SUPERATO l’arco monumentale che fa da ingresso, l’edificio della Real Casa Santa dell’Annunziata si apre su uno stretto cortile interno, attorniato da palazzine dai toni di un barolo cupo, quasi sanguigno. Al centro, una fontana in pietra scurita dal tempo zampilla flebilmente acqua in una vasca a foggia floreale e ai lati dei bassi alberelli frusciano al vento in un sottofondo inquieto.
Col cielo bigio di quella mattinata che appare immobile, l’impressione è opprimente: la struttura sembra incombere sul cortile con l’intento di fagocitarlo nelle sue budella scarnificate.
Ricciardi misura lo spazio aperto a passi più lenti, rispetto a quelli con cui ha attraversato mezza Napoli in lungo e in largo da quella mattina, consumandosi le suole delle scarpe. Dopo quella tappa, lo aspettano ancora Bambinella e, infine, di nuovo la Questura, dove teme di trovare già il povero Iannello: immagina che Garzo non abbia perso tempo a farlo arrestare, tanto per mantenere il punto.
Se non lo raggiungerà all’Annunziata, spera anche di incrociarvi Maione, la cui assenza continua a pesargli come un cattivo presagio.
Rivolge lo sguardo all’imponente struttura davanti a sé, con una bassa gradinata che si dirama in un doppio scalone per poi ricongiungersi all’ingresso. Ha deciso di partire dall’Annunziata e non dai Turchini, basandosi sul fatto che le vesti di Annina fossero bianche, e non del colore omonimo dell’altra congregazione. Non c’è un’intuizione giusta o logica, oramai, ma tenta comunque di muoversi con criterio.
Si appropinqua allo scalone, alla sinistra del quale individua senza difficoltà la Ruota degli Esposti, ormai in disuso da mezzo secolo: una finestrella murata da una targa in marmo ne segna l’esistenza, oltre la quale immagina vi sia la bussola rotante in legno. Al suo fianco, una fessura per le offerte.
Con suo enorme sollievo, non scorge né ode alcun fantasma nei dintorni, anche se quel luogo non emana un’atmosfera serena, a dispetto del gorgogliare soporifero della fontana e del silenzio irreale che vi regna, a pochi passi dal cuore di Napoli. Si affretta a salire le scale, incalzato da una folata di vento particolarmente aspra.
Nell’atrio dalle volte affrescate trova una suora ad accoglierlo, intenta a scrutinare una serie di documenti dietro una scrivania d’ebano che ha l’aria di avere un paio di secoli. Alla sinistra dell’ambiente c’è una doppia porta con vetri smerigliati che, a giudicare dall’assenza di luce nella stanza, sembra condurre a un’ala non in uso; quella interna all’apertura della Ruota, suppone.
«Posso aiutarvi?» lo richiama la voce piena della suora, che ha alzato la testa dallo scrittoio.
È una novizia, a giudicare dall’assenza del colletto bianco a contrastare col nero puro delle sue vesti. Sembra piuttosto giovane, forse sua coetanea. Si leva in piedi, le mani giunte sotto il seno, a stringere la semplice croce d’argento che vi pende. Ha occhi verdi, intensi, e qualche filo di capelli fulvi sfugge al frontino bianco sotto al velo scuro che le ricade sulle spalle.
Quando Ricciardi le chiede di conferire con la priora, lei sgrana gli occhi come se avesse richiesto qualcosa di proibito. Risponde, scandalizzata, che “Madre Filippa non riceve senza preavviso, tanto meno senza un valido motivo”.
Dopo più di qualche insistenza e una spiegazione sul perché la Polizia vorrebbe mai indagare in quel luogo (molto vaga, ma con particolare enfasi sul benessere dei giovani ospiti dell’Annunziata), la convince a provare, almeno, a verificare se non sia possibile avere un simile colloquio, anche solo di breve durata.
Suor Agnese, così si è presentata, non sembra affatto entusiasta del compito assegnatole, ma imbocca spedita lo scalone in ardesia levigata che porta ai piani superiori. Il suo scalpiccio risuona ancora a lungo in quegli ambienti austeri, in penombra e innaturalmente vuoti, in cui ogni suono riecheggia all’infinito. Sembra parte integrante della chiesa adiacente, più che un brefotrofio.
