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Autore: _Lightning_    19/01/2024    4 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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IX. Le ultime volte (non bussano alla porta) - Parte 1



 

          «CHE COSA volete da me?»

Ricciardi deve sforzarsi, per non far uscire la voce in un ringhio nel rivolgersi all’uomo di fronte a lui. “Falco”, a quanto dice, un nome che lo descrive in ogni movenza da rapace e probabilmente falso. Lo vede abbozzare un sorrisetto.

«Suvvia, commissario,» scuote la testa, «credo che conosciate benissimo almeno uno dei motivi per cui ci troviamo obbligati a redarguirla. Gli altri potete immaginarli senza sforzo, o non vi sareste scelto questo lavoro.»

Lui serra la mandibola a quel tono di sufficienza, odiosamente mellifluo. Non sa se si trova già oltre il punto in cui il modo in cui si pone verso l’OVRA possa fare una qualche differenza, ma ingabbia l’ira e la rinchiude a doppia mandata. Almeno, ci prova, ma la sente ribollire nelle vene.

«Illuminatemi comunque,» dice, senza domare del tutto il disprezzo che si insinua nelle sue parole e temendo in cuor suo la risposta. «Evidentemente, dev’essermi sfuggito qualche indizio.»

Uno smuovere di vesti dietro di lui e il guizzo di un’ombra sul muro gli indica che uno degli agenti alle sue spalle si è mosso, forse aizzato dalla sua risposta poco deferente. Falco compie un impercettibile cenno col capo, il collo da avvoltoio che si inclina appena, e il fruscio si arresta. Ricciardi fa scattare le pupille da lui all’ombra dell’altro uomo, ora immobile. Sembrerebbero volerlo incolume, o l’avrebbero già arrestato seduta stante senza troppe cerimonie, come a volte vede accadere per strada. Gente prelevata a forza, tra manganellate e urla, e gettata scalciante in automobili dirette verso luoghi di non ritorno.

Com’era accaduto a Bruno; ma non ci pensa, non adesso.

«Commissario, siete appena uscito dal postribolo di un femminiello.» Falco pronuncia quell’ultima parola calcandola con particolare enfasi, arricciando il naso. «Non ritengo di dovermi spiegare meglio.»

Ricciardi comprime a forza le labbra, frenando la risposta istintiva che vi sale: non può esporre Bambinella, anche se presume sappiano già che è un informatore della polizia; e sapranno anche che lui non lo rivelerà, privandosi dunque dell’unica difesa che possiede.

Tace, mordendosi l’interno della guancia.

«Potremmo anche archiviarlo come un deprecabile momento di debolezza,» continua Falco, «se le vostre inclinazioni deviate non fossero risultate lampanti anche in altre sedi.»

«Queste ridicole chiacchiere da salotto sono sufficienti a scomodare l’OVRA?» commenta Ricciardi, le mani compresse nelle tasche, sfoderando un mezzo ghigno di scherno. «Speravo aveste faccende più urgenti a cui pensare, della mia vita privata, per il bene della patria.»

L’uomo sospira in modo affettato, come fingendo di essere stato colto in fallo.

«Ammetto che, ai nostri occhi, le vostre assidue scappatelle col dottor Modo, o chi per lui, non siano di particolare rilievo.»

Fa una piccola pausa, osservandolo alla chiara ricerca di un cedimento che Ricciardi non è disposto a mostrare, anche se gli si chiude il petto a riccio. Non ci pensa, a Bruno; non ora, e non pensa a quando lo hanno arrestato e il suo volto era a malapena riconoscibile oltre lo strato di sangue e lividi, ai respiri stentati per le costole rotte–

«Ciò che è rilevante, invece, è la vostra altra inclinazione prediletta, ovvero tentare mettere in imbarazzo degli stimati membri del Partito con le vostre indagini poco ortodosse.»

«Io sto unicamente svolgendo il mio lavoro.»

