna che annuì col capo e sorrise lievemente,
Hermann ribatté con altrettanto sorriso, scuotendo però la testa in senso di
disapprovazione.
“Non
occorre che vi disturbiate”, disse, stavolta col piede fermo in terra, poiché
avanzare verso la porta avrebbe significato guardarli in faccia, accettare il
loro invito relazionarsi con i genitori di Agnese, “troverò un alloggio per
questa notte.”
Ma
l’uomo si ostinò nel voler offrirgli ospitalità, replicando: “Nessun disturbo. è un piacere poter fare qualcosa,
seppur indirettamente, per Sarah, dando ospitalità a suo cugino.”
“Questo
è davvero il minimo che possiamo fare per Sarah”, intervenne la moglie il cui
tono pacato colorì di delicatezza l’invito insistente, “tornati a Roma, non
abbiamo neanche avuto modo di ringraziarla di persona per essersi presa cura di
nostra figlia e degli altri bambini ch’erano con lei.”
Al
sentir pronunciare il suo nome con tal gratitudine, gli vibrò una corda segreta
del cuore e, al ricordo di lei che, per la sua indole premurosa, aveva sui più
piccoli un forte ascendente – ricordo che filtrava dagli occhi di chi l’aveva
conosciuta, serbandone la memoria –, s’immedesimò così tanto nella parte del
cugino ebreo austriaco, fino a credere di esserlo realmente.
E
fu in quel momento di smarrimento durato un sol attimo che si ritrovò ad
accettare l’invito dei genitori di Agnese.
“D’accordo”,
disse, mentre il sorriso appena accennato andava spegnendosi ad ogni sillaba
pronunciata, già conscio del proprio errore.
Mentre
la madre di Agnese era intenta a disporre gli addobbi floreali per la celebrazione
dell’indomani e suo marito aveva ripreso ad occuparsi dell’organo, Hermann,
aspettando che finissero, seduto sull’ultima panca della chiesa, non poté
resistere oltre e lesse la lettera di Sarah.
Castellammare di Stabia, 28 aprile 1946
Miei
cari,
vi
scrivo guardando dalla mia finestra lo spettacolo del sole al tramonto che si specchia
sul mare tra le barche ormeggiate nel porto con il Vesuvio che fa da sfondo.
Quanto vorrei che foste qui con me!
Non
saprei da dove cominciare a raccontarvi gli accadimenti di questi ultimi
difficili anni, ma lo farò partendo dal mio oggi per darvi conforto.
Continua…
“«Amore, tu sei,
sei l’errore più cattivo che ho commesso nella vita.
Amore, tu sei,
sei lo sbaglio più fatale che ho commesso nella vita.
Amore, tu sei,
sei la prova che gli errori sono fatti per rifarli ancora.
Tu sei
la puttana che ha ridato un senso ai giorni miei.»”
Madame, Il bene nel male