Da qualche parte, da un’ala indefinita, sente un vociare sommesso di bambini. Si impone di ignorarlo: gli ricorda fin troppo il timbro infantile di Annina, distorto a quel modo. Si pizzica la radice del naso, sopra il quale l’emicrania ha ripreso a bussare con fitte metronomiche, e scaccia il ricordo dalla mente.
Passa quasi un’ora, in cui ha modo di misurare l’atrio in lungo e largo e di mandare a memoria ogni imperfezione e linea del pavimento a scacchi bianchi e neri e ogni dettaglio degli affreschi, prima che qualcuno si decida a farsi vivo, nemmeno stesse chiedendo udienza a Vittorio Emanuele in persona.
Ricciardi, nel veder scendere al pianoterra quella che identifica senza esitazioni come la Madre Superiora, a giudicare dal portamento rigido e dal volto solenne quanto la facciata dell’edificio, serra la mandibola.
Non è da lui dar peso ai presentimenti, col fatto di esser già costretto a dare adito a quelli causatigli dai morti che vede, ma la donna che gli si para davanti, nonostante la corporatura minuta, ha la stessa presenza fisica di una barriera invalicabile e gargantuesca. Sa fin da ora che non le caverà di bocca una singola parola che possa ledere lei o la reputazione della sua opera.
«Commissario,» esordisce con voce corposa, di contralto, senza scomodarsi a usare il nome. «Perdonate l’attesa, ma stavo recitando l’Ora Nona.»
Dal tono, è evidente che non le dispiaccia affatto. Con lei le buone maniere non sortiranno alcun effetto, ma fa comunque sfoggio della miglior postura ed etichetta appresa da ragazzo, rispolverandola come sempre alla bisogna.
«Nessun problema, Madre,» replica, con un piccolo, misurato inchino del capo. «Sono desolato di dovervi incomodare senza preavviso, ma temo sia una questione della massima urgenza.»
Lei annuisce una sola volta, con le rughe attorno agli occhi che si appianano, come ritenendo consona quella deferenza. Il suo volto sfoggia la stessa rigidezza dei santi medievali intagliati nel legno.
«Camminate pure con me, commissario,» lo invita, facendo strada verso l’interno dell’edificio. «Mi sembra scortese conversare sull’ingresso.»
L’invito gli sembra più volto a non parlare di argomenti potenzialmente scomodi in un luogo esposto, ma lo accetta con garbo. Con la coda dell’occhio, Ricciardi coglie Suor Agnese che li guarda allontanarsi, tormentando la croce che le pende dal collo.
Normalmente, Ricciardi salterebbe a piè pari i convenevoli, esigendo di parlare senza indugio del caso, ma sente di muoversi in acque estranee. Quello dell’Annunziata è un ordine potente: causare loro imbarazzo potrebbe essere anche più pericoloso del “delicato” caso Gigliolo.
Il fatto che le due cose siano unite da un sottile filo di comunanza lo fa sentire come se stesse maneggiando un rompicapo particolarmente fragile e al contempo letale. Il modo frigido di porsi della Madre Superiora gli dà a intendere che non sia affatto una sua suggestione.
«Impressionante, non trovate?» chiede retorica Madre Filippa, una volta scesi nella chiesa sotterranea. «Questa cripta la costruì il Vanvitelli dopo il grande incendio nel Settecento, così da non dover interrompere l’opera di Dio mentre la chiesa superiore era inagibile.»
Pronuncia quella frase con particolare enfasi, facendola sembrare minacciosa.
Sopra di loro, s’innalza la volta grigio-bianca di una cupola, incastonata tra il pavimento e il soffitto superiore, le cui molte arcate sono sorrette da otto coppie di colonne slanciate, a formare un ambulacro tutt’attorno. A primo impatto è maestosa, certo, ma anche affine a una catacomba.