«Voi state prendendo iniziative personali affatto condivisibili,» lo contraddice Falco, la voce d’un tratto secca, quasi abbaiata. «Iniziative che faranno meglio a vedere una pronta fine, visto che il Partito è stato già sin troppo clemente in passato, sia con voi che col dottor Modo. Ricambiare il favore sarebbe un atto di dovuta cortesia, non trovate?»

Ricciardi si irrigidisce, con l’improvviso, impellente istinto di muoversi, di uscire da quel vicolo soffocante. Non si muove di un millimetro, invece, con scintille frenetiche di pensieri che gli scoppiettano in testa, il volto una maschera dura che rischia di sgretolarsi.

«Avete la soluzione al caso del compianto Gigliolo su un piatto d’argento,» continua Falco, facendosi di nuovo beffardo a quel suo silenzio. «Beniamino Iannello vi aspetta a Poggioreale, dove il vostro superiore ha già provveduto a farlo accompagnare in attesa che voi lo interroghiate. Una pura formalità, s’intende.»

Ricciardi non sa come possa parlare in tono tanto calmo e incurante della vita di qualcun altro, un innocente. L’unico baluardo a trattenerlo dall’esplodere non è nemmeno ciò che potrebbe accadere a lui stesso, ma a Bruno; non può pensarci, non deve.

«Non arresterò un innocente per compiacere il Partito,» sillaba a voce più alta, i muscoli della gola tesi in corde dolorose che gli piegano la voce. «Se è questo che mi state chiedendo, fareste meglio ad ammazzarmi qui e ora, piuttosto.»

L’uomo schiocca la lingua, come se la sola idea lo seccasse.

«Uccidervi qui non porterebbe a nulla; solo una trafila di inconvenienti. Un uomo ucciso in modo triviale non può essere d’esempio a nessuno, a mio modesto parere,» sciorina, con la stessa sicumera di un professore in un’aula. «Voi e il vostro facinoroso dottore, invece, se lasciati in vita quanto basta nel giusto modo, potreste divenire ottimi esempi da non seguire, commissario. Ci sono punizioni peggiori della morte, credetemi.»

A Ricciardi si chiude la gola, a quelle parole, troncando il flusso di insulti che vorrebbe riversare addosso a quell’uomo. Si sollevano in una marea bollente contro la lingua e poi ricadono giù a capofitto, lasciandolo afono, con il retrogusto della bile in bocca. Non può pensarci; non può pensare a Bruno in una cella o a se stesso in un istituto psichiatrico. Falco ha ragione, su quello: è peggio della morte, è peggio anche di vedere i fantasmi.

L’agente, a quel punto, gli si accosta appena, con un fare confidenziale che gli provoca immediato ribrezzo. Parla in un sussurro:

«Sapete, è un gran peccato che quella povera creatura sia stata uccisa proprio sotto casa vostra,» dice con leggerezza simulata. «D’altronde, è noto che a certe deviazioni dell’animo umano se ne accompagnino spesso altre, ancor più depravate.»

«Che cosa stareste insinuando?»

Non si è nemmeno accorto di essersi sporto in avanti, col sangue che gli romba nelle orecchie a ogni battito. L’uomo alza appena un palmo, a frenare i suoi compagni dall’intervenire.

«Di usare accortezza, commissario,» dichiara poi, sempre con quel sorrisino a storcergli le labbra. «Si sa che, per un invertito come voi, il passo tra l'insultare la pubblica decenza per sodomia e il diventare un criminale che asseconda le proprie perversioni è molto breve, se non nullo.»

Se c’è mai stato un filo di calma a tenerlo al proprio posto fino a quell’istante, si spezza a quelle parole con un suono di tessuti lacerati. Non sa nemmeno di muoversi: fa un passo avanti, la rabbia che deflagra rossa e bollente dinanzi agli occhi in uno strato di magma. Afferra Falco per il bavero della giacca, strattonandolo a sé.

