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Autore: Hoel    12/01/2024    2 recensioni
[In collaborazione con Semperinfelix]
Raccolta assolutamente demenziale composta da riflessioni e rielaborazioni in chiave comica di eventi, aneddoti più o meno veri e burle ai danni di personaggi storici, necessaria panacea per le badilate di angst che scriviamo e leggiamo. Come disse il buon Erodoto: “Se un uomo vuole occuparsi incessantemente di cose serie e non abbandonarsi ogni tanto allo scherzo, senza accorgersene, diventa pazzo o idiota.”
Genere: Comico, Demenziale, Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Questa storiella nasce dalla cocciutaggine mia e di Semperinfelix di scoprire chi per primo diede il titolo di “Tygre” a Caterina Sforza, rifiutandoci di credere alla storia dell’Anonimo Veneziano.

Ecco il risultato e buona lettura,

H. & Semperinfelix

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Come quella [inserisci epiteto] di la madona di Forlì …

 

 

Laddove alcuni soprannomi sembran esser pronunziati per esaltare, invece si scopre che son per insultar, sì, ma con garbo.

 

 

 

Un qualsiasi convegno su Caterina Sforza, giorni nostri

 

“… e così”, prosegue infervorata la professoressa di Storia Rinascimentale dell’Università “T. de’ Tali”, mentre il pubblico adorante pende dalle sua labbra, “la nostra Caterina Sforza, prima donna d’Italia, si mostra dinanzi al nemico sempre pronta, inesorabile, audace, tant’è vero che Lorenzo Giustinian, pieno di stupore verso colei che rovesciava gli schemi sociali e le aspettative maschili sul ruolo delle donne, così la descrive ai Veneziani: quella tigre di madonna di Forlì … Ella mise alla prova la tenacia di condottieri esperti, di veterani e comandò Gaspare Sanseverino, detto Fracassa, nei momenti di indecisione, quando questi fece perfino chiamare suo fratello Gianfrancesco a Modiana per farsi aiutare contro i Francesi …”

Un coro di teste annuisce energico, rapito da cotanta audacia che impressionò l’Europa intera, rendendo la biblica Debora una dilettante.

“… e quel soprannome – tygre – passò di bocca in bocca, viaggiando per ogni corte italiana e pronunciato con rispetto e ammirazione …”

 

Ravenna, settembre 1498.

 

“Quea gran vaca putana!”

Il povero segretario guaì, pur nascondendosi quasi sotto la scrivania, spaventato dalla veemente dettatura del suo superiore, il podestà e capitano di Ravenna, sier Lorenzo Giustinian.

Da ore lui e il patrizio s’erano rinchiusi nello studiolo a scrivere missive alla Signoria, aggiornandola sui fatti di Romagna e più la penna riempiva il foglio più il podestà s’infervorava, tanto da deambulare avanti e indietro, mulinando le braccia tra un insulto e l’altro e di fatti esattamente lì si erano da un po’ arenati, non riuscendo il Giustinian, nella sua collera, definire la contessa Caterina Sforza relicta Riario relicta Feo e ora de’ Medici, la quale, come la serpe milanese ch’era, fingeva amicizia e poi aiutava il suo nuovo marito, accoltellando Venezia alle spalle mentre il suo esercito si dirigeva a Pisa.

Quella stronza di Forlì ci mette i bastoni tra le ruote! Hai scritto?”

“Sior podestà, non possiamo inviare questo agli illustrissimi Pregadi!”, protestò il pover’uomo, un’espressione sconsolata dipinto sul volto pallido e stanco.

 “Già meglio così: quella madona xé proprio una roctura de cazi, la qual fa il tutto contra nostri …”

“L’ultima parte già va meglio … Forse la prima, come dire, meno enfatica?”

 “Puh!”, sbuffò scocciato sier Lorenzo. “Allora metti così: quella puzzolente grassona di Forlì fa il tutto contra i nostri …”

Al segretario venne quasi da piangere.

“Che hai? Credi che i Pregadi la pensino diversamente da me?”

“Non lo dubito, ma che diranno di noi i posteri? Che insultavamo gentildonne?”

“Gentildonna quella quasi virago?", esclamò sardonico il patrizio. "Non vuol Sua Signoria far l’uomo? E che dunque si pigli gli insulti da uomo!” perché Giustinian si chiamava e lo era di nome e di fatto, giusto. “Riprendiamo. Quella scostumata baldracca di Forlì …”

“Sior podestà!”

Quella mangiaspade di Forlì …”

“Ma…!”

“Quella serpe in pectore …”

“Perché?!”

“Quella mostruosa arpia …”

“Sior podestà, vi scongiuro!”

“Quell’innaturale femmina col cazzo …”

“Calmatevi per pietà!”

