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Autore: _Lightning_    15/01/2024    3 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 1



 

          I VICOLI di Napoli sono più cupi, nell’ora che immediatamente precede il tramonto, ancor più di quando il rosso viene del tutto divorato dalle onde del golfo e cala la notte; allora, i lampioni si accendono e gettano i loro aloni di luce dorata a rischiarare i vicoli. Il crepuscolo, invece, è denso, brulicante dei grigi e blu che diventano via via più corposi inghiottendo i colori.

Ricciardi non ama quell’ora dai confini così poco discernibili, dello stesso colore dei fantasmi. La ama ancor meno mentre scende dagli scaloni ripidi della Sanità, col rischio di finire addosso a qualcuno svoltando un angolo stretto, o di scivolare sui liquami che dalla canalina di scolo invadono a volte la strada. Anche l’aria sembra essersi rappresa, più umida e carica di odori; il lezzo di fogna lo prende a tratti alla gola, mescolato all’odore più gradevole di cucinato che trapela dalle finestre e a sbuffate sporadiche di salsedine o zolfo, più rare e lontane.

Si ferma di colpo in un vico nascosto schiacciato tra due edifici, accusando una fitta così intensa d’emicrania che si ritrova a strizzare gli occhi come se gli avessero sferrato un colpo sulla nuca. Si addossa al muro e si schiaccia una mano sulla fronte, rilasciando un respiro contratto. Ha la testa pesante di parole e di pensieri: la colmano fino all’orlo, strabordano, sembrando perduti, e poi trovano il modo di rientrarvi a cascata, in un ciclo infinito che gli rende difficile anche solo vedere dove sta andando.

Non lo sa nemmeno, dove sta andando. Si rende conto di non riconoscere con esattezza dove si trova, anche se intuisce che Discesa Sanità sia a qualche traversa appena. Guarda l’orologio e sussulta: sono quasi le sette di sera. Si è attardato a lungo in giro seguendo dove lo portavano i piedi nel tentativo di domare l’ansia, dopo essere uscito dal basso di Bambinella, ma non credeva fino a quel punto.

Dovrebbe passare in Questura per convocare Caterina Gigliolo e verificare se Maione ha cavato fuori qualche novità dalla sua misteriosa indagine parallela; ma chissà se è ancora lì ad aspettarlo o è tornato a casa. Lo spera.

Oppure, dovrebbe andare ai Pellegrini, da Bruno, per discutere ancora di Annina, la cui figura minuta si è tramutata in una fiera acquattata nell’ombra; ma s’è fatto ormai tardi e sa che il medico ha staccato almeno da mezz’ora. Se vuol parlare con lui, deve per forza andare a casa sua. Non un’opzione congrua, dopo quanto gli ha detto Bambinella.

Rimane fermo lì, fremente sotto il riquadro di luce di una finestra, col freddo serale che risale dal basso e gli morde le ossa. A perdere altro tempo. Tempo che non ha, né ha mai avuto. Gli sembra che ogni sua prossima mossa potrebbe farlo cadere nella fossa dei leoni. Sebbene una parte di lui vorrebbe solo fiondarsi all’Annunziata a pretendere spiegazioni su quali sordidi affari conducesse lì Gigliolo, sa di avere le mani legate.

Può solo sperare di interloquire con Suor Agnese, se gli riesce di intercettarla e interrogarla su quel Munaciello, ma tentare vuol dire esporsi, rischiare di attirare ancor più l’attenzione, di sprofondare in quel pantano fetido in cui è entrato a testa bassa senza curarsi delle conseguenze e degli avvertimenti.

Vorrebbe, più di ogni altra cosa, cercar consiglio in Bruno, che in quelle situazioni riesce o a essere molto più freddamente pragmatico di lui, quando si lascia vincere dall’emotività; o, al contrario, a suggerirgli azioni di pancia quando lo vede troppo impastoiato nei propri schemi mentali.

Non può farlo, adesso, non senza l’impressione di essere spiato. Cerca di non pensarci mai troppo, al mondo ostile che circonda lui e i sentimenti che ingabbia nel petto; ma sa che esiste e che la sua scelta di non fissarlo troppo a lungo non lo rende meno reale. Non v’e alcun confine, tra lui ed esso, né vero né immaginario, né potrebbe mai tracciarne uno. Vorrebbe dire allontanare Bruno, rifuggire quell’unica stilla d’amore che s’è concesso nella propria vita.