«Voi, i criminali veri, non li avete mai nemmeno visti in faccia,» gli sibila a un palmo dal viso, incontrando i suoi occhi d’onice ancora imperturbati.

L’uomo abbassa il palmo.

Due morse ferree lo agguantano per le spalle e per i gomiti, strattonandolo all’indietro e facendogli perdere la presa. Un colpo netto dietro le gambe lo scaraventa per terra, in ginocchio: l’impatto gli fa sbatacchiare i denti e gli invia una scossa di dolore alle rotule. Dita forti gli afferrano i capelli sulla nuca, piegandogli le braccia e torcendogli il collo per obbligarlo ad alzare il viso.

Viene accecato da un lampione, e riesce a vedere solo la sagoma spigolosa di Falco in controluce, un cartoncino nero in un teatro delle ombre.

«Rimane per me un mistero come la signora Lucani possa trovare qualcosa di remotamente mirabile in voi,» commenta l’uomo, con un velo di distaccato disgusto. «A me sembra di guardare un criminale in faccia proprio ora.»

«E immagino che per il Partito sarebbe un imbarazzo troppo grande ritrovarsene uno in seno come Gigliolo,» ringhia Ricciardi, contrastando la tensione fino a farsi dolere il collo e strappare i capelli. «Un altro “invertito”,» sputa fuori in un bolo d’acido, trovando gli occhi inespressivi dell’altro.

L’uomo ha un guizzo di risentimento, poi guarda i suoi sottoposti e fa un secco cenno del capo verso il muro. All’istante, Ricciardi si sente sbalzare di lato. Gli esplode un lampo in testa, quando lo zigomo già leso incontra violentemente la superficie ruvida del tufo. Un rivolo caldo gli cola lungo la guancia, un sapore ferrigno gli riempie la bocca e, per un attimo, il mondo rotea su se stesso.

Si divincola, ma la mano invisibile gli afferra i capelli e gli preme di nuovo il volto contro il muro, spingendo stavolta verso il basso in una scia di dolore acuto che gli graffia a fondo la pelle. Si ritrova carponi, piegato sotto il peso di entrambi gli uomini, il volto a pochi centimetri da terra; sente un ginocchio premergli sul dorso, sulle reni, le braccia tenute in tensione verso l’alto. Ricciardi scatta, dibattendosi e torcendosi gli arti fino a slogarli, con la sensazione rivoltante di essere sottomesso, alla mercé di qualunque idea perversa passi nella testa di quei bastardi. Un’acuta nota di panico prende a pulsargli nello stomaco quando gli cedono le ginocchia e si ritrova schiacciato al suolo. La sua fronte incontra con forza il pavé umido. Inala una boccata di marcio e piscio. Si rende conto di essere immobilizzato, inerme, col sangue che gli ristagna nel cervello.

«Quante storie, commissa’,» gli sghignazza nell’orecchio una voce nuova, profonda, che porta con sé un lezzo sgradevole, «come se non l’avessi mai fatto.»

Un’altra risata più acuta e sguaiata segue la prima, accompagnata da un calcio crudele ben assestato tra le gambe, che gli invia una fitta all’inguine; stelle pulsanti gli esplodono dietro le palpebre e una mano gli strattona la cintola dei pantaloni all’indietro, strappando un paio di cuciture e facendo affondare il tessuto e la fibbia della cintura nella pelle. Non respira, sente l’aria raggomitolarsi nei polmoni e il cuore farsi piccolo, battendo a mitraglia.

«Signori,» interviene pacato Falco, con una traccia di fastidio. «Non abbassiamoci a certe oscenità. Sono certo che il commissario ha recepito il messaggio.»