Dopo esser sceso nelle viscere della città la notte scorsa, a Ricciardi non sortisce affatto un senso d’ammirazione, quanto di claustrofobia. L’odore di incenso gli ristagna in gola quanto quello del tufo umido e impregnato di muffa e, nonostante vi regni il silenzio, ha l’impressione di udire sussurri e mormorii negli angoli più bui. Si ferma al centro del variopinto pavimento marmoreo e alza gli occhi verso la sommità della cupola, in cui è incastonato un rosone in ferro battuto. Non vi filtra alcuna luce e sembra un’orbita, nera e cieca.
«Impressionante, senza dubbio,» risponde, non amando come la propria voce rimbombi e si attenui al contempo in quello spazio bizzarro, in modo non dissimile a quella di uno spettro. «Parrebbe anche un luogo particolarmente riservato.»
Guarda la Madre Superiora, che lo scruta con occhi sottili, infossati, di un colore tra l’azzurro e il grigio.
«Non sbagliate,» gli conferma, facendo oscillare il velo sulle spalle quando inclina il capo. «Di rado la polizia viene qui a discutere di faccende frivole. Perciò, preferisco mantenere il massimo riserbo su tutto ciò che riguarda i fanciulli in nostra cura, se proprio debbo parlarne. Presumo sia per questo che siete qui.»
«Non sbagliate neanche voi, Madre,» replica lui, concedendosi un singolo granello d’impudenza nel sollevare un angolo delle labbra, «ma immagino che voi sappiate perfettamente perché sono qui, o non vi sareste nemmeno scomodata a ricevermi.»
È un tentativo alla cieca, ma va a segno: le labbra sottili di Madre Filippa si riducono a una semplice linea arida sul volto oblungo, dandogli conferma.
«Le voci corrono, commissario, e la nostra congregazione è molto attenta a coglierle, soprattutto se così rumorose. La notizia di un’anima innocente strappata alla vita non può che rammaricarci.»
Ricciardi è tentato di chiederle se sia lo stesso per tutti i bambini abbandonati a loro stessi che trovano la morte nelle strade di Napoli, ogni giorno, per i mali più disparati; è tentato di chiederle se, quando il piccolo Tetté è stato avvelenato in modo ignobile l’anno scorso, lei si sia preoccupata di ricordarlo nelle proprie preghiere. Ingoia quella domanda.
«Si chiamava Annina,» dice invece, serrando le mani dietro la schiena. «Il nome era ricamato all’interno della sua veste e non sembrava un’orfanella di strada. Le hanno spezzato il collo con brutalità inaudita. Il nostro medico legale stima avesse tra i nove e i dieci anni; capelli scuri e ricci, occhi chiari, efelidi visibili.»
Madre Filippa lo fissa con sdegno.
«La descrivete con la stessa rozzezza con cui si esalta un cavallo al mercato; in un luogo sacro, per giunta.»
«Io sono qui per esporre i fatti, Madre, non per renderli meno esecrabili dinanzi a voi o a Dio,» risponde pacato, senza battere ciglio. «Ora, vi risulta che nella vostra struttura, o in altre a voi affiliate, sia venuta a mancare una bambina che corrisponde alla descrizione?»
«Pensate che non l’avremmo comunicato seduta stante, se così fosse stato?» ribatte la donna, alzando il mento, il naso diritto e importante che si arriccia. «Abbiamo contezza dei nostri ospiti, in ogni momento, e vi assicuro che nessuno di loro è scappato, né vorrebbe farlo. Doniamo loro un’istruzione e un futuro, qui dentro, fino alla maggiore età. Le ragazze ottengono persino una piccola dote; nessuna di loro sarebbe mai così sciocca da gettare al vento tutto ciò.»
Vi è una nota genuinamente indignata, nel modo in cui parla, accompagnata da una cristallina fermezza che mal si addice a una bugia improvvisata; piuttosto, a una menzogna tessuta ad arte, dove la verità è ben mescolata alla falsità.
«Sono lieto di sentirlo, allora,» dice con un rapido sorriso, causandole un lieve moto sorpreso con quella sua cedevolezza. «Passerei, dunque, al secondo e principale motivo della mia visita. Ovvero, il colonnello Fernando Gigliolo.»