Getta fuori un respiro più sonoro, sobbalzante. Ciò che lo adira di più, di tutto questo, è che dovrebbe pensare solo e soltanto al fantasma di Annina che grida sotto casa sua: dovrebbe occupare ogni singolo momento della sua veglia, come sempre quando un fantasma lo chiama.

Invece, si ritrova la testa invasa di futilità, di paure mordaci che gli impediscono il passo. Di chimere, forse, create dalla propria stessa mente, perché l’idea di venire arrestato o rinchiuso in manicomio perché vede i morti, come sua madre, si è acuita in modo assillante da un mese a questa parte, da quando Bruno non è più solo Bruno e ha dato alla sorte un altro valido motivo per bollarlo come pazzo.

Tutto ciò lo terrorizza, in superficie, ma una parte recondita del proprio essere, quella che ha rinchiuso dentro se stesso quando era appena un bambino, gettando via la chiave, si chiede se non sia forse giusto. Se la solitudine che si è imposto per anni non fosse solo il preludio a quella impostagli da qualcun altro, in una cella, per il proprio bene e quello degli altri; perché la follia ha sempre fatto parte di lui, pure se preferisce chiamarla “maledizione”. Ce l’ha scritta nel sangue, eredità tossica di una madre che gli ha taciuto tutto, ed è svanita consumata da quello stesso male.

Si impone di ragionare lucidamente, di riprendere il controllo su quelle scintille di pensieri imbizzarriti, ma non ci sta riuscendo bene, affatto. Si stropiccia gli occhi doloranti e deglutisce a fatica, ritrovandosi la bocca arida. Non tocca cibo né acqua dalla mattina, se non per quel caffè di cicoria a casa di Bambinella, e un’ondata di spossatezza lo investe dall’alto, avvolgendo ogni suo muscolo di una patina rigida e scricchiolante nel gelo.

Non è nelle condizioni per agire d’impulso. Deve imporsi di aspettare, per ora; domare l’angoscia che lo perseguita da giorni e ragionare con lucidità sulle sue prossime azioni. È una linea d’azione che mal sopporta quando gli viene imposta da qualcun altro, e che è ancor più insofferente ad accettare da se stesso. Ma deve farlo; per il suo bene e per quello di Bruno. Ha ignorato l’avvertimento di Livia in prima battuta, ma non è così sciocco da ignorare anche quello di Bambinella.

Delibera, infine, che passerà in Questura per verificare almeno se vi sia già Iannello in fermo, oltre a Maione in sua attesa, e poi andrà dritto filato a casa a concedersi una cena calda e una notte di riposo. Vincerà la nausea nel mangiare e si tapperà le orecchie per non sentire Annina, se necessario, anche se è meschino pensare di metterla a tacere in qualsivoglia modo, lei che già non ha più voce tra i vivi.

«Va’ via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

La sua voce sembra arrivare fin lì, tra i vicoli asfittici della città. Gli sembra assurdo, ingiusto, che una bambina abbia potuto avere più coraggio di lui, un uomo adulto e ufficiale di legge che dovrebbe essere incaricato di proteggere e aiutare i più deboli, gli inermi. Gli invisibili che gli si aggrappano alle vesti dai vicoli e dagli angoli dimenticati.

È in quel turbinio rumoroso di pensieri, mentre si stropiccia il punto dolente dietro agli occhi, che si rende conto, con un fremito elettrico che gli solletica i nervi, di essere osservato.

Dapprima, è un’impressione dettata dalla paranoia latente, dalle parole di Livia, prima, e di Bambinella, poco fa. Poi, diventa un’entità tangibile, come avere qualcosa di leggero ma fastidioso attaccato alle spalle, che fruscia a ogni movimento.

Solleva di scatto il capo, guardando l’uscita del vicolo e aspettandosi di vedervi uno spettro. Vi trova invece un’ombra, quasi tutt’una col muro fatiscente appena dietro. Cappotto lungo, mani in tasca, borsalino a tesa ampia a scurire il volto. Il titillo d’allarme si intensifica, rizzandogli i peli sulla nuca. Il suo cuore si fa udibile, tuona cupo contro lo sterno.

Gira sui tacchi, conscio del pericolo nel dare le spalle all’ombra: subito, all’altro capo del vicolo, ne scorge il riflesso esatto, un poco più tarchiato, come se qualcuno avesse posto uno specchio deformante tra i muri ravvicinati.