Subito, Ricciardi si sente risollevare bruscamente in ginocchio per i capelli, una mano a serrargli ora la nuca e il collo in una morsa viziosa che gli blocca il sangue e l’aria. Gli gira la testa e pensa a Bruno che compie quello stesso gesto in modo infinitamente più delicato, un’orma tiepida. È un lampo confuso, lontano. Vi si aggrappa con foga, inseguendolo, ma gli si sfalda davanti, cancellato dal coacervo di fitte e paura che gli si agita dentro. Si rende conto di aver serrato gli occhi, ma non riesce a riaprirli e il mondo ruota su se stesso in un carosello impazzito e nero. Si sente il volto umido di sangue e sporcizia.

«Questo era un promemoria amichevole,» sente dire a Falco, oltre il lieve muro d’acqua che gli scorre nelle orecchie. «Non vorremmo mai privare la Squadra Mobile di un valido membro, né causare un tale dispiacere alla signora Lucani. Perciò, badate a non causare altri disturbi degni di nota. Le ripercussioni, vi ricordo, non riguarderebbero solo voi.» Fa un’altra delle sue pause calcolate.

Poi, si china appena a posargli una mano magra sulla spalla; e brucia, quella mano, gli imprime un marchio sulla pelle come fossero artigli roventi.

«Buone indagini, commissario.»

Le mani che lo sorreggono lo mollano di colpo, scaraventandolo a terra. Ha appena la prontezza di parare avanti i palmi per non cadere di faccia, col fiato mozzo.

Quando solleva lo sguardo, il vicolo è già deserto, popolato solo da ombre dense e tremolanti alla luce dei lampioni. Fa per rimettersi in piedi, dolorante, con la vista appannata e un’unica urgenza che gli trapassa lo sterno: uscire da lì e andarsene, adesso. Da Bruno, anche se non dovrebbe, anche se forse lo hanno già–

Ricade subito carponi, scosso da un’ondata di nausea soverchiante. Si ritrova a rimettere bile sul pavé, con l’impressione che qualcosa di sudicio gli si sia annidato dentro, contaminandolo, qualcosa di più terrificante di qualunque maledizione.

Via Roma, oltre le Poste, la traversa a gradoni dietro l’Università, poi la prima a sinistra e su per le scalette esterne.

Ricciardi non ha mai percorso così velocemente quel tragitto, nemmeno la notte scorsa. Non sono voci fantasma, quelle che lo inseguono adesso. Sono reali, minacce con una forma e un corpo e calci e pugni in grado di ferire e prigioni in grado di rinchiudere.

Quando arriva in cima alle scale, ha i polmoni in gola e il fiato che nemmeno riesce a uscirgli dalla bocca prima di rientrarvi a precipizio. Gli cadono di mano le chiavi, quando prova ad aprire la grata. Al secondo tentativo le stringe così forte da imprimersi il metallo sulle dita, lì dove si è già inciso la pelle a forza di attorcigliarvi i fili nelle tasche a mo’ di cappio.

Oltre il portone, su per le scale interne, terzo piano, seconda porta a sinistra, quella con una rigatura vicino alla maniglia.

Stavolta non bussa, né esita nell’infilare la chiave nella toppa, girandola con uno strepitio di metallo. La spalanca di colpo, varcando la soglia e immergendosi nel tiepido, disordinato calore che Bruno si porta appresso e che permea anche casa sua.

«Bruno!»

Crede di gridare, ma gli esce un suono asfittico, svociato. Le luci sono spente.

Nessuno gli viene incontro, nessun rumore segue la sua irruzione, nessun “Ohi, Riccia’!” lo accoglie allegro. Ricciardi rimane paralizzato un passo oltre la porta spalancata, immettendo boccate d’acido in corpo a ogni respiro.

Bruno non c’è e dovrebbe esserci, perché ha staccato da più di un’ora e la prima cosa che fa dopo il lavoro è tornare a casa per cenare; perché in trattoria, senza di lui, non ci va mai, e al bordello c’è stato ieri. Gli si strizza il cuore a ogni pulsazione, con l’affanno dettato dalla corsa che si trasforma in un rantolo angosciato. Accende la luce e perlustra le tre stanze in mezzo minuto scarso. Non c’è niente e nessuno, là: solo una casa in attesa del ritorno del suo proprietario.