Madre Filippa batte le palpebre in modo vistoso, le ciglia chiare che fremono. Ricciardi trattiene a stento il moto di soddisfazione che gli attraversa il volto. Gli sembra di stare, finalmente, riprendendo in mano le redini di quel caso imbizzarrito.
«Temo che questo nome non mi dica nulla»
«Vi prego, Madre, non insultate la mia intelligenza,» la ferma subito, socchiudendo gli occhi con fastidio. «Era un vostro ingente donatore ed è stato ammazzato due giorni fa. Immagino vi siate molto rammaricati anche della sua, di scomparsa.»
L’espressione della reverenda si inasprisce nella penombra della chiesa, rendendo ancor più aguzzi i tratti del suo viso, in un contrasto repentino; e gli dà conferma di non essersi ingannato, nel collegare Gigliolo all’Annunziata.
«Abbiamo l’obbligo di mantenere riservatezza sui nostri benefattori,» risponde infine, ogni traccia di finta cordialità evaporata. «Che io conosca o meno questo Fernando Gigliolo, non fa differenza alcuna: non potrei comunque svelarvi nulla su di lui, o tanto meno sulle sue donazioni.»
«Io ho solo bisogno di confermare se fosse in rapporti con voi,» insiste Ricciardi, prendendo leggermente fiato prima del balzo successivo: «D’altronde, la vedova di Gigliolo ci ha già fornito le informazioni necessarie e questo colloquio è una pura formalità. Certo, sarebbe assai spiacevole riscontrare incongruenze tra le vostre e le sue dichiarazioni ed essere costretti a proseguirlo in Questura.»
Di nuovo, il tentativo va a segno, e vede le narici di Madre Filippa fremere appena.
«A me sembra che voi sappiate già tutto ciò che volete sapere, commissario,» commenta, la linea della bocca ancor più assottigliata. «Inclusi i rapporti tra noi e il defunto colonnello.»
Non pare affatto in pensiero per la sua velata minaccia, ma Ricciardi non vi dà peso: sono entrambi consapevoli che lui non ha l’autorità per convocare ufficialmente un alto prelato a interrogatorio, né gli verrebbe mai concesso dai superiori senza un valido motivo.
Una sensazione strisciante gli invade lo stomaco, sgradevolmente viscida.
Il caso Gigliolo è un caso “delicato”, gli rimbomba in testa, in un’eco distorta.
«Mi auguro sia così, Madre.»
«Me lo auguro anch’io. Ora, però, temo di dovervi congedare, dato che ho delle incombenze cui adempiere in vista della Santa Pasqua.»
Ricciardi serra la mandibola a quella brusca chiusura, ritrovandosi di fronte il solido muro che aveva intravisto poco fa; una Città di Dite inespugnabile. Comprende la necessità di mantenere segretezza su tali faccende, ma la Madre Superiora gli sembra eccessivamente sulla difensiva, soprattutto considerando che entrambi i soggetti in questione sono morti.
Qualunque cosa si celi all’Annunziata, è qualcosa in grado di sollevare scandalo anche dall’oltretomba.
«Permettereste solo un ultimo paio di domande, Madre?» dice, ammansendo un poco i toni, e ottiene in risposta un muto fissare scontento. «I bambini sono mai autorizzati a uscire dalla struttura? Da soli o accompagnati?»
«Certo che no,» risponde secca lei, troppo in fretta; distoglie rapida lo sguardo, incamminandosi per prima verso l’uscita. «Salvo per rare uscite collettive, i fanciulli studiano, mangiano e dormono entro queste mura.»
«E l’accesso è consentito solo a voi sorelle?»
«Naturalmente,» dice lei, di nuovo lapidaria. «A loro e ai rari genitori che vogliano riconoscere un figlio dopo avercelo affidato in tempi più ardui.»
«Per caso, ciò è capitato di recente?»
«Questo rientra nelle informazioni che non mi è consentito rivelare, e credo voi lo sappiate bene.»