Ricciardi deglutisce a vuoto, reprimendo l’istinto di rallentare o fermarsi; c’è una traversetta laterale pochi passi prima dell’uscita, la adocchia di sfuggita. Dietro di sé, sente dei passi regolari sull’acciottolato, mentre davanti a sé l’altra ombra gli si fa incontro. Non ha alcuna intenzione di scappare. Intuisce benissimo di non trovarsi di fronte a dei borseggiatori, vista la precisione sincronica con cui è stato accerchiato, ma non vuole nemmeno essere preso tra due fuochi.

Tre fuochi. Lo vede non appena svolta l’angolo, rapido, andandogli quasi a finire addosso.

Inchioda a un passo dalla terza ombra. Anche nella luce smorta, ne intravede il naso adunco, gli zigomi pronunciati, le sopracciglia aguzze.

«Commissario,» esordisce lui con voce nasale, toccandosi la tesa del cappello, scuro come il completo che indossa. «Non è accorto andarsene in giro a quest’ora in un posto simile, non credete?»

Dietro di sé, uno strascichio di cuoio sulla pietra e un fruscio di vesti, a indicare che gli altri due gli hanno appena tagliato la ritirata. Avverte lo spostamento d’aria addosso: sono abbastanza vicini da afferrarlo, se volessero.

«Dove vado e a che ora non è certo preoccupazione vostra,» dice a denti stretti, le mani contratte a pugno nelle tasche. «Ora scansatevi, state intralciando le mie indagini.»

«Certamente... Indagini di natura particolare, desumo,» replica l’ombra, con la tensione ilare di un sorrisetto a far sobbalzare le parole. «Ne siamo al corrente, non preoccupatevi.»

Gelo, di nuovo; gli si arrampica sulla schiena, ricoprendola di brina e comprimendogli le vertebre.

«Sono un commissario della Regia Polizia. Non potete rivolgervi a me in questo modo,» dice, cavandosi fuori a forza quella risolutezza aggressiva e sopprimendo l’ansia da bestia in trappola.

L’ombra fa un verso che, di nuovo, pare divertito; un secco soffio d’aria che risuona amplificato.

«Il punto non è se posso o meno, ma se voi sarete abbastanza intelligente da permettermelo.» Fa una pausa studiata. «O abbastanza stolto da costringermi a usare maniere meno cordiali che mal s’addicono a dei gentiluomini.»

Ricciardi muove appena di lato gli occhi, cogliendo un movimento nella visuale periferica. Sa che gli altri due uomini si sono messi in allerta, pronti a intervenire. Tace, sapendo che qualunque sua azione ha solo due esiti possibili, braccato a quel modo dalla polizia segreta: l’arresto o la morte. O peggio. O peggio.

Non pensa a Bruno. Attorciglia attorno alle dita i fili nelle tasche, fino a tagliare il flusso sanguigno, fino a incidersi la pelle. Non pensa a Bruno.

«Vedo che siete un uomo ragionevole,» commenta l’ombra al suo silenzio, con soddisfazione udibile.

Con uno sfrigolio, i lampioni si accendono, gettando aloni dorati nel grigio. L’uomo, dai lineamenti che ricordano quelli di un rapace, lo fissa con occhi piccoli e scuri, accesi da un vivo, freddo acume.

«Potete chiamarmi Falco, se preferite. Piacere di fare la vostra conoscenza, commissario Ricciardi,» dice, sollevando appena il cappello con fare di scherno. «Anche se credo ne avremmo volentieri fatto a meno entrambi.»

 

Nota dell'Autrice:

 


Nota dell’Autrice:
Cari Lettori,
spero di avervi presi almeno un po’ in contropiede con questo capitoletto eheh
Diciamo che l’ombra dell’OVRA (la polizia segreta fascista) aleggiava già da un bel po’ tra le righe, però spero di avervi sorpreso ugualmente.
Grazie a tutti coloro che seguono, leggono e commentano, VI VOGLIO UN SACCO BENE ♥ Apprezzo tutte le vostre belle parole e consigli utili, perché mi sto impantanando in quello che somiglia tantissimo a un blocco dello scrittore proprio sugli ultimi 2-3 capitoli, e ciò non accade in modo definitivo solo grazie all’enorme, inaspettata partecipazione che sta ricevendo la storia ♥ Quindi, grazie di cuore :’)
A venerdì, con un capitolo decisamente più corposo!

-Light-

   
 
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