Si appoggia allo schienale di una sedia in cerca di sostegno, passandosi un palmo sul volto fradicio di sudore e sozzura e avvertendo la consistenza più viscosa del sangue quando stuzzica la tumefazione. Una stilettata acuta gli risale lo zigomo. Vi preme di nuovo, imbrattandosi le dita e il colletto della camicia, con l’impressione che il dolore gli schiarisca i pensieri.

Guarda la sedia a cui è appoggiato, spoglia di vestiti lasciati là in previsione del giorno dopo. Poi il tavolo, con sopra ancora una tazzina di caffè sporca e la cuccumella accanto. Il Candido di Voltaire giace aperto a faccia in giù, con gli angoli stropicciati. A fatica, collega i puntini: Bruno non rientra a casa dalla sera prima, quando l’ha trascinato di peso sottoterra. Due uniche opzioni gli si presentano davanti: o è ancora in ospedale, o non ha mai raggiunto casa dopo esserne uscito.

Prende un respiro così profondo da spaccarsi il petto e molla lo schienale, con le mani che fremono, viscide di sangue e sudore malsano. Sentendosi un ladro in casa d’altri, si ripulisce sommariamente il volto e i palmi nel lavello e si asciuga con un canovaccio, macchiandolo di rosso. Preme la stoffa contro gli occhi e si concede un singolo minuto per riprendere fiato in quella penombra, come gli consiglierebbe di fare Bruno stesso.

Gli tremano le ginocchia, con delle fitte nel punto in cui hanno sbattuto contro il suolo, e la radice dei capelli gli duole sulla nuca, dove glieli hanno tirati fino a strapparli. Si sente il collo in fiamme e un dolore sordo lo tormenta all’inguine. Espira tremante, con un principio di nausea che gli si accavalla dentro. Getta lo straccio nel lavello con troppa forza.

Prima che quella sensazione rancida possa strizzargli la bocca dello stomaco, riportando a galla il marcio, guadagna svelto la porta, sbattendola dietro di sé prima di fiondarsi di nuovo nel gelo notturno, verso l’Ospedale dei Pellegrini.
 



 


Note dell'Autrice:
Cari Lettori, che dire?
C'è un motivo se i fascisti sono la peggior feccia dell'umanità, ecco.

Qualche nota storica: all'epoca andava di moda rinchiudere i dissidenti politici e personaggi scomodi con false diagnosi d'instabilità mentale (Mussolini lo fece con la propria amante e figlio illegittimo, per dire), quindi la minaccia inespressa di Falco non è infondata.  L'omosessualità, poi, era a tutti gli effetti considerata malattia mentale, oltre che arbitrariamente correlata alla pedofilia, quindi avrebbe pure una base "solida" senza nemmeno dover scomodare una falsa "diagnosi" (virgolette d'obbligo). Oppure, si mandava la gente al confino in luoghi sperduti (Cristo si è fermato a Eboli è un esempio lampante).
Insomma, finora abbiamo scherzato, ma qui inizia la parte di narrazione più soffocata dal contesto storico. Spero non risulterà pesante, ma ho comunque cercato di poggiarmi un po' sulla finzione narrativa e sospensione dell'incredulità per non renderla opprimente. Altrimenti la storia sarebbe finita qui, coi nostri eroi al gabbio o morti, a voler essere troppo realistici, ops.
Ci vediamo lunedì, sperando (sadicamente) di lasciarvi col patema d'animo fino ad allora ;)

-Light-

P.S. La scelta del Candido di Voltaire come lettura in corso di Bruno non è casuale. Fate di quest'informazione ciò che volete.

 

   
 
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