Ricciardi intasca quelle risposte asettiche, deponendo le armi. La segue dappresso, per nulla soddisfatto del colloquio, ma con la certezza di stare imboccando la strada giusta, per quanto mal illuminata.
Nel ripercorrere un lungo corridoio su cui si aprono varie porte a intervalli regolari, probabilmente i dormitori dei bambini, ne scorge una socchiusa. Nella fessura buia, intravede un paio d’occhi infantili che lo spiano. Quando lui abbassa lo sguardo a incontrarli, si spalancano, colti sul fatto. L’uscio si richiude con uno scatto udibile, seguito da sussurri soffocati di vari bambini.
“No, non è lui, non è lui!” gli pare di udire più volte in tono agitato, forse ingannandosi.
La Madre Superiora volta subito la testa verso il suono, come un cane da guardia che fiuta un intruso. Poi guarda lui, con eguale intransigenza, e continua a camminare svelta, la tonaca che oscilla in onde nere.
Madre Filippa lo riaccompagna fin nell’atrio in assoluto silenzio, assicurandosi che lui non si attardi ulteriormente. Con la coda dell’occhio, Ricciardi scorge Suor Agnese nell’atrio, di nuovo intenta alla scrivania. Quando le passano davanti, la donna alza lo sguardo su di loro, incrocia il suo e lo riabbassa fulminea. Arrivati dinanzi al portone d’ingresso, Madre Filippa si congeda con un lievissimo inchino, non più di pochi millimetri d’inclinazione.
«Spero che le vostre indagini portino a risultati soddisfacenti, commissario,» gli augura, con un sorriso sterile.
«Vi ringrazio, Madre,» replica lui, affabile ma privo di alcun calore, senza ricambiare con alcun augurio.
Dietro di lei, lo sguardo di Suor Agnese lo fissa in modo insistente, le mani che si torcono sulla croce stretta davanti a sé. Ricciardi si avvia verso l’uscita, sentendosi gli occhi di pietra di Madre Filippa appuntati sulla schiena, finché non schiude l’uscio ed esce nel freddo marzolino che gli agguanta i lembi del soprabito.
Lascia volutamente il portone accostato dietro di sé, scansandosi lateralmente di un passo, fuori vista, e attende. Dopo circa un minuto, la porta si schiude di nuovo, senza far rumore, e gli occhi verdi di Suor Agnese fanno capolino dallo spiraglio.
Trovano i suoi con sollievo e, per un istante congelato, sembra perdere il coraggio che aveva trovato poco fa. Infine, parla, in un sussurro che quasi si perde nei capricci del vento:
«Commissario, cercate il Munaciello.»
Prima che Ricciardi possa chiedere alcunché, il portone si richiude, col tonfo grave di un mausoleo sigillato.
Note dell’Autrice:
Cari Lettori,
ve l’avevo detto che l’indagine era solo all’inizio, no?
Ora, un po’ di note doverose: le parti relative all’Annunziate sono quelle un po’ più romanzate, sia perché reperire informazioni precise è molto arduo senza dei permessi ufficiali, sia perché, in generale, mi sono presa qualche libertà anche dal punto di vista architettonico/spaziale. In più, descrivo delle monache benedettine (vesti nere, preghiere delle Ore), ma non erano di fatto loro a gestire l’Annunziata.
Soprattutto, l’Annunziata è nella realtà un’associazione benefica che ha davvero aiutato per secoli tantissimi bambini abbandonati, quindi non è mia intenzione metterla in una luce negativa. Lo dico soprattutto in previsione di futuri sviluppi; ma capirete che intendo. Diciamo solo che le mele marce sono ovunque, e che non pregiudicano i buoni intenti di un intero ordine; la storia rimane comunque un’opera di pura finzione.Aggiungo che i rapporti tra Chiesa e Stato erano all’epoca molto delicati: per questo Ricciardi non si arrischia a esporsi più di tanto, in quanto rappresentante, in teoria, dello Stato.Detto questo, spero che il tutto vi stia intrigando, e di aver stuzzicato la vostra curiosità. Se avete già ipotesi, sarò curiosa di sentirle **
A lunedì... con la vera svolta!
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