“Quella fedifraga creatura generata dai lombi dell’olim duca Galeazzo …”

“SIOR PODESTÀ, SMETTELA! MI SEMBRATE LA VOSTRA MADONNA QUANDO FATE COSÌ!”, ruggì il cancelliere, balzando in piedi e buttando all’aria, esasperato, tutte le missive, l’inchiostro, il calamaio e pure sbatté per terra il suo cappello.

Quand’ecco che si chetò all’improvviso, terrorizzato dal subitaneo silenzio calato nonché l’occhiata fissa del suo superiore. S-ciavo vostro, l’ho fatta, iniziò a tremar freddo l’uomo, già figurandosi licenziato e rispedito a pedate da sua madre a Venezia.

Lorenzo Giustinian si mise a ridere di gusto e al segretario venne di riflesso di recitare un requiescat per l’anima sua, pronta a volar via per mano di quel pazzo in fieri.

“Bravo! Bravo! Bravissimo!”, l’abbracciò invece il podestà, serrandogli il braccio attorno il collo, mezzo soffocandolo. “Oh, come ho fatto a non pensarci prima? La mia madonna! La mia madonna!”, gli ripeté inquietantemente allegro mentre gli stringeva e tirava le guance.

“Sior podestà?”, sbrodolò il cancelliere, cadendo in un tonfo sul suo sgabello.

Ma ormai il Giustinian non l’ascoltava più: con in mente quella gran rompicoglioni in soprappeso di sua suocera, le sue critiche, lamentele, rabbuffi, visite sgradite, pettegolezzi e chi più ne ha per favore non ne metta, il patrizio si sfregò le mani e, in posa ieratica, ordinò al segretario:

“Ordunque scrivi: Da Ravena, di sier Lorenzo Zustignam podestà et capitanio. Come quella tygre di la madona di Forlì faceva il tutto contra nostri; et che Achiles Tiberti di Cesena era con lei. Et dil zonzer a Forlì dil conte di Cajaza, qual va a trovar suo fratello Frachasso per unirse con le zente da quella banda di Modiana. Item, dil conte di Sojano, che aricordava da quella banda saria bon far qualche impresa, etc.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Note finali ( a cura di Semperinfelix):

Quel che i biografi di Caterina Sforza sempre tralasciano è che Gaspare Sanseverino - detto Fracasso per la sua furia in battaglia - ebbe la soddisfazione di essere l'unico uomo al mondo implorato e supplicato da Caterina (e senza successo!). Mandato dal duca Ludovico il Moro a Forlì per esserle, teoricamente, d'aiuto nella guerra, le fu solo di sdirrupo.

Avvenne infatti che Fracasso la prese rapidamente in odio, e per quanto Caterina cercasse di onorarlo, di farlo divertire e di accattivarselo, egli coglieva ogni minima scusa per risponderle in malo modo e minacciare d'andarsene. Non obbediva agli ordini, non voleva collaborare né con gli altri capitani né col proprio stesso fratello Gianfrancesco, col quale anzi litigava continuamente; non rispettava le leggi, causava disordini, faceva sempre di testa sua e talvolta rifiutava persino di parlare, se era Caterina a chiederglielo. D'altra parte, se era per parlare male di lei, lo faceva più che volentieri.

La ragione di questo comportamento non è chiara: forse il cosiddetto nuovo Achille non era tanto disposto a prendere ordini da una donna? ma egli non aveva mai mostrato ostilità nei confronti della quondam duchessa di Milano Beatrice d'Este (per certi versi simile a Caterina) alla quale si era dichiarato viceversa devoto. Più probabilmente il cruccio perenne di Fracasso - mezzo pazzo ma di buon cuore - era di poter menare le mani, cosa che Caterina a quanto pare gli impediva di fare, come dimostra il secco ultimatum che egli le rivolse prima dell'ennesima minaccia di congedo, stavolta definitivo: "Madonna, diteme più liberamente se havete bisogno de queste gente [d'armi] che sono qua, o sì, o no, perché io condurò ben mi queste gente [...] in loco che loro e mi [io] haranno [avranno] honore, perché non fu mai de costume nostro haver vergogna". Incapace di gestire il carattere scontroso e iracondo di lui, Caterina supplicava lo zio Ludovico di farlo ragionare o di richiamarlo a Milano, ma Ludovico le rispose che "è necessario il tollerarlo", perché, sebbene Fracasso dicesse "qualche male parole, el fa poi megliori facti". Caterina finì poi in catene.

(da Hoel) Nient’altro da aggiungere all’esauriente spiegazione della mia compare, perché sì, la prima parte è assolutamente una parodia di alcune conferenze attuali  e lei ci teneva a puntualizzare, onde evitare fraintendimenti.

Alla fine, il soprannome “tygre” glielo diede questo Lorenzo Giustinian e, dal tono della lettera copiata dal nostro caro Sanudo, più che ammirazione verso Caterina, ci sembrava piuttosto ch’egli in quel momento stesse provando una forte irritazione nei suoi confronti …

  
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